LUDOVICO III, re di Provenza, re d'Italia, imperatore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

LUDOVICO III, re di Provenza, re d'Italia, imperatore

Mario Marrocchi

Nacque probabilmente ad Autun poco dopo l'882; era figlio del duca di Borgogna Bosone (cognato del re Carlo il Calvo), proclamatosi re di Provenza nell'879, e di Ermengarda, figlia dell'imperatore Ludovico II.

Se Bosone nutriva aspettative non modeste per l'estensione della propria base territoriale, ancor più ambiziosi erano i disegni di Ermengarda, già promessa sposa a Basilio I di Costantinopoli, della quale è rimasto celebre quanto riportato dagli Annales Bertiniani: "nolle vivere [(] si filia imperatoris et desponsata imperatori Graeciae, maritum suum regem non faceret" (p. 150). Proprio sotto l'egida della madre, dopo la prematura morte del padre (887) - che aveva perso gran parte del suo potere territoriale a opera di Carlo il Grosso - si compì la rapida ascesa di L., in grazia soprattutto della sua discendenza, sia pure per parte femminile, dalla stirpe imperiale carolingia. Le ambizioni di Ermengarda appaiono tanto più spropositate se si considera che il solo mantenimento per L., ancora in giovanissima età, del Regno paterno di Provenza, nonostante l'appoggio di papa Stefano V e l'approvazione di Arnolfo di Carinzia, era una faticosa e complessa operazione.

Nell'887 Ermengarda riuscì ad avvicinare L. a Carlo il Grosso, il quale lo riconobbe figlio adottivo. Di certo l'intenzione di Carlo il Grosso rispetto all'Impero era di indicare come suo successore un figlio naturale e l'adozione era stata concessa a L. solo per tutelarne le ambizioni di ricostituire il Regno paterno: tuttavia, i fautori di L. probabilmente vi vollero vedere una designazione per la corona imperiale.

Quello che da Gina Fasoli (p. 62) è stato definito un "curioso documento", la Visio Caruli Crassi, ci rivela infatti che le ambizioni di Ermengarda maturarono già in questa fase, se è vero che la sua composizione va ricondotta all'888. Il testo racconta di un viaggio condotto da Carlo nell'aldilà, dove dopo aver incontrato i suoi antenati all'inferno e in purgatorio, avrebbe trovato Lotario I e Ludovico II in paradiso: il primo gli presagì la morte imminente, il secondo gli indicò di trasmettere l'Impero a un figlio di sua figlia.

Un primo passo nella crescita del potere di L. oltre i confini di azione della sua famiglia si ebbe nell'890, quando lui ed Ermengarda giunsero a un accordo con Arnolfo, allora in competizione con Guido, futuro duca di Spoleto, per la corona italica e imperiale, riguardo alle terre transalpine dove Guido stesso aveva trovato alleanze e sostegno. Intorno a L. ed Ermengarda si ricostituì un Regno burgundo-provenzale. Se con tale scelta Rodolfo di Borgogna si allontanava da Arnolfo per ovvie ragioni, in tal modo diveniva impossibile che Guido avanzasse pretese in quelle terre: L. si trovava così a godere di riflesso degli sviluppi di tali equilibri, con l'ampliamento del suo territorio.

La convergenza tra L. e Arnolfo fu suggellata nell'894, quando furono fianco a fianco, prima, presumibilmente, a Worms e poi a Lorsch.

Tra l'896 e l'898 L. è attestato in diverse città della Provenza: Châteaurenard, Orange, Carpentras, Avignone. Nelle terre dell'odierna Francia meridionale, L. andava dunque consolidando il proprio ruolo e la propria potenza; ma l'esperienza tragicamente fondamentale della vita di L. si consumò nel Regno italico.

Sul finire dell'899 - Poupardin posticipa di un anno gli eventi - una nuova incursione di Ungari nella pianura Padana vedeva Berengario I impotente, rinchiuso in Pavia come in attesa del termine delle scorrerie. I grandi del Regno, allora, attribuendo a Berengario una pesante responsabilità del disastro, offrirono a L. la corona italica.

Si trattava di una scelta probabilmente condotta più per esclusione che per profonda convinzione, poiché in questa fase i Carolingi di Germania non erano in grado di esprimere alcuna candidatura, essendo l'unico figlio sopravvissuto di Arnolfo, Ludovico il Fanciullo, ancora in tenera età, mentre per Carlo il Semplice, esponente di punta dei Carolingi di Francia, era al momento impossibile anche ipotizzare un intervento. In tale contesto non rimanevano altre candidature oltre quella di L. che era nipote, sebbene per parte di madre, di Ludovico II.

Dopo che, tra l'894 e l'896, aveva appoggiato Arnolfo e Leone VI di Costantinopoli contro Spoleto, L. puntava così a un ruolo diretto e attivo in Italia. Oltre che sul favore dell'ormai anziana Engelberga, vedova di Ludovico II, L. poteva anche contare sull'appoggio di Berta di Toscana, legata a lui da lontana parentela e interessi. Ma anche Adalberto d'Ivrea, seppure secondo la testimonianza del parziale Liutprando, fu tra i primi ad appoggiare la discesa di L., e papa Benedetto IV era d'accordo a concedergli l'incoronazione imperiale.

L. prese per Bologna e scese verso Roma, trovando solo piccole resistenze locali. L'11 ott. 900 fu incoronato re d'Italia - si tratta di un'altra fase cruciale per la quale si deve ancora ribadire che Poupardin posticipa di un anno gli eventi, sebbene oggi prevalga la datazione più alta -, come mostra il primo diploma da lui concesso in favore di Ageltrude, vedova di Guido imperatore. Ma L. puntava a Roma e all'incoronazione imperiale che era sfuggita a Berengario. Si trattava di un obiettivo avallato dalla S. Sede, che dava grande importanza a tale scelta, dopo i tentativi falliti prima nell'896, quando la malattia di Arnolfo aveva bloccato ogni progetto, e poi nell'898, per la morte di Lamberto.

I vescovi del Regno italico, compresi quelli a capo di città nel territorio sotto il controllo romano, convennero a Roma per l'incoronazione e con l'impegno di trattare "de stabilitate sancte Dei homnipotentis Ecclesie regique puplice statu" (I diplomi, VI, p. 20). Va notato che fin da queste fasi spicca la forte latitanza dei grandi signori laici italiani all'assemblea romana, segno, presumibilmente, dello scarso consenso che L. riusciva a raccogliere nella penisola. Al seguito delle sue spedizioni italiane erano comunque attestati numerosi provenzali e borgognoni, come prassi consolidata in questa fase di forte mobilità degli esponenti dei ceti eminenti carolingi e postcarolingi tra regioni dell'Impero anche distanti tra loro.

L'incoronazione imperiale, stando alle argomentazioni dello Schiaparelli, sarebbe da collocare nel mese di febbraio 901, presumibilmente il 22.

Dopo due mesi, L. III lasciò Roma per Pavia, attraverso il percorso della Francigena, dunque per Siena e Lucca. In quel momento L. III controllava tutto il Regno, da Ivrea a Spoleto: a Berengario rimaneva solo la Marca del Friuli.

A questa fase, al di là di alcune discordanze tra le interpretazioni date da vari autori (tra i quali Fasoli e Schiaparelli), va ascritta la forte impressione suscitata in L. III dalla magnificenza dello stile di vita con cui Adalberto marchese di Toscana - detto appunto il Ricco - lo accolse, tanto da fargli esclamare, secondo la nota testimonianza di Liutprando: "Hic rex potius quam marchio poterat appellari; nullo quippe mihi inferior, nisi nomine solummodo est". Due elementi giunsero però a fiaccare il potere di L. III: un'ulteriore incursione ungara e soprattutto il passaggio di Adalberto d'Ivrea a Berengario, che lo aveva convinto promettendogli in sposa l'unica figlia, Gisla. Lavorando sullo strisciante malcontento verso le scelte e l'operato di L. III, Berengario riuscì a predisporre un esercito in grado di sfidare in campo aperto il neoimperatore il quale, però, nell'impossibilità di costituire uno schieramento in grado di contrastare quello rivale e non potendo contare su rinforzi dalla Provenza, per lo sbarramento della strada operato da Adalberto, preferì avviare delle trattative che si conclusero con il suo abbandono dell'Italia e la promessa di non tornarvi più. Secondo Poupardin, che cita a sostegno della sua interpretazione Liutprando, un'altra scelta vincente di Berengario sarebbe stata quella di riguadagnare a sé, a forza di promesse, uno tra i più potenti partigiani di L. III, Adalberto di Toscana, il quale pare avesse anche ottenuto da L. III il titolo di messo imperiale. Di certo, l'esiguità di sostenitori italici rendeva molto precaria la posizione di L. III, che avrebbe potuto trovarsi in difficoltà anche per la ritirata in Provenza, senza un previo accordo. Invece, Adalberto d'Ivrea non contrastò il rientro provenzale di L. III, tanto che egli appare, anzi, come interveniente nel penultimo diploma italiano di questa fase, datato 21 aprile.

Il 12 maggio 902 è invece la data dell'ultimo diploma che risulti emanato da L. III durante il suo primo soggiorno in Italia; è dato da Pavia, città nella quale egli risiedé e dalla quale più di frequente emanò i suoi atti: dei 21 diplomi autentici di L. III emanati durante il primo soggiorno in Italia conservati, 12 sono da Pavia.

Per tutto il periodo di assenza di L. III dall'Italia, solo a Ravenna si continuò a datare in base agli anni del suo impero. Il 17 luglio 902 Berengario emanò da Pavia un diploma in favore di Piero, vescovo di Arezzo, lo stesso che nel 900 era stato uno dei primi destinatari di un diploma di Ludovico III. L'11 nov. 902 L. III era di nuovo a Vienne, dove concedeva un diploma a un Bernardo e a Totberto abate di Ambierle.

Dopo ventidue mesi di spedizione in Italia, a L. III rimaneva dunque un titolo di imperatore povero di significati, oltre al recondito desiderio di potere alla prima occasione venir meno agli impegni giurati per tornare alla conquista del Regno italico: e questa presto si concretizzò.

La Fasoli ritiene che una nuova invasione di Ungari nell'estate 904 offrisse tale pretesto a L. III, ma Arnaldi (pp. 21 s.) è assai più prudente e anzi scettico. Berengario, secondo la Fasoli - e su questo anche Arnaldi è tendenzialmente concorde -, avrebbe risolto la nuova emergenza nata dalla presenza degli Ungari scendendo con essi a patti; scelta che però ricadeva sulle spalle dei grandi signori, i quali, non accettando ciò, sarebbero tornati a favorire L. III, invitandolo a reinserirsi nelle vicende italiche. In tale contesto, pare che anche i marchesi di Toscana, Adalberto e Berta, tornassero ad avvicinarsi a L. III, deluse le loro aspettative dal riaccostamento a Berengario: anzi, Liutprando attribuisce a loro la responsabilità della nuova discesa di Ludovico III.

Saputo della nuova discesa di L. III, che il 4 giugno 905 aveva già ripreso Pavia, Berengario si ritirò sul Garda con il cancelliere Ambrogio e l'arcicancelliere Ardengo. Conquistata Verona, la seconda capitale del Regno e città cui Berengario teneva particolarmente, L. III ritenne di potersi dedicare tranquillamente alle vicende di un paese pacificato, con un Berengario del quale arrivavano notizie comunque relative a un momento di forte difficoltà: veniva dato per ritirato sui monti del Trentino, o in Baviera, o addirittura morto. Invece, il rivale di L. III stava raccogliendo le forze per attaccarlo, anche con l'apporto di milizie volontarie e mercenarie bavaresi. Il 21 luglio - o comunque, accogliendo altre interpretazioni, al più tardi, il 1( agosto - Berengario giunse presso Verona, dove poteva ancora contare su alcuni fedeli con i quali era in contatto e che, nottetempo, gli aprirono le porte della città. Il racconto dell'epilogo della vicenda italiana di L. III è tramandato da Liutprando e dall'anonimo autore dei Gesta Berengarii, con divergenze dovute alle distinte posizioni dei due autori rispetto alle parti in lotta. Rifugiatosi nella chiesa di S. Pietro, L. III - secondo Liutprando, Berengario era riuscito a conoscerne il nascondiglio strappandone l'ubicazione con l'inganno all'unica persona che lo conosceva - fu raggiunto e accecato, pena riservata a chi fosse venuto meno a un giuramento, mentre l'autore dei Gesta Berengarii, volendo rimarcare la clemenza del sovrano, attribuiva a un'esecuzione contraria ai suoi ordini l'applicazione di tale usanza. Al di là delle discordanze delle tradizioni, l'episodio veronese segnava il termine delle ambizioni in Italia di Ludovico III.

Della seconda spedizione di L. III in Italia si conservano solo due diplomi: uno del 4 giugno, in favore del monastero di S. Teodora di Pavia, e un altro del 14 dello stesso mese, in favore della Chiesa di Novara, entrambi emanati da Pavia. Oltre a questi due documenti, sono dunque le sole fonti narrative che ci informano sul disastroso esito di tale discesa.

Il 26 ott. 905 era di nuovo in Provenza, conservando un titolo di imperatore ormai vuoto di significato. La cecità - che lo contraddistinse già nella cronaca di Flodoardo, della seconda metà del X secolo, dove viene chiamato "Ludovicus Orbus" - lo costrinse a un forzato ritiro nel palazzo di S. Andrea a Vienne, da dove non a caso furono emanati tutti i suoi diplomi, da quello appena ricordato all'ultimo, datato al 25 dic. 927.

L. III morì in Provenza tra il 25 dic. 927 e il settembre 928, secondo molti studiosi il 5 giugno 928.

Il conte Ugo di Vienne era il più stretto parente che L. III avesse in Provenza: tale fatto e le qualità personali di Ugo fecero di lui il primo personaggio del Regno quando l'imperatore tornò in patria cieco e senza prestigio. Diversi atti emanati da L. III ci mostrano un mantenimento diretto da parte sua di una rete di rapporti con i territori che formavano il suo Regno e con le personalità eminenti in tali contesti, quei vescovi, abati, canonici e vassalli regi che giuravano direttamente nelle mani del re e che L. III designava nei propri diplomi con l'espressione "fideles nostri". Ma, nonostante ciò, rimaneva da allora in avanti fondamentale il ruolo di Ugo nell'amministrazione delle questioni provenzali: un trampolino verso traguardi ambiziosi che portarono presto anche quest'altro esponente della nobiltà provenzale a inserirsi attivamente nelle turbinose vicende del Regno d'Italia che ancora per molti decenni travagliarono la penisola e nelle quali il fallimento di L. III va ascritto in misura consistente alla labilità del rapporto con i potenti signori italiani, mal compensato anche dall'esiguo numero di provenzali al suo seguito.

La comparsa di una seconda moglie di L. III, Adelaide, in un documento del 18 genn. 915, lascia supporre che la prima, Anna, fosse defunta o che, comunque, L. III si fosse separato da lei: ipotesi, quest'ultima, che sarebbe confermata accettando l'interpretazione di alcuni (Zielinski, p. 331), secondo i quali Anna avrebbe sposato in seconde nozze, non successivamente al 915, proprio Berengario, l'antico rivale di L. III, la prima moglie del quale, Bertilla, morì in circostanze poco chiare; ma per altri, l'Anna moglie di Berengario sarebbe una figlia e non la moglie di L. III (Mor, I, p. 73). Di certo, oltre a Carlo Costantino, conte di Vienne, che L. III ebbe da Anna, è attestato un altro figlio di L. III, Rodolfo, anch'egli noto solo in base a un'unica attestazione, del 929, e che più verosimilmente nacque dal secondo matrimonio con Adelaide, forse figlia di Rodolfo I di Burgundia. È invece oggi comunemente non accolta una vecchia interpretazione che voleva L. III quale marito di una figlia di Edoardo l'Anziano, a sua volta figlio di Alfredo il Grande, re del Wessex.

La fase espansiva dell'esperienza politica di L. III si risolse dunque in un torno relativamente breve di anni senza apportare, peraltro, un contributo particolarmente significativo di innovazione nel campo dell'amministrazione che fosse in grado di risollevare le sorti del Regno italico e dell'Impero, nel quadro di crisi del sistema carolingio.

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