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ALAMANNI, Luigi

di Giuseppe Rua - Enciclopedia Italiana (1929)
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ALAMANNI, Luigi

Giuseppe Rua

Nacque a Firenze nel 1495. La sua vita si può distinguere in due grandi periodi: italiano e francese. Giovinetto, frequentò lo Studio fiorentino, seguendo le lezioni di Francesco Cattani, discepolo e successore di Marsilio Ficino, e attese con assiduo amore alla lettura meditata dei classici greci e latini. Prese gran parte alle riunioni erudite nei giardini dei Rucellai (Orti Oricellari): qui lesse i suoi primi saggi poetici, qui conobbe il Machiavelli, che lo ebbe carissimo e gli dedicò la Vita di Castruccio. Probabilmente per l'influenza di questo suo "grande amico" l'Alamanni entrò nella congiura contro il cardinale Giulio dei Medici, della quale fu uno dei capi (1522). Costretto a rifugiarsi a Venezia, di là passò in Francia, ma, espulsi nuovamente i Medici da Firenze nel 1527, accorse a portare il suo aiuto per la patria e la libertà. Dopo il memorabile assedio, dal restaurato governo mediceo l'A. fu confinato in Provenza, e, avendo rotto il confino, fu dichiarato ribelle (1532). In questo stesso anno uscì a Lione il primo dei due volumi delle sue Opere toscane, che rivelarono il nuovo poeta. Le dedicò al re di Francia Francesco I, il quale aveva in grande stima e favoriva largamente i letterati e gli artisti italiani (fra gli altri Benvenuto Cellini), e fu liberale, affettuoso mecenate dell'esule fiorentino, Lo accolse infatti alla sua corte, e poi gli cedette il suo ameno Jardin du Roi ad Aix: ivi tra il verde delle selva l'A. scrisse liriche e poemi. Ma la restante sua vita non trascorse tutta negli studi: Francesco I ed Enrico II si valsero della sua opera in varie ambascerie, e anche se ne valse Ippolito II d'Este. Così l'esule ebbe occasione di ritornare talvolta in Italia: soggiornò a Roma e a Ferrara, e fu ambasciatore a Venezia (1541) e a Genova (1544). Non immemore mai della patria, il cui rimpianto ritorna frequente e accorato nelle sue opere, morì ad Amboise nel 1556.

Nel periodo che va dall'Ariosto al Tasso, l'A. fu, in secondo ordine, uno dei maggiori poeti italiani per la fecondità, varietà e nobiltà della sua arte, di cui il carattere principale fu l'imitazione dei modelli classici nella lingua volgare. Fra i lirici si distingue per la sincera e calda effusione di alcune sue rime, ispirate dall'amore che sentì per più donne, e più ancora dall'amor patrio; notevole è, negl'inni composti in lode di Francesco I, il tentativo di rinnovare nella poesia italiana il "pindaresco stile"; meno pregiate sono le sue liriche morali e religiose. Le sue satire, che rivelano lo studio di Giovenale e di Dante, e sono per la maggior parte politiche, si accendono di maggiore sdegno, quando s'appuntano contro la corte di Roma e la corruzione del clero. Fu il primo, o dei primi, a introdurre l'epigramma (endecasillabi rimati a coppie) nella poesia moderna, traducendo o imitando l'Antologia greca, Teocrito, Mosco, Luciano, Catullo, Ovidio. Da Teocrito e Mosco, e inoltre da Virgilio, derivano altresì nella maggior parte le egloghe in versi sciolti che l'A. compose nella sua giovinezza: fra le più note è la III in cui Flora, che qui rappresenta Firenze, abbraccia lamentosamente le salme di due dei suoi figli più cari strappati al suo amore dalla tirannia medicea; e felici imitazioni di Ovidio sono taluni dei suoi belli e commoventi racconti mitologici in isciolti (p. es., la Favola di Fetonte). Sembrano sue cinquanta stanze per Elena Bonaiuti, che fu poi sua moglie.

Opere di più ampia lena e di maggior rinomanza sono i suoi drammi e i suoi poemi. Al teatro diede una commedia, la Flora, in cui non solo si attenne agli antichi nell'invenzione e nella condotta della favola, ma anche tentò riprodurne la forma dei versi (senarî e ottonarî giambici), e una tragedia, l'Antigone, che è una libera e dignitosa versione del testo sofocleo in robusti versi sciolti. Per invito di Francesco I cantò in ottave le avventure di Girone il Cortese, attenendosi abbastanza fedelmente all'omonimo poema francese (Guiron le Courtois), ma con tagli e aggiunte talora di qualche importanza e con prestiti dai romanzi di Meliadus e di Tristano. Opera, per così dire, di commissione, il Girone il Cortese dell'A. può definirsi un lungo e poco felice esercizio di versificazione, ma non è senza interesse per la storia del poema epico del '500, in quanto vi si nota la tendenza ad accostare il poema cavalleresco al tipo classico mediante maggiore unità d'azione e serietà di argomenti e d'intenti. Questa tendenza appare anche più spiccata nell'Avarchide, in cui l'A., pur deducendo largamente dai romanzi bretoni, riproduce i fatti più importanti dell'Iliade, mutati i nomi ai luoghi e ai personaggi: l'assedio di Troia vi diventa l'assedio di Bourges (lat. Avaricum), Clodasso è l'omerico Priamo, e Artù Agamennone. Spoglia dell'allettatrice varietà del poema romanzesco, monotona e verbosa, anche l'Avarchide ebbe poca fortuna, benché vi si notino alcune belle descrizioni e similitudini.

A un poema didascalico, la Coltivazione, l'A. dovette la sua celebrità. In sei libri, nel verso sciolto che fu poi caratteristico del genere, il poeta, giovandosi largamente di Virgilio e Columella, discorre di tutto ciò che ha riferimento alla coltivazione dei campi e alla vita rustica, variando il racconto con frequenti episodi, ed esprimendo nel quarto libro la pietà per le sventure e la miseria d'Italia con accenti efficaci. Di assai minor conto sono: l'orazione che per invito della Signoria fiorentina nel 1528 tenne alla nuova milizia, e che fu poco apprezzata per il suo soverchio sermoneggiare (e veramente la recitò in una chiesa), e una novella che ha qualche riscontro in quella di Griselda del Boccaccio. Le sue lettere hanno il pregio di non essere vuote esercitazioni di stile, ma di rappresentare al vivo l'animo e il pensiero di un uomo che seppe operare e soffrire per la libertà della patria: merito singolare in quei tempi, che circonda il nome dell'A. di una luce simpatica.

Bibl.: Un accurato e ricchissimo elenco delle edizioni delle opere dell'A. si trova nell'Appendice IV del vasto, dotto e bel volume di H. Hauvette, Un exilé florentin à la cour de France au XVI siècle: Luigi Alamanni (1495-1556): sa vie et son oeuvre, Parigi 1903 fra le edizioni moderne merita particolare menzione quella curata da P. Raffaelli, Versi e prose di L. A., Firenze 1859. Oltre l'opera capitale dell'Hauvette, v. F. Flamini, Studî di storia letteraria italiana e straniera, Livorno 1895, p. 270 segg.; E. Carrara, La poesia pastorale, Milano [1908], p. 387 segg.; I. Sanesi, La Commedia, I, Milano [1911], p. 274 segg.; E. Bertana, La tragedia, Milano [1906], p. 38; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano [1912], p. 219 segg.; F. Foffano, Il poema cavalleresco, Milano [1905], p. 148 segg.; H. Hauvette, Nuovi documenti su L. A., in Giornale stor. della letter. ital., LI (1908), pp. 436-439; E. Martini-Chabot, Une "canzone" inédite de L. A. envoyée par le cardinal de Fermo au roi François Ier en 1539, in Bulletin italien, IX (1909), pp. 131-36; F. C. Pellegrini, Stanze sconosciute di L. A. per Elena Bonaiuti, in Giorn. stor. della letter. stal., LXII (1913), pp. 289-335.

Vedi anche
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