BESCHI, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani (2017)

Dizionario Biografico degli Italiani beschiluiigi.jpg

BESCHI, Luigi

Eugenio La Rocca

Nacque a Rivoltella, frazione di Desenzano del Garda (Brescia), il 27 dicembre del 1930, da Ermete e Virginia Papa. Ebbe un fratello e due sorelle.

Al suo paese di nascita restò sempre legato, volgendo, tanti decenni dopo, i suoi interessi culturali verso le chiese del borgo.

La formazione e la prima attività di ricerca

Dopo aver preso la licenza liceale a Verona, si laureò nel 1954 presso l’Università degli studi di Padova, in archeologia e storia dell’arte greca e romana, sotto la guida di Carlo Anti, di cui divenne assistente, dapprima incaricato (1955-59) e poi ordinario (1959-72). Fu il suo maestro a istradarlo verso l’archeologia greca e a invitarlo a partecipare ad alcune campagne di scavo a Cirene (1960 e 1962), ch'ebbero non poca importanza nell’ambito della sua formazione scientifica. In uno dei suoi primi lavori (Un disegno veneto dell’Acropoli ateniese nel 1670, in Arte veneta, X [1956], pp. 136-141) emergono già i suoi specifici interessi, rivolti a una visione storica globale, non limitata all’esame dei monumenti in sé, ma anche ai modi in cui erano percepiti e al loro valore culturale in contesti mutati con il trascorrere del tempo: insomma, non solo una ricerca archeologica, per quanto approfondita, ma anche un’analisi della mentalità con cui determinati monumenti, alcuni dei quali essenziali per la nostra identità di europei, come il Partenone – ma non solo – furono recepiti dall’antichità ai nostri giorni. La documentazione archeologica, i dati archivistici riguardanti la formazione delle collezioni private e pubbliche veneziane (come in seguito quelle fiorentine), i disegni, gli schizzi, le stampe e i dipinti costituirono i tasselli necessari per una ricostruzione mai circoscritta a un solo periodo storico. Beschi raccolse, insomma, l’eredità della migliore tradizione positivistica di ambiente germanico, nella consapevolezza che i monumenti vivono in un contesto culturale, sociale, politico, religioso, che non è mai lo stesso, ma muta nel tempo. Ritornando nel 2002 sul medesimo argomento (L’Acropoli di Atene in una veduta del 1670, in Numismatica e antichità classiche, XXXI [2002], pp. 347-358; e Aκόμα μια φoρά για τo σχέδιo της Aκρόπoλης τoυ 1670 στo Bassano del Grappa, in Horos, XIV-XVI [2000-2003], pp. 381-387, in collab. con Tasou Tanoula), approfondì ulteriormente l’esame del disegno di Bassano del Grappa, giungendo a suggerire la sua realizzazione da parte non di un ingegnere militare, una spia che avrebbe creato un documento militare antiturco a favore di Morosini, ma di un disegnatore veneto forse legato all’ambiente diplomatico di quei Paesi europei che, come Venezia, facevano capo al locale convento dei Cappuccini, situato ai piedi dell’acropoli, intorno al monumento di Lisicrate.

All’articolo sul disegno di Bassano del Grappa seguirono in breve tempo uno studio sui monumenti di Verona romana (nel volume miscellaneo di F. Zorzi - F. Sartori - L. Beschi, Verona e il suo territorio, I, Preistoria veronese. Verona romana. Storia politica, economica, amministrativa. Verona romana. I monumenti, Verona 1960), e sui bronzetti romani di Montorio Veronese (I bronzetti romani di Montorio Veronese, Venezia 1962). C’è in questi lavori un preciso studio storico, topografico e stilistico, ma c’è anche la contestualizzazione di manufatti andati dispersi a causa delle drammatiche vicende delle collezioni italiane del Settecento e dell’Ottocento. Concludendo il saggio sui bronzetti di Montorio, di cui riconosceva la pertinenza a un larario, avvertiva che essi non dovevano essere esaminati solo sotto il profilo artistico, ma anche sotto il profilo religioso e culturale sì che, in una ricerca più ampia, «il fenomeno ‘bronzetto’, così vivamente legato alla coscienza e al gusto del singolo, del privato, non sia più e solo ‘archeologico’, ma più ampiamente ‘storico’» (ibid., p. 113).

Gli anni ateniesi

Nel 1961 Beschi fu allievo della Scuola archeologica italiana di Atene, allora sotto la direzione di Doro Levi, che lo volle suo assistente, con un distacco temporaneo dall’università di Padova nel periodo tra il 1964 e il 1971.

Durante gli anni ateniesi, l'8 febbraio 1965, si unì in matrimonio con Caterina Spetsieri, che aveva conosciuto come giovane studentessa venuta a Padova per completare i suoi studi universitari sulle lotte per la liberazione greca viste nell’ottica dell’Italia pre-risorgimentale: con lei, acuta studiosa del filellenismo italiano, condivise fino alla sua scomparsa numerosi interessi, da un amore per i rapporti culturali tra Grecia e Italia a una profonda passione per la musica classica. I due, che non ebbero figli, risiedettero nel centro di Atene, a odos Mavromichali 87, nel vivace quartiere Exarcheia, dove sono situati il Museo archeologico nazionale e l’Università tecnica nazionale (più conosciuta con il nome di «Politecnico»), che nel novembre del 1973 fu teatro della drammatica rivolta degli studenti contro la dittatura dei Colonnelli.

Gli otto anni di assistentato presso la Scuola archeologica italiana di Atene si rivelarono tra i più belli della sua vita: partecipò attivamente alla vita culturale greca grazie anche a un’ottima conoscenza della lingua e dietro la spinta di una nuova generazione di giovani studiosi greci che contavano tra i migliori archeologi della loro generazione, quali Giorgio Despinis e Angelos Delivorrias. È stato ad Atene, in quegli anni straordinari, che videro la luce alcuni dei suoi lavori più compiuti, mirabili per l’equilibrio tra la sorprendente capacità di assemblare frammenti di marmi dispersi in età moderna in varie collezioni europee, e una prodigiosa sintesi di dati iconografici, stilistici e antiquari; di saper integrare, come lui stesso sosteneva, “immagini e parole”, e di ricavare dalle proposte di ricostruzione una messe di dati storico-religiosi di eccezionale importanza. Il passato topografico, religioso e artistico di Atene prendeva nuova vita, e si annodava alla storia di Venezia e del suo dominio nel Mediterraneo orientale.

Da questa matrice ebbero origine alcuni lavori fondamentali sulla topografia e la storia di Atene, a partire dalla ricomposizione del monumento destinato a celebrare la fondazione dell’Asklepieion ateniese a opera di Telemachos di Acharnai, tra il 420/419 e il 412/411 a.C., ricostruito come un rilievo votivo principale a doppia faccia e un portarilievo a quattro facce, sul quale comparivano iscrizioni e scene figurate (Il monumento di «Telemachos», fondatore dell’«Asklepieion» ateniese, in Annuario della Scuola archeologica di Atene, XLV-XLVI [1967-68], pp. 381-436; Il rilievo di «Telemachos» ricompletato, in Αρχαιολογικά Ανάλεκτα εξ Αθηνών, XV [1982], pp. 31-43). Partendo da studi precedenti, poté non solo riconoscere nuovi frammenti, ma confermare che i frammenti superstiti fossero pertinenti a due rilievi votivi pressoché uguali e prodotti contemporaneamente, anche se non dal medesimo artigiano, collocati in due luoghi differenti del santuario di Asclepio alle pendici meridionali dell’Acropoli ateniese. L’integrazione tra i frammenti dei due monumenti ha contribuito alla restituzione iconografica del loro programma figurativo. Tenuto conto che i frammenti erano conservati nei depositi del Museo archeologico nazionale e del Museo dell’Acropoli di Atene, del Museo civico di Padova e del Museo Maffeiano di Verona (dove erano probabilmente giunti dopo la spedizione di Francesco Morosini), infine del British Museum (attraverso la collezione Elgin, e più di recente attraverso il mercato antiquario), ci si può rendere facilmente conto del complesso lavoro compiuto per giungere alla ricomposizione di un tessuto sfilacciato, con l’occhio vigile e attento alla lettura stilistica di disiecta membra, e con una sapiente capacità interpretativa del monumento nel quale, sulla doppia faccia del rilievo principale, compariva da un lato il santuario di Asclepio visto dall’esterno, con il suo peribolo e i monumenti che lo affiancavano ‒ uno dei primi esempi di veduta “paesistica”, ancorché simbolica ‒, e dall’altro lo stesso santuario visto dall’interno, con Asclepio in piedi e, al suo fianco, la figlia Igea seduta sulla trapeza destinata alle offerte votive.

Assumeva nelle sue pagine nuovo spessore anche la problematica riguardante la duplicazione di rilievi e di opere d’arte, fino allora scarsamente presa in considerazione nell’ambito degli studi sulla cultura greca. Sembrava infatti che si trattasse di argomento connesso prevalentemente all’archeologia tardo-ellenistica e romana. E invece era ormai documentato il caso di un monumento votivo di età classica replicato con precisione e alta fedeltà per essere collocato in sedi complementari. Più o meno nello stesso periodo, ricompose altri rilievi votivi (Rilievi votivi attici ricomposti, in Annuario della Scuola archeologica di Atene, XLVII-XLVIII [1969-70], pp. 85-132), tra i quali risalta per importanza quello raffigurante una delle sacre triremi di Stato ateniesi, la Paralos. La sensibile esegesi ha circoscritto la dedica del rilievo a un periodo compreso nell’ultimo decennio del V secolo a.C., quando la Paralos ebbe la possibilità di segnalare agli Ateniesi una delle ultime grandi vittorie ateniesi per mare, ad Abydos o a Cizico, prima della tragica disfatta di Egospotami. Anche in questo caso lo studio ha potuto dimostrare che del monumento esistevano due copie, esposte una sull’acropoli di Atene, e l’altra probabilmente nel santuario dell’eroe al Pireo. Uno dei due monumenti è poi giunto in epoca imprecisata a Roma.

Fin dal suo primo lavoro sul disegno del 1670, Beschi non aveva mai smesso di studiare l’Acropoli ateniese in dettaglio, raccogliendo capillarmente tutti i dati e i documenti disponibili sull’argomento. Malgrado le difficoltà, dalle ombre del passato e da un’incertezza dovuta alle tristi vicende storiche dell’Acropoli, sono emersi attraverso mirabili studi topografici (Contributi di topografia ateniese, ibid., XLV-XLVI [1967-68], pp. 511-536) il santuario di Afrodite Pandemos con il suo epistilio decorato da colombe che reggono infule, l’heroon di Egeo ai piedi del bastione dominato dal tempio di Athena Nike, e ancora le aree cultuali di Athena Nike e delle limitrofe Charites, tutte raffigurate su alcuni rilievi votivi con il busto emergente dal terreno.

È stata poi la volta del tempio di Poseidon a Capo Sunio, di cui ritrovò alcuni rocchi di colonne crollate nel 1825, e scomparse senza lasciare traccia, in Fondamenta Briati a Venezia, nel castello Klein-Glienicke a Berlino e nel parco del duca di Devonshire a Chatsworth, dimostrando che i rocchi erano stati predati dall’ammiraglio sir Augustus Clifford e dal comandante della flotta austriaca marchese Amilcare Paolucci delle Roncole («Disiecta membra» del tempio di Poseidon a Capo Sunio, ibid., XLVII-XLVIII [1969-70], pp. 417-437; «Disiecta membra» del tempio di Poseidon a Capo Sunio, 2, in Αρχαιολογική Eφημερίς, 1972, pp. 173-181).

Gli anni trascorsi ad Atene, dove svolgeva lezioni e seminari agli allievi della Scuola sull’Acropoli di Atene e sui monumenti dell’Attica, sono stati la base per uno dei suoi lavori di più alta divulgazione scientifica, l’edizione commentata per la Fondazione Lorenzo Valla del primo libro della Periegesi di Pausania, dedicato appunto ad Atene e all’Attica, di cui curò la parte archeologica (Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, introduzione, testo e trad. a cura di L. Beschi - D. Musti, Milano 1982).

Della sua partecipazione, nel 1960 e nel 1962, a campagne di scavo a Cirene, restano alcune pubblicazioni di sculture (Due rilievi funerari dalla necropoli orientale; Il grande rilievo dell’oplita dall’agorà; Nuove repliche dell’Artemide tipo Rospigliosi, in Sculture greche e romane di Cirene, Padova 1959, rispett. pp. 57-90, 93-145, 255-297), e specialmente uno dei suoi testi fondamentali, completato proprio durante il periodo ateniese, dedicato alle divinità funerarie cirenaiche (Divinità funerarie cirenaiche, in Annuario della Scuola archeologica di Atene, XLVII-XLVIII [1969-70], pp. 133-341). La monografia è da un lato il catalogo completo di tutte le immagini femminili raffigurate a busto o a mezza figura ‒ simbolo delle divinità ctonie radicate alla terra, spesso senza alcuna definizione del volto o con il volto velato, a memoria di antichissimi culti aniconici, quando la divinità era rappresentata sotto forma betilica ‒ provenienti dalle necropoli di Cirene, dall’altro uno studio esemplare sui costumi funerari cirenaici e sui modi di rappresentazione delle divinità che proteggevano il sonno dei defunti.

Riprendendo una ricerca alla quale già Silvio Ferri aveva dedicato decenni prima un saggio esemplare, con una profonda revisione della materia, alla luce di una documentazione più ampia e fondendo armonicamente più discipline, ha offerto uno studio magistrale sulla cultura storica, religiosa e artistica cirenaica dall’età arcaica all’età ellenistica.

Sempre nello stesso periodo, Beschi volse la sua attenzione sulle sculture rinvenute a Creta e trasferite a Venezia nel Rinascimento (Antichità cretesi a Venezia, ibid., L-LI [1972-73], pp. 479-502). Domina nella serie un gruppo di statuette votive raffiguranti Demetra e Kore, ora nel Museo archeologico nazionale di Venezia, ma provenienti parte dalla collezione del cardinale Giovanni Grimani, parte da quella di Francesco Contarini, concorrente del Grimani nell’acquisto di “anticaglie”, forse attraverso l’intermediazione di Jacopo Foscarini, amico del cardinale Grimani, e fornitore di sculture ritrovate a Creta. In base a uno studio attento sui modi di formazione delle due collezioni, giunse alla conclusione che le statuette fossero con ogni probabilità doni votivi collocati in un santuario delle divinità eleusine documentato a Cnosso, presso Gypsades, a sud del palazzo minoico.

L’insegnamento universitario in Italia

Conseguita la libera docenza già nel 1964, a seguito di un concorso nazionale per un posto di professore ordinario presso l’Università di Padova, nel quale risultò idoneo insieme con Gustavo Traversari e Piero Orlandini, Beschi si vide costretto a lasciare la Grecia per ricoprire la cattedra di archeologia e storia dell’arte greca e romana dapprima all’Università di Chieti (1972-74), poi presso l’Università Orientale di Napoli (1974-77), in seguito presso l’Università di Pisa (1977-81) e da ultimo, fino al pensionamento, presso l’Università di Firenze (1981-99).

Non gli fu facile lasciare la Grecia, che considerava la sua seconda patria, e dove comunque ritornò con frequenza, mantenendo stretti legami con l’ambiente archeologico greco. L’attività didattica in Italia gli permise, tuttavia, di sviluppare diversi aspetti delle sue ricerche: da un lato verso le collezioni di antichità che si erano formate in Italia durante il Rinascimento, tra Venezia e Firenze, dall’altro verso le figure di eruditi attivi nel Quattrocento e nel Cinquecento, da Ciriaco Pizzecolli (Ciriaco d’Ancona) a Urbano Bolzanio al medico vicentino Onorio Belli. In base alle informazioni antiquarie desunte dall’opera di Belli, poté ricostruire la storia di una statua colossale femminile nel Museo archeologico nazionale di Venezia (La Nike di Hierapytna, opera di Damokrates di Itanos, in Atti dell'Acc. nazionale dei Lincei, Rendiconti, cl. di scienze morali, storiche e filologiche, s. 8, XL [1985], pp. 131-143). Già appartenuta a Giovanni Mocenigo essa è risultata provenire da Hierapytna a Creta. Attribuibile a Damokrates di Itanos, un artista che risentiva profondamente della cultura classica, vissuto nella seconda metà del II secolo a.C., la statua rappresentava in origine una Nike, forse dedicata in occasione della vittoria di Hierapytna su Praisos nel 145 a.C. Collocata nel santuario di Athena, divinità poliadica della città, la statua a seguito di alcune variazioni iconografiche realizzate con un intervento di restauro, fu trasformata, probabilmente in età romana, in un’Athena.

Sulla (ri)scoperta dell’arte greca, sulla formazione del suo mito, e sull’incontro tra la cultura rinascimentale e moderna con la Grecia, Beschi produsse un importante saggio per la serie di volumi sulla memoria dell’antico nell’arte italiana, curata da Salvatore Settis per la casa editrice Einaudi (La scoperta dell’arte greca, in Memoria dell’antico nell'arte italiana, 3, Dalla tradizione all’archeologia, Torino 1986, pp. 293-372): mirabile sintesi su un tema da lui instancabilmente indagato lungo l'intero arco della sua vita.

In quanto allo studio delle collezioni formatesi in questo stesso periodo, alcuni risultati ci permettono ormai di esaminare alcune celebri opere d’arte con occhio differente. Può valere come esempio l’Idolino di Pesaro, ora nel Museo archeologico nazionale di Firenze, ma donato da Francesco Maria II Della Rovere alla nipote Vittoria Della Rovere andata in sposa al cugino Ferdinando II de’ Medici nel 1630 (L’Idolino di Pesaro e gli altri bronzi del suo contesto archeologico, in Studia Oliveriana, XX [2000], pp. 9-53). Egli riusciva a ripristinare l’originaria immagine di lychnophoros della statua giovanile in bronzo, opera di tendenza classicheggiante della prima età augustea, ritrovando, con un sapiente esame della documentazione superstite, un frammento del tralcio di vite che il giovinetto reggeva nella mano sinistra. Inoltre, individuava con precisione il luogo dove l’Idolino era stato trovato, la domus pesarese della potente famiglia senatoria degli Aufidii, alla quale apparteneva M. Cornelio Frontone, il rispettato maestro di Marco Aurelio e di Lucio Vero. È poi il caso dei cosiddetti «rilievi dei Troni», divisi tra Ravenna, Venezia, Firenze, Milano, Biella, Roma e Parigi (I rilievi ravennati dei troni, in Felix Ravenna, 1984-85, vol. 127-130, pp. 37-80). Sulle lastre sono raffigurati splendidi gruppi di eroti che collocano su troni vuoti gli specifici attributi delle principali divinità dell’Olimpo. Nel suo articolo giungeva alla conclusione che in antico fossero state prodotte almeno due serie parallele di rilievi, l’una replica dell’altra: l’una pertinente a un monumento situato a Roma, l’altro a un monumento ravennate che, con l'aggiunta di nuovi dati al discorso da lui iniziato, doveva trattarsi di un tempio o un altare dedicato al divo Augusto e ai membri della famiglia giulio-claudia divinizzati o eroizzati, forse in occasione della presenza di Claudio a Ravenna al suo ritorno dalla campagna militare in Britannia che gli valse a Roma la celebrazione di un trionfo (v., in partic., E. La Rocca, Claudio a Ravenna, in La Parola del passato, XLVII [1992], pp. 265-314). Attraverso questi rilievi, riprendeva anche il discorso sulla serialità delle opere d’arte nel mondo antico, già esaminato negli studi del rilievo di Telemachos e della Paralos, spingendo il lettore a rivedere vecchi preconcetti, duri da cancellare, sui modi di produzione artistica in età greca e romana.

Malgrado i sempre più consistenti spostamenti verso le problematiche del collezionismo di antichità in età rinascimentale, le ricerche di Beschi sui monumenti ateniesi non hanno avuto soste. Nel 1984 pubblicò Il fregio del Partenone. Una proposta di lettura (in Atti dell'Acc. nazionale dei Lincei, Rendiconti, cl. di scienze morali, storiche e filologiche, s. 8, XXXIX [1984], pp. 173-195; poi in L’esperimento della perfezione. Arte e società nell’Atene di Pericle, a cura di E. La Rocca, Milano 1988, pp. 234-257). Sembrava in effetti che il monumento non potesse dire molto di più dopo secoli di incessanti studi e di ricerche su sculture e rilievi che hanno subito le devastazioni del tempo e degli uomini. Il fregio, diviso ormai per buona parte tra Londra e Atene, è stato oggetto nel tempo di un numero sterminato di studi e tesi, vòlti a decifrarne il significato. Che vuol dire quella lunghissima sfilata di cavalieri, di carri, di giovani, di uomini e di donne che sfilano compostamente lungo le pareti dell’edificio fino a concludere il loro percorso a Oriente, dove un gruppo di eroi e le principali divinità olimpiche, non visti, sembrano partecipare alla cerimonia, e ricevere l’omaggio da parte della cittadinanza ateniese? Da qualche tempo era stata avanzata la possibilità che nel fregio fossero rappresentate simbolicamente le feste delle Grandi Panatenee, che si tenevano ad Atene ogni quattro anni, e che si concludevano con l’offerta ad Athena di doni tra i quali un peplo tessuto dalle donne ateniesi e ricamato in oro con scene della gigantomachia. Secondo la prospettiva di Erika Simon, due distinte processioni giungono dinanzi al consesso divino da due fronti opposti, Nord e Sud: una a carattere più religioso, memore della tradizione arcaica, l’altra a carattere più politico e civico, che celebra l’avvento della democrazia ateniese dopo la caduta dei tiranni. Evelin Harrison, da parte sua, aveva compreso che lo schieramento meridionale di cavalieri e di carri era organizzato in ranghi di dieci unità, corrispondenti alle dieci tribù dell’ordinamento democratico come impostato da Clistene, mentre i carri settentrionali, in numero di dodici, sarebbero un preciso riferimento all’ordinamento arcaico in dodici fratrie. Nessuna delle due ipotesi, però, aveva chiarito il sistema semantico nel suo complesso e nelle sue conseguenze logiche. Beschi, con serrata e capillare analisi del testo figurato, ne ha offerto le valide motivazioni con un’esegesi figura per figura, mostrando così che la distribuzione della processione, dei cavalieri e dei carri, è impostata in maniera lucida, e senza alcuna deroga, sul lato meridionale e la metà di sinistra del lato orientale secondo numeri multiplo di dieci, simbolo delle dieci tribù dell’ordinamento politico voluto da Clistene, mentre sul lato occidentale, settentrionale e la metà destra del lato orientale secondo numeri multiplo di quattro, e quindi secondo la più antica suddivisione dei cittadini ateniesi in quattro tribù e dodici fratrie (tre per ogni tribù). Il riflesso degli ordinamenti contrapposti si riflette persino nella distribuzione delle divinità e degli eroi eponimi sul fregio orientale. Il testo, uno dei lavori capitali nella storia dell’archeologia classica del Novecento, è un’esemplare chiave di volta degli studi sul Partenone e sui sistemi di comunicazione ideologica e politica nella Grecia di età classica.

Sulle sculture del Partenone ritornò, qualche anno dopo, riprendendo in considerazione la testa femminile detta «Laborde», giunta in epoca imprecisata a Venezia, e poi al Louvre (La testa Laborde nel suo contesto partenonico. Una proposta, in Atti dell'Acc. nazionale dei Lincei, Rendiconti, cl. di scienze morali, storiche e filologiche, s. 9, VI [1995], pp. 491-512). La testa aveva subito un deturpante intervento integrativo che ne impediva una corretta lettura formale. Solo recentemente il Louvre ha proceduto a un restauro con l’eliminazione delle pesanti superfetazioni. Quanto resta delle superfici originali ha permesso di confermare la sua intuizione: la testa appartiene verosimilmente al frontone occidentale del Partenone, e più precisamente, come ha dimostrato basandosi su alcuni disegni superstiti attribuiti a Jacques Carrey, al magnifico torso della Iris, un caposaldo della scultura fidiaca.

Negli anni del suo assistentato, aveva avuto da Doro Levi l’incarico dello studio di un santuario arcaico sull’acropoli di Efestia a Lemno. La Scuola archeologica Italiana di Atene, dal 1926 al 1930, e dal 1937 al 1939, vi aveva svolto con i suoi allievi una serie di saggi di scavo, con la scoperta di alcuni quartieri della città e di un santuario di età arcaica a carattere misterico. Quest’ultimo, sotto la direzione di Alessandro Della Seta, era stato indagato da Filippo Magi, mentre lo studio delle ceramiche era stato assegnato a Giacomo Caputo. Achille Adriani, a sua volta, aveva eseguito un altro sondaggio a una distanza di circa dieci metri dai resti del santuario, ritrovando una serie di strutture che, per il materiale ivi rinvenuto, potevano essere considerate pertinenti al complesso sacrale, composto evidentemente da un certo numero di ambienti intorno a un piazzale. A breve distanza dall’imboccatura del porto, nel sito di Chloi, su un promontorio rivolto verso Samotracia, erano venuti alla luce, inoltre, i resti di un altro e più grande santuario misterico, quel Cabirio noto da numerose fonti antiche a partire dal V secolo a.C. Gli impegni universitari gli impedirono di dare avvio allo studio del sito di Efestia per molti anni. Solo nel 1977 le attività di ricognizione e di scavo nell’isola poterono essere ripresi in maniera continuativa. La complessa area santuariale destinata, come egli ha proposto convincentemente, al culto della Grande Dea Lemnos, assimilabile a Cibele, la Gran Madre anatolica, aveva probabilmente come suo nucleo centrale un tempio, distrutto dai Persiani nel 512/511 a.C., sulle cui rovine si venne a impostare, fra il III e il II secolo a.C., un quartiere artigianale per la produzione di ceramica. Delle ricerche nell’area del santuario, nel quale la presenza di pozzi e di modelli votivi in terracotta di fontane suggerisce una forma di culto che dava particolare importanza all’acqua (fenomeno spesso connesso con una divinità femminile, materna, come era la dea Lemnos), restano alcuni saggi pubblicati nella rivista Annuario della Scuola archeologica di Atene che offrono un quadro assai articolato sulle attività da lui svolte e sui più significativi materiali votivi o a carattere rituale ivi rinvenuti.

Nel 1981 decise di trasferire le sue indagini verso il Cabirio di Chloi, un santuario il cui studio si poteva rivelare ricco di prospettive da un punto di vista storico e religioso. Le campagne si svolsero dal 1982 al 1987, ma le ricerche e l’analisi dei materiali di scavo si sono prolungate fino al 1996. Gli edifici del santuario erano ubicati su due piccoli terrazzamenti artificiali, ritagliati sul fianco di una collina a dirupo sul mare (il promontorio di Chloi) ed erano sostenuti da potenti muri di rinforzo. Sulla terrazza settentrionale, la più grande, era situato il principale luogo di culto, il Telesterion, di età ellenistica, mentre sulla terrazza meridionale era stato rinvenuto il Telesterion di età romana e, sotto di esso, le tracce di quello di età arcaica, risalente al VII secolo a.C. Delle sue ricerche, purtroppo incompiute, ha offerto tuttavia una corposa serie di relazioni preliminari, anch’esse pubblicate nell’Annuario della Scuola archeologica di Atene.

La passione musicale, i riconoscimenti, gli ultimi anni

Beschi poté vantare, fra l'altro, straordinarie competenze musicali. La musica accompagnò la sua vita fin dall’epoca in cui, ancora giovanissimo, si esercitava a suonare l’organo, uno strumento che ha conosciuto quasi a livello professionale alla pari con le migliori composizioni musicali dell’età barocca. Su Johann Sebastian Bach ha avuto occasione di intervenire più volte, dando sfoggio di una competenza al medesimo livello di quella archeologica. Non sarebbe comprensibile il suo percorso culturale senza tener conto della componente musicale; ed è il motivo per cui una parte non limitata della sua produzione scientifica sia stata dedicata alla musica, sia sulla sua importanza nella paideia greca, sia con una serrata analisi di determinati strumenti musicali scoperti durante scavi o ricostruibili attraverso il repertorio figurativo, sia ancora sulla sua funzione nella formazione culturale del fondatore dell’archeologia moderna, Johann Joachim Winckelmann.

Membro della Neue Bachgesellschaft di Lipsia (1961), fu inoltre socio dell’Accademia del Dipartimento del Mella, poi Ateneo di Brescia (1973); socio dell’Istituto archeologico germanico (1977); socio nazionale dell’Accademia nazionale dei Lincei (1980); socio dell’Accademia pontificia di archeologia (1985); socio della Società di scienze lettere ed arti di Napoli (1982); membro dell'Ateneo Veneto di scienze e lettere (1986) e della Deputazione di storia patria di Venezia (1990); socio dell’Accademia delle Arti del disegno (1989) e dell’Accademia “La Colombaria” di Firenze (1992); socio dell’Istituto nazionale di studi etruschi (1994); socio onorario della Società archeologica di Atene (1987) e della Società “Amici dell'Acropoli” (1999). Ha ricevuto la laurea honoris causa presso l’Università di Salonicco (1997). È stato nominato cittadino onorario di Kontopouli, nell’isola di Lemno (1986). È stato insignito con la medaglia d’oro di “Benemerito della Cultura” conferitagli dal Ministero dei Beni culturali (2000).

Negli ultimi anni della sua vita, per ragioni di salute aveva dovuto ridurre in maniera rilevante le sue attività. Per un uomo energico e attivo, provetto scalatore, l’obbligatoria inerzia è stata un dramma mitigato solo dalla partecipazione dei suoi amici più cari e dalla costante presenza della moglie. Ad Atene volle vivere il resto della sua vita, dopo aver chiuso i suoi anni d’insegnamento a Firenze. Nella casa ateniese di Caterina e Luigi a Mavromichali 87 era un’abitudine, alla fine dell’anno, brindare con gli amici chiudendo la serata con un concerto. I brani musicali erano accuratamente scelti, così come l’impostazione delle locandine nelle quali, insieme con le immagini di musici tratte dal Museo Armonico di Filippo Bonanni, compariva un logo con una spinetta e la legenda «Curarum Levamen».

Morì ad Atene, nella sua abitazione, il 16 luglio 2015.

Luigi Beschi è stato capace di dominare più rami del sapere umanistico, cosciente che l’archeologia fosse parte integrante di una storia globale nella quale andrebbero ripudiate «le guardie confinarie delle cosiddette discipline», come ebbe a dire Aby Warburg, e naturalmente, si potrebbe aggiungere, tutte le deprecabili divisioni interne dell’archeologia classica nate da un tecnicismo fine a se stesso, senza sbocchi culturali. Nella sua visione archeologica e storica non sono esistite, o sono ridotte al minimo, queste separazioni che hanno il loro limite nell’incapacità di ricondurre a una solida unità culturale le informazioni, per loro natura frammentarie, desunte dalle fonti storiche ed epigrafiche, dall’archeologia, dalla storia dell’arte antica e moderna, e dalla documentazione d’archivio.

Fonti e Bibliografia

La bibliografia di Luigi Beschi è raccolta in Giornata di studi nel ricordo di L. B.: italiano, filelleno, studioso internazionale, Atti… 2015, a cura di E. Greco, Atene 2017, pp. 11-26, che aggiorna quella edita in Έπαινος  L. B., Επιστημονική επιμέλεια (Μουσείο Μπενάκι 7 Παράρτημα), a cura di A. Delivorrias - G. Despinis - A. Zarkadas, Αθήνα 2011, pp. XXV-XXXI. Sulla biografia e le opere: Μ. Τιβέρι;ος, Η ακαδημαϊκή σταδιοδρομία και το έργο του L. B., in Εγνατία V (1995-2000), pp. 143-149; Α. Μάντης, Ο L. B. και η Ακρόπολη. Το αμφίγλυφο του Τηλεμάχου, in Ανθέμιον, VI (2000), pp. 33-39; L. Lepore, Gli anni fiorentini di L. B., in Civiltà bresciana, II (2003), pp. 23-30; A. Zarkadas, Το συγγραφικό, ανασκαφικό και διδακτικό έργο του καθηγητή L. B., in Έπαινος, 2011, cit., pp. XIII-XX; G. Despinis, Λίγα λόγια για την προσφορά του L. B. στην έρευνα της Κλασικής Αρχαιολογίας, ibid., pp. XXI-XXIV; S. Settis, Intreccio greco di arte e vita, in Il Sole-24 ore, 9 agosto 2015.

TAG

Francesco maria ii della rovere

Accademia nazionale dei lincei

Johann joachim winckelmann

Ferdinando ii de’ medici

Convento dei cappuccini