BLANCH, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)

BLANCH, Luigi

Nino Cortese

Nato a Lucera il 29 marzo 1784 da Raimondo, che ivi era commissario di guerra, e da Teresa Brown, entrò nell'aprile 1793 nell'Accademia militare della Nunziatella. Costretto a uscirne nel gennaio 1799, quando i Francesi occuparono Napoli e vi instaurarono il regime repubblicano, il B. ritornò presso la famiglia, allora residente a Matera, ove ebbe modo di assistere alle alterne sanguinose insurrezioni giacobine e realiste. Durante la prima restaurazione, sebbene suo padre fosse stato processato e condannato per false accuse di giacobinismo, il 19 luglio 1801 fu accolto nel 2º battaglione dei granatieri reali della guardia; promosso nel 1804 secondo tenente, partecipò alla campagna del 1806 contro i Francesi. Fatto prigioniero nella battaglia di Campotenese (9 marzo), disastrosa per i Napoletani, fu condotto in Francia; solo il 28 genn. 1807 ebbe il permesso di ritornare in patria, ove entrò nel nuovo esercito organizzato da Giuseppe Bonaparte, il quale si riprometteva evidentemente di guadagnarsi il favore delle famiglie più in vista del Mezzogiorno come era quella dei Blanch. Aiutante di campo del generale Strolz nella repressione del moto filoborbonico scoppiato in Calabria (marzo 1808), il B., quando il Murat riordinò i reparti militari, fu nominato tenente nel reggimento dei veliti a piedi della guardia (12 dic. 1808). Dopo aver partecipato al fallito tentativo di togliere la Sicilia agli angloborbonici (1810), fu promosso il 4 nov. 1811 capitano del 2º reggimento dei veliti e inviato nell'aprile 1812 di rincalzo all'armata napoleonica impegnata nella campagna di Russia. Il suo reparto, giunto a Danzica il 17 ottobre e di là trasferito a Vilna alla metà di novembre, contribuì a difendere la ritirata degli ultimi resti dell'esercito napoleonico contro i continui attacchi dei Cosacchi. Ritornato in Italia, fu addetto il 15 marzo 1815 allo Stato Maggiore della divisione di fanteria della guardia comandata dal generale Francesco Pignatelli di Strongoli, partecipando alla sfortunata campagna antiaustriaca di G. Murat. Dopo il trattato di Casalanza continuò a prestare servizio nell'esercito borbonico, ma ottenne nel dicembre 1816 di non essere impiegato in alcun corpo attivo.

Il B. poté così dedicarsi agli studi ed effettuare nel 1819 un lungo viaggio in Germania, Austria e Svizzera, entrando in rapporti con il Sismondi, il Bubna e il principe di Schwarzenberg, il quale ultimo lo spinse a scrivere il saggio storico Colpo d'occhio sulla campagna di Napoli del 1815 (rimasto inedito, è ora in Scritti storici, I, pp. 293-387), in cui mostra una raggiunta maturità di giudizio nell'analisi delle cause che avevano portato alla caduta del Murat.

Tra il 1815 e il 1820 il B. non nascose la sua avversione alla carboneria e alle agitazioni democratiche, confermando la sua adesione al programma del liberalismo moderato napoletano che caldeggiava uno sviluppo graduale delle istituzioni ereditate dal regime murattiano. Presentendo un moto rivoluzionario, indirizzò allora al ministro Medici una Memoria sullo stato del Regno sotto l'aspetto politico (20 maggio 1820), consigliando le riforme atte a scongiurare il pericolo, nella convinzione che "bisogna sotto un governo regolare cercare di conservarlo e di perfezionarlo lentamente; e così d'accordo con le leggi della natura evitare i mali che la stasi produce e che le convulsioni fanno nascere".Scoppiata nel luglio la rivoluzione, il B., rientrato in servizio attivo, diede una piena adesione al nuovo governo, formato da elementi murattiani, i quali - rappresentanti degli interessi della capitale e dell'alta borghesia terriera e diffidenti nei confronti del movimento carbonaro, espressione della piccola borghesia provinciale, dell'artigianato e degli ufficiali inferiori, e non alieno da una nuova distribuzione della proprietà fondiaria - si preoccupavano anzitutto di ottenere dall'Europa il riconoscimento del nuovo regime riducendo al minimo le sue differenze dall'antico. Diffusasi alla fine d'agosto la voce che gli Austriaci avanzavano contro il Regno, il governo, prima di attuare gli energici provvedimenti richiesti dai carbonari, inviò il B. in missione all'estero per attingere informazioni sull'atteggiamento che avrebbero assunto i governi italiani ed europei. Dopo essere stato a Roma, a Torino, in Svizzera, nel Baden, nel Württemberg e in Francia, il B., nel rapporto conclusivo presentato l'11 ott. 1820, non nascondeva il suo scetticismo sulle sorti del moto costituzionale napoletano, che non poteva contare su un'attiva cooperazione italiana in caso di guerra, tanto più che - secondo le sue insinuazioni - gli stessi liberali temevano "che gli eccessi, che prevedono, discreditino questa causa presso i pacifici".

Al suo rientro a Napoli, nominato maggiore (dicembre 1820) e addetto, dal febbraio 1821, allo Stato Maggiore del generale Carascosa, il B. caldeggiò invano la necessità di intavolare trattative con l'Austria per evitare una disfatta. Dopo l'ingresso in Napoli degli Austriaci, abbandonò definitivamente la carriera militare (16 giugno 1821), rivolgendo la sua meditazione ai problemi politici del Regno.

Nel 1821 scrisse la Memoria sugli avvenimenti del Regno di Napoli al 1821 (in Scritti storici, II, pp. 174-229), nella quale ricostruì le dolorose vicende cui aveva partecipato, ricercandone le cause nelle condizioni morali dell'esercito e del paese, e nel 1822 il Mémoire sur la Sicile e il Mémoire sur le Royaume de Naples, su richiesta dell'ambasciatore francese a Napoli conte de Serre, che li presentò al congresso di Verona (furono editi anonimi nella Correspondance du comte de Serre, VI, Paris 1882, pp. 293-390).

Dagli studi cercò di trarre una rinnovata fiducia nell'avvenire ed una conferma del programma politico cui aveva aderito negli anni precedenti: così nel 1822 vedeva in Aristotele (Analisi della "Politica", inedita, presso la Biblioteca della Società napoletana di storia patria) "il germe del sistema moderno, più che le libertà del Medio Evo", e nel Vico (Analisi della "Scienza nuova", ibid.) "il precursore degli avvenimenti attuali", quasi il costituzionalista del 1820-21, che riteneva necessaria una monarchia costituzionale spiccatamente borghese, avversa agli elementi democratici, e perciò con due assemblee e un elettorato fondato sul censo. Definitivamente respinta era la costituzione spagnola del 1812 che "poteva disgustare dal regime costituzionale e non renderlo solido, né prepararlo".

Nell'aprile 1823 il B. fu esiliato da Napoli sotto l'accusa di propagare principi sovversivi con la diffusione dei suoi manoscritti; ma forse l'attenzione del governo su di lui era stata attirata dalla pubblicazione dei Mémoires historiques politiques et militaires du Royaume de Naples en 1820 et 1821 (Londres 1823) del Carascosa, che lo citava come suo collaboratore nella guerra del 1821 ed estensore di alcuni scritti su quegli avvenimenti. A Parigi, dove visse per più di un anno, strinse amicizia con il Guizot, che lo invitò a scrivere per la Revue européenne quattro articoli sulle condizioni politiche dell'Italia, che non furono poi pubblicati per la soppressione della rivista. Trasferitosi, quindi, per breve tempo a Roma, nel novembre 1825 il B. ottenne il permesso di ritornare a Napoli.

Durante il soggiorno romano scrisse, lasciandoli inediti, alcuni interessanti appunti critici alla Storia d'Italia dal 1789 al 1814 del Botta. Avversando le anacronistiche simpatie per un'idealizzata Repubblica di Venezia, in cui il Botta scorgeva presenti le istituzioni adatte ai bisogni degli Italiani, il B. notava che la rivoluzione, accelerando lo sviluppo della società italiana, aveva sanzionato la decadenza della nobiltà come classe dirigente: il sistema aristocratico veneziano non era, perciò, più adeguato a risolvere i problemi di uno Stato moderno. L'Italia, invece - secondo il B. -, trovandosi allora nelle stesse condizioni sociali della Francia, doveva, come aveva fatto questa, creare una nuova aristocrazia capace di governare. L'obiettivo lontano da perseguire era perciò una monarchia rappresentativa: ma essendo pericolosa l'illusione di poter affrettare il corso della storia, l'unità italiana era da attendersi non come il risultato di una somma di rivoluzioni locali, ma dalla graduale eliminazione degli stati minori, che riducesse sempre di più il frazionamento politico della penisola, e da contingenze europee che permettessero la definitiva riduzione ad uno solo. Per il momento occorreva migliorare le condizioni di vita nei singoli stati; e questo compito era riservato ai governi, che dovevano elargire riforme amministrative e intensificare gli scambi commerciali per accrescere il benessere del paese.

Queste convinzioni politiche moderate furono rafforzate nel B. dall'adesione all'eclettismo del Cousin, il quale sosteneva anche nel campo politico l'idea del progresso ed esaltava la carta costituzionale concessa da Luigi XVIII alla Francia come prova che anche dopo Waterloo la civiltà europea non aveva indietreggiato, ma anzi continuava a svilupparsi additando all'Europa la conciliazione fra monarchia e liberalismo. Più ancora lo confermò nel suo ottimismo la monarchia creata in Francia da Luigi Filippo in seguito alla Rivoluzione di luglio, nonostante le gravi ripercussioni che v'erano state in molti stati europei ed italiani. Soprattutto non dispiaceva al B. la politica interna seguita dal sovrano francese per legare la borghesia ad un regime che, con le innumerevoli concessioni in suo favore, le aveva assicurato una posizione di privilegio. Un simile programma il B. consigliava di attuare a Ferdinando II, appena salito al trono, nel dicembre del 1830 in una Memoria sullo Stato del Regno di Napoli (in Scritti storici, II, pp. 303-334): "Le speculazioni commerciali occuperanno gli spiriti, la vendita delle derrate... accrescerà la ricchezza e il benessere. I popoli, occupati in una prosperità crescente, governati con giustizia, comparando il loro stato con quello delle altre nazioni, agitate da guerre interne ed esterne, benediranno il giovine monarca, al quale dovranno tanti beni. La disposizione comune sarà l'attaccamento al Governo, la sua conservazione e la sua lenta e metodica perfezione".

Queste idee del B., il quale riponeva ogni speranza nella adesione e collaborazione dei sovrani, non andavano oltre il riformismo settecentesco: egli non sentì, in effetti, alcun influsso dei nuovi ideali romantici della libertà e della nazione.

Il periodo 1830-1848 fu il più fecondo del B. storico. Del 1830 è il saggio su Luigi de' Medici come uomo di stato ed amministratore, rimasto allora inedito (fu pubblicato la prima volta da N. Cortese in Arch. stor. per le prov. napoletane, L[1927], pp. 1-198).

In esso il ministro di Ferdinando I è lodato per il senno e il metodo con cui aveva amministrato il paese, ma giudicato mediocre uomo di stato per l'"indolenza nello studiare la società, disprezzo per l'umana specie e incapacità a comprenderne i bisogni morali". Il Medici, secondo il B., non era riuscito a gettare le basi per la rigenerazione della monarchia borbonica, nel momento in cui si apriva una nuova era, e non si era adoperato sufficientemente ad eliminare le cause "che hanno prodotto lo straordinario e triste fenomeno di un paese che, per la sua situazione, il suo clima, la bontà delle sue produzioni ed il raro ingegno dei suoi abitanti, era fatto per godere dei vantaggi inerenti a questi primitivi elementi esistenti nel suo seno, e che pure non è né ricco, né forte, né indipendente, né progressivo in civiltà e cause che - per il B. - sono da individuarsi nella dominazione straniera diretta e indiretta, nella influenza della corte di Roma sotto il doppio aspetto temporale e spirituale, nel governo feudale col carattere che gli avevano dato le circostanze del paese. Il Medici, se non aveva fatto nulla per ristabilire la feudalità (e questo era positivo), aveva consolidato l'influenza straniera con l'articolo segreto del congresso di Vienna che concedeva all'Austria di determinare quale dovesse essere la politica interna del Regno di Napoli e aveva rafforzato l'invadenza della Curia romana con il concordato del 1818, considerato dal B. una capitolazione dello Stato. In sostanza il B. rimproverava al governo Medici di non aver avuto "né principi attinti ai suoi doveri verso la società, né fermezza di seguirli", cosicché aveva reso inevitabile la rivoluzione del 1820.

Dal 1832 - dopo aver scritto la breve Memoria sulla questione dello Stato romano (in Scritti storici, II, pp. 335-351), in cui vedeva come unica possibile soluzione dei moti rivoluzionari ivi verificatisi il graduale smembramento dello Stato con l'annessione delle Legazioni alla Toscana e delle Marche al Regno di Napoli - il B. iniziò una nutrita attività pubblicistica, collaborando alla rivista fondata in quell'anno da G. Ricciardi, Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, in cui inserì i nove discorsi Della scienza militare considerata nei suoi rapporti con le altre scienze e con il sistema sociale, raccolti poi in volume (Napoli 1834).

In questa opera sviluppò un disegno già vagheggiato nel 1804, allorché dallo studio della scienza militare era stato tratto ad ampliare le sue indagini e a ritrovare "i rapporti della guerra con lo stato sociale", cioè scrivere una storia militare che considerasse la guerra "espressione della società". Il volume pubblicato dal B. rappresentava però soltanto un primo schema - in cui la tesi fondamentale era frequentemente ricordata ma non provata - della grande storia militare che per il momento era aggiornata indefinitamente. In realtà, come osserva il Croce, al B. difettava lo spirito sistematico del filosofo, cosicché, non essendo riuscito a chiarire a se stesso in che modo ed entro quali limiti la guerra dovesse intendersi la risultante delle condizioni politiche, sociali ed economiche della società, s'era imbattuto nel gravoso, e per lui poco allettante, compito di dover narrare la storia dell'umanità nel suo complesso (cfr. P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, p. 161). La Scienza militare ebbe, comunque, gli elogi del teorico militare svizzero A. E. Jomini - di cui il B. può essere considerato in parte un seguace (mentre non mostra di conoscere il Von Kriege di C. von Clausewitz) -, del generale Oudinot, del capitano de La Barre Duparcq, e conobbe una traduzione francese a cura del capitano Haca (Paris 1854).

Dal 1835 il B. iniziò la collaborazione all'Antologia militare, fondata da A. Ulloa, con alcuni articoli sulle guerre e i condottieri del periodo rivoluzionario e con recensioni varie. Nel Progresso si occupò anche di problemi economici e filosofici (cfr. Miscellanea di economia pubblica, di legislazione e di filosofia estratta dal "Progresso", discorsi tredici, Napoli 1836). Infine dal 1841 collaborò al Museo di letteratura e filosofia (poidal 1843 Museo di scienza e letteratura) con altri scritti storici, filosofici e politici.

Tra i molti inediti di questo periodo un posto di rilievo occupa il saggio storico Alcune memorie su' fatti accaduti nel Regno dalla pace di Firenze all'invasione de' Francesi vale a dire dalla primavera del 1801 a quella del 1806 (pubblicato a cura di M. Schipa nell'Arch. stor. per le prov. napoletane, XLVII [1923], pp. 5-254), compiuto nel 1841 e riveduto nel 1846, in cui il B. voleva provare che quel quinquennio, trascurato in generale dagli storici, "conteneva in sé la dissoluzione di tutte le basi sulla quale era fondata l'antica monarchia, e rendeva necessario il passaggio dalla forma feudale all'amministrativa, quale oggidì ci regge". Nell'esame degli avvenimenti il B. sa dare il debito posto tanto all'azione dei singoli (acuto il ritratto di Carolina d'Austria) quanto dei gruppi sociali.

Alcuni interessanti articoli, apparsi nel Museo, tra il 1844 e il 1847, ci presentano l'ideale storiografico del B., che subì soprattutto l'influenza del Vico e del Machiavelli, le cui opere meditò lungamente. Nella Guerra sociale e la congiura di Catilina (n. s., II [1844], n. 13, pp. 3 ss.) - recensione all'Essai sur la guerre sociale et la conjuration de Catilina, Paris 1844, di P. Merimée - il B. afferma che lo storico è spinto alla ricostruzione del passato dal fatto che, a grande distanza di secoli, i popoli ritornano ad affrontare, pur in circostanze diverse, gli stessi problemi, in quanto la natura umana è immutabile. In Polibio considerato come storico (n.s., II [1845], n. 20, pp. 305 ss., ora in Scritti storici, III, pp. 173-190) il B. trattò con maggiore approfondimento del compito dello storico, che deve far predominare l'elemento logico su quelli artistici e drammatici e dev'essere "fonte di sapienza per l'intelligenza de' fatti che costituiscono le vicende delle nazioni". Nella narrazione degli avvenimenti egli deve dare risalto al principio di causalità e sostituire la verità all'errore, anche a costo di far cadere molte illusioni. Amaro e doloroso - egli nota - fu il compito di Polibio, che volle spiegare ai suoi concittadini le vere cause delle vittorie romane, ma lo storico ha la sua difficile missione da compiere e per meritare la stima dei posteri deve talvolta essere considerato dai concittadini nemico della patria. Naturalmente il B. sentì in Polibio un'affinità spirituale e un'analogia di posizione (cfr. A. Omodeo, rec. a Scritti storici, in Quaderni della Critica, I [1945], n. 3, pp. 72-81), volto come era a considerare lontana dalla realtà l'immediata riscossa della nazione italiana. In un saggio su Giulio Cesare (n.s., IV [1847], pp. 49 ss., 283 ss., ora in Scritti storici, III, pp. 201-218), nell'analisi delle figure di Vercingetorige, eroico difensore delle tradizioni patrie e sordo ad ogni calcolo futuro, e di Diviziaco, che sogna per il suo popolo un avvenire migliore, affascinato dalla civiltà greco-romana, gli si presentava il contrasto fra dovere "positivo" e dovere "speculativo". Il contrasto era risolto dal B., sempre restio alle risoluzioni audaci, a favore del primo, poiché è l'uomo che ubbidisce ai doveri positivi ha un vantaggio su quello che si dirige secondo i doveri speculativi, su contingenze future incerte, perché l'uomo è troppo limitato da allargare la sua sfera d'azione di là dei doveri che sono a lui prossimi". Era una conclusione rinunciataria e conservatrice, antitetica alla religione mazziniana del dovere che scaturiva dalla coscienza di una vocazione. Per il B., invece (cfr. Della coscienza, in Museo..., s. 3, V [1857], pp. 201 ss.), la coscienza non deve essere "subiettiva", ma deve assoggettarsi, per limitare le proprie responsabilità, ad una legge morale oggettiva dipendente dal rapporto con gli oggetti esteriori che le debbono dare norma con una legge immutabile (cfr. B. Croce, Saggio intorno a un concetto storiografico di L. B., in Scritti storici, II, p. 412).

A questi principî teorici il B. si ispirò durante la rivoluzione del 1848, che lo restituì per breve tempo alla vita politica. Rimanendo fedele al suo vecchio programma moderato, approvò la costituzione redatta dal Bozzelli sul modello della carta francese del 1830, ritenendola la più adatta alle condizioni del Mezzogiorno; ma la sua fiducia fu scossa dalla rivoluzione parigina del 24 febbr. 1848 e dalle richieste dei democratici napoletani, che esigevano delle riforme in antitesi con la costituzione appena elargita e la partecipazione alla guerra contro l'Austria, mentre era in atto il moto separatista siciliano. Nel febbraio 1848 il B. rifiutò una collaborazione fissa al Tempo, quotidiano fondato da C. Troya, evidentemente per non legarsi all'indirizzo politico del giornale, da lui considerato troppo a sinistra. Si limitò ad inserirvi due articoli Le concessioni (n. 14, 10 marzo) e Del ministero (n. 19, 16 marzo), in difesa del governo presieduto dal Maresca duca di Serracapriola - che la stampa radicale attaccava violentemente -, dichiarando illogica ogni opposizione fin quando il Parlamento non avesse espresso la sua opinione. Rimase fedele, invece, per i suoi studi storici e politici di maggior mole al Museo, mentre preferì inserire qualche articolo più polemico nell'Omnibus di V. Torelli. Caduto il Serracapriola per il fallimento della sua politica nei riguardi dell'insorta Sicilia e per le pressioni del partito radicale, e falliti i tentativi compiuti da F. Pignatelli di Strongoli e quindi da G. Pepe per formare un ministero che avesse un programma accettabile al tempo stesso dal sovrano e dai radicali, il B., interpellato da Ferdinando II, consigliò di richiamare il Serracapriola contro le pressioni dei democratici. Il suo parere non fu accolto e il sovrano preferì affidare al Troya l'incarico di formare un nuovo gabinetto con un programma intermedio, alla cui formulazione, comunque, partecipò anche il B. (3 apr. 1848). Quando però si annunziò l'invio nel Veneto di G. Pepe con un contingente napoletano, il B., in tre articoli pubblicati nell'Omnibus del 15 aprile, 22 aprile, 6 maggio (Della guerra di Lombardia), presenetta posizione contro una guerra offensiva, sostenendo che sarebbe stato un grave errore tattico spedire delle truppe al di là dell'Adige e consigliando di tenerle alla destra dell'esercito piemontese, affinché potessero proteggere l'Italia centro-meridionale da un eventuale attacco austriaco. Il suo punto di vista, che gli attirò le critiche dei liberali, fu accolto in una riunione cui partecipò anche il ministro della Guerra Pepe, cosicché il piano della spedizione fu modificato.

Eletto deputato nella consultazione del 30 aprile, il B. partecipò alle prime sedute del Parlamento e fu rieletto anche dopo i tragici avvenimenti del 15 maggio: ma già nell'agosto presentò le sue dimissioni, rinnovate nel gennaio 1849 e accolte nella seguente seduta del 17 febbraio. Incapace di modificare le sue antiche prevenzioni sulla democrazia e spaventato dalla possibilità dell'avvento di una "dittatura socialista", il B. nel 1848-49 non fu in grado di comprendere il significato della lotta per l'indipendenza e l'unità d'Italia. Ugualmente non si rese conto della sterilità della reazione seguita al 1848-49, che anzi cercò di giustificare, contro le accuse del Gladstone, come necessaria per difendere l'ordine sociale turbato dalla rivoluzione. Scettico sulla possibilità di creare a Napoli un governo costituzionale, mancando una classe intermedia ("aristocrazia") capace di garantirne la stabilità, il B. finiva per auspicare il ritorno a un dispotismo illuminato di tipo murattiano o addirittura l'occupazione del Regno da parte di una "nazione più civile", quale l'Inghilterra, la Francia o l'Austria. Ritornato agli studi preferiti, fu particolarmente fecondo nel biennio 1856-57, collaborando al Museo, al Diorama e al Giornale degli economisti. Quindi, dopo il 1860, si chiuse nel silenzio. Morì a Napoli il 7 ag. 1872.

Fonti e Bibl.: Per un elenco degli scritti editi ed inediti del B. (conservati questi ultimi nella Biblioteca della Società napoletana di storia patria), si rimanda alla bibliografia di N. Cortese in L. Blanch, Scritti storici, a cura di B. Croce, III, Bari 1945, pp. 385-413. Per notizie biogr.: G. Giucci, Degli scienziati ital. formanti parte del VII Congresso in Napoli, Napoli 1845, p. 162; N. Ferrarelli, Cenni biogr. di L. B., in Il Piccolo di Napoli, 8 ag. 1872; Id., Mem. milit. del Mezzogiorno d'Italia, Bari 1911, pp. 55, 90, 102, 104, 110, 131 s., 180; E. Rocchi, L. B. e l'evoluz. della scienza della guerra, in Riv. mil. ital., XLIV (1889), pp. 5-27; N. Cortese, L. B. ed il partito liber. moderato napol., in Arch. stor. napol., XLVII (1922), pp. 255-312 (ora in Il Mezzogiorno ed il Risorg. ital., Napoli 1965, pp. 273-325); Id., Due aspetti della storia del Risorgimento italiano ed una premessa, Napoli 1948. In particolare, sulla parte che il B. ebbe nel regime costituzionale del 1820-21, M. Carrascosa, Mémoires sur la révolution du Royaume de Naples en 1820 et 1821, Londres 1823, pp. 340-393, passim; docum., pp. 412-471; G. Pepe, Mem. intorno alla sua vita, I, Lugano 1847, pp. 469 s.; D. Spadoni, Una trama ed un tentativo rivoluz. dello Stato romano nel 1820-21, Roma 1910, pp. 263 s.; G. Paladino, La missione di T. Pescara a Torino nel 1820-21, Torino 1921, pp. 10 ss.; M. Manfredi, La missione Blanch,Pisa e Tupputi nel 1820, in Samnium, XXXVI (1963), pp. 127-137; A. Lepre, La rivoluzione napoletana del 1820-21, Roma 1967, pp. 12 s., 312 s. Sulla partecipazione del B. agli avvenimenti napoletani del 1848-49: G. Massari, I casi di Napoli dal 29 genn. 1848 in poi, Torino 1849, pp. 107 ss.; G. Ulloa, Brevi cenni sulla spediz. del corpo di esercito napoletano nell'ultima guerra d'Italia, Torino 1856, pp. 15-17; P. S. Leopardi, Narraz. stor., Torino 1856, p. III; G. Paladino, Il governo napoletano e la guerra del 1848, Milano 1921, pp. 51 ss. Per i giudizi politici del B. sulla situazione ital. ed europea dopo il 1848: W. Nassau Senior, L'Italia dopo il 1848..., Bari 1937, pp. 122 s., 171 s., 175-178. Sugli scritti e sul pensiero del B.: P. Calà Ulloa, Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du Royaume de Naples, II, Genève 1860, pp. 384 s.; T. Pateras, Opinioni di diversi autori intorno a L. B., in L. B., Scienza militare, Napoli 1869, pp. 137-140; G. Ferrarelli, Lista di molti lavori militari di L. B., in Schizzi, Napoli 1871, pp. 55-59; N. Marselli, La guerra e la sua storia, Roma 1875, pp. 29-32; G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli 1903, pp. 281-283; B. Croce, Storia della storiogr. ital. del sec. XIX, Bari 1921, pp. 18-27; G. De Ruggiero, Il pensiero polit. meridionale nei secc. XVIII e XIX, Bari 1922, pp. 253 s., 270-272; P. Pieri, L. B.: il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Arch. stor. ital., s. 7, II (1924), pp. 279-292; B. Croce, Saggio intorno ad un concetto storiografico di L. B., in L. B., Scritti storici, II, pp. 397-422; G. Pepe, Gli scritti storici di L. B., Manduria 1947; Id., L. B. storiografo e pensatore politico, in Rassegna d'Italia, II (1947), pp. 131-145; W. Maturi, Interpret. del Risorgimento, Torino 1962, pp. 66, 73, 91-117, 129 s., 174 s., 181, 212 s., 305, 529, 655; P. Pieri, Storia milit. del Risorg., Torino 1962, ad Indicem.

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