FRANSONI, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 50 (1998)

FRANSONI, Luigi

Giuseppe Griseri

Nacque a Genova il 29 marzo 1789 dal marchese Domenico e da Battina Carrega.

Nel 1797, in seguito all'occupazione francese di Genova, la famiglia si trasferì dapprima a Firenze, poi a Jesi nelle Marche, quindi a Roma, dove si trattenne per circa un decennio. Nel 1810 era di nuovo a Firenze e soltanto nel 1814 poté rientrare a Genova.

Il F. vestì l'abito chiericale e venne ordinato sacerdote l'11 dic. 1814. Iscrittosi alla Congregazione dei missionari urbani, attese alla predicazione di esercizi spirituali in varie località della diocesi. Nominato vescovo di Fossano da re Carlo Felice, fu preconizzato nel concistoro del 12 ag. 1821 e fece l'ingresso in diocesi il 2 dicembre successivo.

La sua attività pastorale fu caratterizzata da un disegno di restaurazione religiosa, riconducibile in qualche misura al clima politico culturale conseguente alla repressione del moto costituzionale del marzo 1821. Godeva della piena fiducia del re Carlo Felice, che lo chiamò a far parte della commissione istituita per procedere a un'equa ridistribuzione dei beni ecclesiastici già confiscati durante l'occupazione francese. Il sovrano apprezzò l'impegno e l'equilibrio dimostrati nella circostanza e, allorché l'operato della commissione fu approvato con breve pontificio del 14 maggio 1828, volle ancora avere il F. tra i membri della commissione incaricata di dare esecuzione agli accordi intervenuti. Questi incarichi, sebbene lo costringessero a trattenersi per lungo tempo a Torino, non gli impedirono di interessarsi ai problemi della sua diocesi. Eseguì una visita pastorale, eresse sette nuove parrocchie e le dotò con i fondi resi disponibili dalle intese del 1828, assegnò alle monache benedettine i locali dell'ex convento dei minori osservanti, s'adoperò per il ritorno dei cappuccini in Fossano.

Quando venne a mancare l'arcivescovo di Torino C. Chiaverotti, in seguito a designazione effettuata da re Carlo Alberto, il F. ricevette con breve pontificio del 12 maggio 1831 la nomina di amministratore apostolico della diocesi torinese. L'anno seguente, con bolla del 24 febbraio, fu trasferito definitivamente alla sede metropolitana e con altra bolla del 25 ebbe la nomina ad amministratore apostolico della diocesi di Fossano, incarico che mantenne sino al 1836.

Le sue prime cure pastorali furono rivolte a diffondere l'istruzione catechistica e ad accrescere il decoro delle sacre funzioni. Si preoccupò pure di richiamare il clero secolare a una più rigorosa osservanza della disciplina ecclesiastica, ma di fronte alle resistenze opposte da alcuni sacerdoti non seppe dimostrare, secondo il Chiuso, molta fermezza ed energia.

Intanto già si andavano delineando i primi contrasti fra il potere civile e quello religioso. E se a proposito degli atti di stato civile, che si sarebbero voluti togliere dalle mani del clero, il F. si era limitato a diffondere un'istruzione pontificia sulla tenuta dei libri parrocchiali (23 ag. 1836), per due casi di presunta violazione del diritto di immunità ecclesiastica il conflitto si fece più aspro.

Nel primo caso si trattava dell'arresto e della condanna a morte di un frate omicida pronunciata da un tribunale dello Stato senza il preventivo consenso dell'autorità ecclesiastica (1840). L'arcivescovo aveva ufficialmente protestato presso il governo e ne aveva informato la S. Sede. Maggiore clamore suscitò il secondo caso. Nel 1844 la figlia minorenne del ministro d'Olanda presso la corte di Torino, C. Heldewier, aveva deciso di abiurare la fede protestante e di abbracciare quella cattolica, rifugiandosi presso il monastero delle canonichesse lateranensi di S. Croce. Il padre pretese che la figlia tornasse sotto la sua tutela e fosse tratta a viva forza dal monastero, ma il governo sardo rifiutò decisamente di intervenire, motivandolo con il rispetto dell'immunità ecclesiastica e del diritto naturale dell'interessata.

Dalla vicenda era emersa una coincidenza piena di idee e di intenti fra il F. e il primo segretario di Stato per gli Affari esteri, C. Solaro della Margarita. L'accordo tra i due uomini durò a lungo, ma non evitò che sorgessero altri motivi di contrasto e forse non giovò neppure a migliorare, in definitiva, i rapporti tra il F. e il sovrano. Nel 1836 il conflitto fra le due autorità si riattizzò in seguito all'emanazione di un editto sulle Opere pie, cui si faceva obbligo di presentare i conti a una commissione di controllo nominata dal re. Il F. fece reiterate rimostranze, ma solo dopo l'intervento degli altri vescovi il provvedimento ebbe qualche attenuazione.

Il contrasto diventò patente sul problema dell'istruzione. In questo campo le posizioni dei conservatori divaricavano profondamente da quelle dei liberali e degli innovatori, ai quali si andava accostando, sia pure fra molte incertezze e contraddizioni, il sovrano. Per contro il F. e il Solaro della Margarita, pur dichiarando in linea di principio di non essere ostili alla diffusione dell'istruzione popolare, manifestavano un'aperta diffidenza verso il nuovo orientamento del governo.

Nel 1839, quando fu approvata dal governo la Società promotrice di asili e scuole infantili, sorta per iniziativa di C. Bon Compagni, il re pose come condizione che tali istituzioni fossero affidate a una corporazione religiosa. Il F. non si ritenne soddisfatto: la loro origine dai paesi anglosassoni gli aveva fatto sorgere il sospetto che fossero compenetrate di spirito protestante. E nella stessa accusa finì per coinvolgere anche il periodico Letture popolari, diretto da L. Valerio, che si era fatto portavoce dell'esigenza di contenere la spinta rivoluzionaria delle masse attraverso la diffusione dell'istruzione primaria. All'opposto, rifacendosi alle idee già espresse da J. de Maistre, nella lettera pastorale per la quaresima 1841 il F. non esitava a definire pericolosa per l'ordine pubblico la smania di leggere che si voleva eccitare in tutti.

La sostituzione di C. Provana di Collegno con D. Pasio, vescovo di Alessandria, nella presidenza del magistrato della Riforma segnò in concreto l'avvio di una nuova politica scolastica da parte del governo. La nuova nomina non ebbe l'approvazione del Solaro della Margarita e non incontrò il favore dell'arcivescovo. Il dissenso divenne aperto e clamoroso allorché fu chiamato a tenere un corso di metodo presso l'università di Torino il pedagogista F. Aporti.

Il F. emanò subito una circolare con cui si sconsigliava la partecipazione degli ecclesiastici alle lezioni. Il re reagì con insolita energia, chiedendo al Solaro della Margarita di scrivere a Roma per far censurare il prelato. Parecchi vescovi, fra i quali P. Losana di Biella, A. Charvaz di Pinerolo, C. Manzini di Cuneo e G.T. Ghilardi di Mondovì, non condividevano la posizione di intransigenza nei confronti del governo. Il Pasio, sentendosi colpito dalla censura dell'arcivescovo, abbandonò la presidenza del magistrato della Riforma.

Il F. si limitava a difendere le posizioni di privilegio sino allora godute dal ceto ecclesiastico, sottovalutando le esigenze che emergevano dalla società civile del tempo. Con la caduta del ministro Solaro della Margarita e il conseguente consolidamento della politica riformista i rapporti dell'arcivescovo con il governo e il sovrano apparvero definitivamente compromessi.

A peggiorare la situazione intervennero pure alcuni interventi del F.: il 13 nov. 1847 inviava ai parroci della diocesi una circolare per autorizzarli a cantare il Te Deum, in ringraziamento a Dio per le riforme concesse dal sovrano, ma con un poco opportuno richiamo ai moti del 1821 invitò il clero a tenersi lontano dalle riunioni e dalle manifestazioni pubbliche. Un analogo divieto impose ai seminaristi sino a escludere dal conferimento degli ordini minori quelli che non ottemperarono al suo ordine. Il distacco dall'opinione pubblica dominante apparve così incolmabile. E a far uscire il prelato da questa situazione di isolamento non giovò neppure la circolare successiva con cui autorizzava il canto del Te Deum per la concessione dello Statuto.

La situazione politica si andò rapidamente evolvendo nella direzione opposta a quella auspicata dal Fransoni. L'espulsione dei gesuiti e delle dame del S. Cuore diede agli esponenti del più acceso anticlericalismo la sensazione che il movimento riformistico potesse spingersi su posizioni radicaleggianti. Il 24 marzo 1848 ebbe luogo a Torino una manifestazione popolare contro l'arcivescovo, mentre questi usciva dal duomo dopo il Te Deum per l'avvenuta liberazione di Milano. A questo punto i moderati si convinsero a loro volta che l'allontanamento del F. dalla sede metropolitana potesse eliminare motivi di disordine e porre un freno all'elemento rivoluzionario. Sembra che anche il re fosse di questo avviso. Pertanto, il ministro degli Interni V. Ricci inviò i canonici A. Peyron e O. Bravo per indurre il F. ad abbandonare la diocesi. Questi si lasciò convincere, ma con un gesto caratteristico della sua personalità scelse di recarsi a Ginevra, onde cercare fra i protestanti, scriveva al vescovo Ghilardi, quella tranquillità che invano aveva sperato di trovare fra quei cattolici che non finivano "di cantare il Te Deum e di far celebrare funerali ai martiri della patria".

Le difficoltà sopravvenute per l'andamento della guerra con l'Austria e le vicende parlamentari precedenti e successive all'abdicazione di Carlo Alberto e alla firma del trattato di pace indussero il governo a minimizzare l'episodio, ripromettendosi di risolvere il caso mediante una trattativa diretta con la S. Sede. Nel settembre 1849, in seguito a un'interpellanza del deputato G. Siotto Pintor, venne inviato a Portici il conte G. Siccardi per chiedere l'allontanamento definitivo dell'arcivescovo.

Peraltro, il problema era diventato più complesso per il sovrapporsi della questione del foro ecclesiastico e per la richiesta di rimozione del vescovo di Asti, accusato di sodomia. E mentre il governo subalpino volle privilegiare nei negoziati il caso dei due prelati, onde togliere un'arma fastidiosa all'opposizione parlamentare di sinistra, la Curia romana, parimenti animata dall'intento di combattere il pericolo della demagogia che si stava insinuando nel sistema rappresentativo, preferì opporre una linea di intransigenza assoluta. In tale modo si rese impossibile un'intesa fra le due parti, perché discordavano nettamente nell'individuare i mezzi più idonei per combattere lo stesso pericolo (Mellano, 1964).

Il fallimento della missione Siccardi e gli scarsi risultati ottenuti con il successivo incarico affidato dalla S. Sede al vescovo Charvaz indussero il nunzio B.A. Antonucci a tentare un ultimo passo presso il ministro guardasigilli, L. De Margherita, per trovar modo di far rientrare l'arcivescovo nella sede metropolitana. Superate le difficoltà frapposte in vari ambienti, il F., che già si era portato di propria iniziativa a Chambéry, il 26 febbr. 1850 si trasferì nella villa arcivescovile di Pianezza. Di lì il 4 marzo preannunciò il suo rientro a Torino con una lettera pastorale in cui, a una dichiarazione di lealismo costituzionale richiestagli dal re, faceva seguire l'avvertimento ai fedeli perché si guardassero bene dai "falsi profeti" che coprivano "coll'apparenza di zelo i più perfidi attacchi alla religione". Era evidente l'allusione ai promotori del disegno di legge sul foro ecclesiastico, che il ministro Siccardi aveva appena presentato al Parlamento.

La rapida approvazione della legge (9 apr. 1850) pose l'episcopato di fronte al fatto compiuto. Si decise di chiedere istruzioni a Roma e, in attesa, dopo aver preso accordi con i vescovi A. Charvaz e L. Renaldi, il F. impartì alcune norme provvisorie di comportamento per il suo clero.

Egli si era limitato a invitare gli ecclesiastici, eventualmente citati davanti a un tribunale laico, a chiedere l'autorizzazione all'ordinario e a opporre l'incompetenza del foro, protestando che non intendevano pregiudicare il diritto all'immunità e che cedevano solo alla necessità. L'avvocato fiscale ordinò, comunque sia, il sequestro della circolare e il ministro dell'Interno invitò l'arcivescovo a lasciare la città, ma questi rifiutò. Citato in giudizio, subordinò la comparizione all'autorizzazione della S. Sede. Il F. venne arrestato, processato e condannato per abuso a una multa e a un mese di carcere che egli deliberatamente scontò.

Questi procedimenti formalmente legali, ma senza precedenti prossimi e sostanzialmente illiberali (Jemolo), suscitarono indignazione nel mondo cattolico subalpino. Il F. ricevette molte attestazioni di solidarietà. Papa Pio IX nell'allocuzione concistoriale del 20 maggio protestò contro la condanna.

Pochi mesi dopo, mentre la S. Sede confermava al F. che tutti coloro che avevano votato le leggi Siccardi erano incorsi nelle censure ecclesiastiche, accadde un fatto assai increscioso. Essendosi ammalato molto gravemente il ministro di Agricoltura e Commercio, P. De Rossi di Santarosa, si richiesero per lui i conforti religiosi. Il parroco si rivolse al F. e questi sottopose il caso a una commissione di teologi, la quale subordinò a una formale ritrattazione da parte del moribondo la concessione dei sacramenti. Nelle more di estenuanti trattative, durate per una settimana, il Santarosa morì, senza poterli ricevere.

Il comportamento rigido assunto dal F. provocò una dura reazione delle autorità di governo. Il 6 ag. 1850 il conte G. Ponza di San Martino, primo ufficiale del ministero dell'Interno, fu incaricato di intimare al prelato di rinunciare all'arcivescovado. Essendosi questi rifiutato, fu arrestato e tradotto nel forte di Fenestrelle, sotto l'accusa di complotto contro il Parlamento e il governo; ma, mancando le prove di questo reato, fu avviato a suo carico il processo per abuso. Non si vollero, però, escludere le trattative con Roma. Fu inviata colà una missione guidata da P.D. Pinelli per chiedere alla S. Sede di convincere il F. a rinunciare spontaneamente alla sede metropolitana oppure di procedere alla sua rimozione. Le trattative si protrassero per un mese e mezzo senza risultati positivi. Si concludeva, intanto, il processo a Torino con la condanna del F. all'esilio (25 sett. 1850). Il 28 il F. lasciò il carcere di Fenestrelle per raggiungere Lione, sede da lui prescelta per l'esilio, ospite del cardinale arcivescovo L.-J. de Bonald.

Il governo sabaudo, preoccupato per le condizioni in cui versava la diocesi torinese, tentò di farvi nominare un amministratore apostolico. Ma la proposta, avanzata alla S. Sede dal guardasigilli C. Bon Compagni (29 ott. 1851), non ottenne il consenso né del F. né del papa. Un nuovo tentativo, compiuto dopo la caduta del ministero d'Azeglio (ottobre 1852), trovò il favore del re Vittorio Emanuele II e del papa ma fallì di fronte all'intransigenza del Fransoni.

Pio IX nutriva ormai molta apprensione per la situazione della diocesi ed era intenzionato a risolvere il problema. Interprete fedele di tale stato d'animo, il segretario dei brevi L. Pacifici, dopo un colloquio con il pontefice, ne scriveva nel novembre 1852 al vescovo Ghilardi, suggerendogli di prendere al riguardo gli opportuni contatti.

Il vescovo di Mondovì, d'accordo con i colleghi, elaborò un piano che ricordava da vicino quello adottato nel 1837 per il caso dell'arcivescovo di Colonia, C.A. von Droste zu Vischering, che si era opposto al governo prussiano sulla questione dei matrimoni misti fra cattolici e protestanti. In un primo tempo il F. doveva essere reintegrato nei suoi diritti e ricevere i conti dell'economato, quindi si faceva seguire la sua promozione a cardinale simultaneamente alla rinuncia all'arcivescovado e infine si procedeva alla nomina del successore o di un amministratore apostolico. Ma i sondaggi fatti dal Ghilardi presso il F. non ebbero il risultato atteso. L'arcivescovo fu irremovibile: per rinunciare alla sede egli esigeva una formale richiesta del papa.

Il F. morì a Lione il 26 marzo 1862.

Le lotte da lui strenuamente sostenute in difesa degli interessi della Chiesa o di quelli che egli considerava tali, le condanne subite e il lungo esilio che egli sopportò sino al termine della vita lo fecero assurgere, nella tradizione dei cattolici subalpini, a simbolo della condizione politica in cui essi si erano venuti a trovare nell'età del Risorgimento.

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