GUANZATI, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003)

GUANZATI, Luigi (al secolo Giovanni Antonio)

Maurizia Alippi Cappelletti

Nacque a Romano di Lombardia, nei pressi di Bergamo, il 15 nov. 1757 da Francesco e da Rosa Pinaroli; studiò filosofia nei collegi di S. Barnaba a Milano e Pavia; vestì l'abito dei chierici regolari di S. Paolo, detti barnabiti, il 20 ott. 1774 con il nome di Luigi, e fu ordinato sacerdote nel 1780. Frequentò i corsi di matematica dello scolopio Gregorio Fontana presso l'Università di Pavia ove, nel 1786, si laureò in filosofia. Per quarant'anni si dedicò all'insegnamento di filosofia e di matematica nei collegi dei barnabiti, prima a Milano, poi a Pavia, a Casalmaggiore e a Lodi, nel collegio di S. Giovanni alle Vigne, ove ricoperse in vari periodi la carica di superiore.

Nel periodo napoleonico, in Lombardia ai barnabiti furono lasciati i soli collegi di Milano e di Monza; in quello di Lodi il Comune decise che potessero restare, come professori, alcuni religiosi, tra cui lo stesso Guanzati. Nel 1833, infine questi ebbe la carica di rettore nella nuova sede dei barnabiti in S. Francesco, che mantenne fino alla morte, avvenuta nel collegio il 9 sett. 1836. Fu sepolto nella parrocchiale di S. Salvatore.

Quali materie del suo insegnamento, temi di filosofia e di matematica sono presenti nell'attività di studioso del G.: restano, manoscritti, due volumi di fisica e di matematica conservati nella Biblioteca della chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni a Genova, un manoscritto concernente una macchina per la preparazione della canapa e del lino senza macerazione e alcune traduzioni dall'inglese. Interessi vari quindi, tra i quali spicca una ricerca sperimentale e originale del G. filosofo naturalista (come allora si diceva), di cui resta un resoconto dettagliato nella nota Osservazioni e sperienze intorno ad un prodigioso animaluccio delle infusioni (pubblicata in Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti, XIX [1796], 1, pp. 3-21). Si tratta di uno dei pochissimi, se non l'unico lavoro scientifico del G., ma i risultati delle esperienze che vi sono enunciati gli meritano un posto di rilievo tra i naturalisti italiani di fine Settecento. I temi cui ispirò il suo lavoro sono quelli trattati da L. Spallanzani, in quegli anni nella vicina Università pavese, amico ed estimatore del Guanzati.

Preparata un'infusione di radice di maro africano, il G. osserva al microscopio un "animaluccio", visibile anche a occhio nudo, che chiama Proteo, un nome coniato nel 1755 da A.J. Rösel von Rosenhof, quando descrisse quella che oggi è nota come ameba, per la proprietà di cambiare facilmente forma del corpo; resta tuttavia un dubbio, perché altre caratteristiche, accanto a quella di vivere nelle infusioni vegetali, lo farebbero ritenere un infusorio e tale il G. lo definisce; la forma più stabilmente assunta, la presenza di "peluzzi" (ciglia), il particolare modo di alimentarsi creando un piccolo vortice intorno ad una "bocca" ed "una specie di sacchetto" in prossimità di questa, sembrerebbero confermare tale supposizione. Il G. estese la ricerca al processo riproduttivo, confermando quella per scissione trasversale, la cui frequenza mette in rapporto alla temperatura.

Come altri autori, il G. sostiene la necessità di una riproduzione sessuata per assicurare la propagazione indefinita degli infusori. Per provare quanto a lungo possa proseguire la sola riproduzione agamica, introduce un metodo di controllo sul numero delle divisioni: in una goccia di acqua isola un singolo individuo eliminando poi, a ogni scissione, uno dei due prodotti. Spallanzani, non avendo mai osservato casi di accoppiamento, affermava che gli infusori potevano garantirsi una propagazione a tempo indefinito disponendo di ermafroditismo sufficiente. La teoria cellulare non era stata ancora enunciata e i naturalisti di fine Settecento parlavano di ermafroditismo e partenogenesi, di organi della generazione e di uova, nell'unicellulare infusorio come nel ragno e nell'insetto. Il G. però aveva molti dubbi in proposito: riteneva, infatti, che, in ogni caso, non di ermafroditismo si trattasse ma, eventualmente, di partenogenesi, quale si realizza negli afidi delle piante, che alternano a questa la riproduzione sessuata. Procedendo nell'indagine, diversamente e con maggior fortuna di Spallanzani, il G. osserva più volte l'accoppiamento del proteo, durante il quale due individui si uniscono per la parte anteriore del corpo, per poi separarsi. Per le reiterate osservazioni compiute e riferite del fenomeno, possiamo credere che il G. abbia realmente colto una forma di unione temporanea di questi organismi; del quale aspetto egli non si meraviglia, pronto com'è ad accettare le tante "vie" tenute dalla natura nelle sue manifestazioni, e formula l'ipotesi che gli organi riproduttivi dei due infusori siano collocati nella parte anteriore. In precedenti biografie si attribuisce pertanto al G. la scoperta della coniugazione, la tipica e unica forma di riproduzione dei Ciliati. Tuttavia, ricordando quanto detto più sopra circa l'esatta identificazione, si potrebbe congetturare che il G. abbia sorpreso una forma di fusione parziale presente nelle amebe, la plasmogamia.

Lo studio metodico e l'osservazione prolungata del proteo permettono quindi al G. di annotare anche altri aspetti della sua biologia, come la capacità regolativa della popolazione nel ristabilire l'equilibrio naturale, nel caso di un sovraffollamento, e l'effetto della temperatura sull'attività motoria.

Nelle acque stagnanti, insieme con gli infusori, e all'inizio confusi con questi, erano stati descritti altri minuscoli organismi, come i Rotiferi e i Tardigradi, che condividevano la singolare proprietà di "risorgere" dopo morte, come avevano rivelato le osservazioni di Spallanzani sulle anguillette delle tegole, A. van Leeuwenhoek sui Rotiferi, e J.T. Needham sui Tardigradi, allorché rimanevano in ambiente asciutto. Il G. che, dopo aver visto un proteo moltiplicarsi fino a produrre sessanta individui e questi trasformarsi in sferette immobili, aveva lasciato perfettamente asciugare l'acqua circostante, riuscì a far riprendere il movimento e quindi la vita, che sembrava sospesa in quei piccoli corpi, semplicemente aggiungendo dell'acqua. Secondo Spallanzani la materia che ha perso "l'armonia" tra parti solide e fluide, necessaria all'esplicarsi delle attività proprie dello stato vitale, non possiede più alcun principio di vita. È perciò da ritenersi autentica "resurrezione" la ripresa dei movimenti quando il corpo sia di nuovo posto a contatto con l'acqua. Il G. invece ritiene che, per quanto disseccata, la sostanza gelatinosa costituente il corpo di questi organismi mantiene tuttavia intatta l'organizzazione delle parti solide tanto che, potendo recuperare l'acqua perduta, ritrova la situazione precedente. Le cisti di sopravvivenza da lui scoperte sono in uno stato di vita latente (anabiosi) e dunque quella morte non è reale ma temporanea.

Accanto a scritti che restano negli archivi dei padri barnabiti insieme con le testimonianze di un'attività di studio e didattica intensamente e profondamente esplicata, la ricerca del G., pur condensata in poche pagine ma di originale interesse contribuì ad arricchire i temi centrali del pensiero scientifico italiano degli ultimi decenni del secolo decimottavo.

Fonti e Bibl.: F.V.B., Necr., in Gazzetta privilegiata di Milano, 15 sett. 1836, n. 259, p. 1026; L. Valdani, Cenni intorno alla vita e agli studi del r.p. don L. G., Milano 1836; G. Colombo, Profili biografici di insigni barnabiti, Lodi 1871, pp. 225-228; O.M. Premoli, Storia dei barnabiti dal 1700 al 1825, Roma 1925, p. 456; G. Boffito, Scrittori barnabiti, II, Firenze 1933, pp. 295 s.; L.M. Levati - G.M. Bracco, Menologio dei barnabiti, IX, Genova 1936, pp. 112-117.

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