GUICCIARDINI, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUICCIARDINI, Luigi

Vanna Arrighi

Nacque a Firenze nel 1346 circa da Piero di Ghino e dalla prima moglie di questo, Tessa Bardi.

La famiglia Guicciardini, di antiche tradizioni (la sua presenza a Firenze è attestata fin dal 1199), dopo la peste del 1348, che aveva portato un calo di popolazione e quindi una forte concentrazione della ricchezza, era diventata una delle più facoltose di Firenze; soprattutto il padre del G., banchiere e mercante, aveva accumulato ingenti ricchezze. Il G. nel 1360 fu raccomandato, attraverso Niccolò Acciaiuoli, gran siniscalco del re di Napoli e intimo amico di suo padre, a Giovanni Acciaiuoli, neoeletto arcivescovo di Patrasso, il che lascerebbe supporre nel G. una vocazione per lo status ecclesiastico, poi rientrata. Essendo il G. l'unico figlio maschio, alla morte del padre nel 1370 ne divenne l'erede esclusivo. La ricchezza ereditata raggiungeva, tra beni mobili e proprietà immobiliari, i 58.000 fiorini, ma il G. ne dovette impiegare una parte consistente per contrastare la fama di usuraio che il padre si era fatto in vita praticando, oltre alle attività ufficiali, anche il prestito privato ad alto interesse e, occasionalmente, anche il prestito su pegno. L'accusa di usura, se comprovata, avrebbe comportato, oltre all'ignominia, anche il sequestro dei beni e delle ricchezze accumulate illecitamente; per superare l'ostacolo il G., d'accordo con il vescovo Pietro Corsini (questo tipo di reato era di solito di competenza del foro ecclesiastico), restituì spontaneamente ai mutuatari del padre una percentuale delle somme sborsate come interesse, salvandosi da conseguenze più gravi.

A questa soluzione il G. arrivò seguendo il consiglio dell'agostiniano Luigi Marsili, celebre teologo e cultore degli studi classici, che egli dovette frequentare nel convento fiorentino di S. Spirito, vicino alle case dei Guicciardini.

Nonostante le somme di denaro profuse per riabilitare la memoria del padre, il G. conservò un altissimo livello economico e sociale; fece fruttare al meglio le aziende ereditate: una manifattura di lana e una banca a Firenze e un fondaco a Foligno; fondò inoltre una nuova compagnia commerciale in società con Piero Benizzi, Duti di Filippo e Agostino Strozzi, operante a Firenze e nelle Fiandre, che rimase attiva almeno dal 1378 al 1397.

Del suo livello di ricchezza fanno fede le quote che doveva pagare di "prestanze", i periodici prestiti forzosi indetti per alimentare le finanze del Comune, che venivano ripartiti sulla base di una stima approssimativa della capacità contributiva: per esempio, nel 1390 gli fu attribuita la quota più alta del quartiere di S. Spirito e nel 1403 ebbe addirittura la seconda quota più alta dell'intera città.

Non si ha notizia di cariche pubbliche rivestite dal G. prima del 1° luglio 1378, quando fu eletto per la prima volta gonfaloniere di Giustizia, carica bimestrale che costituiva il vertice istituzionale del Comune di Firenze; in seguito tenne la stessa carica per altre due volte: nel bimestre novembre-dicembre 1387 e per lo stesso periodo del 1401.

Il suo primo gonfalonierato, destinato a concludersi drammaticamente prima della scadenza naturale per lo scoppio del tumulto dei ciompi, lo rese uno dei protagonisti di quell'agitato periodo, tanto che il suo nome compare, accompagnato da giudizi poco benevoli, in tutte le cronache contemporanee, come anche nelle opere storiche successive.

Nel momento in cui il G. iniziava il suo mandato di gonfaloniere la città si trovava in una difficile situazione economica, conseguenza della guerra degli Otto santi contro il papa Gregorio XI, iniziata nel 1375 e non ancora conclusa (il trattato di pace sarebbe stato firmato solo nel novembre 1378); erano state spese ingenti somme di denaro per pagare le truppe, e le rappresaglie contro i mercanti fiorentini avevano danneggiato lo stesso tessuto economico della città; alle difficoltà economiche si era aggiunta una crisi politica, originata dalle lotte fra la parte più conservatrice della classe dirigente, che aveva la propria roccaforte nella Parte guelfa, e quella più moderata, capeggiata da Salvestro de' Medici, che non esitava a far leva sui ceti subalterni e ne strumentalizzava lo scontento per scatenare tumulti e devastazioni.

Il bimestre precedente, durante il quale era stato gonfaloniere di Giustizia Salvestro de' Medici, era stato caratterizzato da irregolarità procedurali e da devastazioni delle case di alcuni fra i principali esponenti della Parte guelfa, ma il 1° luglio l'entrata in ufficio della nuova Signoria presieduta dal G. era avvenuta sotto i migliori auspici: il G. e gli otto priori erano universalmente ritenuti "huomini quieti et desiderosi dell'unione de' cictadini" e anche i loro primi atti, improntati a equanimità, fecero sì che essi riscuotessero lodi generali.

Essi però fin dai primi giorni del loro mandato furono soggetti a pressioni da parte dei seguaci di Salvestro de' Medici perché imbrigliassero o addirittura abolissero la Parte guelfa. La Signoria nel suo complesso e il G. in particolare opposero resistenza a questi tentativi, per cui ai primi non rimase altro mezzo di pressione che organizzare nuovi moti di piazza.

La Signoria fece allora arrestare alcuni dei responsabili, ma gli altri il giorno successivo si riversarono armati nelle strade e a furor di popolo fecero liberare i prigionieri, poi corsero alle case di alcuni membri della classe dirigente, tra cui quella del G., e le misero a ferro e fuoco.

Lo stesso giorno (20 luglio 1378) nel corso di altri moti popolari alcuni membri del governo, tra cui il G., furono proclamati "cavalieri del popolo", investitura simbolo di massima autorità, che comportava il diritto di portare le armi e di far precedere il proprio nome dall'appellativo "messer" (o, in latino, dominus). Nessuno storico o cronista di questi avvenimenti ha saputo trovare spiegazione a questo contraddittorio modo di procedere.

Quasi contemporaneamente i cittadini che avevano avuto la casa bruciata nei disordini furono proclamati inabili a tutti gli uffici del Comune, con l'unica eccezione del G., forse per rispetto alla dignità del gonfalonierato da lui rivestita.

Mentre accadeva questo, i membri della Signoria, che a norma degli statuti non potevano uscire dal palazzo, non seppero trovare una comune linea di azione e rimasero nell'inattività. Il 22 luglio la moltitudine armata, che aveva assaltato il palazzo del podestà e si era impadronita del gonfalone della Giustizia, simbolo del Comune di Firenze, tornò al palazzo della Signoria; non incontrando alcuna resistenza, proclamò destituita la vecchia Signoria e ne elesse una nuova, scegliendone i membri tra i presenti, senza osservare alcuna formalità; in realtà, con l'unica eccezione di due priori, che si rifiutarono fino all'ultimo di lasciare il palazzo, gli altri membri della Signoria uscente, e il G. tra i primi, avevano abbandonato il palazzo, anche dietro consiglio di altri membri del governo.

Riferisce un cronista particolarmente malevolo verso il G., definito "vile e codardo", che questo aveva passato le ore precedenti la fuga a piangere, invocando moglie e figli e a raccomandarsi a Tommaso Strozzi, uno dei membri della Balia degli otto, perché gli procurasse una via di uscita (Il tumulto dei ciompi, p. 31). Presso lo stesso Strozzi il G. trovò ospitalità, essendo stata la sua casa distrutta dagli insorti.

La maggior parte degli storici e dei cronisti attribuisce la responsabilità dei disordini all'immobilismo e all'insipienza della Signoria in carica e massimamente del G., che ne era il capo, biasimandoli come uomini vili e da poco, che avevano anteposto la loro sicurezza personale al bene pubblico e che non avrebbero dovuto a nessun costo abbandonare il palazzo.

Francesco Guicciardini, invece, nel narrare questi avvenimenti afferma che, date le circostanze, abbandonare il palazzo in mano agli insorti senza resistenza fu il male minore, che risparmiò alla città conseguenze più gravi; anche N. Machiavelli, nelle Istorie fiorentine, dedica largo spazio al tumulto dei ciompi, ma non dà sul G. alcun giudizio esplicito.

L'unico tra tutti gli autori, tanto antichi che moderni, che dà del G. un giudizio largamente positivo è Emiliani Giudici il quale, presumibilmente sulla base della narrazione guicciardiniana, lo definisce "uomo di indole fermissima e di alti pensieri […] che provvide con energia a ristabilire la quiete".

Uno dei primi atti del regime instaurato dai ciompi il 22 luglio fu la condanna al confino per alcuni membri della classe dirigente, tra i quali il G., che fu confinato a Poppiano, piccolo castello della Val di Pesa fiorentina, proprietà, insieme con i territori circostanti, della famiglia Guicciardini, ma il suo esilio fu di breve durata, dato che il 1° settembre di quello stesso anno la parentesi del regime dei ciompi poteva dirsi definitivamente conclusa. Un provvedimento approvato di lì a poco gli consentì di conservare il titolo di cavaliere.

Al 30 luglio 1382 risale il suo primo incarico diplomatico: fu infatti inviato a Bologna, insieme con Guccio Nobili e Luigi Marsili, come ambasciatore a Luigi (I) d'Angiò, figlio di Giovanni II re di Francia, sceso in Italia con un esercito per rivendicare la successione sul trono di Napoli. Egli da Milano aveva inviato ambasciatori a Firenze per chiedere il diritto di passaggio sul territorio fiorentino e per fare delle avances per una eventuale alleanza, spostandosi successivamente a Bologna, ove giunse il 6 ag. 1382.

Il ceto dirigente fiorentino era in maggioranza favorevole al rivale dell'Angiò, Carlo d'Angiò Durazzo, ma non osava prendere una posizione definita poiché l'Angiò aveva dalla sua parte anche il pontefice; pertanto compito degli oratori era di concedere il passo, ma lasciar cadere eventuali proposte più impegnative.

Nel novembre 1384 il G. fu designato (insieme con Donato Acciaiuoli, Giovanni Ricci e Andrea Minerbetti) a prendere possesso a nome del Comune di Firenze di Arezzo, che nel 1380 si era data in signoria a Carlo di Durazzo, ma poi era stata conquistata da Enguerrand de Coucy per conto di Luigi I d'Angiò. Alla morte di questo, Coucy aveva venduto la città al Comune di Firenze per 40.000 fiorini.

Il 10 genn. 1387, insieme con Stoldo Altoviti, Vieri de' Medici e Bernardo Alberti, fu inviato ambasciatore a papa Urbano VI che dal dicembre precedente si trovava a Lucca. Il papa aveva richiesto l'aiuto del Comune di Firenze per recuperare i territori che in Umbria e Romagna si erano sottratti al dominio pontificio per rendersi indipendenti o per divenire sede di signoria laica; il governo fiorentino non voleva però impegnarsi per una certa animosità verso il pontefice, sopravvissuta alla fine della guerra degli Otto santi, ma soprattutto perché il papa, non avendo denaro né truppe, non avrebbe potuto assicurare una pace stabile in quella zona, contigua ai confini del dominio fiorentino. Lo scopo dell'ambasceria era appunto quello di chiedere al papa di non ingerirsi nella politica dei Comuni che, come Bologna e Perugia, in precedenza erano compresi nello Stato pontificio.

Parallelamente a questi incarichi ufficiali il G. veniva spesso chiamato o in virtù degli uffici che al momento ricopriva, oppure semplicemente come "richiesto", cioè cittadino autorevole che si convocava, in virtù del prestigio e dell'esperienza politica, a far parte dei consigli segreti (detti consulte o, quando erano più ristretti, pratiche) riuniti dalla Signoria per riceverne il consiglio sulle più importanti questioni politiche; in particolare nella primavera del 1388 il G. partecipò a una consulta riunita per decidere l'atteggiamento da prendere nei confronti di Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano.

I rapporti fra i due potentati erano stati fino a quel momento buoni, ma nel 1388 cominciarono le avvisaglie del lungo conflitto antivisconteo che per più di un decennio avrebbe impegnato le maggiori risorse economiche e morali della Repubblica fiorentina. Due avvenimenti quell'anno segnarono l'inizio dell'ostilità: l'occupazione di Verona e Padova da parte del Visconti, che ne evidenziava la volontà espansionistica, e l'alleanza da lui stipulata con Siena che gli offriva il destro per ingerirsi nella Toscana centrale. Cominciò allora a diffondersi nel ceto dirigente fiorentino una certa diffidenza verso Gian Galeazzo, ma il governo stentava a trovare una linea d'azione precisa, quindi convocava frequenti consulte, per richiedere il parere dei cittadini più autorevoli sul da farsi. Ad alcune di esse partecipò anche il G. e nella contrapposizione tra chi era favorevole a iniziative militari contro Siena, oltre a tutto colpevole di essersi annessa Lucignano e Montepulciano, e chi invece invitava alla moderazione, egli si schierò con i primi, propendendo per la rottura immediata dei rapporti diplomatici con Siena, in vista di un'offensiva militare. Dopo sei mesi di dibattiti inconcludenti si decise di cercare un accordo diretto con il Visconti e una riconciliazione con Siena. Il 17 genn. 1389 il G. e Giovanni Ricci furono inviati ambasciatori a Pavia ove si trovava il Visconti, in risposta all'invito di quest'ultimo per un'alleanza formale. L'intenzione del governo fiorentino era quella di ottenere, in cambio di un atto formale di alleanza, un impegno del Visconti a non ingerirsi negli affari della Toscana e della Romagna, ma su questo punto si arenarono le trattative e i due oratori furono richiamati.

Oltre a questi incarichi diplomatici e ai tre gonfalonierati di Giustizia, il G. ricoprì molte cariche, tra cui le principali furono quelle di membro dei Sedici gonfalonieri dal 26 sett. 1394 e, dal 15 dic. 1400, dei Dodici buonuomini, magistrature collegiali che insieme con la Signoria costituivano i tre maggiori uffici del Comune di Firenze; oltre a questi incarichi di vertice, ebbe un numero grandissimo di altre cariche: dal 1° genn. 1383 fu per sei mesi membro dei Sei della mercanzia, magistratura che si occupava delle controversie commerciali; dal febbraio 1386 fu per sei mesi membro dei Dieci di balia, magistratura straordinaria che dirigeva le guerre; dal 1° ag. 1387 fu per sei mesi degli Ufficiali dell'abbondanza, con competenze sull'approvvigionamento alimentare (alla stessa carica fu eletto altre due volte, sempre per sei mesi, a partire dal 1° febbr. 1387 e dal 1° ag. 1391); dal 1° dic. 1389 fu per due mesi uno dei camarlinghi laici della Camera del Comune; il 29 apr. 1395 fu eletto approvatore degli statuti dell'arte del cambio; dal 1° agosto al 31 ott. 1395 fu dei capitani del Bigallo, una delle maggiori istituzioni di beneficenza fiorentine; dal 1° dic. 1399 fu per quattro mesi dei Regolatori delle entrate e uscite; dal 1° apr. 1401 fu per sei mesi uno degli Ufficiali di Arezzo, istituiti dopo l'acquisto della città per sovrintendere al governo di essa.

Ebbe inoltre alcuni incarichi estrinseci che lo portarono in località del dominio come giusdicente per conto del Comune di Firenze: dal 5 sett. 1393 fu per sei mesi vicario di San Miniato, nel Valdarno inferiore.

Un ricordo autobiografico del G. (Arch. Guicciardini, Libri di amministrazione, 2, c. 121) tramanda il fatto che i cittadini di San Miniato furono talmente entusiasti del suo operato come vicario, che alla fine del mandato lo vollero gratificare facendo eseguire un suo ritratto a grandezza naturale su una parete del palazzo pretorio, fatto distruggere dal suo successore.

Il G. fu anche vicario della Val di Nievole, per sei mesi dal 20 febbr. 1398.

Il 1° febbr. 1403 erano stati di nuovo creati i Dieci di balia: tra questi fu anche il G., ma il 3 febbr. 1403 egli morì a Firenze. Ebbe funerali pubblici; il suo mandato fu portato a termine dal figlio maggiore Niccolò.

Il G. si era sposato verso il 1365 con Costanza di Leonardo Strozzi, dalla quale aveva avuto tre figli maschi: Niccolò, Piero e Giovanni, tra i quali fu equamente ripartita la sua cospicua fortuna, mentre il palazzo di famiglia fu diviso tra i due maggiori; il G. ebbe anche almeno quattro figlie: Tessa, Margherita, Maria e Caterina, tutte andate spose a membri della classe dirigente (rispettivamente: Barbadori, Baroncelli, Vettori e Guidetti).

Il G. lasciò un libro di ricordanze, oggi conservato presso l'Archivio Guicciardini di Firenze, Libri di amministrazione, 2 (cfr. Repertorium).

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Carte Sebregondi, 2829; Carte Ceramelli Papiani, 2570; Dieci di balia, Legazioni e commissarie, 1, cc. 164-165; Tratte, 902, cc. 17v, 39, 62v; 982, c. 21; Consulte e pratiche, 23, cc. 52, 71; 27, c. 32v; 31, cc. 39, 59v, 66, 69v, 83v, 103v, 104v, 112v; Firenze, Arch. Guicciardini, Libri di amministrazione, 2 (questo registro, scritto parzialmente dal padre del G. e poi da lui continuato, è stato oggetto di una tesi di laurea, Univ. di Firenze, facoltà di lettere, a.a. 1998-99, relatore F. Sznura, consultabile in abstract su Internet); Testamenti, XXVII, ins. 4; Ibid., Biblioteca nazionale, Poligrafo Gargani, 1041-1044; Il tumulto dei ciompi. Cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVIII, 3, pp. 17, 23, 29, 31 s.; Marchionne di Coppo Stefani, Istoria fiorentina, in Delizie degli eruditi toscani, XIV (1781), pp. 206, 286, 291; XV (1781), pp. 14, 17, 19 s., 27; XVI (1783), p. 71; Lettera d'anonimo sul tumulto dei ciompi, ibid., XVII (1783), p. 11; Naddo di ser Nepo da Montecatini, Croniche fiorentine, ibid., XVIII (1784), pp. 12, 39, 60, 88, 102, 105, 205; J. Pitti, Istoria fiorentina, in Arch. stor. italiano, I (1842), pp. 11 s.; F. Guicciardini, Memorie di famiglia, in Id., Scritti autobiografici, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1936, ad ind.; Id., Le cose fiorentine, Firenze 1945, ad ind.; Le consulte e pratiche della Repubblica fiorentina, 1401, Pisa 1981, ad ind.; D.M. Manni, Osservazioni istoriche sopra i sigilli antichi…, IX, Firenze 1742, p. 103; Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini - A. Desjardins, I, Paris 1859, p. 30; P. Emiliani Giudici, Storia dei municipi italiani, II, Firenze 1864, p. 222; G.O. Corazzini, I ciompi. Cronache e documenti, Firenze 1887, pp. 8, 24, 86, 90, 97, 99, 135, 199; G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, Firenze 1896, ad ind.; R. Ridolfi, L'archivio della famiglia Guicciardini, in La Bibliofilia, XXX (1928), pp. 457 s., 460; É.-G. Léonard, Histoire de Jeanne Ire, III, Monaco-Paris 1937, p. 650; N. Rodolico, I ciompi. Una pagina di storia del proletariato, Firenze 1945, pp. 109, 111, 125; N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962, p. 234; C. Ugurgieri della Berardenga, Gli Acciaiuoli di Firenze…, Firenze 1962, ad ind.; Chr. Bec, Les marchands écrivains, Paris 1967, pp. 135-138, 142; R.A. Goldthwaite, Private wealth in Renaissance Florence, Princeton 1968, pp. 114-117; G. Brucker, Florentine politics and society, Princeton 1968, pp. 375 s., 381; E. Sestan, Echi e giudizi sul tumulto dei ciompi, in Il tumulto dei ciompi, Firenze 1981, pp. 131-133; G. Brucker, Dal Comune alla Signoria, Bologna 1981, pp. 149, 151; Alle bocche della piazza…, a cura di A. Molho - F. Sznura, Firenze 1986, pp. 20, 77, 221; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Guicciardini di Firenze; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, V, pp. 271 s.

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