TENCO, Luigi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TENCO, Luigi

Marco Santoro

– Nacque a Cassine (Alessandria) il 21 marzo 1938, secondogenito di Teresa Zoccola (1906-1977) e di Giuseppe Tenco (1899-1937), in una famiglia della piccola borghesia rurale monferrina, in cui vivevano insieme i parenti di entrambi i rami familiari, e alla cui testa stava il fratello maggiore della madre, Giovanni, commerciante di vini. Luigi nacque dopo la morte del padre: Giuseppe era deceduto, in circostanze tuttora non chiarite, il 21 settembre precedente. In anni recenti è emerso che Luigi sarebbe stato concepito in una relazione extraconiugale della madre con uno studente di diritto torinese, identificato con Carlo Micca (1918-1985; cfr. Colonna, 2017a); altre fonti lo identificano però come Ferdinando Micca (1921-1983); l’identità del padre naturale di Tenco, così come le circostanze del concepimento, restano dunque, a oggi, incerte.

Orfano di un padre mai conosciuto, Luigi Tenco trascorse la prima infanzia con la madre, gli zii e i nonni tra Ricaldone, nel Monferrato, e Varazze, dove risiedeva in collegio il fratello maggiore Valentino (1927-1997). Nel 1948 la famiglia si trasferì a Genova, dove lo zio Giovanni aprì una bottiglieria di vini tipici piemontesi, cedendone la conduzione alla sorella e al nipote Valentino, che nel frattempo aveva lasciato gli studi per aiutare economicamente la famiglia. Nel negozio e nella piazzetta adiacente l’adolescente Luigi, tornato da scuola, trascorreva le giornate facendo le sue prime, formative esperienze amicali. La madre aveva ambizioni per il secondogenito, e la ferma determinazione di consentirgli gli studi che né lei né il primogenito avevano potuto seguire. Lo affidò pertanto a una giovane maestra, Sandra Novelli, che lo introdusse tra l’altro allo studio del pianoforte. Il rapporto di Luigi con la famiglia e l’attività commerciale era e rimase ambivalente, rappresentando da un lato una fonte d’imbarazzo (in quanto la vineria e le origini contadine potevano essere intesi come segni di una condizione sociale modesta se non mediocre, pur essendo quella di famiglia, come rimarcò più volte lo stesso Tenco da adulto, un’attività commerciale all’ingrosso e non al dettaglio), dall’altro un riferimento comunque centrale per la formazione della sua identità e quindi una fonte di sottile ma pervicace desiderio di riscatto sociale e forse ancor più culturale.

Proprio nel soppalco della vineria Luigi iniziò a suonare il clarinetto con l’amico Bruno Lauzi, compagno di ginnasio e come lui destinato a una significativa carriera nel mondo della canzone italiana. Al 1953 risale il primo complesso, la Jelly Roll Morton Boys Jazz Band, che il quindicenne Luigi fondò appunto con Lauzi e due amici. Come molti coetanei in quegli anni, Tenco imparava ad ascoltare e amare la musica jazz e popular americana ascoltando i dischi di musicisti come Jelly Roll Morton e Nat King Cole, passando per Charlie Parker e Paul Desmond. Nel 1957 fu chiamato a partecipare come sassofonista a un gruppo guidato da Marcello Minerbi al pianoforte, partecipando l’anno successivo alla fondazione del gruppo I Diavoli del Rock con l’amico Gino Paoli alla chitarra.

Nel 1956, per assecondare i desideri della madre e del fratello, si iscrisse al corso di laurea in ingegneria elettrotecnica, abbandonandolo tuttavia nel 1959 per passare a scienze politiche, dove sostenne con buoni risultati gli esami di geografia politica ed economica e di sociologia. Gli studi universitari non lo trattennero però dalla carriera musicale, che proseguì nonostante qualche resistenza familiare, sempre nel circuito genovese e presto anche fuori.

Il campo musicale nazionale si stava allargando, nuove proposte arrivavano dall’estero, dagli Stati Uniti ma anche dalla Francia, mentre il mercato dei dischi, in grande espansione, offriva nuove prospettive. Se la televisione faceva conoscere la chanson, il cinema e poi i jukebox erano i veicoli del rock ’n’ roll, che diede presto origine in Italia al fenomeno degli ‘urlatori’, trovando in Adriano Celentano il principale interprete (e in Mina la sua controparte femminile).

Mentre la madre e il fratello si stabilirono sulle colline di Recco, Tenco decise di trasferirsi a Milano, capitale italiana dell’industria discografica in quegli anni, approfittando come molti altri genovesi – Paoli, Lauzi, Umberto Bindi e più tardi lo stesso Fabrizio De André – dell’interesse che l’industria discografica, in particolare la neonata etichetta Dischi Ricordi, diretta da Nanni Ricordi, stava manifestando per il mercato della canzone italiana. Alla Ricordi, dove erano andati a lavorare come tecnici e arrangiatori i fratelli genovesi Gian Franco e Gian Piero Reverberi (del gruppo di amici quelli che per primi avevano scelto di puntare professionalmente sulla musica), Tenco iniziò nel 1959 una carriera discografica sia come autore sia, su sollecitazione della stessa casa discografica, come interprete, dapprima cantando e suonando il sax in una band guidata da Gian Franco Reverberi (I Cavalieri, con Enzo Jannacci al pianoforte), quindi da solista, incidendo sotto vari pseudonimi alcuni ingenui motivi rock e canzoni in stile americano, sul modello dell’amato cantante afroamericano Nat King Cole.

Tenco partecipò alla stesura musicale della canzone di Gian Franco Reverberi e Giorgio Calabrese che la Ricordi aveva commercializzato nel 1958 come «il primo rock italiano», Ciao ti dirò, cantata dal milanese Giorgio Gaber, ma l’intervento formalmente non è documentato, non essendo allora Tenco ancora iscritto alla SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori). Tenco abbandonò però presto il nuovo genere proveniente dagli Stati Uniti (o per meglio dire quella forma di imitazione del rock ’n’ roll bianco americano che allora si eseguiva in Italia senza troppa perizia), e da lì in avanti si dedicò alla formulazione di un genere di canzone decisamente più integrato nella tradizione musicale italiana, sforzandosi peraltro di innovarne forme e contenuti, sia nei testi sia nella musica.

Nel giugno del 1960 pubblicò quello che divenne il suo primo successo discografico, la canzone Quando, dapprima con il suo nome vero, ma solo per un errore della Ricordi perché lui aveva concordato di usare il nome d’arte Dick Ventuno, e con questo pseudonimo fu ben presto ripubblicata. In quella fase Tenco non si considerava ancora un professionista: la sua professione, come scrisse nel luglio del 1960 alla direttrice di un noto rotocalco femminile, era infatti di studente universitario. L’uso di pseudonimi – ne cambiò tre in pochi mesi (gli altri: Gigi Mai, Gordon Cliff) – è rivelatore del significato che Tenco ancora attribuiva alla sua presenza nel mondo della canzone in quei primi tempi. Autore oltre che interprete, Tenco fu peraltro uno dei primi cosiddetti cantanti-autori o cantautori, secondo il fortunato composto lessicale, che sembra essere stato coniato nel 1960 in una riunione tra discografici e artisti della RCA (Radio Corporation of America), probabilmente su proposta di Maria Monti alias Monticelli, fu subito accolto in una pubblicistica musicale spesso improvvisata, perlopiù affidata nei quotidiani a cronisti di costume.

In un campo musicale allora in forte evoluzione, le canzoni di Tenco si segnalavano, almeno alla critica più preparata, per l’originalità della scrittura, un linguaggio quotidiano, parlato, asciutto, talvolta aspro, ch’egli riprendeva dai poeti e scrittori liguri e piemontesi di cui era attento lettore (Eugenio Montale e Cesare Pavese in testa). I suoi modelli musicali – dopo la rapida incursione nel rock, presto abbandonato – spaziavano dalla chanson francese alla ballad americana, ma anche, e sempre più spesso con il passare degli anni, al folk italiano, la canzone popolare, a cui l’ascoltatore era invitato ad accostare i suoi pezzi nelle note di copertina, da lui stesso stilate o almeno firmate (una pratica non certo comune allora, e già indicativa di una certa pretesa ‘autoriale’) per il suo primo album, pubblicato da Ricordi nel 1962 con il semplice titolo Luigi Tenco, e contenente alcune delle sue composizioni più fortunate e originali, come Mi sono innamorato di te e Angela (uscite anche, secondo l’uso del tempo, come singoli a 45 giri):

«Le mie canzoni vanno viste non tanto nel quadro della musica leggera o da ballo, quanto in quella della musica popolare. Il sentirne una di seguito all’altra, riunite in un long playing, spero contribuirà maggiormente a chiarire questo punto, cui evidentemente tengo molto. Infatti, io penso che al di là di un eccessivo conformismo nei testi poetici, al di là di fatture musicali più o meno di moda, la musica popolare resti pur sempre il mezzo più valido per esprimere reazioni e sentimenti in modo schietto, sincero e immediato».

Intanto la sua carriera nel mondo artistico proseguì e, sempre nel 1962, approdò al cinema: Tenco esordì come attore protagonista nel film La cuccagna di Luciano Salce, dove interpretò il personaggio (chiaramente autobiografico) di un giovane anticonformista, burbero ma affascinante, che si diletta tra l’altro nel comporre canzoni. A seguito di contrasti nella dirigenza del gruppo Ricordi, che portarono all’uscita di Nanni e dei suoi collaboratori, nel 1964 Tenco passò alla Saar Records del produttore discografico Walter Gürtler, svizzero-milanese, per la cui etichetta Jolly incise nel 1965 il secondo album, omonimo del primo, comprendente due delle canzoni destinate a maggior successo, Ho capito che ti amo e Vedrai, vedrai. La ricerca di un connubio tra la canzone (pur commerciale) e la musica popolare italiana – dove ‘popolare’ andava inteso non solo nel senso di folk, ma anche di estraneo al circuito di massa – era ormai la chiave del suo più maturo progetto culturale, come chiarì con vigore nel corso di un dibattito a più voci sul futuro della cosiddetta canzone beat registrato nel novembre del 1966 (in cui Tenco venne presentato, curiosamente, ma anche significativamente, come «cantante folk») e poi in un’intervista nel gennaio del 1967 apparsa sulla rivista Big (È in crisi? Oggetto: il beat, 1967, n. 1, pp. 46 s.): «Secondo me la soluzione non è quella di guardare all’estero per imitare il genere degli altri. L’unica cosa da fare è sfruttare il patrimonio musicale nazionale [...] il patrimonio folkloristico è così vario che ogni cantante e compositore potrebbero attingervi mantenendo la propria personalità. Se uno vuole fare la sua protesta, può protestare; se un altro vuol fare ballare la gente, può farla ballare; ce ne sarebbe per tutti».

Il richiamo alla protesta aveva un significato autobiografico. Ancora prima che giungesse in Italia l’eco di Bob Dylan – di lui, tra l’altro, registrò nel 1965, senza pubblicarla, la prima traduzione italiana (firmata da Mogol alias Giulio Rapetti) di Blowin’ in the wind – Tenco coltivava infatti, forse anche per gli studi sociologici fatti, quella che sarebbe poi stata denominata ‘canzone di protesta’, con testi che accusavano di volta in volta il potere, le diseguaglianze, l’emarginazione, il conformismo: una protesta poi venuta in voga anche in Italia, sull’onda della controcultura che anche qui stava prendendo piede, e dai cui gesti più esteriori Tenco non mancò peraltro di prendere le distanze, con toni anche aspri. Sono comunque soprattutto canzoni d’amore, le sue più riuscite, anche se diverse da quelle trasmesse da una tradizione nazionale ormai industrializzata: canzoni malinconiche, spesso lentissime, in cui testi e voce decantano la noia, la delusione, la quotidianità, lontano dalla retorica sentimentale della canzone melodica italiana, all’epoca platealmente rappresentata da Claudio Villa. Anche sotto il profilo musicale le composizioni di Tenco spesso non sono facili, rompendo con i modelli standard della canzone italiana (ad esempio rinunciando al chorus) ed esigendo dall’ascoltatore medio non solo un’attenzione più elevata del consueto, ma anche la disponibilità ad accettare soluzioni inusitate nel linguaggio e nell’interpretazione.

Nel 1966 Luigi Tenco aveva lasciato la Jolly (il cui contratto era del resto venuto a coincidere in parte con il periodo di servizio militare, non più rinviabile) per passare alla RCA, multinazionale statunitense che da qualche anno aveva aperto una sede a Roma, puntando sul fenomeno emergente dei cantautori. La scelta fu motivata dall’aspirazione, ormai maturata, di sfondare davvero e di raggiungere un più ampio pubblico per le proprie canzoni e il proprio progetto culturale. Dopo aver pubblicato un nuovo album (dal più laconico titolo Tenco, e contenente quella che divenne la sua canzone forse più rappresentativa e ‘di culto’, Lontano lontano) accettò quindi di partecipare al Festival di Sanremo, previsto per fine gennaio del 1967, in coppia con la cantante francese di origini italiane Dalida (Iolanda Cristina Gigliotti, 1933-1987). Si vociferò di una relazione sentimentale, probabilmente non fittizia, ma amplificata ad arte dalle agenzie a scopo pubblicitario (la cantante era divorziata dal discografico francese Lucien Morisse, comunque presente a Sanremo, mentre Tenco, secondo fonti epistolari ritrovate in seguito, aveva all’epoca una tormentata ma tenace relazione con una ragazza di Roma, di nome Valeria; cfr. Colonna 2017a). I due cantanti presentarono una canzone composta da Tenco per l’occasione, Ciao amore ciao: il testo, più volte riscritto, raccontava nella versione finale le difficoltà emotive della migrazione dalla campagna alla città, mentre la struttura musicale non mancava di una certa, spiazzante, originalità. La canzone non ottenne però il riscontro sperato, fu anzi tra quelle eliminate nella prima serata, dopo un’esecuzione in cui il cantautore apparve nervoso e poco convinto (26 gennaio 1967), e non fu nemmeno ripescata dall’apposita commissione di esperti che avrebbe potuta rimetterla in lizza.

Morì il 27 gennaio, intorno alle due della notte, con il Festival in pieno svolgimento: venne trovato morto, ucciso da un colpo di pistola alla testa, nella sua camera d’albergo a Sanremo. Il biglietto trovato accanto al corpo lasciava trasparire le ragioni della morte: suicidio, in segno di protesta contro un pubblico e un festival incapaci di comprendere. Le indagini sul decesso furono affrettate e superficiali. La tesi del suicidio, sposata dagli inquirenti su documenti «carenti di oggettività investigativa» in quanto basati essenzialmente su «presunte prove testimoniali fornite da altri soggetti [...] coinvolti nei fatti per loro interessi personali» (Piacentini, 2017, p. 91), è stata bensì ufficialmente confermata da un’autopsia disposta nel 2006, che tuttavia non ha sopito le persistenti ipotesi alternative, vuoi di un diverbio tra Dalida e Tenco degenerato in incidente mortale (la cantante tentò a sua volta il suicidio un mese più tardi), vuoi di un omicidio maturato nell’ambiente delle agenzie e delle case discografiche coinvolte nel festival per impedire al cantante, risentito e indignato, di denunciare presunti accordi preventivi sull’esito della competizione. Come sintetizzò nel 2006 il professor Renzo Celesti, perito di parte dei familiari nell’esame autoptico, «il grado di certezza della natura suicidiaria del decesso rimane lo stesso di allora, e cioè molto elevato ma non assoluto» (Colonna, 2017b, p. 286).

Nella stampa, nell’opinione pubblica, nel mondo della canzone e dello spettacolo ci furono reazioni disparate, da chi ricordava la personalità problematica e cupa di Tenco a chi ne riconduceva il gesto apparentemente insensato alla perdita dei valori autentici da parte delle giovani generazioni, sino a chi riversava la colpa sul meccanismo perverso della competizione discografica in un mondo regolato dalla logica del profitto. Non mancarono però voci anche autorevoli portate a comprendere il senso profondo di un gesto solo in apparenza insulso («Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio. La sua ribellione che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte»: così il premio Nobel Salvatore Quasimodo sul quotidiano romano Il Tempo, 10 febbraio 1967).

La morte tragica e violenta di Luigi Tenco non ha solo alimentato la sua improvvisa popolarità e incentivato il successo commerciale della canzone eliminata, e neppure soltanto la produzione di quello che molti etichettano come ‘mito’: quella morte ha soprattutto segnato in profondità la storia della canzone e più in generale della cultura italiana, creando le condizioni per una vera e propria rivoluzione culturale e simbolica, ovvero il riconoscimento della serietà, e del valore insieme estetico e morale della canzone, di quel genere di canzone da Tenco coltivato e immaginato, che proprio a partire dallo ‘scandalo’ di quella morte sarebbe stata battezzata dal giornalista e critico musicale Enrico de Angelis, con formula destinata a successo, ‘canzone d’autore’.

Il cantante fu sepolto a Ricaldone (Alessandria), nella tomba di famiglia degli Zoccola. In suo onore, e per preservarne la memoria unitamente al messaggio artistico, nel 1972 venne fondato, su impulso di Amilcare Rambaldi che fu poi il presidente sino alla scomparsa, e con il contributo di numerosi artisti e critici, il Club Tenco, che dal 1974 organizza annualmente la Rassegna della canzone d’autore, un festival non competitivo di canzoni in cui la premiazione dei dischi usciti nel corso dell’anno considerati migliori dalla critica musicale si accompagna alle esecuzioni di selezionati rappresentanti di quel mondo canoro.

Fonti e Bibl.: M. Luzzatto Fegiz, Morte di un cantautore. Biografia di L. T., Milano 1976; A. Fegatelli, T., Padova 1987; Dizionario della canzone italiana, a cura di G. Castaldo, II, Milano 1990, pp. 1638-1642; E. de Angelis, Io sono uno. Canzoni e racconti, Milano 2002; A. Fegatelli Colonna, L. T. Vita breve e morte di un genio musicale, Milano 2002; R. Parodi, L. T. Canterò finché avrò qualcosa da dire, Milano 2007; Il mio posto nel mondo. L. T., cantautore. Ricordi, appunti, frammenti, a cura di E. de Angelis - E. Deregibus - S.S. Sacchi, Milano 2007; E. de Angelis - M. Dentone, L. T. Per la testa grandi idee, Roma 2008 (con la raccolta di tutte le esibizioni video di Tenco in DVD); M. Santoro, Effetto T. Genealogia della canzone d’autore, Bologna 2010; S. Facci - P. Soddu, Il Festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione, Roma 2011, ad ind. (in partic. pp. 161-166); F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma 2011, ad ind.; S. La Via, Principi e modelli formali della canzone d’autore, in Le forme della canzone, a cura di E. Careri - G. Ruberti, Lucca 2014, pp. 3-43; A. Colonna, Vita di L. T., Milano 2017a (con discografia a cura di E. de Angelis - M. Neri - F. Settimo); Id., Atti relativi alla morte di L. T., Roma 2017b; N. Guarneri - P. Ragone, Le ombre del silenzio: suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di L. T., Roma 2017; M. Piacentini, L. T., Reggio Emilia 2017; J. Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Milano 2018, ad indicem.

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