Macchine

Enciclopedia delle scienze sociali (1996)

MACCHINE

Vittorio Marchis e Marcella Corsi

Storia della tecnologia

di Vittorio Marchis

Definizioni e classificazione

Si definisce macchina un complesso di elementi fissi e mobili, vincolati cinematicamente, tale che almeno uno degli elementi essenziali sia soggetto a forze che compiono lavoro e quindi sia in moto, per cui si abbia trasformazione di energia, potenza, rendimento. Estendendo il concetto alle trasformazioni energetiche non esclusivamente meccaniche, con una operazione logica non accettata da parte della cultura ingegneristica (v. Filippi, 1968), si definisce macchina ogni dispositivo atto a trasformare energia e a compiere lavoro: si potrebbe perciò parlare di macchine anche quando in esse avvengano soltanto trasformazioni energetiche (chimiche, termiche, elettriche, elettroniche) senza che sia presente lavoro meccanico. La classificazione in base al ruolo distingue le macchine in motrici (o motori), se forniscono lavoro meccanico, generatrici (o generatori), se assorbono lavoro meccanico per produrre diverse forme di energia, operatrici, se lavorano sulla materia modificandone la forma, la posizione o l'energia di posizione o cinetica, e trasmettitrici (o trasmissioni), se trasmettono semplicemente l'energia ricevuta modificandone le caratteristiche.

Le cinque macchine elementari, a cui gli antichi riconducevano tutti i dispositivi meccanici basati sul principio dell'equilibrio statico delle forze, sono: la leva, il cuneo, la ruota, il paranco e la vite. Questa classificazione talora è stata ristretta, talaltra allargata includendovi il piano inclinato, l'argano, la puleggia.

Engine, dal latino ingenium, è, secondo la definizione riportata nella prima edizione della Cyclopaedia (1728) di Ephraim Chambers, "una macchina o strumento complesso formato da elementi più semplici, come ruote, viti, leve, combinati assieme per sollevare, gettare o sostenere un peso, oppure per produrre altri considerevoli effetti per risparmiare tempo e forza". Nell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert (1751-1777) la macchina, nella voce Machine redatta dallo stesso d'Alembert, è descritta ancora come un dispositivo "che serve ad aumentare e a regolare le forze attive (forces mouvantes)". Ma "una macchina consiste ancora più nell'arte e nell'invenzione che nella forza e nella solidità dei materiali". Le macchine di Archimede e quelle elencate nelle raccolte e descritte dal Gallon, e ancora prima dal Ramelli, dal Leupold, dallo Zabaglia (v. cap. 3), lasciano presto spazio alle macchine architettoniche, ma soprattutto alle macchine idrauliche (machines à eau) e alle macchine militari. Alla machine infernale - una sorta di nave carica di esplosivo destinata a essere fatta esplodere contro le cittadelle nemiche - sono dedicate più pagine che a tutte le altre messe insieme. La macchina è ancora un oggetto per lo più estraneo al processo produttivo, e del resto l'Encyclopédie rispecchia una società che ancora non ha conosciuto la rivoluzione industriale.In relazione alla funzione, ma senza voler fornire una tassonomia esaustiva, si distinguono le macchine agricole, le macchine a vapore, le macchine da calcolo, le macchine di prova, le macchine elettriche, le macchine frigorifere, le macchine idrauliche, le macchine tessili, le macchine per la stampa, le macchine pneumatiche, le macchine utensili. Sono inoltre da considerarsi macchine, anche nell'ambito della definizione più restrittiva, i mezzi di trasporto, gli attuatori e i manipolatori, gli automi e i robot.

La macchina tra mondo antico e Medioevo

Secondo un'affermazione di Lewis Mumford l'antichità conosceva singole macchine (elementari) e non 'la macchina'. Le macchine sono conosciute nel mondo antico soprattutto come moltiplicatori di forza. La leva con cui Archimede vorrebbe sollevare il mondo, il paranco con cui si riescono a sollevare carichi ben superiori alla forza di sollevamento, il cuneo che riesce a spaccare un blocco di marmo sono alcuni esempi di applicazione alle macchine elementari dei principî dell'equilibrio statico. Le macchine che trasformano l'energia sono ancora poco diffuse, se si eccettuano gli animali e l'uomo, 'macchine' in cui ha luogo la conversione dell'energia chimica degli alimenti in energia meccanica. Un papiro del II secolo a.C. fa riferimento a una ruota a secchie (noria) 'automatica', mossa da una ruota idraulica. Nelle miniere di piombo di Rio Tinto nei pressi di Siviglia i Romani installarono una serie di norie per il drenaggio dei pozzi e delle gallerie sotterranee. Queste macchine, mosse manualmente, non richiedevano alcuna ruota dentata per la trasmissione del moto. Ben diverso è il caso dei mulini, dove la trasmissione dall'asse orizzontale della ruota a quello verticale della macina impone l'uso di una coppia di ruote a pioli, per la cui costruzione sono necessarie raffinate conoscenze di materiali e di tecniche di costruzione. Queste macchine erano note certamente già nel I secolo a.C., quando Antipatro (Antologia Palatina, IX, 418) afferma: "Cerere impose alle Ninfe dell'acque il lavoro, e d'un balzo si lanciano esse al sommo vertice d'una rota e fan che l'asse giri". Intorno al 18 a.C. Strabone menziona un mulino ad acqua per macinare il grano, in funzione nel palazzo di Mitridate, re del Ponto. Vitruvio (De Architectura, X) cita il mulino con ruota ad asse orizzontale e a pale colpite dal basso. A Barbegal, in Francia, nei pressi di Nîmes, i Romani costruirono una serie di mulini disposti a gradini su un dislivello di alcune decine di metri, alimentati da due canali che scorrevano ai fianchi degli edifici. È una delle poche testimonianze archeologiche dell'impiego delle ruote idrauliche nel mondo romano, e prova la fattibilità di queste macchine, anche se esse non ebbero una diffusione tale da poterne ritenere fondamentale il ruolo nell'ambito dello sviluppo tecnologico. I mulini mossi da schiavi o da animali rimangono la tipologia principale che caratterizza l'attività molitoria. Cosa per noi paradossale, il mondo antico preferisce la macchina 'naturale' alla macchina 'artificiale'. Gli ammonimenti di Platone all'amico Callimaco nelle Leggi sono molto eloquenti.

Non macchine, ma piuttosto meccanismi - precursori degli orologi - sono gli automi di Ctesibio, Erone Alessandrino, Archita di Taranto, congegni adibiti alla trasmissione di un movimento, non all'esecuzione di un lavoro. Il ritrovamento del meccanismo di Antikythera, che si può far risalire alla cultura rodiota del I secolo a.C., conferma l'ipotesi che i Greci conoscessero le trasmissioni a ruote dentate e soprattutto le ruote dentate di precisione. La 'macchina' è formata da una serie di circa 30 ruote, tra di loro variamente connesse, e probabilmente costituiva un calcolatore analogico per usi cronometrici e astronomici.Le macchine per eccellenza dell'antichità sono le macchine belliche: la chiroballista è una macchina capace di accumulare energia meccanica in due nerbi ritorti e viene usata per scagliare dardi e proietti. Ctesibio di Alessandria (III secolo a.C.) propone la sostituzione delle molle di torsione con molle a balestra, nel chalcotonon, e con molle pneumatiche, nell'aerotonon. Una ballista con caricatore multiplo per frecce viene inventata da Dionisio di Alessandria (270 a.C.), e pare che questa macchina fosse tenuta nell'arsenale di Rodi. La chiroballista romana, montata su un carro a due ruote, è una macchina leggera, facilmente trasportabile, adatta a lanciare dardi; realizzata nel I secolo d.C., è costruita con parti in ferro ed è dotata di un rudimentale sistema di puntamento; sarà presto soppiantata dalla più semplice catapulta a un solo braccio: l'onagro. Qualche secolo più tardi un'altra macchina, questa volta a contrappeso, ottiene il primato. Trebuchet, chatte e bricole sono termini del francese antico che indicano, come gli analoghi italiani (trabocco e briccola), lievi varianti di una medesima macchina capace di scagliare proietti di qualche quintale ad alcune centinaia di metri.

"Invenzione antica, il mulino ad acqua è medievale dal punto di vista della sua effettiva diffusione" afferma Marc Bloch (v., 1935). Ogni piccola comunità agricola dell'Europa medievale riesce a dotarsi di questo importante convertitore di energia idraulica per macinare, per pestare, per segare. La potenza sviluppata da questi motori difficilmente supera i 2 kW, ma il loro ruolo è fondamentale nell'imprimere alle attività produttive la spinta per importanti e basilari innovazioni. Dove le condizioni ambientali rendono impossibile lo sfruttamento dell'acqua si cercano fonti alternative di energia. Indipendentemente dal mondo islamico, verso il 1185, lungo la costa del Mare del Nord, dove i venti spirano per lo più in direzione costante, si mette a punto una struttura a quadruplice velatura che sostituisce la ruota a palette idraulica. L'edificio del mulino si innalza su un treppiede, per meglio esporsi all'azione del vento. In pochi anni il mulino a vento è noto in tutta l'Europa settentrionale: a St. Mary presso Swineshead nel Lincolnshire (1170 ca.), in Normandia (1180 ca.), a Weedlley nello Yorkshire (1185), a Buckingham nell'abbazia di Oseney (1189). Nel 1192 il mulino a vento è fatto conoscere dai crociati in Palestina, e subito si impone come macchina strategica, perché permette di macinare il grano anche nelle città cinte di assedio. Agli inizi del XIII secolo, nelle Fiandre, presso Ypres, si contano più di 120 mulini a vento.

Nell'area islamica, nel 1206, viene redatto dallo scienziato al-Jazari un trattato di orologeria e meccanica (Il libro della conoscenza dei dispositivi meccanici). I dispositivi più spettacolari sono gli orologi e i motori idraulici; nelle macchine appaiono i primi meccanismi di controllo automatico a retroazione. Dall'esperienza di al-Jazari, e in certo modo anche sotto il suo influsso, nascono nell'Occidente medievale i primi trattati sulle macchine.Automi e orologi sono il segno che la macchina si evolve con l'impiego di nuovi materiali e il conseguimento di una nuova precisione (v. Koyré, 1961). L'orologio non è una macchina nel vero senso del termine, perché non produce lavoro, ma la sua costruzione condiziona sia lo sviluppo della scienza, sia l'invenzione di nuove macchine utensili, soprattutto quelle destinate a intagliare gli ingranaggi. "Sarà l'orologio e non la macchina a vapore lo strumento basilare della moderna era industriale" afferma Lewis Mumford (v., 1934).Le torri campanarie delle cattedrali europee e dei palazzi comunali si ornano dei primi congegni meccanici per segnare il tempo. Famosi sono gli orologi di Strasburgo, Lubecca, Praga, Olmuetz e Cremona, che mettono in moto complicati e fantasiosi meccanismi. L'astrario di Giovanni de' Dondi di Padova, installato nel 1344 nel castello dei Visconti a Pavia, era fatto così ingegnosamente che nonostante i numerosi ingranaggi tutto il suo moto era governato da un solo contrappeso.

Anche l'industria tessile si meccanizza. Se i telai rimarranno sino a tutto il XVIII secolo mossi dalla mano e dai piedi del tessitore, nel caso della torcitura della seta le cose stanno diversamente. Nel 1330 viene menzionato per la prima volta a Lucca un "filacterium ad filandum sericum cum omnibus suis apparatibus et fornimentis"; ben presto, a Bologna, macchine complesse di questo tipo verranno dotate di ruote idrauliche che le renderanno capaci di moto autonomo.

Le macchine dal pressappoco alla precisione

Intorno al 1260 Villard de Honnecourt, un ingegnere costruttore di cattedrali gotiche, trattando di edifici, ma anche di macchine da cantiere, espone nel suo Quaderno disegni e fondamenti di un'arte basata "sulla disciplina della geometria". La teoria delle macchine, alle soglie del Rinascimento, rimane confinata nei trattati di filosofia, e gli ingegneri si preoccupano piuttosto di materiali e delle proporzioni dei meccanismi, i cui segreti sono spesso gelosamente custoditi. Guido da Vigevano, Kyeser, Giovanni Fontana, Mariano di Jacopo detto il Taccola, Lorenzo Ghiberti, Roberto Valturio, Francesco di Giorgio sono tecnici vissuti tra il XIV e il XV secolo; i loro interessi spaziano dagli ingenia militari ai mulini, alle macchine da cantiere. Le ruote ad acqua, le macchine da trasporto (tirari) e da sollevamento (alzari), i trabocchi - più raramente i magli, le forge e le seghe - sono i protagonisti, sinché le nuove artiglierie a fuoco non sconvolgono macchine, opifici e le stesse architetture difensive.

Leonardo da Vinci, che anatomizza le macchine aprendo nuove prospettive per l'ingegneria, inaugura il XVI secolo. Vannoccio Biringucci (De la pirotechnia, Venezia 1544) e Georg Bauer alias Agricola (De re metallica, Basilea 1556) fondano la nuova arte dei metalli, e con essi la macchina, sinora costruita quasi interamente in legno, scopre nel ferro un nuovo materiale da costruzione. Jacques Besson (Theatrum instrumentorum et machinarum, Lione 1569) e Agostino Ramelli (Le diverse et artificiose machine, Parigi 1588) ricorrono al genere letterario del theatrum per spiegare le macchine anche e soprattutto a un pubblico di non specialisti.

Guidobaldo dei marchesi Del Monte scrive nel 1577 il Mechanicorum liber, in cui le macchine elementari sono alla base di una teoria sistematica ancora legata ai paradigmi dell'equilibrio statico fondato su modelli geometrici. Il suo allievo Galileo Galilei troverà nella macchina il pretesto per formulare le teorie della 'nuova scienza'.

Vittorio Zonca, ingegnere padovano, nel Novo theatro di machine et edifizii (1607) modifica e approfondisce il rapporto con la macchina. La sua presentazione non si limita alla descrizione degli "strani ed ingegnosi meccanismi", ma li penetra con maggiore profondità, ne mostra gli spaccati e gli esplosi dove ciascun particolare diviene attore e protagonista. Heinrich Zeising (Theatri machinarum erster Theill, Leipzig 1612), Fausto Veranzio (Machinae novae, Venezia 1595 e 1615), Salomon de Caus (Les raisons des forces mouvantes, Frankfurt 1615), Jacobus de Strada (Künstliche Abriss allerhandt Wasswerkunsten, Frankfurt 1618), Giovanni Branca (Le machine, Roma 1629), più oltre ancora Georg Böckler (Theatrum machinarum novum, Nurnberg 1662) e i vari theatra del Leupold (Leipzig 1724-1739), continuano il genere ricorrendo frequentemente alla ripetizione di schemi già sperimentati per macchine che si diffondono e si perfezionano nei particolari costruttivi. Nicola Zabaglia, verso la metà del XVIII secolo, codifica le macchine da cantiere e porta a conclusione un percorso iniziatosi con l'empeiria macchinistica degli architetti rinascimentali e passato attraverso l'esperienza di Domenico Fontana (Della trasportazione dell'obelisco vaticano, Roma 1590).

Le macchine del 'moto perpetuo', che dal Medioevo costituiscono l'utopia di molti ingegneri e costruttori, continuano ad affermare prepotentemente la propria volontà di esistere, non senza truffe e inganni. Nel 1775 l'Académie Royale des Sciences di Parigi si pronuncia solennemente e vieta ai propri soci di prendere in esame ogni proposta e progetto di simili macchine.

I commissari dell'Académie des Sciences, studiando le innovazioni tecnologiche francesi, ammettono essi stessi che l'origine della macchina utensile fu inglese, non tanto come invenzione, quanto come diffusione e impiego a livello industriale. Il gap che ostacola il decollo dell'industrializzazione è di natura energetica. Solamente quando la macchina a vapore riesce a diventare una realtà per gli ingegneri minerari, che la impiegano per la prima volta nel drenaggio dei pozzi, allora anche l'industria del ferro può evolversi. Motori più potenti permettono di azionare macchine utensili più potenti e precise (perché più veloci), le quali rendono possibile la costruzione di macchine motrici ancora più potenti.

Solo alla metà del XVIII secolo appaiono i primi tentativi di razionalizzare i processi di produzione e le macchine utensili che si impiegano in essi. Le macchine utensili - i magli e i laminatoi attivati da una natural force - popolano le officine per la lavorazione dei fucinati. "L'ampliamento del volume della macchina operatrice e del numero dei suoi strumenti che operano contemporaneamente, richiede una macchina motrice più massiccia, e questa richiede a sua volta, per vincere la propria resistenza, una forza motrice più potente di quella umana, astraendo dal fatto che l'uomo è un imperfettissimo strumento di produzione di moto uniforme e continuo [...]. Soltanto con la seconda macchina a vapore del Watt, quella detta a doppio effetto, era stato trovato un primo motore che generasse da sé la propria forza motrice alimentandosi di acqua e di carbone, la cui potenzialità fosse completamente sotto il controllo umano, che fosse insieme mobile e mezzo di locomozione, urbano e non rurale come la ruota ad acqua, che permettesse quindi di concentrare la produzione nelle città, invece di disseminarla per le campagne come avviene per la ruota ad acqua" (K. Marx, Il capitale, libro I, sez. IV, cap. 13.1).

Il tornio sin dal Rinascimento viene utilizzato per fabbricare grani di rosario, bottoni, pedine e oggetti d'ornamento. Il Besson (1569) ne descrive tre versioni. I trattati del Plumier (1701), dell'Hulot (1775), sino a quello del Bergeron (1815), ne segnano l'evoluzione. Il tornio diviene la macchina utensile per eccellenza, usata dai mécaniciens nei primi opifici. Nel Settecento il tornio esce dalle botteghe ed entra persino nelle corti. I sovrani dell'ancien régime, come Carlo Emanuele III di Savoia oppure lo stesso Luigi XVI, si dilettano con il tour à guillocher che permette di incidere disegni a curve interallacciate, a volute simmetriche, ornamentali, per numerose applicazioni, ma in particolare per la lavorazione delle casse metalliche degli orologi e di altri oggetti di orologeria e oreficeria. L'orologeria, con Ferdinand Berthoud e Antoine Thiout, sviluppa nuove macchine per tornire con precisione gli alberi e per intagliare le ruote dentate. Ma esse sono ancora macchine di piccole dimensioni, le quali, mosse a manovella o a pedale, non richiedono grandi energie.

Dalla macchina utensile impiegata negli opifici per la produzione di manufatti in acciaio prende le mosse la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Le macchine per fabbricare i chiodi nascono in Inghilterra. Dal 1790 al 1852 vengono conseguiti più di cinquanta brevetti di privativa per macchine impiegate in questa lavorazione. Nel 1809 funzionano già macchine automatiche per la produzione di chiodi. Nelle officine di Chaillot sono in funzione già nel 1823 delle macchine alesatrici a vapore. Ben presto le macchine utensili si arricchiranno di importanti meccanismi per aumentare la produzione e per automatizzare processi anche complessi. Nel 1818 Thomas Blanchard di Worcester inventa un tornio a copiare per lavorare in maniera completamente automatica il calcio dei fucili.

La macchina, che sin dal Rinascimento è modello per la rappresentazione della "grande macchina della Terra", diventa riferimento per savants e philosophers. Si studia l'uomo come macchina, per potere costruire una macchina che somigli all'uomo, onde conoscerne meglio le funzioni, al di là di ogni interpretazione meta-fisica. Julien Offroy de Lamettrie (1709-1751) a conclusione de L'uomo macchina (1748) scrive: "Il corpo non è che un orologio, di cui il nuovo chilo è l'orologiaio. Quando questo entra nel sangue, la prima cura della natura è di eccitarvi una specie di febbre, che [...] produce una maggiore filtrazione di spiriti, i quali meccanicamente vanno ad animare i muscoli del cuore, come se ci fossero stati mandati per ordine della volontà". Sade, invece, inventa spesso macchine voluttuose e criminali. Come emerge da una lucida analisi di Roland Barthes, "la macchina sadiana non si ferma all'automa (passione del secolo); è tutto il gruppo vivente che è concepito, costruito come una macchina. [...] La macchina totale è un sistema equilibrato [...] non rimane che sorvegliarla, come fa un buon tecnico che misura, lubrifica, restringe, regola, cambia, ecc.".

Verso i sistemi meccanici

Nel 1759 Antoine-Yves Goguet, con spirito tipico dell'illuminismo, traccia una prima storia della macchina, prendendo lo spunto dall'evoluzione dell'aratro nel mondo antico: "La costruzione de' primi aratri era semplicissima. Questa macchina, che in alcuni paesi oggigiorno è assai complicata, era nella sua prima origine composta d'un sol pezzo di legno assai lungo e curvato in modo che una parte si profondasse nella terra e l'altra servisse per accoppiare i bovi. Non v'erano ruote d'alcuna maniera, ma soltanto un manico, coll'ajuto del quale il condottiero potesse a sua voglia, e secondo il bisogno, dirigerlo e voltarlo in ogni parte" (De l'origines des lois, des arts et des sciences, parte I, libro II, cap. I, art. I). La macchina non ha ancora assunto il ruolo di protagonista in una società dove l'artefice, il faber è ancora figura centrale del processo produttivo. Ma già nel 1776 Adam Smith nella Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (cap. I), riferendosi al mulino ad acqua, affermava come fosse "evidente a tutti quanto il lavoro venga abbreviato e facilitato dall'uso di macchine adatte". Quando invece egli procede alla famosa descrizione della fabbrica di spilli, se da un lato scorge l'innovazione rivoluzionaria della suddivisione dei ruoli nelle operazioni di produzione dei beni materiali, dall'altro non focalizza ancora completamente le potenzialità della meccanizzazione industriale.

Lazare Carnot pubblica l'Essai sur les machines en général (1786) con l'intento di analizzare le caratteristiche delle macchine indipendentemente dall'applicazione a cui esse sono destinate. La riduzione di ogni macchina alla leva appare troppo vaga e forzata e l'Essai vuole piuttosto formulare una teoria meccanica delle forze, del movimento e soprattutto del rendimento e delle dissipazioni causate dagli attriti, "per ridurre tutte le questioni a un affare di calcolo e di geometria, il che è il vero oggetto della meccanica". La presenza solamente di "qualche osservazione sulle machines à eau" e la totale mancanza di cenni alle machines à feu indurranno il figlio di Lazare, Sadi, a pubblicare nel 1824 le Réflections sur la puissance motrice du feu, quasi a saldare un debito non ancora completamente onorato. Se l'opera segue i canoni del trattato scientifico, non mancano, soprattutto nell'introduzione, alcune profonde riflessioni sul ruolo sociale della macchina, e soprattutto della macchina a vapore. "Se un giorno la macchina a fuoco sarà così perfezionata da risultare economica rispetto ai costi di impianto e al consumo di combustibile, essa farà compiere alle tecniche industriali un progresso di cui sarebbe difficile prevedere tutta la portata. [...] Levare oggi all'Inghilterra le sue macchine a vapore sarebbe prosciugare tutte le sue fonti di ricchezza, privarla di tutti i mezzi di prosperità". Ma è soprattutto la preoccupazione di migliorare l'efficienza di queste macchine, evitando di procedere allo sviluppo di nuovi dispositivi in modo del tutto casuale, che spinge Sadi Carnot a focalizzare la sua attenzione sui limiti e sui confini dei processi di trasformazione dell'energia termica in energia meccanica.

Friedrich von Knaus (1724-1789), gli svizzeri Pierre Jacquet-Droz (1721-1790) e suo figlio Henry-Louis (1752-1791), l'abbé Mical (1730-1789) e il barone von Kempelen (1734-1804) costruiscono fantasiosi giocattoli meccanici. Da Blaise Pascal (1623-1662) a Giovanni Poleni (1683-1761) si sono ormai da tempo costruite macchine addizionatrici meccaniche. Jacques Vaucanson (1709-1782), costruttore di automi, progetta e costruisce un filatoio da seta destinato a rivoluzionare la tecnologia serica, e un tornio parallelo a lunetta mobile che ha un precedente soltanto nelle macchine da orologeria del Thiout. Sono due macchine che, pur non apportando modifiche formali a macchine già esistenti, ne innovano la struttura con l'adozione del ferro in sostituzione del legno. L'impiego del metallo rende più rigida la macchina, e la velocità di perni, alberi e ruote dentate può essere aumentata a tal punto da incrementare sia la precisione della lavorazione sia la produttività.Charles Babbage (1790-1871), che ha conosciuto l'innovazione del telaio Jacquard a schede perforate, si impegna a costruire macchine da calcolo sempre più complesse. Ada Augusta contessa di Lovelace, figlia di Byron, traduce dal francese in inglese il saggio dell'ufficiale e matematico torinese Luigi Federico Menabrea, A proposito della macchina analitica inventata da Charles Babbage (1842), e afferma: "la macchina analitica tesse schemi algebrici, proprio come il telaio Jacquard tesse figure di fiori e di foglie...".La macchina rimane agli estremi limiti dell'orizzonte di Saint Simon, ma già quando nel 1825 O. Rodrigues scrive sul "Producteur" le sue Considérations générales sur l'industrie, l'interesse per le macchine è quello dell'imprenditore che vede in esse un mezzo per abbreviare il tempo di lavoro e favorire il rapido incremento della produzione. Al contempo la macchina permette di riservare l'impiego della forza fisica umana per opere sempre più preziose, perché il lavoro dell'uomo ha, rispetto a quello delle macchine, il vantaggio di concentrare in un'azione la forza direttrice dell'intelligenza e la forza passiva dei muscoli.

La grande industria

Pioniere dell'istruzione tecnica di artigiani e operai, Andrew Ure (1778-1857) è il primo a sostenere, nella sua opera Philosophy of manufactures (1835), che la rivoluzione industriale è un processo nuovo e irreversibile in cui le macchine assumono un ruolo mai avuto in precedenza. Il passaggio dalla técnica del artesano, tipica di una società agricola e artigianale, alla técnica del técnico, tipica del mondo industriale, analizzato da José Ortega y Gasset (v., 1939), vede la macchina sostituirsi all'utensile e diventare protagonista di un sistema in cui all'operatore si affianca l'ingegnere, ma soprattutto l'imprenditore, che trova nei mezzi di produzione l'oggetto dei propri investimenti.

Per M.C. Laboulaye (Dictionnaire des arts et manufactures..., 1853) "si dà il nome di macchina a tutti i sistemi destinati a trasmettere il lavoro delle forze e di conseguenza atti a modificarne l'intensità e il moto, sia in relazione alla velocità sia alla direzione, in ragione dello scopo da ottenere. Sono soprattutto le variazioni del cammino percorso dagli organi in movimento che rendono le macchine adatte a un'infinità di impieghi industriali". E Karl Marx, sulla base di una cultura politecnica ormai assestata in tutta l'Europa industriale, fornisce nel Capitale (libro I, sez. IV, cap. 13.1) la seguente descrizione: "Ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti sostanzialmente differenti, macchina motrice, meccanismo di trasmissione e infine macchina utensile o macchina operatrice. La macchina motrice opera come forza motrice di tutto il meccanismo. Esso o genera la propria forza motrice, come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, la macchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l'impulso da una forza naturale esterna, già esistente, come la ruota ad acqua dalla caduta dell'acqua, la pala d'un mulino a vento dal vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione, composto di volani, alberi di trasmissione, ruote dentate, pulegge, assi, corde, cinghie, congegni e apparecchi di ogni genere, regola il movimento, ne cambia, quando sia necessario, la forma, per esempio, da assiale in circolare, lo distribuisce e lo trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del meccanismo esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il moto per il quale essa afferra e trasforma come richiesto l'oggetto del lavoro [...]. Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o macchina operatrice vera e propria, vediamo ripresentarsi, tutto sommato, se pur spesso in forma assai modificata, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l'artigiano e l'operaio manifatturiero; ora però non più come strumenti dell'uomo, ma come strumenti d'un meccanismo e strumenti meccanici. O è tutta la macchina che si riduce a una edizione meccanica, più o meno modificata, del vecchio strumento del mestiere artigiano, come nel telaio meccanico; oppure gli organi operanti applicati allo scheletro della macchina operatrice sono vecchie conoscenze come i fusi nella filatrice meccanica, come gli aghi nel telaio del calzettaio, le lame dentate nella segheria meccanica, i coltelli nella triturazione meccanica, ecc. La differenza fra questi strumenti e il corpo della macchina operatrice in senso proprio risale alla loro nascita. [...] Dunque la macchina utensile è un meccanismo il quale, dopo che gli sia stato comunicato il moto corrispondente, compie con i suoi strumenti le stesse operazioni che prima erano eseguite con analoghi strumenti dall'operaio". Discostandosi dalle definizioni classiche dell'ingegneria e guardando piuttosto all'impatto sociale della macchina, Paul Mantoux (v., 1906) la definisce come "ogni mezzo artificiale per abbreviare o facilitare il lavoro umano" e ribadisce che essa deve distinguersi dal semplice utensile "per la forza automatica che la muove e per i movimenti dei quali essa è capace". Essa "è un meccanismo che, sotto l'impulso di una forza motrice semplice, esegue i movimenti composti di una operazione tecnica precedentemente realizzata da una o più persone".

Criticando il processo tecnologico John Stuart Mill nei Principles of political economy (1848) si chiede "se tutte le invenzioni meccaniche realizzate sinora abbiano realmente alleviato la fatica quotidiana d'un qualsiasi essere umano". Per Marx "un sistema articolato di macchine operatrici, che ricevono il movimento da un meccanismo automatico centrale soltanto mediante il macchinario di trasmissione, costituisce la forma più sviluppata della produzione a macchina. Qui all'intera macchina subentra un mostro meccanico, che riempie del suo corpo interi edifici e fabbriche, e la cui forza demoniaca, dapprima nascosta dal movimento quasi solenne e misurato delle sue membra gigantesche, esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro in senso proprio" (Il capitale, libro I).Thomas Carlyle (The signs of times, 1829) afferma che la macchina "è un operaio senz'anima, ma più veloce". Per Francesco Reuleaux, a cui si devono importanti trattati di meccanica, ma soprattutto un'importante opera di divulgazione sulla tecnologia (v. Reuleaux, 1873), la macchina è "un insieme di corpi resistenti disposti in modo da obbligare col loro mezzo le forze meccaniche naturali ad agire secondo movimenti determinati"; è una definizione, fondata sulla "geometria delle macchine", che, ben riassumendo l'interesse per le realizzazioni pratiche, rappresenta un punto chiave nella cultura politecnica del secondo Ottocento.

Le grandi industrie dei metalli impiegano veri giganti per piegare e per deformare i metalli. I magli e le presse di Le Creusot in Francia, delle officine Krupp in Germania e delle Acciaierie di Terni ancora oggi ne testimoniano l'imponenza. Con la nascita della grande industria le macchine si ingigantiscono, ma soprattutto producono altre macchine: automobili, ma anche macchine per cucire e macchine per scrivere. Un prototipo rudimentale di macchina per cucire viene costruito nel 1755 da Karl Weisenthall, ma soltanto dopo una lunga catena di trials and errors nel 1830 il francese Thimonnier riesce a costruire e brevettare una macchina in grado di cucire eseguendo il punto a catenella semplice. L'anno successivo gli artigiani parigini della sartoria distruggono tutte le macchine dello stabilimento di Thimonnier, ritenendo che questa macchina sia un concorrente troppo pericoloso. Nel 1832 l'americano Hunt inventa la macchina per cucire a due fili e nel 1847 E. Howe realizza la forma definitiva di una macchina che diventa il prodotto principale delle industrie Singer. Anche la macchina per scrivere segue un'evoluzione complessa prima di raggiungere lo stadio definitivo di innovazione tecnologica con ampia diffusione. Dalla macchina per scrittura tattile dell'italiano Rampazzetto (XVI secolo) alla macchina con leve e tasti in rilievo dell'inglese Henry Mill (1717), al 'tachigrafo' di Pietro Conti (1823), alla 'plume kryptographique' di Xavier Progin (1833), al 'compositeur typographique mécanique' di Gustave Bidet (1837) gli esperimenti non riescono a evolvere dalla fase prototipale a un modello che si possa produrre industrialmente. Lo stesso 'cembalo scrivano' del novarese Giuseppe Ravizza, brevettato nel 1855, non trova il contesto industriale adatto alla sua diffusione. Sono invece gli americani Christopher Latham Sholes, Carlos Glidden e Samuel Soulé a realizzare nel 1867 la 'writing machine' che otto anni più tardi sarà in produzione nella fabbrica d'armi Remington. Per giungere alla forma definitiva, con il rullo (e lo scritto) 'visibile', bisogna attendere la 'macchina Underwood' di Wagner (1898). In Italia la produzione industriale di macchine per scrivere inizia con Camillo Olivetti a Ivrea nel 1908.

Fino al 1895 parlando di macchine non ci si riferiva a mezzi di trasporto. Improvvisamente, tra il 1895 e il 1900 grazie all'invenzione del motore a combustione interna, che rende mobile la macchina motrice, l'automobile diventa la macchina per antonomasia, la "macchina che cambia il mondo". L'industria automobilistica si trasforma da officina in "macchina appositamente progettata per fare altre macchine". Le macchine utensili, ma non solo esse, si adattano ai processi di produzione e mutano le catene, le linee, le isole di montaggio.

Oltre le macchine meccaniche

L'elettricità, che soltanto negli anni ottanta del XIX secolo è riuscita a diventare una forma di energia utilizzabile in modo completo nel mondo produttivo, cambia la geografia delle industrie. La rete di distribuzione dell'energia è causa prima del proliferare delle macchine, sia motrici sia operatrici. Le macchine elettriche, le quali si dimostrano estremamente versatili ed economiche, riescono a pervadere la tecnologia dei sistemi più disparati e la loro funzione di attuatori si espande agli strumenti di misura, ai sistemi di controllo, agli asservimenti funzionali delle macchine.

L'"età della meccanica" (Carlyle) rimane una definizione valida del periodo dell'industrializzazione solamente sino ai primi decenni del XX secolo. Se il compito delle macchine 'meccaniche' è la trasformazione del lavoro, nelle 'servomacchine', prima, e, in seguito, nelle macchine 'elettroniche', il compito diviene la trasformazione dell'informazione. Il telegrafo è la prima macchina per la trasformazione dell'informazione, a cui seguiranno il telefono, il grammofono, la radio, la televisione, il computer.

L'elaborazione dei segnali trova una prima rudimentale attuazione nelle macchine da calcolo del Settecento, ma soltanto con Babbage e soprattutto con Hermann Hollerith, che impiega le schede perforate per una macchina 'demografica' nel 1880 a Baltimora, scopre la propria funzione sociale che ne promuove la diffusione. La macchina muta la propria essenzialità e si trasforma da hardware in software, dove è la funzione e non la struttura a caratterizzare la macchina stessa.

L'attuatore meccanico del contatore a ruote dentate, il relè elettromeccanico, la valvola termoionica, il transistor, il circuito integrato sono le tappe di un'evoluzione della macchina che da mobile diviene immobile e quindi passa allo 'stato solido'.

Le visioni critiche della società tecnologica e del ruolo della macchina si infittiscono nel XX secolo. G. Friedman (v., 1946), nell'approfondire lo studio dei rapporti tra macchine e società umana, guarda al "macchinismo industriale" come a un tutto unico dove le macchine di produzione e gli uomini che le utilizzano sono una realtà inscindibile. L'industria e il macchinismo industriale che ne esprime la più profonda essenza diventano la condizione per nuove realtà sociali: se l'utensile si è adattato all'uomo che lo utilizzava per svolgere un determinato lavoro, è invece "l'operaio che si adatta alla macchina". Altro sono le macchine "di trasporto, di comunicazione e di svago", che invece sono destinate al contesto della civiltà tecnologica: la visione sistematica di una società delle macchine non è ancora avvertita nella sua interezza, e la separazione tra società industriale (dove si produce) e società tecnologica (dove si consuma) è ancora facilmente riconoscibile.

Lewis Mumford (v., 1967), che riprende un'affermazione del Carlyle a quasi cento anni di distanza, definendo la nostra era come "l'epoca della Macchina", guarda a una realtà condizionata dalla rivoluzione industriale, ma con problematiche differenti. La centralità della macchina nel Novecento privilegia la funzione e la complessità; più che il movimento ciò che importa è il flusso delle informazioni.Günter Anders (v., 1980) afferma che si può parlare di vera rivoluzione industriale soltanto "dal momento in cui, con essa, si è cominciato a iterare il 'principio del macchinale', cioè a dire: a fabbricare macchinalmente macchine, o perlomeno pezzi di macchine". L'iterazione si potenzia velocemente e la produzione di macchine per mezzo di macchine non è più l'eccezione ma la regola. Per Anders il trionfo del mondo degli apparati (Apparatenwelt) si realizza nella cancellazione della differenza tra forme tecniche e sociali, rendendone infondata la distinzione. L'industria, l'azienda, in questo caso raggiunge il massimo della perfezione quando i suoi addetti si integrano perfettamente nelle strutture tecniche (le macchine) con cui operano e che coordinano nel loro operare. Si ha così un ribaltamento del postulato del Lamettrie: "gli uomini non sono macchine, ma devono trasformarsi in macchine, in pezzi di macchine, e infine nella macchina".

Software

A seguito di un collasso della rete elettrica del nordest degli Stati Uniti avvenuto nel 1965, Anders in un saggio del 1969 anticipa profeticamente il ruolo della macchina all'interno della rete di cui è elemento. La macchina riduce la sua funzione individuale e la rete stessa in cui la macchina è elemento diventa, perdendo materialità, la macchina.

La macchina che da hardware si muta in software (funzione piuttosto che struttura) è l'oggetto delle dieci tesi di Günter Anders che si elencano nel seguito senza ulteriore commento: 1) le macchine si espandono; 2) l'impulso espansionistico delle macchine è insaziabile; 3) il numero delle macchine esistenti diminuisce; 4) le macchine si declassano; 5) le macchine diventano un'unica macchina; 6) quanto più grande è la megamacchina, tanto più seriamente sono in pericolo i suoi pezzi, che, prima di essere riuniti in essa, avevano funzionato come pezzi singoli; 7) nonostante l'integrazione dei pezzi nel tutto, il pezzo deve proteggersi dal tutto quanto il tutto dai pezzi; 8) la megamacchina a cui le macchine sono collegate deve prendere provvedimenti per l'eventuale situazione di emergenza in cui potrebbe cadere: essa deve funzionare sempre in modo da rendersi, perlomeno transitoriamente, non necessaria; 9) uno dei compiti principali di tutte le pianificazioni consisterà in futuro nel dosaggio della grandezza delle megamacchine; 10) la presa di posizione degli uomini di fronte alle macchine e alla tecnica non può essere unica, ma dipende fortemente dal contesto sociale a cui si riferiscono.

Nel 1936 Alan Turing aveva formulato la teoria degli automi sviluppando, a puro livello teorico, un modello di macchina 'digitale' e aveva dimostrato che questo universal computer poteva risolvere virtualmente ogni problema matematico o logico che potesse essere formulato in maniera consistente da un punto di vista logico. Intorno al 1940 Warren McCulloch e Walter Pitts del Massachusetts Institute of Technology sviluppano la teoria degli automi a reti neurali, che riproducono la struttura del sistema nervoso umano. Nel primo calcolatore elettronico, l'ENIAC (Electronic Numerical Integrator And Computer), realizzato con 18.000 valvole termoioniche presso l'Università di Pennsylvania nei primi anni quaranta, la programmazione delle funzioni della macchina viene ancora effettuata alterando fisicamente la struttura circuitale della macchina stessa. Questa macchina era in grado di memorizzare soltanto 20 numeri ciascuno di 10 cifre significative e di elaborarli numericamente con tempi di accesso in memoria dell'ordine dei 10 ms. La prima intuizione di una macchina modificabile nelle funzioni per mezzo di un 'programma' numerico registrato nella memoria della macchina stessa si deve a John von Neumann nel 1945. I circuiti bistabili (flip-flop) concepiti già nel 1919 da Eccles e Jordan diventano ben presto il mattone base di ogni macchina informatica. Nella robotica e nella automazione flessibile di fabbrica le macchine utensili si integrano profondamente con i sistemi di rilevamento sensoriale e con le strutture logiche di elaborazione dei segnali per il comando degli organi meccanici di attuazione.

La macchina "che diviene sempre più invisibile" è, secondo Neil Postman (v., 1992), la vera protagonista della transizione dalla tecnocrazia al tecnopolio. La macchina elettronica, ma anche la tecnologia biomedica, continua Postman, "ha amplificato irragionevolmente la metafora delle macchine come esseri umani e degli esseri umani come macchine", dove la continuità tra esseri viventi e cose inanimate, tra organi e protesi non ha soluzioni: come già anticipava Modern times (1936) di Charlie Chaplin.

(V. anche Automazione; Energia, fonti di; Informatica; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Tecnica e tecnologia).

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Economia

di Marcella Corsi

1. Il ruolo delle macchine nello sviluppo economico

Le macchine, intese come "mezzi artificiali per abbreviare o facilitare il lavoro umano" (v. Mantoux, 1906; tr. it., p. 233), hanno da sempre condizionato la vita economica e sociale dell'uomo, determinandone spesso lo sviluppo lungo direzioni irreversibili.

In particolare, da quando è cominciato lo sviluppo industriale moderno si sono avuti periodi di poco più di mezzo secolo dominati, ciascuno, da una, due, al massimo tre grandi innovazioni (Joseph A. Schumpeter - v., 1912 e 1939 - ha definito questi periodi cicli lunghi o cicli di Kondrat´ev, dal nome dell'economista russo che li aveva teorizzati negli anni venti). Si possono così distinguere quattro tappe evolutive caratterizzate da altrettante tipologie di macchinario: la fase della macchina a vapore per usi fissi; la fase della macchina a vapore per usi mobili; la fase delle macchine elettriche e del motore a scoppio; infine, la fase attuale caratterizzata dagli elaboratori elettronici, dalle macchine a controllo numerico e dai robot.

Le rivoluzioni industriali dell'epoca moderna sono dunque quattro e ciascuna è caratterizzata dalla progressiva sostituzione dell'energia muscolare - umana o animale - con fonti di energia che mettono in moto macchine e apparecchiature di vario genere.

La prima è la rivoluzione industriale propriamente detta, quella che si svolge in Inghilterra dal 1780 al 1840. In questo periodo il processo di sviluppo è dominato dall'introduzione e poi dalla diffusione della macchina a vapore per usi fissi nell'industria tessile (particolarmente nell'industria cotoniera) e nell'industria meccanica. In questo lasso temporale, durante il quale la principale fonte di energia è il carbone, compare e poi si afferma sul piano sociale il sistema di fabbrica. Con esso emergono due nuovi protagonisti del processo produttivo, dalle precise funzioni e responsabilità: l'operaio parziale e l'imprenditore, il quale non soltanto assume le maestranze e vende il prodotto finito, ma anticipa il capitale tecnico e ne sorveglia l'uso. Queste due figure sono legate tra loro dal nesso salariale e dal rapporto funzionale della sorveglianza e della disciplina (v. Marglin, 1974).

La seconda rivoluzione industriale, che si svolge nella seconda metà del secolo scorso, è dominata dalla macchina a vapore per usi mobili: ferrovie e navi a vapore. I nuovi mezzi di trasporto rendono economicamente sfruttabili, specialmente sotto l'aspetto agricolo e zootecnico, vaste regioni come quelle dell'America settentrionale e meridionale. Il carbone è sempre la più importante fonte di energia. In Inghilterra, durante questo periodo, tendono a esaurirsi due grandi serbatoi di manodopera, l'artigianato tradizionale e il lavoro eccedente in agricoltura, il che - creando tensioni dal lato dell'offerta di lavoro - facilita la formazione e il rafforzamento dei sindacati dei lavoratori. Contemporaneamente, appaiono la moderna società per azioni e i grandi complessi nel credito e nell'industria (v. Sylos Labini, 1989).

La terza rivoluzione industriale, che si svolge durante la prima metà del nostro secolo, vede una maggiore varietà di grandi innovazioni: elettricità, motore a scoppio, chimica. Accanto al carbone compaiono due nuove fonti di energia: l'elettricità e il petrolio. In questo periodo prosegue vigorosamente lo sviluppo dei grandi complessi finanziari e industriali e dei sindacati. Tuttavia la principale trasformazione è costituita dalla cospicua espansione dell'intervento pubblico nell'economia, un intervento che si estende ulteriormente nei decenni successivi, sia nella sfera delle spese sociali sia in quella dell'istruzione e della ricerca scientifica, particolarmente rilevante sotto l'aspetto dello sviluppo economico.

È opinione diffusa che oggi stiamo vivendo nella quarta rivoluzione industriale. Se nel passato le innovazioni tecnologiche si incorporavano di regola in macchine di vario genere, oggi prendono forma, in misura crescente, in meccanismi e attrezzature di tipo elettronico, che è difficile definire macchine. La forma più semplice di automazione elettronica si basa sull'utilizzazione di singole macchine programmabili; forme più complesse implicano l'automazione di intere fasi di produzione, gestite da un calcolatore centrale. Al momento attuale questo processo di diffusione dell'automazione basato sull'elettronica appare orientato a pervadere abbastanza velocemente la quasi totalità delle attività produttive, con profonde influenze sull'organizzazione socioeconomica.

La definizione di queste quattro rivoluzioni industriali è utile a caratterizzare il ruolo delle macchine nello sviluppo della società moderna, tuttavia va presa con cautela in quanto rischia di fornire un'immagine troppo standardizzata del progresso tecnico (v. Sylos Labini, 1984).

In realtà, uno dei problemi storici centrali riguardanti il progresso tecnico è costituito dalla sua estrema variabilità nel tempo e nello spazio. Esistono enormi differenze fra le capacità mostrate dalle diverse società di generare innovazioni tecniche corrispondenti alle loro esigenze economiche, e inoltre si è manifestata anche un'accentuata variabilità nella volontà e nella capacità delle stesse società di adottare e impiegare innovazioni tecnologiche sviluppate altrove. Per di più le singole società, nel corso dei loro distinti percorsi storici, hanno esse stesse registrato marcati mutamenti nell'ampiezza e nell'intensità del proprio dinamismo tecnologico. È evidente che le cause di queste differenze, non ancora comprese appieno, si ricollegano secondo molteplici modalità complesse e articolate al funzionamento dei più ampi sistemi sociali, alle loro istituzioni, ai loro valori e alle loro strutture di incentivi. La spiegazione di queste differenze è strettamente legata a questioni ancora più ampie, quali la comprensione del mutamento sociale e del procedere a velocità così differenti nel tempo e nello spazio della crescita economica.

David S. Landes (v., 1969) ha tentato di esaminare le ragioni che stanno alla base del dinamismo tecnologico europeo (in particolare inglese). Egli si domanda quale peculiarità del modello di sviluppo europeo sia in grado di spiegare perché la tecnologia industriale moderna è emersa inizialmente nell'Europa occidentale. Landes individua due caratteristiche distintive. In primo luogo, si è qui affermato un modello di sviluppo politico, istituzionale e giuridico che ha fornito un terreno particolarmente efficace all'operare di iniziative economiche private: vennero poste limitazioni sistematiche alle esazioni arbitrarie da parte dello Stato; istituti giuridici garantirono protezione e sicurezza crescente alla proprietà privata; accordi contrattuali, il cui rispetto poteva essere garantito dal potere giudiziario, sostituirono l'esercizio della forza o l'imposizione del superiore rango sociale. In secondo luogo, lo sviluppo europeo ha attribuito un elevato valore alla manipolazione razionale dell'ambiente, mettendo in risalto l'adattamento razionale dei mezzi ai fini. La rivoluzione scientifica, come oggi viene talvolta definita, fu un evento specificamente europeo.

Non si può ovviamente sostenere che la civiltà europea abbia avuto il monopolio della razionalità, ma storici autorevoli hanno messo in evidenza la prontezza con cui l'Europa ha appreso e mutuato da altre culture, soprattutto in campo tecnologico. A. Rupert Hall ha argomentato con efficacia questa tesi: "Forse la civiltà europea non avrebbe potuto progredire così rapidamente se non avesse posseduto una notevole capacità di assimilazione - dal mondo islamico, dalla Cina e dall'India. Nessun'altra civiltà sembra aver avuto radici così estese, né essere stata così eclettica nel mutuare dall'esterno, così pronta ad accogliere l'esotico. [...] L'Europa non avrebbe concesso nulla sul piano della preminenza della propria religione e ben poco su quello della propria filosofia, ma per quanto riguarda la manifattura e le scienze naturali adottò prontamente qualsiasi elemento apparisse utile e conveniente" (v. Hall, 1957, pp. 716-717).

Vi è un diffuso consenso sul fatto che la dipendenza del progresso tecnico dalla scienza è aumentata notevolmente nel corso degli ultimi cento anni, mentre vi è un forte disaccordo circa l'entità di questa dipendenza nel lontano passato come nel periodo moderno. Walt W. Rostow (v., 1952, 1960 e 1975) ha enfatizzato, in diversi studi, l'importanza economica della scienza nell'Europa postmedievale. Numerosi storici della tecnologia hanno invece posto in rilievo il rozzo ma sapiente empirismo, gli approcci per tentativi e le soluzioni ad hoc di molte generazioni di tecnologi non istruiti prima della metà del XIX secolo (v. Mathias, 1972). Le questioni rilevanti in tale dibattito dipendono in parte dal rigore della definizione di scienza. Se la si intende come un insieme di conoscenze sistematizzate all'interno di un quadro di riferimento teorico coerente e integrato, è probabile che il ruolo di tali conoscenze prima del XX secolo sia stato limitato. D'altra parte, se si definisce la scienza in modo più generico, come insieme di procedure e atteggiamenti che inducono il ricorso a metodi sperimentali e un costante rispetto per i fatti osservati, è probabile che essa appaia più largamente diffusa. Ciò che è sicuramente evidente, e confermato dalla storia d'Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Giappone e Russia nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, è che un apparato scientifico di prima qualità e un elevato grado di originalità in campo scientifico non hanno costituito una condizione né necessaria né sufficiente di dinamismo economico (v. Rosenberg, 1976 e 1982).

Quale che sia la spinta che è all'origine delle diverse innovazioni, esse, quando risultano economicamente vitali, sono applicate sistematicamente all'attività produttiva. Tuttavia non è solo la vita economica che ne risulta influenzata, ma l'intera vita sociale. Il moderno processo di sviluppo è stato portato avanti da varie ondate di grandi innovazioni, che si sono poi diffuse e articolate in una miriade di innovazioni medie e piccole attraverso i più diversi adattamenti. Allo stesso tempo si sono avuti enormi cambiamenti nella struttura sociale: le classi tradizionali si trasformano ed emergono nuove classi e nuove categorie sociali. Insieme con i modi di produrre cambiano i modi di vivere e cambia la stessa cultura. In tale trasformazione le innovazioni - e le macchine in cui esse s'incorporano - svolgono un ruolo fondamentale, ma non ne sono la causa: si tratta di un processo in cui tutti gli elementi interagiscono fra loro in modo interessante.

2. Il dibattito economico sulle macchine

Adam Smith

La storia delle macchine si intreccia in modo indissolubile con l'economia politica agli albori della rivoluzione industriale inglese. L'analisi delle leggi che regolano il sistema di produzione svolta dagli economisti classici è il miglior esempio di come le macchine possano diventare, da soggetto tecnologico, oggetto economico di primaria importanza.In tali autori l'interesse rivolto agli effetti economici dell'utilizzo del macchinario industriale non è mai disgiunto dallo studio del principio organizzativo che ne ha influenzato - se non facilitato - l'introduzione, ovvero la divisione organizzativa del lavoro. Mentre la divisione sociale del lavoro divide la società in tante occupazioni, la divisione organizzativa del lavoro elimina le occupazioni intese in senso compiuto e impedisce all'operaio di seguire un processo produttivo completo. In tal modo, sia essa applicata al lavoro manuale o a quello intellettuale, la parcellizzazione delle funzioni lavorative ha l'effetto immediato di favorire l'utilizzazione di forza lavoro meno qualificata e/o la sostituzione di macchine al lavoro umano.

È Adam Smith, nella sua trattazione della divisione del lavoro nel primo libro della Ricchezza delle nazioni, a notare esplicitamente il legame tra divisione del lavoro e introduzione del macchinario nella produzione manifatturiera, quando sottolinea: "Questo grande aumento della quantità di lavoro che, a seguito della divisione del lavoro, lo stesso numero di persone riesce a svolgere, è dovuto a tre diverse circostanze: primo, all'aumento di destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 12, corsivo nostro). Smith si sofferma a considerare e sostenere con qualche esempio ciascuna di queste tre circostanze, ma è in particolare sull'ultima che concentra la sua attenzione.

Come fa notare Nathan Rosenberg (v., 1956), Smith riconosce chiaramente l'esistenza di una gerarchia di invenzioni che comportano vari gradi di competenza e sintesi creativa, così come distingue fra l'ingegnosità richiesta per produrre una qualche invenzione e quella necessaria per modificarla, migliorarla o applicarla a nuovi usi. Facendo ciò egli non solo introduce una distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma tiene anche conto di ulteriori distinzioni esistenti fra coloro che hanno capacità inventiva: "Non tutti i perfezionamenti delle macchine, però, sono derivati dalle invenzioni di coloro che le usavano abitualmente. Molti perfezionamenti sono stati realizzati grazie all'ingegnosità dei costruttori di macchine, quando costruirle divenne il contenuto di una professione specifica, e altri dall'ingegnosità dei cosiddetti filosofi, o speculativi, la cui professione non consiste nel fare qualche cosa, ma nell'osservare ogni cosa, cosicché proprio per questo sono in grado di combinare e unificare le possibilità insite negli oggetti più dissimili e lontani tra loro" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 14). In breve, per Smith la capacità di inventare macchine non può essere stimata o misurata in termini assoluti; il concetto ha significato solo in relazione alla complessità delle tecniche esistenti e al grado di immaginazione creativa richiesta affinché si aprano nuovi orizzonti.

I mechanics institutes

In realtà, coloro che iniziarono a interessarsi all'effettivo funzionamento delle macchine all'interno del sistema di fabbrica furono filosofi con una formazione prevalentemente scientifico-matematica, consapevoli della legittimità di considerare i processi industriali come un campo autonomo di ricerca e convinti della necessità di condurre indagini in tale direzione.

L'opera di tali autori - fra cui Charles Babbage e Andrew Ure - va inserita in quel contesto culturale che viene comunemente denominato movimento scientifico inglese. Nell'ambito di questo movimento, che fu in grado di legare lo studio delle nuove tecniche di produzione alla promozione di miglioramenti economici, "lo studio dell'economia incontrò lo studio della scienza" (v. Berg, 1980, p. 145).

I mechanics institutes sorsero, nel secondo decennio del XIX secolo, come iniziativa della componente progressista della borghesia inglese, con l'intento di fornire un'educazione scientifica agli artigiani e agli operai industriali. La premessa alla loro attività veniva dalla constatazione degli effetti sociali negativi legati alla diffusione della divisione organizzativa del lavoro e al crescente utilizzo delle macchine, quegli stessi fattori che avevano portato Smith, nel quinto libro della Ricchezza delle nazioni, a sostenere il ruolo dell'istruzione pubblica: "Un uomo che spende tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i cui effetti oltretutto sono forse sempre gli stessi o quasi, non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza [...] e in genere diviene tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana. [...] La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e incivilita questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 770).

Gli intenti dichiarati dalla maggior parte degli istituti si basavano su tre principî: 1) l'abilità artigiana e la scienza influenzano entrambe il futuro dell'industria; 2) il cambiamento tecnico avviene in modo continuo e razionale; 3) la creazione di operai specializzati, con conoscenze tecniche avanzate, favorisce la mobilità e l'eguaglianza sociale. Basandosi sulla combinazione di questi tre principî i mechanics institutes operavano affinché la trasformazione industriale che la Gran Bretagna stava sperimentando fosse armoniosa e duratura; inoltre, secondo i loro intenti, la combinazione di scienza e destrezza artigiana avrebbe liberato l'operaio dalla degradazione del sistema di fabbrica e stimolato capacità creatrici e innovatrici.

Un ruolo fondamentale nell'attuazione di tale progetto era affidato all'economia politica. Il grande lavoro di divulgazione iniziò nel 1820: l'economia politica fu presentata come la scienza che avrebbe spiegato il trionfo dell'industria britannica e la supremazia economica inglese. I divulgatori illustravano quelle che, a loro parere, erano le leggi naturali dalle quali sono regolate l'economia e la società, interpretando tutti i problemi sociali in termini di violazione di queste leggi e incoraggiando l'opinione che la sottomissione alle leggi avrebbe portato a un progresso senza fine. Argomento principale di questa economia politica popolare fu il problema della produzione e come corollario l'indiscutibile beneficio ottenibile dal macchinario.

In realtà, la retorica del legame tra progresso tecnico e crescita economica, così come viene presentata nel movimento dei mechanics institutes, ha un esplicito significato economico e sociale, quello di contribuire alla formazione di gerarchie all'interno del mondo del lavoro. Gli artigiani specializzati dovevano essere separati dai comuni lavoratori non specializzati ed entrambi i gruppi dovevano rimanere separati dalla classe media. Il tentativo di imporre una nuova disciplina alla forza lavoro era ovviamente complementare a un tale progetto.

L'interesse per la gerarchia del lavoro e per la disciplina di fabbrica si trova espresso in modo molto concreto nella produzione scritta del movimento, per lo più storie industriali e manuali. Gli autori di questi manuali si occupavano dell'uso della scienza per il miglioramento dei processi di produzione, ma adottando un approccio originale basato sull'esame delle connessioni tra tecnologia e organizzazione del lavoro.

Negli anni successivi al 1830 memorie e biografie dei primi magnati industriali o dei grandi inventori si trovavano comunemente sui popular mechanics journals, sulle enciclopedie e sui giornali delle società filosofiche, così come esisteva una grande domanda di manuali sui processi di produzione o sull'organizzazione e sulla direzione di una fabbrica. Nel contesto dei manuali di management e dei commenti tecnologico-industriali vanno inseriti sia On the economy of machinery and manufactures di Charles Babbage, sia Philosophy of manufactures di Andrew Ure, anche se queste opere hanno una capacità analitica e una rilevanza teorica che le distingue nettamente dalla massa della produzione letteraria di questo tipo.

Charles Babbage

Charles Babbage ha una posizione di particolare rilievo nel panorama scientifico-economico delineato nel paragrafo precedente. Inventore vulcanico ed estroso, egli ebbe svariatissimi interessi che manifestò in numerosi studi e nell'abbondante carteggio con corrispondenti di diversi paesi europei, tra cui non pochi italiani (v. Corsi, 1984).

Direttamente influenzata dal suo interesse per la costruzione di una "macchina analitica" (v. Losano, 1973), l'analisi del sistema di produzione industriale svolta da Babbage nel suo On the economy of machinery and manufactures è piena di spunti di ricerca, soprattutto per quanto riguarda l'interazione fra macchine e lavoratori. Come lo stesso Babbage dichiara nella sua introduzione all'opera, "lo scopo di questo volume è di puntualizzare gli effetti e i vantaggi che derivano dall'uso degli strumenti e delle macchine, sia per favorire la classificazione dei loro modi d'azione sia per definire le cause e le conseguenze del loro utilizzo allo scopo di sostituire l'abilità e la forza delle braccia umane" (v. Babbage, 1835⁴, p. 1).

La prima parte del libro è dedicata all'analisi dell'aspetto meccanico del problema, mentre nella seconda sezione Babbage si propone di esaminare tutte le difficili questioni di economia politica che sono intimamente connesse con la sua analisi.

Il vivo interesse per tutti i problemi della società civile, e in particolare per tutti i problemi riguardanti il sistema di fabbrica, induce Babbage a sottoporli al vaglio del metodo sperimentale per tentare di trovare soluzioni razionali coincidenti col minimo costo: "Se dunque colui che fa un articolo di consumo vuol divenirne fabbricante, nel senso più generico della parola, non deve limitare la sua attenzione ai principî meccanici da cui può dipendere la buona esecuzione del suo prodotto, ma deve anche disporre accuratamente tutto il sistema della sua produzione, in modo da poter offrire il prodotto al minor prezzo possibile" (p. 122).

Ciò che colpisce Babbage nella manifattura è la semplicità delle operazioni e la connessa possibilità di sottoporre il processo lavorativo a un'analisi quantitativa dei tempi e dei metodi di lavoro. (L'uso dei metodi sperimentali nello studio del lavoro non ha inizio con il movimento taylorista negli ultimi decenni del XIX secolo. Babbage è stato probabilmente il più diretto precursore di Frederick W. Taylor, il quale doveva conoscerne bene le opere, sebbene non ne abbia mai fatto menzione: v. Braverman, 1974).

Con l'obiettivo di determinare il metodo organizzativo più produttivo, Babbage trae dall'osservazione del presente un principio empirico - la divisione organizzativa del lavoro - che gli permette di scomporre il processo lavorativo fino a identificare le varie funzioni lavorative che lo compongono. Successivamente egli non solo considera con attenzione le leggi che regolano l'applicazione del macchinario al processo lavorativo, ma si fa soprattutto promotore di una nuova organizzazione del lavoro, in cui le macchine possono sostituire completamente l'uomo in tutte le funzioni lavorative più semplici, si tratti di lavoro manuale o di lavoro intellettuale. (Babbage dedica grande attenzione alla divisione del lavoro intellettuale ispirandosi all'esperienza vissuta dal matematico francese Gaspard Le Riche de Prony per il calcolo delle tavole logaritmiche e trigonometriche; l'idea di calcolare tavole numeriche per mezzo di una macchina è il grande sogno della sua vita: v. Babbage, 1864).

Una volta stabilito il modello razionale di organizzazione della produzione si può identificare, secondo Babbage, un principio di proporzionalità numerica che regola l'applicazione di quel modello a una qualsiasi fabbrica: "Quando, secondo la speciale natura dei prodotti d'ogni specie di manifatture, l'esperienza ha mostrato quale sia il più vantaggioso numero di operai che convenga dedicarvi, tutti gli opifici che non adotteranno un numero di lavoranti esattamente multiplo produrranno l'articolo a un costo maggiore" (v. Babbage, 1835⁴, p. 212).

Questo principio della proporzionalità numerica fornisce un criterio per generalizzare l'applicazione del modello garantendo il massimo rendimento; nello stesso tempo esso rappresenta uno dei primi tentativi di spiegare i processi di concentrazione industriale e la formazione di grandi imprese. Infatti, a un determinato livello di sviluppo tecnologico l'analisi quantitativa permette di stabilire la scala del processo produttivo al di sotto della quale non è possibile applicare il modello di razionalizzazione più efficiente: "Noi sappiamo che un effetto della divisione del lavoro è quello di diminuire il costo della produzione, e che questo ribasso del prezzo porta a un aumento della domanda. [...] Col crescere della domanda di un manufatto, nasce e cresce l'idea di inventare qualche macchina per lavorarlo. Con l'introduzione delle macchine la produzione aumenta e, poco a poco, sorge l'idea di creare grandi opifici [...]. Quindi gradatamente per effetto della concorrenza, per la speranza di raccogliere grossi guadagni, considerevoli capitali vengono arrischiati nella fondazione di grandi opifici industriali" (pp. 212-217). Ciò spiega la tendenza a una progressiva eliminazione delle piccole imprese, che non sono in grado di competere sul mercato perché non producono a costi concorrenziali.

Lungi dal limitare il suo studio ai soli effetti positivi, in termini economici, dell'introduzione del macchinario, Babbage si interessa anche alle ripercussioni sociali negative del sistema di fabbrica. In linea con il resto della sua analisi, egli osserva l'esistenza di determinate imperfezioni sociali, e si preoccupa di definire rimedi atti a conciliare nel modo migliore le rivendicazioni delle varie parti sociali. In particolare, Babbage si rende conto che la specializzazione delle occupazioni e la massiccia introduzione del macchinario creano profonde tensioni sociali, con conseguente rifiuto dell'innovazione da parte dei lavoratori: "In parecchi nostri distretti industriali un'opinione funesta e del tutto erronea si è propagata fra gli operai: essi credono che i loro interessi siano contrari a quelli delle persone per cui lavorano. Da ciò deriva che alcune macchine utili rimangano inutilizzate e qualche volta vengano anche distrutte in parte o in tutto dagli operai. Da ciò deriva ancora che i nuovi perfezionamenti introdotti dai padroni non vengono sperimentati nel modo migliore e che gli operai non rivolgono le loro attitudini e le loro osservazioni verso il perfezionamento dei metodi di cui si servono" (p. 250).

Come rimedio a tale situazione Babbage propone un sistema di produzione in cui le decisioni rilevanti per l'organizzazione del lavoro (salari, licenziamenti, incentivi alla produttività, ecc.) vengano prese collettivamente, e sostiene che se "il profitto d'ogni operaio si collegasse alla buona riuscita della fabbrica, potendo aumentare nella misura in cui crescono i guadagni senza che il padrone fosse costretto a fare alcun cambiamento nei prezzi convenuti coi suoi lavoranti" (p. 251), allora i lavoratori accoglierebbero tutte le innovazioni tecnologiche. È importante che venga pagato a tutti i lavoratori un salario base e che il resto delle loro entrate sia stabilito come una percentuale dei profitti dell'impresa (Babbage prende ad esempio il sistema cooperativo adottato con successo nelle miniere della Cornovaglia, oppure quello sperimentato per la ripartizione del guadagno fra gli armatori e gli equipaggi delle baleniere). In questo modo si potrebbe avere una considerevole attività innovativa motivata da una decisione cooperativa dei lavoratori di dirigere i propri sforzi verso l'introduzione di metodi di produzione più efficienti.

La praticabilità di un tale progetto dipende ovviamente dalla possibilità di identificare agenti sociali che si incarichino di realizzarlo. Babbage si pronuncia anche su questo punto: "Sarebbe difficile indurre i grandi capitalisti a entrare in un sistema fondato su tali principî, e che muta la divisione dei profitti probabili facendovi partecipare l'abilità e il lavoro. Una siffatta modificazione può essere adottata dal piccolo capitalista o dalla classe di lavoratori che possiede qualche capitale, e senza dubbio essa migliorerebbe in modo sensibile la loro condizione sociale" (p. 254).

Complessivamente lo studio degli effetti sociali del sistema di fabbrica effettuato da Babbage risulta carente soprattutto per quanto riguarda l'analisi dell'effetto del progresso tecnico sui livelli occupazionali. Questa questione fu invece assai discussa dagli economisti classici soprattutto dopo che David Ricardo, nel capitolo On machinery (XXXI) introdotto nella terza edizione (1821) del suo On the principles of political economy and taxation, sostenne la tesi secondo cui l'introduzione delle macchine può creare disoccupazione, per lo meno nel breve periodo. (Prima di Ricardo, John Barton - v., 1817 - aveva sottolineato l'esistenza di tale possibilità ascrivendola al desiderio dei capitalisti di meccanizzare tutte le funzioni produttive al fine di ridurre drasticamente il costo del lavoro).

Ricardo identifica due forze che agiscono in modo opposto sul livello dell'occupazione: a) la sostituzione di macchine a lavoratori produce disoccupazione; b) l'aumento dell'accumulazione di capitale, legato all'incremento di produttività, crea una tendenza alla crescita dell'occupazione (v. Ricardo, 1821³; tr. it., pp. 294-303). Secondo l'opinione prevalente, l'effetto di espulsione di forza lavoro prodotto dall'utilizzo delle macchine doveva considerarsi temporaneo: infatti con il licenziamento degli operai vengono liberati anche i loro salari, i quali investiti nella medesima o in altre attività, permetterebbero di occupare nuovamente gli operai espulsi. Si verificherebbe così un processo di compensazione e ciò permetterebbe di affermare la tesi di una relazione diretta fra accumulazione di capitale e occupazione per il sistema economico nel suo complesso. (Una tale tesi era già presente in Smith, il quale riteneva che l'accumulazione di capitale fosse soprattutto legata allo sviluppo della divisione del lavoro e che i due processi avanzassero insieme stimolandosi reciprocamente, cosicché "il numero dei lavoratori occupati in ogni settore produttivo in genere aumenta con l'aumento della divisione del lavoro in quel settore": v. Smith, 1776; tr. it., p. 268).

In realtà il modello classico non contiene in sé, a questo proposito, alcuna soluzione necessaria: secondo le ipotesi che facciamo riguardo ai profitti risparmiati, cioè al saggio di accumulazione, e al progresso tecnico possiamo ottenere una tendenza all'assorbimento di lavoratori o una tendenza opposta alla loro espulsione, o infine un'alternanza delle due. Il modello classico offre solo una struttura logica che, a seconda delle diverse ipotesi interpretative, può condurre a risultati contrastanti.

Andrew Ure

Pioniere dell'istruzione tecnica rivolta ad artigiani e operai, Andrew Ure, a parte alcuni contributi di minore importanza portati alla scienza chimica, è infaticabile scrittore ed enciclopedista (v. Farrar, 1973).Convinto che la produttività aumenti con l'intensificarsi del carattere costrittivo del lavoro, e quindi con l'adozione di una ferrea disciplina di fabbrica, Ure mette in evidenza - a differenza di Babbage - gli elementi irrazionali, soggettivi e quindi incontrollabili che sono legati, a suo parere, alle funzioni lavorative specializzate. Il principio del sistema automatico, teorizzato nel suo Philosophy of manufactures, è riassumibile nella sostituzione "dell'arte meccanica alla manodopera" (v. Ure, 1835, p. 20), con conseguente livellamento delle funzioni operaie al semplice ruolo di sorveglianza. Ure inoltre recupera l'analisi quantitativa che Babbage aveva applicato all'organizzazione manifatturiera, trasferendola ai problemi della meccanizzazione del lavoro: una volta pervenuti agli elementi costitutivi del processo lavorativo si tratterà di ricomporli, in maniera ottimale, quali elementi di uno stesso meccanismo automatico.

Il punto di partenza di Ure è la definizione dei termini 'manifattura' e 'fabbrica': "Manifattura è parola a cui le vicissitudini del linguaggio hanno dato un senso del tutto opposto al suo intrinseco significato. Ora la si usa per indicare ogni grande produzione ottenuta per mezzo di macchine, che esiga poca o nessuna manodopera; quindi la più perfetta manifattura è quella che può interamente fare a meno del lavoro manuale" (p. 1). La definizione di fabbrica è assai più restrittiva: "La parola fabbrica, in termini tecnici, designa la cooperazione di varie classi di operai adulti e non adulti che attendano con destrezza e assiduità a un sistema di meccanismi produttivi, posti continuamente in moto da una forza centrale. Questa definizione [...] porta con sé l'idea di un vasto automa composto di molti organi meccanici e intellettuali, che agiscono in concerto e senza interruzione, per produrre un medesimo oggetto, e stando subordinati a una forza motrice che si muove da sé" (pp. 13-14, corsivo nostro).

Va sottolineato che, in primo luogo, Ure indica nell'azione combinata degli operai la condizione minima per l'esistenza di qualsiasi processo lavorativo. In secondo luogo, la fabbrica si articola in un sistema di macchine operatrici azionate da una forza centrale (la macchina a vapore) e nella cooperazione di operai che lavorano in ordine sistematico con funzioni di sorveglianza. In terzo luogo, l'automa agisce con continuità.In un tale sistema produttivo non c'è posto per il principio della divisione del lavoro, così come era stato concepito da Smith: pur con tutti i suoi pregi di razionalità, esso presenta inconvenienti che diventano tanto più evidenti quanto più si concretizza la possibilità di eliminarli con un'opportuna meccanizzazione del lavoro. Infatti la base ancora artigiana dell'operazione lavorativa descritta da Smith lascia all'operaio un certo margine di iniziativa personale sul modo di esecuzione, sul ritmo di lavoro, sul rapporto con gli aiutanti. Tale caratteristica conferisce al lavoratore una relativa indipendenza e la consapevolezza di essere indispensabile, fattori che favoriscono l'insubordinazione alla disciplina di fabbrica. Così si esprime Ure: "Ciò che ai tempi del dottor Smith poteva servire di esempio utile, oggi non servirebbe che a indurre in errore il pubblico relativamente ai veri principî della manifattura. Infatti la distribuzione, o piuttosto l'adattamento, dei lavori alle diverse capacità individuali non rientra nel metodo con cui operano le manifatture automatiche; al contrario, dovunque un qualsiasi metodo richiede molta destrezza e una mano sicura, lo si sottrae al più presto alle braccia dell'operaio troppo abile, e sovente incline a irregolarità di vario genere, per addossarlo a un meccanismo speciale, la cui azione automatica è così ben regolata che potrebbe sorvegliarla un fanciullo" (p. 18).

Ciò che differenzia in modo sostanziale il sistema di fabbrica dalle forme industriali precedenti è il differente rapporto fra l'elemento umano e quello meccanico. Precedentemente il processo lavorativo era strutturato in modo che le sue diverse fasi risultassero omogenee ai requisiti umani. In altri termini, capacità umane quali l'abilità manuale, la resistenza alla fatica e l'attenzione venivano considerate come costanti rispetto alle quali adattare le singole fasi del processo lavorativo. Diversi sono i criteri su cui si basa l'integrazione uomo-macchina nella fabbrica automatica: "Secondo il sistema che decompone un'operazione nei suoi elementi costitutivi e ne affida tutte le parti all'azione di una macchina automatica, si possono affidare queste medesime parti a persone dotate di un'ordinaria capacità, dopo averle sottoposte a una breve prova; si può anche, in caso di urgenza, farle passare da una macchina all'altra, a volontà del direttore" (p. 21).

Con l'automazione, quindi, le funzioni operaie subiscono una trasformazione nel senso di un progressivo svuotamento dell'iniziativa individuale fino a raggiungere un vero e proprio livellamento: questa è l'ipotesi di sviluppo (in parte verificatasi) avanzata da Ure sul futuro della fabbrica moderna. Questa uniformità tecnica elimina l'attribuzione permanente di una determinata funzione lavorativa a uno stesso lavoratore e la gerarchia delle funzioni secondo i gradi di abilità; in altre parole, si crea la possibilità di realizzare una notevole mobilità orizzontale all'interno della fabbrica. Il lavoro operaio non richiede più l'uso di uno strumento e le funzioni di coordinamento: infatti il compito di sorveglianza richiede attenzione e destrezza soltanto nella misura in cui esse servono a correggere gli errori che sfuggono alle macchine. Riassumendo, "il principio del sistema automatico è dunque quello di sostituire l'arte meccanica alla manodopera e rimpiazzare la divisione del lavoro fra gli artigiani per mezzo dell'analisi di un dato metodo nei suoi principî costitutivi. Secondo il sistema del lavoro manuale la manodopera era ordinariamente il più dispendioso elemento di un prodotto qualunque [...], ma secondo il sistema automatico il talento dell'artigiano si trova progressivamente sostituito da semplici sorveglianti meccanici" (p. 20).

A partire da questo impianto Ure può recuperare l'analisi quantitativa che Babbage aveva già applicato all'organizzazione del lavoro: una volta pervenuti agli elementi costitutivi del processo lavorativo, si tratterà di ricomporli quali elementi di uno stesso meccanismo automatico. Sia Babbage che Ure restringono la considerazione dell'elemento umano a quelle caratteristiche che rientrano come variabili nell'esecuzione dei compiti produttivi. Lo studio dei tempi e dei metodi di esecuzione verte sulla descrizione di quelle caratteristiche dell'organismo umano che sono passibili di analisi quantitativa in termini di velocità, frequenza e fatica. Da questo punto di vista l'analisi dell'uomo ha come modello la descrizione di una macchina relativamente semplice, atta a seguire un compito altrettanto elementare. Il risultato di questa analisi conduce alla specificazione di un programma dettagliato di comportamento, perfettamente integrabile nel processo produttivo. Le operazioni lavorative che sono oggetto di particolare attenzione sono quelle ripetitive che richiedono, in termini decrescenti nel tempo, l'intervento umano. Se per Babbage il problema consisteva nel ridurre a due le alternative di intervento (fatica e abilità), per Ure quelle alternative spariscono, anche se permangono temporanei problemi di adattamento, circoscritti al periodo di assestamento della manifattura automatica. Questi problemi nascono, a parere di Ure, dalle difficoltà di "addestrare gli uomini a rinunciare alle loro abitudini di lavoro irregolari e a identificarsi con la regolarità invariabile del complesso automa" (p. 15).

Si tratta comunque di problemi risolvibili tramite l'istituzione di un codice di fabbrica, ossia di una serie di norme che regolino il comportamento degli operai e stabiliscano una disciplina inflessibile all'interno degli stabilimenti. Tale codice deve prescrivere, in particolare, il compito obbligatorio di ogni operaio nei riguardi della macchina, e, in generale, deve permettere di controllare le disfunzioni create dal comportamento del lavoratore ogniqualvolta la sua qualificazione professionale e le implicazioni di status che essa comporta introducono elementi di disturbo nel delicato meccanismo di integrazione dell'automa. Se dal punto di vista dell'elemento umano l'integrazione si configura come subordinazione degli operai a una direzione centralizzata, ogni coalizione di operai ostile agli interessi degli imprenditori è dannosa allo sviluppo economico: "Una verità assai importante, risultante dall'analisi dell'industria manifatturiera, è che le coalizioni di operai sono tante cospirazioni contro il loro stesso interesse, e mai mancano di concludersi con la rovina della corporazione che le abbia ordite" (p. 41).

Andrew Ure associa gli effetti delle macchine e del sistema di fabbrica a una rivoluzione, non soltanto nei modi di produzione tradizionali ma nella stessa struttura della società. Il nuovo sistema produttivo aveva trovato violenti oppositori sia tra i lavoratori sia nella classe dei proprietari terrieri. Le associazioni operaie erano contrarie all'introduzione delle macchine e a qualsiasi innovazione che potesse condurre a una riduzione della manodopera; protestavano inoltre per i bassi salari e combattevano per ottenere una riduzione dell'orario di lavoro. L'aristocrazia terriera, da parte sua, aveva ogni interesse a screditare la classe imprenditoriale per mantenere la propria posizione di potere e conduceva una violenta campagna, in parlamento e presso l'opinione pubblica, contro gli orrori del lavoro di fabbrica. In veste di portavoce della borghesia industriale, Ure contrappone a tali critiche la funzione di civiltà del sistema di fabbrica e l'illuminato spirito degli imprenditori, i quali pongono al proprio servizio le risorse della scienza: "Tale è il sistema della manifattura automatica: fecondo in prodigi di meccanica e di economia politica, esso promette, nei suoi sviluppi futuri, di divenire il più grande strumento di civiltà sul globo terrestre, e di dare all'Inghilterra, che ne è l'anima, la potenza di spargere, per mezzo del suo commercio, i lumi della scienza e della religione fra milioni di individui che languiscono ancora nella religione delle tenebre e della morte" (pp. 18-19).

All'affermazione del valore morale della fabbrica automatica Ure dedica tutto il terzo libro del suo Philosophy of manufactures. A questo scopo egli affronta tre grandi temi del suo tempo: lo sfruttamento del lavoro infantile, il nascere delle associazioni operaie e il ruolo sociale degli imprenditori industriali. La sua analisi sociale è però assai più limitata di quella svolta da Babbage in On the economy of machinery and manufactures. Le differenze sostanziali derivano dal fatto che mentre l'analisi di Babbage è di tipo propositivo, quella di Ure è puramente descrittiva. Nelle sue linee principali la posizione di quest'ultimo è indubbiamente apologetica: i mali di cui gli industriali vengono accusati nella maggioranza dei casi non esistono, e, quando esistono, la responsabilità di tali mali ricade su qualche subordinato che agisce contro le esplicite istruzioni del proprietario. L'analisi del lavoro infantile è indicativa del tono apologetico dell'opera di Ure. Egli non nega che i bambini vengano sfruttati crudelmente, neppure riferendosi all'industria cotoniera di cui è il principale difensore; sostiene però che gli imprenditori sono al tempo stesso "innocenti e inconsapevoli" dell'esistenza dello sfruttamento: i veri sfruttatori dei bambini sono coloro che se ne servono come aiutanti, in molte occasioni i loro stessi genitori (pp. 209-301).

Sulla questione degli effetti dell'automazione sui livelli occupazionali Ure si pronuncia solo indirettamente: "Quando si lascia che l'industria, come un ruscello scorra tranquilla entro i suoi argini, tutto va bene; ma se le si oppone una barriera, essa rimane per qualche tempo in uno stato di ristagno improduttivo, che ben presto genera una disastrosa inondazione. Senza le coalizioni operaie, il cambio di personale e la sostituzione del lavoro automatico alla manodopera sarebbero di rado talmente repentini da gettare l'operaio nella miseria" (p. 41).

Ure non ha né la motivazione politica né la sensibilità sociale per spingere più a fondo la sua analisi dei mali sociali causati dal sistema di fabbrica automatico. Malgrado ciò, la sua analisi, così singolarmente apologetica, apre la strada a un tipo di indagine incentrata sullo studio critico del processo lavorativo capitalistico, che vedrà in Karl Marx il suo massimo esponente. (Per un'analisi dettagliata del raccordo fra le opere di Babbage e Ure e la trattazione marxiana del sistema di fabbrica v. De Palma, 1971).

3. Le caratteristiche di un'economia informatizzata

La macchina analitica di Babbage e l'automa di Ure ben rappresentano la nuova tipologia di macchinario che caratterizza la fase di sviluppo economico in cui attualmente viviamo.

La storia della capillare diffusione dell'informatica è scandita da un ritmo esponenziale: dopo i decenni dell'informatica dei colossi industriali e dei grandi centri di calcolo la più importante innovazione tecnologica degli anni ottanta - il personal computer - ha dato il via al succedersi continuo e incalzante di altre innovazioni (v. Marchis, 1994).L'automazione della produzione industriale e il ruolo sempre crescente della cibernetica e dell'informatica hanno modificato strutturalmente il sistema economico a partire dagli anni cinquanta (v. Pollock, 1955). In particolare si è modificata la struttura occupazionale dei paesi sviluppati: gli occupati in agricoltura sono ormai ridotti a un'esigua minoranza, l'occupazione nell'industria è pressoché stazionaria, mentre sempre più lavoratori trovano collocazione nel settore terziario. Per questo si parla oggi di società postindustriale, sebbene l'espressione sia fuorviante dati i nessi strettissimi che esistono fra l'industria moderna e una quota crescente del settore terziario - il cosiddetto terziario avanzato (v. Stanback e altri, 1981).

La rivoluzione informatica non solo ha modificato molte professioni preesistenti, ma ha anche portato con sé un gran numero (tuttora crescente) di mestieri completamente nuovi. Inoltre essa ha inciso sulle forme organizzative della produzione determinando una crescente polarizzazione, da un lato verso l'accentramento, dall'altro verso il decentramento delle attività produttive. In generale si possono ora distinguere attività economiche in cui risultano favorite le grandi imprese, da altre attività in cui risultano favorite le imprese di piccola dimensione. È certamente ancora vero che le grandi imprese possono organizzare laboratori di ricerca che le piccole imprese non sono in grado di istituire; tuttavia è altrettanto vero che le nuove tecnologie informatiche ben si adattano alle medie e piccole imprese, caratterizzate da una maggiore flessibilità produttiva e organizzativa. Infine, grazie anche allo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, la divisione internazionale del lavoro non riguarda più esclusivamente le grandi imprese. L'informatica e la telematica hanno infatti radicalmente modificato i processi di creazione e di trasmissione delle informazioni, cosicché sono ora sempre più frequenti i casi di beni ottenuti attraverso operazioni produttive dislocate in diversi paesi, indipendentemente dalla dimensione delle imprese implicate.

Sotto la spinta delle più recenti innovazioni sta cambiando anche l'antica dicotomia fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, come aspetto particolare del più ampio processo di sviluppo economico.La crescita sistematica del reddito medio pro capite ha consentito un aumento del livello medio dell'istruzione, con un forte incremento del numero dei diplomati e dei laureati sia in termini assoluti che relativi. Allo stesso tempo è andata diminuendo la disponibilità dei lavoratori a svolgere lavori ripetitivi e monotoni di tipo manuale e conseguentemente è stata incentivata l'automazione di un numero crescente di processi produttivi. Malgrado ciò, i salari sono cresciuti più degli stipendi a dimostrazione della crescente scarsità di lavoratori manuali (particolarmente di lavoratori forniti di speciali qualificazioni) e della relativa abbondanza di lavoratori con titoli di studio medi e superiori. Tale abbondanza non ha contribuito solo a determinare la diminuzione, in termini relativi, degli stipendi, ma anche a far crescere la disoccupazione, che oggi è soprattutto di tipo intellettuale.Il processo appena descritto presenta aspetti sia positivi sia negativi. Fra gli aspetti negativi c'è l'aumento della disoccupazione, che ha diverse origini. Come è stato appena ricordato, essa può derivare da uno squilibrio dinamico nell'offerta fra categorie di attività lavorativa. Al contempo l'automazione porta spesso all'espulsione dai processi produttivi di lavoratori che - specialmente se in età matura - trovano difficile reinserirsi in altre attività. Si ha allora una disoccupazione tecnologica di tipo ricardiano.Fra gli aspetti positivi va notata la progressiva riduzione della distanza economica e culturale fra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali, che porta con sé una progressiva riduzione delle barriere di classe. In altri termini, come nota Sylos Labini (v., 1986), ci stiamo forse avviando verso una società in cui le classi tendono a scomparire o a trasformarsi in categorie sociali, differenziate per ruoli e per status, ma senza quelle tensioni che potevano far apparire realistica l'idea della 'lotta di classe'. Va ricordato, inoltre, che nei paesi progrediti, come conseguenza del processo di sviluppo portato avanti per mezzo delle innovazioni, si è andato attenuando il problema economico della sussistenza, sebbene permangano sacche di povertà non irrilevanti.

(V. anche Automazione; Capitale; Capitalismo; Disoccupazione; Divisione del lavoro; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Lavoro; Operai; Produttività; Rivoluzione industriale; Sviluppo economico; Tecnica e tecnologia).

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