MACEDONIA

Enciclopedia Italiana (1934)

MACEDONIA (gr. classico Μακεδονία; lat. Macedonia; pronunzia loc. Makedonia; A. T., 75-76, 82-83)

Giuseppe CARACI
Pietro ROMANELLI
Secondina Lorenzina CESANO
Angelo PERNICE
Adriano ALBERTI
Paola ZANCAN

Regione storica della Balcania, i cui limiti, sebbene varî nel tempo e non di rado controversi da autore ad autore, sono costituiti in realtà da un cercine montuoso quasi continuo e ben marcato, che la isola dalle regioni vicine, anche se la distinzione non si possa dire altrettanto netta per alcuni dei caratteri geografici, e specialmente morfologici, essenziali. Formano questo cercine: a N. lo Šar planina, il Crna gora, il Kozjak, l'Osogovo e il Rila; a E. i Rodopi centrali (Dospat) e il corso inferiore del Mesta (considerato il confine tradizionale fra Macedonia e Tracia); a S. (dov'è la lunga, contorta costa dell'Egeo con l'isola di Taso e la Calcidica) l'Olimpo e i gruppi del Vounásia, del Chasia e dello Spilós (che separano il bacino del Bistrítsa da quello del Peneo) e ad O. l'alta dorsale che, decorrendo press'a poco in senso meridiano, va, sulla continuazione del Pindo, dal Bóïon Óros, per lo Jablanica e il Desat, al nodo del Babašnica, che la congiunge allo Šar planina. Entro questi confini la Macedonia abbraccia una superficie di 67 mila kmq. in cifra tonda (di poco inferiore a quella dello Stato Libero d'Irlanda), ripartita politicamente fra la Repubblica Ellenica, che ne occupa il 51,2%, il regno iugoslavo, che ne ha 38,6% e il regno di Bulgaria (10,2%). Prendendo come base i limiti amministrativi (per la Iugoslavia quelli anteriori al 1929, cioè alla creazione dei banati, che ha alterato le vecchie divisioni storiche), i distretti in Macedonia si distinguono secondo la tabella in cima a questa pagina.

Dal punto di vista morfologico la Macedonia presenta più netto di qualunque altra zona della regione balcanica centrale il caratteristico frazionamento in molteplici piccoli bacini (lacustri o fluviali) tettonici, depressi entro una massa montuosa più o meno intensamente denudata, ma in complesso tanto più aperta quanto più si procede verso l'Egeo, al quale si dirigono tutte le acque (salvo la parte estrema occidentale, tributaria del Drin nero). I bacini, che vanno di regola diminuendo d'altezza e aumentando d'ampiezza nello stesso senso, appaiono tutti potentemente sovralluvionati e con idrografia superficiale non ancora sistemata, e perciò più divisi che uniti dai tratti di valle a forra (epigenetici) con cui i fiumi passano dall'uno all'altro, descrivendo spesso larghe volute (Bregalnica), o invertendo addirittura il proprio corso (Vardar, Crna reka). Le più ampie fra queste aree di affossamento corrispondono alle zone più densamente popolate: le piane di Tetovo, di Kosovo, di Preševo nel bacino del Vardar, la pelagonica da Prilep a Florina, sul Crna reka, quella di Kastoria sull'alta Bistrítsa, le conche di Bansko e di Strumica nel bacino dello Struma, ecc.; altre zone d'intenso insediamento si hanno poi nelle anche più svasate fasce alluvionali con cui il Vardar, la Bistrítsa (Salonicco) e lo Struma (Sérrai) finiscono al mare. Per contro i margini montuosi vanno estollendosi così a NE., nella regione del Rila, e dei Rodopi (v. bulgaria), come lungo l'impervio confine albanese, dove varie cime oltrepassano i 2000 m. (dopo il Rila e i Rodopi le altezze massime si hanno a NO., nello Šar planina: Biskra 2640, Ezersko čuka 2604 m.). La Macedonia è la regione balcanica più ricca di laghi (quello di Prespa sul confine greco-albanese-iugoslavo, ha una superficie pari al lago di Lugano e di poco inferiore gli è il lago di Ochrida), dei quali i maggiori concentrati nella sua sezione occidentale; ma il loro influsso sul popolamento è piuttosto scarso, o addirittura negativo, dove, come a SE., rappresentano, insieme con le basse zone che li rinserrano (Tachinos), perniciosi focolai malarici.

Al carattere d'isolamento, che il frammentarsi del rilievo imprime al territorio macedone, contrasta, per effetto della situazione di questo entro la Balcania, l'intrecciarsi qui delle più importanti vie di comunicazione fra l'Adriatico e l'Egeo, e fra l'Egeo e il medio bacino del Danubio (due principali strade in direzione O.-E.: da Scutari per Prizren a Skoplje ed a Vranje, e da Durazzo per il lago di Ochrida a Salonicco, cui s'intrecciano la grande diagonale Morava-Vardar e le strade adducenti da un lato alla Marizza [Sofia], dall'altro allo Struma [Kjustendil]).

La funzione extramacedone di queste vie, riconosciuta e valorizzata dai Romani (Via Egnatia) e dalle repubbliche italiane del Medioevo, andò smarrita sotto il dominio turco (sebbene desideroso di potenziare con esse l'efficienza di Salonicco, che ne rappresentava la meta) e in parte anche dopo le guerre balcaniche, che hanno frazionato il territorio macedone senza nessuna corrispondenza con le sue necessità economiche e commerciali (e così avviene, per es., che a Dojran la città sia in Iugoslavia e la stazione ferroviaria in Grecia).

Dati statistici attendibili sulla popolazione macedone non si hanno se non da un ventennio; si possono considerare tuttavia molto vicine al vero le seguenti cifre globali:

Il carattere essenzialmente agricolo del paese si rivela dalla debole percentuale della popolazione urbana: 22% nel 1900, 24% nel 1926-28 (è da tener conto inoltre del carattere più rurale che urbano di molti fra i centri abitati che hanno nome di città). La superficie agraria e forestale rappresenta appena il 46% della totale; per il 15% boschi, per il 16,5% pascoli, prati e paludi, per l'11,3% terre coltivate; i dati relativi alle principali colture sono raccolti nella seguente tabella:

I cereali sono la base dell'agricoltura macedone; occupano il 71,3% del suolo coltivabile e ne rappresentano il 47% in valore (contro il 41% alle piante industriali). Tuttavia i prodotti unitarî sono assai bassi (8,9 quintali per ha. contro 9,9 in Bulgaria e 13,3 in Iugoslavia), perché la tecnica è rimasta primitiva e irrazionale, nonostante qualche progresso promettente. Le regioni granarie che hanno un migliore avvenire sono quelle della Macedonia, occidentale; la segala s'adatta bene alle zone montuose di NE; l'avena alla piana di Salonicco (1/2 della produzione macedone), il mais cresce un po' dappertutto, ma specialmente nelle provincie orientali (Sérrai, Dráma, Cavala). Il riso si coltiva lungo la Bregalnica (Kočane), la Strumica e il Vardar. Riso e orzo, oltrepassando di molto i bisogni del paese, sono destinati per larga parte all'esportazione.

Fra le piante industriali il tabacco occupa i 5/7 della superficie coltivata e rappresenta il 96% in valore (il 37% del valore dell'intera produzione agricola), ciò che indica il peso essenziale che nell'economia macedone occupa questa coltura. Dei 59 mila ha. messi a tabacco nel 1927 poco meno di 3/4 spettano alla Macedonia greca, che entra per l'80% e più nella produzione totale. Del pari nella Macedonia orientale (Sérrai) si raccoglie la maggior parte del cotone (i 3/5), che un tempo era di almeno quattro volte superiore all'attuale. Il sesamo è coltivato essenzialmente per estrarne l'olio, che sostituisce quello d'uliva. L'ulivo non prospera che nella Macedonia greca (Cavala); la vite, diffusa un po' dappertutto, ha sofferto grandemente per la fillossera, sì che l'estensione del vigneto è oggi cinque volte inferiore a quella dell'anteguerra, e il vino non basta al consumo locale (70 mila ha. e 1,3 mil. di quintali di uva nel 1910; 14,7 mila ha. e 267 mila quintali nel 1927).

Le piante da foraggio impegnano appena l'1,5% del territorio; l'allevamento si restringe in sostanza al bestiame minuto, nel quale gli ovini tengono di gran lunga un posto preponderante:

Il sottosuolo non manca di minerali utili (cromite presso Skoplje; pirite a Izvor, magnesite a Gerakini, zinco a Taso, ecc.), ma la scarsezza di carbon fossile (Krupnik, valle dello Struma, Sérrai, Katerínē) - sostituito per lungo tempo irrazionalmente col legname dei boschi, ma non ancora dalla molta energia idroelettrica di cui la regione è capace - e i metodi primitivi di estrazione fanno sì che l'industria in genere sia la forma di attività meno sviluppata in Macedonia (27 mila operai in 150 fabbriche, per lo più modeste). Una certa importanza potrebbe avere il trattamento dei tabacchi (che occupa i 7/10 delle maestranze), ma il prodotto viene quasi tutto manipolato altrove. L'industria domestica si mantiene invece ancora florida (tessiture, tappeti, ricami, caseificio).

Il commercio interno, inceppato dall'artificiale decorso delle frontiere politiche, è ridotto a proporzioni insignificanti; su quello estero non si hanno dati precisi; è stato calcolato per il 1927 che contro 134 milioni di franchi oro all'importazione, la Macedonia ha esportato per 178 milioni; il saldo attivo è dovuto principalmente ai tabacchi, ai bozzoli (esportati soprattutto in Italia), alle farine, alle pelli, all'oppio, ecc. Dei prodotti esportati poco meno di 1/3 è assorbito dai tessuti; seguono i legnami, la carta, le macchine e gli articoli in metallo, gli olî, i prodotti chimici, ecc. Il porto senza confronto più importante della Macedonia è Salonicco; i centri industriali e commerciali più notevoli, oltre Salonicco stesso che è di gran lunga il maggiore, Cavala, Náusa (oltre metà dei fusi e della produzione tessile), Dráma, Bitolj e Skoplje. Il numero dei centri urbani è piccolissimo, e solo una ventina di essi oltrepassano i 10 mila ab. Per il resto la popolazione vive accentrata in borghi rurali - soprattutto per motivi di sicurezza - la cui distribuzione è legata strettamente alle condizioni geografiche: i nuclei più popolosi coincidono infatti con i bacini più estesi, o con le zone alluvionali meglio favorevoli alle colture o in vicinanza ai centri commerciali più attivi (distretto termaico, presso Salonicco; regione di Skoplje e dell'Ovče polje; zona pelagonica, regione di Ostrovo, dei laghi maggiori, bacino dello Struma, ecc.).

Bibl.: V. Kančov, La Macedonia: etnografia e statistica (in bulgaro), Sofia 1900; K. Oestreich, Beiträge zur Geomorphologie Mazedoniens, in Abhandl. d. geogr. Gesell. Wien, IV (1902), n. i; J. Cvijjić, Grundlinien der Geologie und Geographie von Mazedonien und Altserbien, in Peterm. Mitteil., suppl. 162, Gotha 1908; V. Kančov, Oro-idrografia della Macedonia (in bulgaro), Sofia 1915; G. Bončev, Studî petrografici-mineralogici sulla Macedonia, in Atti dell'Accademia bulgara delle scienze, XIII (1920), pp. 1-295 (in bulgaro); E. Kuhlbrodt, Klimatologie und Meteorologie von M., in Archiv d. deutsch. Seewarte, XXXVIII (1921); F. Doflein, Macedonia, Jena 1921: K. Gripp, Beiträge zur Geologie von Mazedonien, Amburgo 1922; F. Kossmat, Geologie der zentralen Balkanhalbinsel, Berlino 1924; G. Weigand, Ethnographie von Mazedonien, Lipsia 1924; L. Schultze, Mazedonien: Landschaft und Kulturbilder, Jena 1927; D. Jaranoff, La Macédonie économique, Sofia 1931. Fra i molti periodici che si occupano ex-professo della Macedonia, il più importante, dal punto di vista scientifico, è la Makedonski Pregled (Rivista Macedone), edita a Sofia (dal 1926) a cura dell'Istituto scientifico macedone.

La Macedonia nell'antichità.

Geografia storica. - La Macedonia era situata a nord della Tessaglia e ad est dell'Epiro e dell'Illiria, cinta da catene di difficile valico; si estese a oriente, in momenti successivi, fino all'Assio (Vardar), allo Strimone (Struma), al Nesto (Mesta), alle propaggini meridionali del Rodope; raggiunse a settentrione, e in qualche punto oltrepassò, il 42° parallelo. Alto paesaggio montuoso, rotto da valli profonde e incassate, o da piccoli bacini occupati da specchi lacustri: tale la Macedonia occidentale. Ma ampie vallate a oriente, corse dall'Assio e dallo Strimone traversate da colline di mediocre altezza, si che la regione, declinando in direzione sud-est, sembra aprirsi dolcemente verso l'Egeo. Fertili le pianure e ricche di pascoli, ricetto invernale alle mandrie degli altipiani; coperte le montagne di foreste, che ancora in epoca storica ospitavano leoni e tori selvaggi.

Già gli antichi distinguevano due zone, Macedonia inferiore e Macedonia superiore; e in ognuna d'esse una serie di sottoregioni. Alla Macedonia inferiore appartenevano: 1. la Bottiea, fra l'Aliacmone (Bistrítsa) e l'Assio, il seno Termaico e le catene montuose (Bérmion Óros e Pajak Planina); 2. la Pieria, estesa lungo la costa, dalla foce del Peneo a quella dell'Aliacmone, limitata a occidente dal monte Olimpo e dal Piero; 3. l'Almopia, che corrisponde all'odierna Moglena, la fertile valle fra il Pajak e il Nidže Planina. Una regione di nome Emazia, compresa fra la città di Beroea (Verria) e il fiume Assio, è ricordata da Omero, e, alla fine del secolo IV, da Tolomeo; ignota invece a Erodoto e a Tucidide, ritorna in Strabone e in Giustino, e in poeti posteriori; e presso gli uni e gli altri Emazia è usato come un nome più antico equivalente a Macedonia. Da Omero a Strabone abbiamo un mutamento di significato: quella che era denominazione d'una parte è assunta a indicare l'intera regione. Il mutamento si può spiegare e non implica contraddizione. Contraddizione c'è, e palese, fra Omero e gli storici del sec. V, che la zona compresa fra Beroea e il fiume Assio conoscono col nome di Bottiea. Emazia dunque o Bottiea? La congettura moderna, che meglio concilia i dati discordi, è quella, oggi accreditata, che dà alla regione Emazia un significato fisico: ἄμαϑος "sabbia"; 'Ημαϑύα "la sabbiosa pianura costiera".

La Macedonia inferiore costituì il primo nucleo del regno macedone: nella Bottiea sorse Ege, l'antica sede dei re, Citro Mieza Beroea e Pella, la sede più recente.

Sicuramente appartenevano alla Macedonia superiore: 1. l'Elimea; 2. l'Orestide; 3. la Lincestide; 4. l'Eordea. L'Elimea, sul corso medio dell'Aliacmone, fra i monti Cambuni e l'odierno Bóïon Óros, con le città di Elimea, di Eana, di Filace, era continuata a nord dall'Orestide, regione montuosa sull'Aliacmone superiore, della quale sono ricordate due sole città, Celetron (Castoria) e Argo Orestico. La Lincestide, attraversata dall'Erigone (Crna), limitata a occidente dal lago di Prespa, occupava la parte meridionale dell'odierna pianura di Monastir e la zona montuosa del Barnus (Neredška Planina), e aveva per capitale quell'Eraclea Λύγλου, che dopo la conquista romana divenne Pelagonia, e oggi è Monastir. Finalmente l'Eordea era situata fra la Lincestide, Ege, e l'Elimea: il lago Begorritis, che in essa si trovava, non può essere dunque che quello di Ostrovo.

La Dassaretide, la regione dei grandi laghi (Ochrida, Prespa, Malik), appartenne solo politicamente alla Macedonia nel tempo della sua maggiore estensione; importante la città di Licnido, ove oggi è Ochrida, sulla sponda del lago omonimo.

La valle dell'Assio superiore, occupata da tribù peoniche, che in origine dovevano arrivare fino al mare e poi via via erano state respinte verso il nord, solo da Filippo II fu annessa al regno di Macedonia.

Con il nome di Macedonia orientale si sogliono indicare le ulteriori conquiste a oriente del fiume Assio, e cioè, in sostanza, la zona fra l'Assio e lo Strimone, poiché al di là dello Strimone solo il territorio di Filippi e la costa divennero veramente parte della Macedonia. Questa zona, tutta collinosa, si eleva qua e là in sistemi di maggior mole, dei quali i nomi antichi ci sono pervenuti, Orbelo, Disoro, Cercine, Berisco, e sono dai moderni fatti corrispondere al Plauš e Belasica Planina, al Koursã Balkan, al M. Besik ma non ne è del tutto certa l'identificazione e una unità di localizzazione non è ancora raggiunta. Lo stesso si dica per i laghi Cercinitis e Prasias, che hanno dato occasione a tutte le possibili equazioni con i tre laghi di Tachyno, di Butkova e di Doiran. 1. Migdonia, 2. Crestonia, 3. Bisalte e 4. Antemunte sono le regioni a noi note di questa zona orientale. La Migdonia, lungo la sponda orientale dell'Assio, che la separava dalla Bottiea, pare si estendesse a semicerchio in direzione NE.-SE., spingendosi, attraverso i laghi Coronea e Bolbe (Ajvasil e Besik) da un lato e i monti della Calcidica dall'altro, fino a toccare il seno Strimonico: in epoca più tarda la parte più occidentale della Migdonia, e cioè la striscia di terra fra l'Assio e l'Echedoro, fu chiamata Anfassitis (denominazione che a torto, in contraddizione con tutte le fonti, fu interpretata come significante la zona "a cavaliere delle due sponde dell'Assio"). La Bisaltea, la più orientale delle regioni, situata fra lo Strimone e il M. Besik per tutto il tratto che dal mare va fino ad Eraclea Sintica, era separata dalla Migdonia mediante la Crestonia, i cui confini non si possono definire con maggior precisione. La penisola Calcidica, come zona di colonizzazione greca, non appartenne alla Macedonia se non dopo la conquista di Filippo II, mentre già prima delle guerre persiane fu possedimento macedone la città di Antemunte, a sud di Tessalonice, ove è oggi Galatísta.

Etnografia. - Non è dubbio che fino al sec. IV la massa della popolazione fosse costituita di pastori e di contadini che, come gli Epiroti e gli Etoli, vivevano fra i monti boscosi in villaggi aperti non fortificati, armati sempre contro le molte insidie delle fiere e degli uomini. Scarsi i fortilizî, scarse le città, e non importanti: poiché nelle stesse capitali, come Ege e Pella, mancava nel fatto la vera vita, la vita politica intesa nel senso greco. Affini dunque nei costumi agli Epiroti e agli Etoli, anche i Macedoni, come quelli, furono detti barbari dagli storici greci del sec. V e del IV.

Il problema della grecità o meno dei Macedoni è assai controverso, tanto più che la lingua, la quale dovrebbe darci il criterio decisivo per la determinazione della nazionalità, ci lascia invece nell'incertezza. Che al tempo della conquista romana la lingua dei Macedoni fosse la greca, Polibio attesta in più luoghi; e le affermazioni dello storico sono confermate dalle iscrizioni di quel tempo, trovate su suolo macedone, tutte in greco. Differenze tra le due lingue esistevano invece al tempo di Alessandro, non tali però da impedire che gli uni comprendessero gli altri o da rendere necessaria la presenza di un interprete. E greci suonavano, con appena qualche sfumatura dialettale, i nomi dei re macedoni, degli ufficiali di Alessandro, dei padri di quegli ufficiali, pochissimi eccettuati; greci molti nomi di luogo, di città e di regioni; greco il nome stesso di Macedoni (da μακεδνός); greco finalmente il calendario. Caratteristico tuttavia del macedone - e in ciò il macedone differisce dal greco e s'avvicina all'illirico - il comparire delle medie in luogo delle aspirate (gr. ϑάνατος = macedone δάνος; gr. Φίλιππος = mac. Βίλιππος; gr. κεϕαλήν =- macedone γεβαλάν), e della α in luogo di αι (gr. αἰϑήρ = mac. ἀδῆ; gr. αἰϑρία =- mac. ἀδραία); caratteristico inoltre il suffisso etnico femminile -issa (es. Μακεδόνισσα) che diventerà d'uso generale nel periodo ellenistico ('Αντιόχισσα, Νικομη0δισσα); e l'altro sulfisso etnico - st - (Λυγκήσται, Διέσται), che ritorna con particolare frequenza in territorio illirico. Concludendo: poiché quello che conosciamo della lingua macedone è estremamente poco (non un testo, non un'iscrizione, non una frase, ma solo glosse e nomi proprî), e anche questo poco ci si presenta controverso, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non possiamo chiedere alla lingua la soluzione del problema della nazionalità.

Vana fatica pure indagare le origini del popolo macedone attraverso le leggende che ce ne sono pervenute: tarde le più ed evidentemente contaminate, tutte disparate ed incerte. A chi si domandi invece che concetto avessero dei Macedoni i Greci loro contemporanei, se li ritenessero affini a sé, della medesima stirpe o di un'altra, si può rispondere in modo disparato, con le parole di quei greci stessi: "Filippo, che non solo non è greco, né in nulla affine a noi Greci, ma neanche è barbaro, di quelli che hanno pur bella rinomanza, ma è uno scellerato macedone, di quella Macedonia donde una volta non si valevano neppure comperare gli schiavi". "Solo fra i Greci (Filippo) giudicò di dover regnare su genti, che non fossero della sua stirpe (οὐχ ὁμοϕύλου γένους ἄρχειν)....". Il primo passo è di Demostene (Philip., III, 119), il secondo d'Isocrate (Philip. 108). Differiscono (ed è riflesso della diversa disposizione d'animo dei due autori verso il re dei Macedoni) nella valutazione della nazionalità di Filippo. Isocrate accetta la versione ufficiale che la famiglia regia macedone dovesse le sue origini ad Eracle, e provenisse dunque di Grecia; Demostene respinge questa tradizione come non autentica. Ma concordano nel definire i Macedoni non Greci: "in nulla affini a noi Greci", "gente d'altra stirpe". Il che, affermato da contemporanei, in particolare affermato da Isocrate, che delle cose di Macedonia era conoscitore limpido e acuto, in un discorso indirizzato a Filippo, deve essere necessariamente espressione di un'opinione indiscussa e ritenuta indiscutibile.

Comunque, quanto si è detto valga a titolo d'informazione e di orientamento. Storicamente non ha importanza essenziale, poiché, fossero i Macedoni greci o non greci, affini o non affini, la storia di Macedonia non è tutt'uno con la storia di Grecia, ma nettamente ne differisce: e la differenza reale, donde tutte le altre derivano, è differenza di istituzioni politiche.

Storia. - Della più antica storia di Macedonia non abbiamo alcuna narrazione continuata. Poiché storici contemporanei agli avvenimenti non esistettero e di quelli posteriori che, scrivendo delle imprese di Filippo II e di Alessandro il Grande, trattarono in scorcio anche gli avvedimenti anteriori, non abbiamo che frammenti scarsi e di scarso valore. Le prime notizie fededegne risalgono al tempo in cui i Macedoni vennero a contatto con i Greci, durante le guerre persiane e la guerra del Peloponneso; e dunque le dobbiamo agli storici del sec. V. Tucidide sa che sette re s'erano succeduti sul trono macedone, prima di Perdicca II, padre di Archelao; e i loro nomi troviamo in Erodoto: 1. Perdicca; 2. Argeo; 3. Filippo; 4. Aeropo; 5. Alceta; 6. Aminta; 7. Alessandro. I tre re Carano, Ceno e Tirimma, che Tucidide ed Erodoto non conoscevano, mentre in liste posteriori appaiono come i primi della serie, sono senza dubbio leggendarî. Il nome della famiglia regia è "Argeadi", che erroneamente Appiano, e sulla sua traccia molti moderni, ritenne significasse la provenienza della stirpe dalla città di Argo; che erroneamente altri volle collegare al nome 'Αργαῖος, supponendo un 'Αργαῖος eponimo della famiglia; e che piuttosto glottologicamente sembra doversi ricondurre a un eponimo 'Αργέας, del quale d'altra parte nulla conosciamo, né di storico né di leggendario (v. argeadi). Una tradizione posteriore, evidentemente sorta in seno alla stessa famiglia regia verso il principio del sec. V, faceva risalire la stirpe a Temeno di Argo, ond'è che in Tucidide i re di Macedonia sono detti "i Temenidi". Di essi i primi, da Perdicca ad Alessandro, e cioè dal principio del sec. VII alla metà del V, estesero via via il loro regno verso la costa e verso oriente, cacciando in parte, in parte sottomettendo le più antiche popolazioni: Pierî, Bottiei, Peoni (quelli presso l'Assio), Migdoni, Eordi, Almopi, e gli abitanti di Antemunte, e i Crestoni e i Bisalti; nella Macedonia superiore i Lincesti, gli Elimioti e altri, alleati e soggetti ai Macedoni, conservarono singoli regni e re loro proprî.

Le direttive politiche e l'espansione territoriale. - Alessandro I, che salì al trono intorno al 500, è la prima figura storicamente abbastanza nota. Del padre Aminta si sapeva ch'era stato in relazione coi Pisistratidi; e si sapeva che, dopo la grande spedizione scitica, a Megabazo, che in nome di Dario chiedeva acqua e terra, egli l'aveva concessa, rendendo la Macedonia uno stato vassallo del re di Persia. Alessandro partecipò dunque alle guerre persiane militando dalla parte persiana. Tuttavia, al dire di Erodoto, anche allora avrebbe cercato di appoggiare la causa dei Greci, alla quale dopo Platea è senza dubbio favorevole. "Prosseno e benefattore", "prosseno e amico" agli Ateniesi, lo dice Erodoto: e l'espressione, ch'è la formula usuale dei pubblici decreti, è indizio che ci troviamo di fronte non a una benevola valutazione dello storico, ma a una condizione di fatto, giuridicamente riconosciuta.

Dopo il 479, libero il suo paese dai Persiani, pare che Alessandro volgesse la sua attività a estendere i confini del regno: a questo tempo risale la conquista della zona fra l'Assio e lo Strimone, con le ricche miniere d'argento presso il monte Disoro; onde belle monete furono tosto battute, e corsero numerose la Macedonia e la Grecia, diffondendo la fama di re Alessandro (v. alessandro filelleno). Le relazioni fra Macedoni e Greci costituiscono uno dei cardini fondamentali della sua politica: grazie alla professata origine argiva, e dunque ellenica, ottenne l'accesso ai giuochi olimpici e vi partecipò conseguendo vittoria; accolse i Micenei cacciati dagli Argivi; conobbe Pindaro e forse l'ospitò alla sua corte. Filelleno fu detto più tardi. Tuttavia Alessandro Filelleno non esitò a venire a rottura con Atene, che della Grecia era flos et robur, quando Atene, nella lotta contro i Tasî ribelli (465-63), tentò d'impadronirsi della foce dello Strimone e della regione del Pangeo, minacciando di chiudere alla Macedonia ogni sbocco sul mare (le coste macedoni e tracie erano costellate di colonie greche partecipi della lega navale delio-attica), e di sottrarre la ricchezza delle miniere del Pangeo e delle foreste montane.

Regno turbato da discordie interne e da pericoli esterni ebbe il figlio Perdicca II, che durante la guerra del Peloponneso venne a contatto con gli stati più potenti di Grecia, con Atene e con Sparta e con Argo e con Corinto e con le città calcidiche, e che conservò integro il suo dominio eliminando i pericoli più gravi con agile mutare di amici e di nemici: infedele sempre ai trattati giurati, opportuno sempre nelle più improvvise deliberazioni. Ostilità fra Perdicca e il fratello Filippo furono occasione nel 433 alla rottura fra la Macedonia e Atene, presso la quale Filippo aveva trovato appoggio. Rottura d'altra parte prima o poi inevitabile da quando la fondazione della colonia ateniese di Anfipoli, nel territorio tracio, a cavaliere dell'unica strada che unisse la Macedonia al Mar di Marmara, aveva dato reale concretezza al pericolo onde già Alessandro Filelleno s'era visto un tempo minacciato.

Scoppiata la guerra, Terme cadde in mano agli Ateniesi, Pidna fu assediata, un trattato di alleanza fu stipulato fra Atene e Perdicca, e fu subito violato da Perdicca che concesse il suo aiuto ai Calcidesi ribelli: tutto ciò nel 432, nei pochi mesi dalla primavera al settembre. L'anno successivo parve che la Macedonia dovesse soccombere sotto un pericolo nuovo e immane, promosso anche questo da Atene: l'invasione di Sitalce re di Tracia, che Perdicca allontanò a ricchi patti, sicchè in un mese il pericolo era dileguato.

Negli anni fra il 429 (conquista di Potidea) e il 424 gli eventi della guerra del Peloponneso tennero le armi ateniesi lontane dal Calcidica. A render di nuovo la Calcidica teatro della guerra contribuì non poco il re di Macedonia. Lo rendeva inquieto la presenza degli Ateniesi ad Anfipoli, ch'era ormai vecchio fastidio; e più il timore dei barbari d'occidente, Peoni e Illirî. A combattere gli uni e gli altri Perdicca, postosi a capo delle città calcidiche nuovamente ribelli ad Atene, chiese l'aiuto di Sparta, impegnandosi a mantenere un esercito peloponnesiaco. Ed ecco la famosa campagna di Brasida nella Calcidica (424); ecco il passaggio a Sparta di Acanto, di Stagiro; ecco la resa di Anfipoli. E l'anno dopo la sfortunata spedizione contro la Lincestide che s'era resa indipendente. E finalmente il passaggio di Perdicca agli Ateniesi (423-22). La pace di Nicia del 421, che fu in sostanza una restitutio in pristinum, che restituiva dunque ad Atene tra l'altro anche Anfipoli, fece risorgere le cagioni di antagonismo fra la Macedonia e Atene. Perdicca accedette infatti pochi anni dopo alla lega strettasi fra Argo, Sparta e le città calcidiche; subì quindi da Atene un blocco per mare e l'assalto di Metone; uscì dalla grave situazione passando di nuovo agli Ateniesi che appoggiò in una loro operazione contro Anfipoli (414). Morì poco dopo.

A rendere la Macedonia uno stato più forte, a farla entrare nella sfera politica e culturale delle grandi potenze elleniche, molto contribuì re Archelao. Nato da nozze illegittime di Perdicca II con una schiava, successe al padre dapprima come tutore del fratellastro, che del trono era erede legittimo; poi, morto quello (si suppone avvelenato), con titolo e potere di re. Di Archelao scrive Tucidide (II, 100, 2): "Costruì fortilizî, tagliò strade diritte, bene ordinò ogni cosa, e in particolare la milizia, fornendola di cavalli e di armi e d'ogni altro corredo". Grande attività dunque nel campo della politica interna. Ma del tutto arbitraria la congettura moderna che, sulla base di un molto discusso frammento di Anassimene, attribuisce ad Archelao la creazione della falange (Köhler); arbitrarie anche altre moderne induzioni. Sulle riforme di Archelao le nostre conoscenze sono limitate al passo di Tucidide, che alla curiosità nega tutti i particolari.

Archelao regnò 14 anni, dal 413 al 399. Il 419 è l'anno della rotta dell'Assinaro, il 404 quello della battaglia di Egospotami: due date, due nomi che bastano a farci ricordare in quali disperate operazioni in terre lontane fossero concentrate tutte le forze di Atene; e ci spiegano come il re di Macedonia abbia potuto mantenere relazioni d'amicizia con gli Ateniesi, dai quali anzi ebbe aiuto nella risottomissione di Pidna, che s'era ribellata (410). Archelao evitò una guerra contro i principi vassalli dell'Elimea e della Lincestide, prevenendola con opportuni imparentamenti. Onde, nei suoi ultimi anni, libero dall'oppressione ateniese che aveva paralizzati i predecessori, libero da pericoli interni, poteva intervenire in Tessaglia; truppe macedoni occuparono le principali piazzeforti; Larissa riconobbe la supremazia del re. Quando la guerra di Tessaglia stava per complicarsi in una guerra contro Sparta, Archelao morì improvvisamente, vittima di un incidente di caccia secondo alcuni, secondo altri assassinato.

Ad Archelao si attribuisce generalmente il trasporto della sede regia da Ege a Pella. Pella era situata allora su una stretta striscia costiera sulle rive settentrionali dello stretto termaico, ed era dunque quanto mai adatta a diventare la capitale d'un regno aperto verso l'Egeo. Fu subito centro di cultura e di arte: vi soggiornarono Cherilo e Timoteo di Mileto e Agatone ed Euripide, che vi compose le Baccanti e l'Archelao, e Zeusi, che affrescò il palazzo reale. A Dion, ai piedi dell'Olimpo, s'istituirono in questo tempo e si celebrarono gare ginnastiche e poetiche, alla maniera greca. Ed altro si attribuisce dai moderni ad Archelao: dall'istituzione della lustratio dell'esercito nel mese Xandikos (le Ξανδικά), a un riordinamento amministrativo, per cui la Macedonia inferiore sarebbe stata divisa in distretti municipali: ma vi è molta incertezza.

Da Archelao a Filippo II - La morte di Archelao pose termine alla politica di espansione. I primi decennî del sec. IV sono occupati da mutamenti di trono e da usurpazioni. Si trascrive per chiarezza la lista dei re, da Archelao a Filippo II, così come è data dal Beloch: Archelao, 413-399; Oreste, 399-396; Aeropo II, 396-393; Pausania e Aminta II il piccolo, 393-392; Aminta III, 392-384; Argeo II, 384-382; Aminta III, di nuovo, 382-370; Alessandro II, 370-369; Tolomeo, 369-365; Perdicca III, 365-359; Filippo II, 359-336. Fra i primi di essi maggior rilievo ebbe Aminta III, pronipote di Alessandro I e padre di Filippo II (v. genealogia s. v. argeadi).

Ad Aminta non mancò un pretendente, un Argeo, che, secondo le liste pervenuteci, avrebbe regnato un paio d'anni. E non mancarono gravi pericoli. Un'invasione di barbari illirî, respinta con l'aiuto dei Tessali, lo privò temporaneamente del regno (393-92). Peggio: Olinto, la metropoli dei Calcidesi, fondata per consiglio di Perdicca II, cresciuta a singolare potenza dopo la sconfitta di Atene, divenne un nemico pericoloso; tanto più che l'attuale debolezza della Macedonia invitava a osare. Con Olinto, già al tempo del pericolo illirico, Aminta aveva stretto un trattato di alleanza per cinquant'anni. Ma più che la forza dei trattati poté la forza espansiva da una parte e dall'altra, e il cozzo degl'interessi produsse la guerra: gli Olintî occuparono la maggior parte della Macedonia inferiore, e la stessa Pella. È congettura non improbabile che alla loro invasione si associ il tentativo di Argeo. Certo Aminta fu una seconda volta privato del trono e costretto a chiedere l'aiuto spartano (382). La cosiddetta guerra calcidica combattuta da Sparta e dal re macedone contro le città calcidesi, si protrasse quattro anni con parziali sconfitte e parziali vittorie; e si concluse il 379 con la sottomissione di Olinto e delle città minori alla supremazia spartana. La Lega calcidica fu sciolta. Aminta riebbe completo il possesso del suo regno. Negli ultimi anni di vita estese la sua influenza anche in Tessaglia, nella Perrebia settentrionale, riprendendo quello ch'era stato un piano di Archelao e, come Archelao, mantenne amichevoli relazioni con i principati vassalli della Macedonia superiore, grazie a legami di parentela: aveva sposato in seconde nozze Euridice, principessa elimiota, dalla quale ebbe tre figli, Alessandro, Perdicca, Filippo.

Gli successe (370) il maggiore, Alessandro II, che i nobili ateniesi invitarono a intervenire in Tessaglia, contro la tirannide di Alessandro di Fere. Occupò Larissa e Crannone e contava di tenerle per sé, onde contro di lui i Tessali ricorsero all'aiuto tebano ma dovette subito abbandonarle, richiamato in patria dal sorgere di un usurpatore del trono, nella persona del cognato, Tolomeo di Aloro. Pelopida, invocato come giudice arbitrale dai due contendenti, decise la controversia in favore del sovrano legittimo. Poco dopo, Alessandro II fu assassinato (369-68). Tolomeo assunse ora la reggenza in nome di Perdicca. Un pretendente al trono, Pausania, membro laterale della casa reale, che alla testa d'un esercito mercenario greco aveva occupato Antemunte e Terme ai confini della Calcidica, fu battuto con l'aiuto del generale ateniese Ificrate. Tuttavia la Macedonia rimase sotto l'influenza tebana: Tolomeo s'impegnò a pagare un tributo d'armati e diede in ostaggio, come pegno di fedeltà, dei Macedoni eminenti e, fra gli altri, il giovane fratello di Perdicca, Filippo (368). Tre anni dopo, Perdicca III, sbarazzatosi del tutore, assunse il regno. Principe ardito, trovò la morte in battaglia, mentre combatteva contro gl'Illirî per liberare la Macedonia dal tributo che ad essi pagava fin da quando Aminta III aveva comperato la pace con la promessa di annui versamenti di denaro (393-92; v. sopra). Era l'anno 359. La Macedonia superiore passò in gran parte ai barbari; i Peoni dal nord mossero ad assalire e a devastare; pretendenti al trono si levarono da ogni parte. Ne uscì il più giovane figlio di Aminta, il ventitreenne Filippo, che prese le redini del governo come tutore del nipote (un ragazzo, figlio di Perdicca). Per la storia analitica del progressivo ampliarsi del regno di Filippo (che assunse il titolo regio attorno al 356) v. filippo ii di Macedonia. Qui gioverà solo qualche cenno alle istituzioni e all'organizzazione del paese in questo periodo della sua trionfale espansione.

La Macedonia, come già detto, è monarchica. In ciò dunque differisce nettamente dalla libera Grecia comunale. Ma differisce anche dalla monarchia assoluta orientale. Lungi dall'essere la fonte d'ogni potere, il re di Macedonia governava οὐδὲ βίᾳ ἀλλὰ νόμῳ; e non era affatto un monarca assoluto per diritto divino con onori divini, ma anzi (sebbene il regno fosse ereditario nel ramo maschile della famiglia degli Argeadi, secondo il diritto di primogenitura) all'atto dell'elezione doveva avere riconoscimento dal popolo, o, meglio, dall'esercito. Non v'erano sudditi, tanto meno servi, ma compagni, camerati, ἑταῖροι (come gli uomini del seguito in Omero); in maniera che il re, se si tolga il privilegio dinastico, potrebbe definirsi un primus inter pares.

Il legame di ἑταιρία, che era legame diretto e personale, nei tempi prù antichi vincolava al re soltanto i nobili, o una ristretta parte dei nobili, quella che formava la sua corte. Col crescere del regno macedone, la designazione di ἑταῖροι si trova usata con un significato preciso, come termine tecnico, riferita a un cerchio chiuso di un centinaio circa di persone che costituiscono il consiglio di stato e di guerra: compagni d'armi e di senno. Ma ἑταῖροι sono anche, a titolo d'onore, i cavalieri (οἱ ἑταῖροι τῶν ἱππέων oppure οἱ ἑταῖροι οἱ ἱππεῖς) da quando, presumibilmente sotto Filippo II, la cavalleria, che dai tempi più remoti era la truppa nazionale della Macedonia, ebbe una più salda organizzazione militare; ἑταῖροι finalmente i fanti dell'esercito (πεζέταιροι). In maniera che, non cessando l'ἑταιρία di essere un legame diretto e personale, acquista, sia pure af6evolito, un'espansione immensa; penetra con diramazioni e tentamli attraverso tutti gli strati della popolazione, dai più nobili ai meno nobili, dai meno nobili ai borghesi e ai contadini: e della enorme rete tutte le maglie si raccolgono in un unico nodo centrale, che è la persona del re. Il quale è il capo riconosciuto, non sovrano assoluto di sudditi, ma egemone di liberi: egemone, nel significato tutto greco del vocabolo; non autocratore, alla maniera orientale.

Il principio armonico di coesione che abbiamo appena segnalato come cardine dei rapporti fra il re e i Macedoni ritorna come nota dominante in ogni manifestazione e istituzione macedone. E anzitutto in quella che dei Macedoni è la creazione più famosa: l'esercito. L'esercito aveva di proprio l'associazione della cavalleria, arma propria dei Macedoni (i pingui pascoli della Macedonia e della Tessaglia fornivano masse equestri quali fino allora a nessun altro stato di Grecia erano toccate), con la fanteria di foggia greca, armata alla maniera che Ificrate aveva introdotta, con corazza di lino e scudo di cuoio (peltasti); ma i più forniti di lance della lunghezza di cinque metri (le sarisse), cosicché nell'assalto le lance della prima fila sporgevano fuori e costituivano un vallo insuperabile. Truppe così armate erano da usare solo in massa chiusa e compatta, e abbisognavano, per combattere, di regioni aperte: ma in ogni caso gli svantaggi della poco mobile falange erano ovviati con l'uso tempestivo della mobilissima cavalleria. E l'uso armonico delle due armi era promessa di vittoria.

Le finanze erano sane. Due le inesauribili fonti di ricchezza: le foreste, dalle quali veniva esportato legname da costruzione, pece, catrame e ogni altro prodotto boschivo; e le miniere, le tante volte ricordate miniere d'oro e d'argento del Dobero e del Pangeo. La regione del Pangeo, annessa al regno di Macedonia solo al tempo della conquista di Anfipoli (357), fruttò al regno grandissimo aumento di ricchezza. C'è tramandato che quelle miniere davano al re un gettito annuo di oltre mille talenti d'oro (24 milioni di lire). Fu allora che Filippo introdusse una riforma monetaria per la quale, con esempio nuovo, monete d'oro non persiane corsero numerose su suolo macedone e greco: i "darici" furono sostituiti dai "filippici". Con ciò, anche economicamente, la Macedonia si avviava all'indipendenza che avrà raggiunta, quando, sottomessa Bisanzio, saranno in suo dominio le strade che dall'Egeo menano al Ponto. Con ciò, anche economicamente, Macedonia e Persia diventavano rivali: onde l'urto si preparava imminente.

Se diamo un rapido sguardo comparativo alla carta della Macedonia e della Grecia, alla vigilia di Cheronea, vediamo da una parte un regno territorialmente continuo e politicamente unificato, su un'estensione di 55.000 kmq.; dall'altra parte una folla di comuni multiformi e discordi logorati dalle guerre continue e dalle continue sedizioni civili, esausti nelle finanze: il prevalere della Macedonia sulla Grecia ci appare ormai inevitabile.

Comunque si voglia giudicare la lotta che ebbe il suo sbocco militare a Cheronea (v., e v. grecia: Storia), e politico nella Lega corinzia (v. corinzia, lega), subito furono evidenti solo i vantaggi dell'unione: la quale, essendosi il re riservato il comando assoluto in guerra su tutte le forze di terra e di mare (στρατηγός αὐτοκράτωρ), era in sostanza unione militare. E fu di minima importanza in confronto la stessa morte di Filippo, avvenuta poco dopo la fondazione della lega, per assassinio (336). Il figlio Alessandro, appena ventenne, ne continuò l'opera. Non è qui il luogo di parlare della vita e delle imprese di lui. Ci limiteremo a osservare che tutte le ragioni di vittoria che esistevano per Filippo - esercito, finanze, ottimi generali, ministri fidati, ricchezza di mezzi, concordia di volere -, tutte sussistono per Alessandro; e una se ne aggiunge, formidabile: l'unione delle armi greche alle armi macedoni. Per essa l'esercito fu più che raddoppiato e s'accrebbe della flotta che alla Macedonia mancava. Onde Alessandro poté felicemente effettuare quello ch'era stato già un piano di Filippo, la guerra dei Greci e Macedoni contro la Persia (334-330; v. alessandro magno; persia).

La Macedonia sotto i Diadochi. - Quando, nel 334, Alessandro era salpato verso l'Asia, l'amministrazione civile e finanziaria del regno di Macedonia era stata affidata al luogotenente Antipatro, che ebbe anche il comando su quella parte dell'esercito ch'era rimasta in patria a difesa contro i barbari del nord e gli inquieti Greci del sud. Alla morte di Alessandro (giugno 323), dopo molte incertezze, successori furono proclamati due re, non uno: Filippo III Arrideo, fratello di Alessandro, scemo di mente; e Alessandro, figlio di Rossana, una delle mogli asiatiche di Alessandro, nato dopo la morte di lui. Ma nel fatto il vasto impero fu diviso (in partizioni che furono dette satrapie), fra i migliori generali di Alessandro, i Diadochi (v.). La Macedonia toccò ancora ad Antipatro, con l'incarico di assicurare la pace in Grecia. Così Antipatro dovette combattere la difficile guerra lamiaca contro Atene e alleati (gli Etoli, i Locresi, i Focesi), dovette condurre una spedizione punitiva in Etolia (estate e autunno 322). Morì nel 319, lasciando il governo della Macedonia non al figlio Cassandro, che riteneva inetto, ma a Poliperconte.

Nel decennio 321-311 si svolsero consecutivamente tre guerre civili fra i Diadochi. Di esse la seconda, diretta contro Poliperconte, ebbe una più particolare ripercussione sulla Macedonia e la Grecia. Poliperconte, contro cui s'erano coalizzati Cassandro Antigono Tolomeo e Lisimaco, pensò a sua difesa di bandire con solenne decreto "la libertà di tutti i Greci", e cioè il ripristino delle autonomie comunali e dei governi democratici, quali erano stati al tempo di Filippo (Antipatro aveva favorito invece le oligarchie). Risultato del provvedimento fu la rivoluzione nella Grecia, non la vittoria di Poliperconte, la cui flotta fu sconfitta nel Bosforo tracio dalla flotta di Antigono, lo stratego d'Asia (318). La primavera seguente Cassandro occupò Atene e vi ripristinò una temperata oligarchia; riportò successivamente due vittorie (317 e 316) e divenne padrone della Macedonia e della Grecia. Nel conflitto andò in rovina la casa reale: Filippo Arrideo e sua moglie, che parteggiavano per Cassandro, erano stati uccisi da Poliperconte; Olimpiade, la madre di Alessandro, che parteggiava per Poliperconte, fu uccisa dopo la vittoria di Cassandro.

Subito dopo (dal 316 al 311) si combatté con alterna fortuna la terza guerra, quella contro Antigono; guerra cui pose termine un accordo generale del 311. In virtù del quale Antigono tenne l'Asia occidentale, Seleuco l'Asia orientale, Tolomeo l'Egitto, Lisimaco la Tracia, Cassandro la Macedonia. Nessuno ebbe il potere centrale. Ai Greci fu confermata l'autonomia. Una formula stabiliva che il presente ordinamento era valido finché non fosse maggiorenne Alessandro, figlio di Rossana. Poco più di un anno era trascorso, e già il giovanetto e la madre erano stati uccisi proditoriamente da Cassandro (310-09). Cassandro continuò a reggere la Macedonia fino alla morte, che avvenne il 298-97: circa vent'anni di governo. Anni più o meno turbati; ma la Macedonia non è in questo tempo il centro d'azione. Centro è l'Asia occidentale; anima, la persona di Antigono Monoftalmo. Il quale, attraverso varie guerre, riuscì a dare solida consistenza e precisa delimitazione al suo dominio; e ad accrescerlo successivamente, con l'aiuto del figlio Demetrio Poliorcete, estendendo la sua influenza in Atene (307) e nel Peloponneso (303) e fin nell'Epiro. E, quel che è più significativo, lo consacrò, proclamando re sé e il figlio Demetrio, con esempio subito seguito da Cassandro, da Lisimaco, da Tolomeo (306).

Dei disordini seguiti in Macedonia alla morte di Cassandro (298-97), approfittò Demetrio, figlio di Antigono. Con l'aiuto della fortuna, dell'astuzia, del delitto, si fece proclamare re (293). I Beoti turbolenti e ribelli ne richiamarono l'attenzione, e Tebe subì uno di quei formidabili assedî che fruttarono a Demetrio il soprannome di Poliorcete (Assediatore). Una spedizione contro gli Etoli e contro Pirro non fu fortunata; Pirro invase contemporaneamente la Macedonia; fu poi respinto e costretto alla pace (289). Così, malgrado gl'insuccessi, Demetrio si trovò padrone della Macedonia, della Tessaglia e della restante Grecia. Fondò la capitale del suo regno: scelse Pagase sul golfo formato dalla penisola di Magnesia di fronte alla costa tessalica, la ingrandì, l'arricchì e la chiamò Demetriade.

Poi volse l'animo verso l'Oriente, verso quello che era stato il regno di suo padre; ma due volte dovette cedere di fronte alla coalizione di tutti gli altri sovrani. Fatto prigioniero, finì la vita fra i disordini dei banchetti, in un castello sull'Oronte, l'anno 283.

Dopo 7 anni, il 276, re di Macedonia era suo figlio, Antigono Gonata. L'intervallo era stato agitatissimo. Due re s'erano succeduti sul trono, Lisimaco di Tracia e Tolomeo Cerauno; per due anni la Macedonia era stata retta a repubblica, e aveva nel frattempo patita un'invasione di orde celtiche, che calavano da nord-ovest, che travolsero gli eserciti macedoni e penetrarono fino a Delfi (279).

Da Antigono Gonata a Filippo V. - Quando Antigono salì al trono di Macedonia, quasi un cinquantennio era trascorso dalla morte di Alessandro, ed erano scomparsi ormai tutti i commilitoni di lui, e s'era chiuso dunque il periodo dei Diadochi. Il mezzo secolo aveva dato forma a tre monarcati distinti: l'Asia, retta dai Seleucidi, l'Egitto con i Tolomei, la Macedonia con gli Antigonidi. Antigono Gonata ebbe un regno lungo, 37 anni, e quasi ininterrotti successi politici. Nei primi vent'anni tre guerre d'esito fortunato lo condussero all'apogeo: una contro Pirro, una contro Sparta e Atene (detta Cremonidea), e una per mare contro l'Egitto. In Grecia anche Antigono, come i predecessori, rispettò le autonomie comunali; ma favorì nei singoli comuni il governo di tiranni, i quali, collegati tutti fra loro e collegato ciascuno al re di Macedonia, assicuravano al re un dominio più diretto e più vigile, ma menomavano in sostanza l'autonomia. Meno fortunato il secondo ventennio. Già nel 252 nocque ad Antigono l'alleanza conclusasi fra Seleucidi e Tolomei; più gli nocque l'espandersi in Grecia del moto federale. La Lega etolica aveva già raggiunto grande potenza, e anche quella achea, con Arato, andava rapidamente accrescendo territorio e potere. Fu possibile al Gonata uscirne vittorioso, appoggiando la Lega etolica contro l'achea; ma non era lontano il momento in cui le due leghe si sarebbero unite ai danni della Macedonia. Demetrio II, detto l'Etolico, figlio del Gonata e suo successore, che regnò dal 239 al 229, fu quasi sempre occupato da una guerra (ch'è detta demetriaca), appunto contro le due confederazioni unite: guerra d'esito incerto e mal noto, nella quale una vittoria riportata a Filacia (233) non fu a Demetrio gran che profittevole, poiché alla sua morte le due confederazioni, contro cui aveva lottato, erano cresciute di territorio.

Gli successe il figlio Filippo V, ancora bambino, e reggente per lui il cugino di Demetrio II Antigono Dosone. Fu fortuna per questo che le due leghe s'inimicassero di nuovo fra loro, e che l'achea, più debole perché assalita anche da Sparta, s'unisse alla Macedonia. Venne dunque Antigono nel Peloponneso l'anno 225. Impadronitosi di Corinto e di tutta l'Argolide, in Egio, dove gli Achei tenevano la loro assemblea federale, proclamò l'istituzione della simmachia (alleanza di guerra): un aggruppamento federale di sette popoli, oltre gli Achei e i Macedoni, dei quali ciascuno conservava intatta la propria sovranità e autonomia; con un'assemblea comune (sinedrio) che si occupava degli affari comuni, e che era presieduta dal re di Macedonia. Una confederazione di comuni e di leghe comunali, subordinata alla monarchia. Fu definita la più mirabile creazione del genio politico greco.

L'esercito dei simmachi, vittorioso a Sellasia contro Sparta (circa 223), pose fine a quella "guerra cleomenica" nella quale da alcuni anni si logoravano Spartani ed Achei. Fu meno fortunato in imprese successive.

L'anno 221 morì Antigono Dosone che aveva sposato la vedova di Demetrio II assumendo il titolo di re e gli successe il nipote Filippo V, diciassettenne. In aiuto degli Achei e dei simmachi combatté la cosiddetta guerra sociale (219-217) contro gli Etoli, che subirono gravissime perdite. Nel congresso per le trattative di pace, che fu tenuto a Naupatto, si levò autorevole su le altre la voce dell'etolo Agelao, che ammoniva i Greci alla concordia come all'unica cosa necessaria a difendere la Grecia dalle nuvole che s'addensavano a occidente.

La Macedonia e Roma. - La pace del 217 lasciava Filippo libero dalle cure di Grecia; libero anche dal timore dei Dardani, che l'anno prima aveva battuti e dagli assalti dei quali per l'avvenire l'assicurava l'occupazione di Bilazora, la più grande città dei Peoni, che chiudeva la valle dell'Assio, e costituiva come una diga alle incursioni dal nord. La zona d'equilibrio instabile era adesso l'Illiria, nella quale Filippo aveva dei nemici pericolosi: i Romani anzitutto, che nelle coste illiriche avevano posto piede due anni prima (219) occupando Apollonia ed Epidamno (Durazzo) e tutto il litorale, quanto era allora in possesso di Demetrio Fareo; e inoltre Scerdilaida, principe illirico, ch'era colpevole di avere invaso alcune località sul confine macedonico, nel territorio fra i laghi Ochrida e Prespa. Con Scerdilaida Filippo guerreggiò un paio d'anni, durante i quali un grave insuccesso sul mare fu sanato da una serie di mediocri successi su terra, presso il confine. Era l'anno 216. Annibale frattanto vinceva a Canne. Trattative corsero fra Annibale e Filippo V. Polibio (VII, 9) ci conserva il testo del patto stretto fra i due, che fu patto di alleanza e di comune inimicizia a Roma; contro Roma era anzi previsto, qualora fosse necessario, reciproco aiuto. Una clausola stabiliva che i Cartaginesi non avrebbero, quando che fosse, stipulato alleanza con i Romani, fino a che questi non si fossero ritirati dalla zona illirica. La clausola ci precisa il significato e lo scopo dell'alleanza, per Filippo: non già, come fu detto, portare la guerra in Occidente; ma liberare dai Romani l'Illiria, toglier di mezzo un vicino troppo potente, conservare nella sfera di Grecia il primato politico e militare. Comunque, non se ne fece nulla: Annibale rimase altrimenti impegnato prima in Italia e poi in Africa; in Grecia la secolare disunione dei Greci facilitò e produsse l'intervento diretto di Roma.

Fu l'anno 212. Quelli dei Greci che a Filippo erano nemici (e cioè gli Etoli e i loro alleati) strinsero alleanza con i Romani, e insieme con i Romani mossero guerra alla Macedonia. È questa la "prima macedonica". Durò sette anni. Si combatté in campi diversi, in Etolia, in Acarnania, in Focide, in Tessaglia. Si concluse l'anno 205. La pace stipulata a Fenice, in Epiro, ratificava a Filippo qualche guadagno territoriale. Piccolo acquisto, vittoria apparente. I Romani, lungi dall'essere banditi dall'Illiria, avevano consolidato la loro posizione in Grecia: danno certo e imminente se ne preparava alla Macedonia.

Appena cinque anni erano trascorsi, e di nuovo era guerra fra Romani e Macedoni. Occasione al nuovo intervento l'appello di Attalo, di Rodi, dell'Egitto, di Atene, minacciati tutti e colpiti dall'incessante attività bellicosa di Filippo V, alleato adesso con Antioco III di Siria. La guerra, aspramente combattuta, terminò con la vittoria delle legioni romane a Cinoscefale (197). Filippo dovette ritirare i suoi presidî da tutte le città elleniche, restituire i prigionieri, pagare una multa di mille talenti, consegnare ostaggi, consegnare le navi (sei eccettuate); agli Oresti, ai Magneti, ai Perrebi, ai Tessali, agli Acamani, come a tutti gli altri Greci, fu concessa la libertà. Dopo questa pace Filippo partecipò, come alleato di Roma, alla guerra siriaca, combattuta su suolo di Grecia e d'Asia, contro Antioco III il Grande (192-190). Ma dei frutti della vittoria non fu fatto partecipe: la politica dei Romani, livellatrice, voleva una Macedonia debole.

Ond'è che Filippo spese i suoi ultimi anni in un disperato tentativo di ribellione e di riscatto. Cercò di prepararsi alla guerra: elevò le imposte fondiarie e i dazî portuarî, fece riprendere gli interrotti scavi delle miniere, cercò l'aumento della popolazione con la concessione di privilegi alle famiglie più numerose e col favorire l'insediamento di Traci in Macedonia. In questo movimento trovò senza dubbio appoggio e consenso nella massa, che a Roma era avversa, perché il governo di Roma favoriva in sostanza il ceto dei ricchi. Ma la morte lo colse, il 179, prima che avesse potuto effettuare i suoi propositi. La guerra contro Roma fu combattuta dal figlio Perseo negli anni dal 171 al 168. Terminò con la disfatta di Pidna e la prigionia di Perseo. Segnò la fine del regno di Macedonia.

La Macedonia provincia romana. - La vittoria di Pidna e la caduta di Perseo non portarono senz'altro la Macedonia nella condizione di provincia soggetta: i Romani vollero ancora conservare alla regione una parvenza d'indipendenza, naturalmente sotto la sovranità di Roma, e con tali limitazioni che allontanassero sopra tutto ogni pericolo di rivolta. L'antico regno fu diviso in quattro confederazioni a ordinamento repubblicano, aventi rispettivamente per centro Anfipoli, Tessalonica, Pella e Pelagonia, e rette ciascuna da un'assemblea eletta dai comuni; le leggi già esistenti furono conservate in vigore; ma ogni rapporto di matrimonio e di commercio fra i cittadini delle diverse confederazioni fu vietato; furono chiuse le miniere d'oro e d'argento, principale risorsa del paese, e permesso solo lo sfruttamento di quelle di rame e di ferro; l'imposta fondiaria, pagata prima al re, fu devoluta a Roma, ridotta della metà. Ma era naturale che un simile ordinamento, non rispondente al carattere e alle tradizioni delle popolazioni, e che troppo si prestava alle violenze dei pochi, nelle cui mani era concentrato il potere, non potesse durare: più volte i Romani dovettero intervenire per risolvere questioni sorte fra le diverse confederazioni. Né gli espedienti escogitati poterono impedire una generale sollevazione di tutto il paese, quando, nel 150, comparve un avventuriero, Andrisco, originario d'Asia Minore, spacciatosi per Filippo, figlio di Perseo. La guerra che ne seguì, terminata nel 148 con la sconfitta da parte di Q. Cecilio Metello dello pseudo Filippo, diede occasione ai Romani di annullare il precedente ordinamento, e di revocare anche l'ombra d'indipendenza fino ad allora concessa ai Macedoni, facendo invece della regione una provincia soggetta: il mutamento fu tuttavia probabilmente determinato anche dal diverso indirizzo politico che si veniva allora maturando in Roma nei riguardi dei paesi conquistati.

L'anno della costituzione della provincia, il 146, ci è dato dall'era che vediamo usata nella regione fino in età imperiale, accanto o insieme ad altra era introdotta più recentemente, e contata dall'anno della battaglia di Azio, il 31 a. C.

La provincia ebbe all'incirca i confini che aveva avuto il regno macedone: a settentrione la terminavano i monti che la dividevano dalle regioni, ancora allora abitate dalle tribù selvagge, della Tracia e della Mesia; verso levante giungeva al fiume Nesto; verso ponente furono aggregati ad essa l'Epiro e le città dell'Adriatico, Dirrachio e Apollonia fino al corso del Drilon (Drin). A mezzogiorno, oltre alla Tessaglia, fu posta sotto la giurisdizione del governatore della Macedonia tutta la Grecia, fino a quando di essa fu fatta una provincia separata (v. acaia). Il governatore della provincia fu di solito un pretore o un propretore, che risiedeva a Tessalonica.

La vita della provincia nell'ultimo periodo repubblicano fu invero tutt'altro che tranquilla: e a turbarla non furono tanto i Macedoni, che fecero un solo tentativo, circa il 143, di recuperare la libertà, istigati a ciò da un altro falso figlio di Perseo, Alessandro, quanto i popoli barbari che da settentrione più volte scesero a devastarla, o i re stranieri che, con l'aiuto diretto o indiretto di quei popoli, portarono nel suo territorio guerra contro i Romani.

Di campagne contro i barbari, Dardani, Bessi, Scordisci, Traci, si ha ricordo più volte. Nel 120-119 gli Scordisci sconfissero presso Stobi il pretore Sesto Pompeo; per otto anni, dal 116 al 108, i governatori successivi combatterono contro essi, obbligandoli alla fine ad una tregua; ma negli anni 101-100, e poi ancora nel 92 essi, insieme con i Dardani, invasero la provincia, giungendo quest'ultima volta a saccheggiare nell'Epiro il tempio di Dodona. La guerra di Mitridate diede di nuovo a Scordisci e Traci l'occasione di scendere verso mezzogiorno, certo d'accordo con il re del Ponto: mentre d'altro lato il figlio di questi, Ariarate, penetrava dalla Tracia nella Macedonia, e, con la collaborazione della flotta, riusciva, senza soverchia difficoltà, a impadronirsi di tutta la provincia, e a minacciare da essa la Grecia: dal dominio pontico la Macedonia fu liberata da Silla nell'85.

Nei decennî successivi sono ricordate contro gli stessi popoli nuove campagne, che hanno l'effetto di portare le armi romane fino al Danubio e al Ponto: nel 72, mercé l'azione del proconsole M. Terenzio Varrone Lucullo, le citta greche costiere di questo, Tomi, Istropoli, Dionisopoli, ecc., pur non facendo parte effettivamente del territorio della provincia, venivano poste sotto la giurisdizione del governatore della Macedonia, il cui potere pertanto si estendeva praticamente, in virtù appunto della necessità di assicurare la pace alla regione molto al di là di quelli che erano i confini della provincia. Tuttavia nel 57-55, sotto il governo di L. Calpurnio Pisone, Dardani, Bessi e Denteleti giungevano di nuovo fino a Tessalonica.

Dopo la morte di Cesare, la Macedonia fu il punto di raccolta dei congiurati, che a Filippi subirono la sconfitta decisiva; venuta la provincia in potere di Antonio, vi rimase fino alla battaglia di Azio. Agli anni immediatamente successivi, il 29 e il 28 a. C., spettano le ultime campagne vittoriose di M. Licinio Crasso contro i Daci, i Bastarni e i Mesi. Il consolidamento del dominio romano nelle regioni a settentrione e a oriente della Macedonia, e la conseguente loro graduale riduzione a provincia, finirono da un lato per riportare la Macedonia in quelli che erano stati all'inizio i veri suoi confini, e per farla considerare d'altro lato nel numero delle provincie pacificate. Così è che nella divisione del governo provinciale fra sé e il senato, Augusto poté lasciare la Macedonia a quest'ultimo: il governatore fu un legato di rango pretorio. All'imperatore la provincia tornò per un breve periodo, dal 15 al 44 d. C.; Claudio, cui si deve la costituzione a provincia della Tracia e forse anche della Mesia, la restituì al senato; egli parimenti diede alla Macedonia il diritto di battere moneta, diritto di cui la provincia si valse fino al tempo di Filippo, alla metà del sec. III. Durante tutto l'impero, la Macedonia non fu teatro di avvenimenti notevoli.

L'opera di romanizzazione, che, nella travagliata vita del periodo repubblicano, non aveva potuto fare progressi notevoli, quantunque si fosse creata fin da principio attraverso la provincia la grande arteria stradale della Via Egnazia, via di altissima importanza commerciale e militare, s'intensificò nell'impero: Augusto portò nella provincia gran numero di veterani, in gran parte già pratici del paese, dove avevano combattuto durante le guerre civili, e li stabilì a Dion, Pella, Cassandria, Filippi, Byllis, Dirrachio: in grazia soprattutto di essi, e di altri immigrati italici (numerose sono le iscrizioni che ci ricordano, nella Macedonia, grandi proprietà di spettanza di famiglie senatorie) il diritto di cittadinanza romana si diffuse largamente nel paese: la Macedonia fu una delle provincie che fornì più forte contingente alle milizie pretorie.

Tuttavia né tale immigrazione di italici né l'ordinamento municipale romano dato ad alcune città, come Stobi, poterono mutare sostanzialmente l'impronta di ellenismo dato alla Macedonia dai suoi re: le città, all'infuori di quelle ricordate, conservarono il loro ordinamento greco; e carattere greco ebbe il κοινόν della provincia, che aveva cura del culto imperiale e delle cerimonie con esso connesse, e si riuniva a Beroea: Tessalonica era considerata città libera ed era fuori del κοινόν. Un particolare κοινόν fu inoltre conservato alla Tessaglia, che Antonino Pio riunì alla Macedonia, staccandola dall'Acaia. Dalla Macedonia invece fu nell'impero separato l'Epiro, costituito in provincia procuratoria autonoma. Fuori delle città, le popolazioni della campagna, in gran parte di stirpe non greca, mantennero la loro organizzazione in tribù (ϕυλαί, ἔϑνη). L'agricoltura e le miniere furono le principali risorse della provincia.

Con la metà del sec. III la provincia cominciò a subire gli assalti dei Goti; nel 269 essi assediarono Cassandria e Tessalonica, ma si ritirarono all'avanzarsi dell'imperatore, Claudio II; altre loro scorrerie sono ricordate sotto Valente e Teodosio.

Nell'ordinamento dioclezianeo la Macedonia, posta sotto il vicario della dioecesis Moesiarum, fu divisa in due provincie, la Macedonia propria o prima (l'orientale) e la Macedonia secunda o salutaris (l'occidentale), ognuna governata da un consularis. Dalla Macedonia furono distaccate sia la Tessaglia, costituita in provincia a sé, sia il litorale adriatico, riunito all'Epiro (Epirus nova).

Numismatica. - Le monete antiche della Macedonia si distinguono in tre grandi gruppi: a) le monete delle tribù indigene e delle città di fondazione ellenica; b) le serie regali dei dinasti che si succedettero sul trono macedone da Alessandro I sino all'arrivo dei Romani; c) le monete che datano dall'arrivo dei Romani e dalla costituzione della provincia.

Più antico è il primo gruppo che risale al sec. VI a. C., ma che in genere non oltrepassa la metà del IV. Ne fanno parte le serie attribuite agli abitanti le regioni del Pangeo, gli Orresci, gli Zaelî, di sede incerta e dalla storia oscura; sono serie in maggior misura anepigrafi; poi le emissioni di Neapolis e di Eion; quindi quelle dei centri di Lete, Ege, Icne, dei Tintenî della regione Emazia; poi ancora le serie degli Edoni e dei Bisalti; quelle delle città della penisola calcidica, molte delle quali notevolissime, di Acanto, di Terone, di Olinto, di Mende, di Potidea, e infine della Lega calcidica (sec. IV). Per ultimo le serie della regione dello Strimone e dei Bottiei con le città di Amfipoli e di Daton-Filippi, che saranno poi le principali zecche della monarchia macedone.

Sia che queste serie fossero coniate dalle rudi tribù, la cui principale occupazione era lo sfruttamento delle miniere di oro e di argento, sia che uscissero dalle zecche delle colonie fondate da Andros, da Calcide, Eretria, Corinto o Atene, sono tutte di particolare interesse per le peculiari caratteristiche tipologiche, di tecnica e di stile.

Magnifica la serie degli ottodrammi di argento degli Orresci, dei Bisalti, degli Edoni, di Icne, col tipo dell'uomo nudo che guida i due buoi, del centauro che rapisce la donna; gli stateri di Neapolis con il gorgoneion, di Lete col satiro itifallico che ghermisce la Menade; di Ege col caprone inginocchiato e retrospiciente; il caratteristico gruppo di sapore orientalizzante del leone assalente il toro dei tetradrammi di Acanto, la quadriga di Olinto, la magnifica effige apollinea degli stateri aurei e dei tetradrammi della Lega calcidica e di Amfipoli; il sileno col cantaro sull'asino itifallico di Mende, il Poseidone Hippios di Potidea, ecc. Di questi tipi quelli delle tribù traco-macedoni illustrano il culto locale di Bacco, laddove il caprone di Ege illustra la leggenda della fondazione della colonia da parte del fratello di Fidone di Argo, e il gruppo di Acanto si riconnette al culto di Cibele, e nel contempo illustra la narrazione di Erodoto (VII, 125).

Mentre le serie più arcaiche e più pesanti, che comprendono gli ottodrammi, si riconnettono al sistema fenicio-babilonese, derivato forse da Abdera, gli stateri meno arcaici si aggregano più verosimilmente a quello babilonese dei pezzi di Taso, ai quali più si assomigliano per tipi e per stile, e le serie delle città che fiorirono sulle coste della Calcidica, dall'Eubea derivarono il sistema euboico che si conservò sino a che venne sostituito da quello fenicio o macedone più propriamente detto.

Le serie reali macedoni prendono inizio con Alessandro I, circa il 480, dopo la conquista del territorio dei Bisalti e delle sue miniere delle quali si narra che producessero un talento di argento al giorno. Di qui una ricca serie di monete di argento prima sul sistema babilonese, poi, forse in conseguenza dell'apertura della nuova via commerciale tra la Macedonia e le colonie greche della costa tracica, su quello fenicio. Le prime serie reali si assomigliano a quelle rudi e pesanti dei Bisalti, laddove le seriori si affinano nei tipi, nello stile e nella tecnica. Nominali sono: l'ottodramma di gr. 27, il tetradramma di grammi 13,50, il tetrobolo e il diobolo. Tipo principale è il cavaliere macedone, con causia e clamide, presso il cavallo; al rovescio è il quadrato incuso contenente la leggenda. Con Archelao I (413-399) viene introdotto lo statere persiano di gr. 11 (cavaliere al galoppo); con Aminta II o III (389-383, 381-369) s'inaugura l'effigie barbuta di Eracle che con Perdicca (365-359) si alterna con quella del giovane Ercole imberbe, caratteristica poi nelle successive serie macedoni. Filippo II (339-336), conquistato il territorio del Pangeo, introduce l'oro e tanto ne estrae e ne conia, che muta la relazione dei due metalli nobili monetati sul mercato da 1/12 a 1/10. Il sistema monetario macedone viene allora riorganizzato a imitazione di quello ateniese; insieme cioè con uno statere d'oro di gr. 8,61 è coniata una dramma di argento di gr. 3,63 fissandosi l'equazione: I statere = 24 dramme, donde un sistema bimetallico per la prima volta inaugurato stabilmente nel mondo greco. I nominali del sistema di Filippo sono: Oro: statere e mezzo statere (effigie di Apollo e biga; di Ercole giovane e tipi varî). Argento: tetradramma (emgie di Zeus e cavaliere con palma e corona, ovvero cavaliere macedone); didramma, ottobolo, ecc., col cavaliere, ecc. Alcuni tipi sono agonistici e alludono ai giuochi celebrati a Dion in onore di Zeus Olimpio ovvero ai grandi giuochi olimpici; il cavaliere macedone raffigura presumibilmente il re stesso. Numerose zecche di incerta localizzazione coniarono queste serie, di cui gli aurei detti Filippi continuarono a circolare nel mondo ellenico molto tempo dopo la scomparsa del re, in concorrenza con le serie alessandrine.

Per ragioni pratiche, finanziarie, perché il deprezzamento dell'oro aveva reso impossibile il mantenimento delle due monete sulle basi fissate dal sistema di Filippo, Alessandro il Grande, mutò ancora una volta il sistema monetario, da duodecimale in decimale attico, più in armonia sia con i valori relativi dei due metalli monetati, sia con la tradizione orientale. Il sistema di Alessandro si compone dei seguenti nominali: Oro: distatere e statere di gr. 17, 23; e gr. 8, 61; cui si associano il mezzo statere, il quarto e l'ottavo di statere. Sul pezzo più comune, lo statere, sono inaugurati i due tipi proprî di Alessandro: effigie di Atena e la Vittoria con l'aplustre sino allora ignoti alla monetazione macedone. Argento: tetradramma e dramma (gr. 17, 20-4,26) con l'effigie di Ercole e lo Zeus aetoforo. Oro e argento al nome di Alessandro furono coniati in emissioni enormi per numero e quantità, anche dopo la morte del monarca, dai suoi immediati successori, sfruttando essi la fama mondiale e il valore di corso internazionale che tale valuta aveva assunto su tutti i mercati. Numerosissime poi sono le zecche che le coniarono, sparse su tutto il vasto impero macedone, malamente individuabili dalle numerosissime sigle e dai simboli che accompagnano il tipo, oltre che dai caratteri tecnici e dallo stile, donde la grande difficoltà della localizzazione cronologica e geografica delle emissioni stesse.

Demetrio Poliorcete è il primo a introdurre nuovi tipi insieme col suo ritratto e il nome sulle monete. Tra i suoi stateri d'oro è da ricordare quello della Nike su prua che ripete il monumento di Samotracia. Ancora nuovi tipi inaugurano Antigono Gonata (o Dosone): Apollo seduto sulla nave, scudo macedone con la testa di Pan; Atena Alkis di stile arcaico, e Filippo V. Vinto Perseo a Pidna (168), la Macedonia riebbe solo dopo 10 anni dal senato romano il diritto di monetazione dell'argento: coniò allora i grandi tetradrammi con l'effigie di Artemide su scudo macedone e con la mazza erculea; nel 148, però, in segnito alla rivolta di Andrisco, istituita la provincia, permane sporadicamente una monetazione enea col nome dei questori e riappare l'argento solo al nome del pretore L. Iulius Caesar, del questore Aesillas e del legato Q. Bruttius Sura.

La monetazione della provincia nell'impero consta di numerose serie di monete di bronzo da Claudio a Filippo, dai tipi numerosissimi delle divinità locali sotto i più varî aspetti vecchi e nuovi, o celebranti giuochi, feste, visite imperiali, ecc., con zecca principale a Beroea, la metropoli, che a sua volta conia monete municipali in speciali occasioni sotto Gordiano e i Filippi, così come fanno i centri più importanti: Dion, Pella, Stobi, Tessalonica, in serie più o meno ricche e sporadiche sino a Gallieno.

Bibl.: Utilissimo per ricchezza di notizie e di documentazione, per informazione bibliografica, l'articolo del Geyer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, coll. 638-771; il Geyer discorre a lungo anche della topografia, e ci dà tra l'altro il catalogo delle città macedoni, con citazione di tutti i passi di autori antichi in cui sono menzionate (col. 656 segg.); per gli ordinamenti della Macedonia v. F. Granier, Die makedonische Heeresversammlung, Monaco 1931.

Si vedano inoltre le storie generali greche ed ellenistiche, in particolare: J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., Strasburgo 1912 segg. (in cui, nella parte 2ª dei singoli volumi, sono discussi problemi cronologici, genealogici, ecc.); J. Kärst, Geschichte des Hellenismus, I, 3ª ed., Lipsia 1927; II, 2ª ed., 1926; A. Ferrabino, La dissoluzione della libertà greca, Padova 1929. Per il periodo dal 217 alla conquista romana, G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, iv, i, Torino 1916-23.

In particolare: per il periodo fino a Filippo: O. Abel, Makedonien vor König Philipp, Lipsia 1847; G. N. Hatzidakis, Zur Abstammung d. alten Makedonier, Atene 1897; O. Hoffmann, Die Maked., ihre Sprache und ihr Volkstum, Gottinga 1906; G. Kazarów, Observations sur la nationalité des anciens Macédoniens, in Revue des études grecques, XXIII (1910), p. 243 segg.; V. Costanzi, Studi di storia macedonica fino a Filippo, in Annali delle Università toscane, Pisa 1915; G. Kazarow, Die ethnographische Stellung der Päonen, in Klio, XVIII (1923); G. Weigand, Ethnographie von Makedonien, Lipsia 1924; S. Casson, Macedonia, Thrace and Illyria, Oxford 1926; N. Vulic, La nationalité des Péoniens, in Musée Belge, 1926, pp. 107-117; L. Schultze, Makedonien, Lanschafts- und Kulturbilder, Jena 1927; V. Costanzi, Sulla costituzione macedonica, in Athenaeum, 1930, p. 157 segg.; F. Geyer, Makedonien bis zur Thronbesteigung Philipps II., Monaco 1930.

Per li periodo da Filippo II alla conquista romana: B. Niese, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten, Gotha 1893-1903; U. v. Wilamowitz, Staat und Gesellschaft der Griechen, Berlino 1910; W. Schubert, Die Quellen zur Geschichte der Diadochenzeit, Lipsia 1914; U. Wilcken, Beiträge zur Geschichte des korinthischen Bundes, in Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wissenschaft, suppl. 10, Monaco 1917; V. Colocotronis, La Macédonie et l'hellénisme, Parigi 1919; F. Schachermeyer, Das Ende des makedonischen Königshauses, in Klio, XVI (1921), p. 332 segg.; E. Kornemann, Die letzten Ziele der Politik Alexanders des Grossen, in Klio, XVI (1921), pp. 209-238; U. Wilcken, Alexander der Grosse und der korinthische Bund, in Sitzungsberichte der preussischen Akademie der Wissenschaft, XVI, Berlino 1922; F. Schachermeyer, Zu Geschichte und Staatsrecht der frühen Diadochen, in Klio, XIX (1924), pp. 435-461; F. Geyer, Alexander der Grosse und die Diadochen, Lipsia 1925; Larsen, Representative government in the Panhellenic Leagues, in Classical Philology, 1925, pp. 313-329; H. Berve, Das Alexanderreich auf prosopographischer Grundlage, Monaco 1926; E. Kornemann, Zur Politik der ersten Nachfolger Alexanders des Grossen, in Vergangenheit und Gegenwart, XVI (1926).

Per la provincia romana: J. marquardt, Organisation de l'empire rom. (trad. franc.), Parigi 1892, p. 203 segg.; T. Mommsen, Le provincie romane da Cesare a Diocleziano, trad. di E. De Ruggiero, Torino 1905; M. Rostovzeff, Storia economica e sociale dell'impero romano, trad. ital., Firenze 1933, p. 293 segg.

Per la numismatica: B. Pick e H. Gaebler, Die ant. Münzen Nord-Griechenlands, Berlino 1906; Müller, Num. d'Alexandre le Grand, Copenhagen 1855; Newel e T. A. Hords, in Num. Notes a. Monographs, nn. 19, 21, 39; id., in American Journal of Num., 1919, 1920, 1923; E. Babelon, Traité des monn. grec. et rom., parte 2ª, tav. IV, p. 457 segg.; tav. CCCIII segg., Parigi 1928; B.V. Head, Hist. Num., 2ª ed., Oxford 1911, p. 192 segg.

La Macedonia nel Medioevo e nell'età moderna.

Le invasioni e le egemonie medievali. - Nonostante la tradizione della sua antica potenza e la posizione centrale nella penisola balcanica, la Macedonia è il solo paese del vicino Oriente che non sia riuscito né a fondere in un sol popolo le genti in esso stanziatesi, né a creare, nel Medioevo e nei tempi moderni, uno stato autonomo. Ciò si deve in parte alla sua configurazione fisica, frazionata com'è in mille piccole regioni isolate l'una dall'altra da montagne di non grande altezza, ma aspre e impervie; in parte alla mancanza di un centro politico-amministrativo; in parte, infine, al formarsi, tutto intorno ai suoi confini geografici, di forti stati nazionali che, attraverso il suo territorio, hanno sempre cercato di raggiungere il mare e Costantinopoli, meta di tutti gl'invasori della Balcania.

La storia della Macedonia nel medioevo e nei tempi moderni è, pertanto, storia d'invasioni straniere, di guerre e di devastazioni interminabili, di continui mutamenti di lingua e di costumi, di spartizioni e di dominî dei popoli che volta a volta hanno avuto una prevalenza nel vicino Oriente.

Il dominio romano segna, per la Macedonia, l'ultimo periodo di ordine interno, di pace e di prosperità. Ma l'opera di fusione delle stirpi che vi abitavano e d'incivilimento fu, verso la metà del sec. III d. C., interrotta bruscamente dalle invasioni barbariche e la Macedonia piombò nel vortice delle guerre e nel caos etnico e politico da cui non doveva più uscire.

Primi a penetrare nella provincia furono i Visigoti. Per circa un secolo e mezzo, dal 253 d. C. al 402, essi costituirono una continua minaccia per tutta la Balcania. Particolarmente grave fu l'invasione del 395 quando, guidati da Alarico, i Goti oltre alla Macedonia, dove stettero poi qualche anno, devastarono la Tracia e la Grecia spingendosi fino al Peloponneso. Alle incursioni dei Visigoti successero quelle degli Unni (441-450) e degli Ostrogoti (479-487); ma né queste né quelle apportarono una sensibile variazione all'assetto etnico della Macedonia: gl'invasori produssero molti danni e fecero molte stragi, ma non vi si fissarono, essendosi i Goti trapiantati in Occidente e gli Unni dispersi a nord-est del Danubio dopo la morte di Attila. Diverse furono le invasioni degli Slavi. La prima testimonianza della loro presenza nella Macedonia si ha nel 552 quando, insieme con gli Unni, assediarono Tessalonica. Da quel momento essi si trovano ricordati in quasi tutti gli avvenimenti che turbarono quella provincia divenuta, alla fine del sec. VI, per lo stanziamento degli Avari nella Pannonia e nell'Illiria, regione di frontiera dell'impero bizantino.

La loro avanzata non assume mai il carattere di un' invasione etnica organizzata; ma è continua e permanente. Sia che si avanzino a piccoli gruppi come agricoltori oppure in masse più compatte come predoni o combattenti al seguito di altri invasori, quali gli Avari e più tardi i Bulgari, una volta penetrati nel paese, gli Slavi vi restano insinuandosi per tutte le valli e colmando i vuoti fatti dalle stragi, dalla miseria e dalle epidemie. Invano gl'imperatori bizantini intraprendono delle vere spedizioni militari per rigettarli al di là delle frontiere oppure li deportano in massa in Asia; il loro numero cresce per l'incessante afflusso di nuovi immigrati a tal punto che l'interno della Balcania - e quindi principalmente la Macedonia - dagli scrittori greci, a partire dal sec. VII, viene spesso chiamato "Slavinia" (cfr. Theophanes, Chronogr., ed. De Boor, p. 347). Nel sec. VIII si può dire che la trasformazione etnica fosse compiuta: per popolazione, per lingua e per costumi la Macedonia era diventata un paese slavo. Politicamente e spiritualmente però essa rimase una provincia bizantina fino al sec. IX. Gli Slavi invasori non formavano una nazione né avevano una propria organizzazione e una propria cultura. Erano piuttosto una massa amorfa: stanziatisi nel paese essi non costituirono uno stato, mantenendosi più o meno disciplinatamente sottomessi a Bisanzio, da cui ebbero la religione, né eliminarono o assorbirono le antiche popolazioni. Accanto agli Slavi e ben distinti da loro per costumi e per lingua appaiono nel sec. IX i Valacchi o Arumeni e gli Albanesi, discendenti questi dagli Illirî, quelli dai coloni romani e da genti traco-illiriche latinizzate, mentre i Greci si mantengono sempre preponderanti sulle coste dell'Egeo e principalmente in Tessalonica che gli Slavi assediarono spesso ma invano.

Il primo dominio politico di carattere slavo sulla Macedonia fu quello dei Bulgari. Costituito, nel sec. VII, uno stato nelle regioni del basso Danubio, questi conquistarono quasi tutta la Balcania nel sec. IX (v. bulgaria: Storia). Il loro regno raggiunge la massima estensione al tempo dello zar Simeone (893-927) abbracciando tutti i territorî compresi fra l'odierna Bessarabia e la Tessaglia fra il mare Adriatico e l'Egeo, tranne Tessalonica e alcuni tratti della costa adiacente. Negli ultimi anni del regno di Pietro (927-969), successore di Simeone, approfittando della guerra scoppiata con i Bizantini e di una invasione russa, il conte di Tărnovo, Šišman, staccò la Balcania centrale e l'Albania dalla Bulgaria danubiana costituendo uno stato a parte che da alcuni storici è chiamato il secondo impero bulgaro. La Macedonia fu il centro di questo stato che ebbe come capitale prima Sofia e poi successivamente Moglena, Vodena, Prespa, Ochrida. Di somma importanza fu, per l'avvenire del bulgarismo in Macedonia, il trasferimento avvenuto in questo tempo, del patriarcato autonomo bulgaro da Tărnovo a Ochrida. Lo stato bulgaro-macedone attraversò un periodo di potenza sotto Samuele (977-1014). Nel 971 l'imperatore d'Oriente Giovanni Zimisce conquistò la Bulgaria danubiana, ma il regno bulgaro-macedone si mantenne ancora per oltre mezzo secolo e non cadde se non nel 1018 dopo venti anni di una guerra accanita. La Macedonia tornò sotto il governo bizantino; ma il dominio bulgaro, durato per circa due secoli, vi lasciava una impronta incancellabile. Da allora infatti, e per parecchi secoli, la Macedonia fu chiamata Bulgaria e i suoi abitanti Bulgari, che parteciparono, spesso in prima linea, alle vicende del mondo bulgaro.

Abbattuto il regno di Samuele, Basilio II trattò con riguardo la popolazione vinta. Ai nobili egli non solo lasciò i loro beni ma concesse anche titoli onorifici della corte bizantina e consentì che mantenessero le proprie leggi. Rispettò anche l'autonomia della chiesa bulgara con questa sola limitazione che il primate di Ochrida dovette abbandonare il titolo di patriarca e contentarsi di quello di metropolita. Questa politica prudente era diretta a conciliare la popolazione vinta al governo bizantino; ma i successori di Basilio II non la continuarono: essi sottoposero il paese a grossi tributi fiscali, abbassarono o esiliarono la nobiltà, promossero al seggio episcopale di Ochrida dei prelati greci. Questa oppressione, tanto più sentita quanto più glorioso era stato il recente passato, provocò frequenti rivolte. Di queste le più notevoli, nel sec. XI, furono quella del 1040, che ebbe come centro la Macedonia e fu capitanata da un Pietro Delian, e quella del 1072 che, scoppiata nella regione di Skoplje, ebbe a guida il principe serbo Bodin acclamato loro capo dai Bulgari adunati a Prizren. Oltre che da queste rivolte, che furono represse duramente dalle autorità bizantine, la Macedonia fu, nel sec. XI e nel successivo, invasa da orde turche, quali i Cumani e i Pecceneghi, e subì le guerre che i Normanni dell'Italia meridionale, a partire dal 1081, intrapresero dalla costa albanese contro l'impero d'Oriente. Nel 1185 essi presero Tessalonica, senza però riuscire a mantenerne il possesso.

Profondi rivolgimenti politici avvennero nella Balcania sulla fine del secolo XII e gl'inizî del XIII. Nella Bulgaria danubiana, insorta contro Bisanzio, si formava un nuovo stato che per la larga partecipazione dell'elemento valacco o romeno, alla cui nazione apparteneva anche la famiglia regnante, fu detto impero bulgaro-valacco (da alcuni storici questo, non quello dei Šišmanidi, è chiamato secondo impero bulgaro); Costantinopoli veniva espugnata, nel 1204, dai Latini della quarta crociata e i territorî dell'impero erano divisi fra i guerrieri franchi e i Veneziani; nell'Epiro, un rampollo della famiglia imperiale degli Angeli, Michele I, creava un despotato che si estendeva da Naupatto a Durazzo. La Macedonia, situata in mezzo a questi nuovi stati, fu l'oggetto di cupidigia di tutti e il campo dove si combatté per il predominio politico nella penisola. Nella ripartizione dell'impero fra i crociati fu assegnata al marchese Bonifacio del Monferrato; ma a contrastargliene il possesso venne lo zar bulgaro-valacco Joannicio (Johannitza, Ivanica, detto anche Kalojan), il quale, sconfitto e ucciso l'imperatore latino Baldovino I ad Adrianopoli (aprile 1208), penetrò nella provincia e per due anni la percorse riempiendola di stragi. Joannicio cadde assassinato nel 1207 mentre assediava per la seconda volta Tessalonica. I Bulgari si ritirarono abbandonando ai Latini la Macedonia meridionale; ma questi non ne mantennero a lungo il possesso. Nel 1222 il despota di Epiro, Teodoro, successo otto anni innanzi al fratello Michele I, dopo avere occupato la Macedonia occidentale, entrava in Tessalonica e vi si faceva incoronare imperatore dal metropolita di Ochrida. L'impero di Tessalonica, come allora si chiamò lo stato di Teodoro, si estese dall'Adriatico all'Egeo abbracciando la maggior parte della Macedonia. Ma anch'esso, come gia il regno latino, ebbe un'esistenza effimera. Venuto a conflitto con lo zar bulgaro-valacco Ivan Asen II, Teodoro era sconfitto a Klokotnica e fatto prigioniero (1230). Riebbe poco dopo la libertà e rientrò in possesso di Tessalonica; ma la Macedonia settentrionale e meridionale fu tenuta dai Bulgari. Nel 1246 l'imperatore di Nicea, Giovanni III Vatatze, s' impadroniva di Tessalonica e iniziava poco dopo la restaurazione del dominio greco sulla Macedonia occupando Sérrai, Melnik, Skoplje. La sua opera fu continuata da Michele VIII Paleologo, il quale nel 1259 sconfiggeva a Pelagonia presso Castoria gli eserciti alleati del despota d'Epiro, del principe di Acaia e del re Manfredi di Sicilia; ma prima che fosse compiuta, un nuovo conquistatore si avanzò dal nord a complicare il già aggrovigliato problema etnico-politico della Macedonia.

Sin dal sec. IX i Serbi, stanziati allora nell'altipiano della Rascia, culla della loro nazione, avevano tentato a più riprese di aprirsi la via verso sud. I loro sforzi si erano sempre infranti contro la resistenza dei Bizantini e principalmente dei Bulgari anche per il fatto che, fino al sec. XII, le loro forze erano disgregate essendo essi divisi in numerosi piccoli stati detti županije (župe) spesso in lotta fra loro. Costituitasi poi, agli inizî del sec. XIII, la monarchia per opera di Stefano Nemanja, i re oscillarono per qualche tempo fra l'occidente e il sud cercando la via della loro espansione. La resistenza, da un lato, dei Veneziani, che occupavano le coste della Dalmazia, e degli Ungheri, che avevano sottomesso i Croati; lo stato di debolezza in cui, dall'altro, vennero a trovarsi, sulla fine del sec. XIII, il restaurato impero bizantino e il regno bulgaro, turbati entrambi da interminabili guerre civili, li determinarono a volgersi verso il sud. Cominciò allora la grande discesa che in breve tempo portò i Serbi alle porte di Tessalonica e di Costantinopoli. Fu questa l'opera di tre re: Milutin (Stefano Uroš II, 1282-1321) che conquistò, oltre a parte dell'Albania, la Macedonia settentrionale e trasportò la capitale del regno a Skoplie; Stefano Uroš III Dečanski (1321-1336) che disfece nella battaglia di Velbužd (Kjustendil) i Greci e i Bulgari e rigettò questi a nord oltre il Rodope; Stefano Dušan (1336-1355) che, portati i confini dello stato a sud nella Tessaglia, a occidente fino all'Adriatico dal golfo di Prevesa a Sérrai, si proclamava "imperatore (zar) e autocrate dei Serbi e dei Romani (Greci)" e l'anno seguente si faceva incoronare dal patriarca serbo a Skoplje. Come già dell'impero bulgaro di Simeone, la Macedonia fu il centro della Grande Serbia creata da Stefano Dušan; ma, a differenza dei Bulgari, i Serbi non impressero al paese alcun segno durevole del loro dominio.

E ciò per due ragioni. In primo luogo per la politica seguita dal Dusan verso le popolazioni sottomesse; Dušan era affascinato dal miraggio di Costantinopoli. Per raggiungere questo fine egli cercò di guadagnare a sé la popolazione greca che, per l'inclusione nello stato serbo dell'Epiro, della Tessaglia, della Macedonia meridionale, esclusa Tessalonica, e di parte della Tracia, costituiva un importante fattore politico, elargendo privilegi e favori al clero e specialmente ai monaci del Monte Athos e adottando il diritto civile ed ecclesiastico bizantino. Il titolo stesso di "autocrate dei Serbi e dei Greci" che egli prese fu una concessione all'elemento greco e sta a denotare come egli, più che a serbizzare le popolazioni assoggettate, mirasse a fondere i due principali elementi etnici, il che, data la superiorità della cultura greca rispetto alla serba, non poteva portare se non a una prevalenza di quella su questa. In secondo luogo per la corta durata del loro dominio. La Grande Serbia non sopravvisse a lungo al suo creatore: sconvolta dalle lotte civili, scoppiate subito dopo la morte del Dušan, e assalita dai Turchi, essa scomparve nella seconda metà del sec. XIV. Nei paesi conquistati essa, come abbiamo detto, non lasciava alcuna traccia sensibile. Ma il suo ricordo si conservò nella memoria dei Serbi. E fu questo l'unico risultato non effimero della conquista, poiché tale ricordo agì più tardi come una forza politica dando una direttiva all'espansione della risorta nazione serba.

Dai Serbi la Macedonia, dopo un breve periodo (1366-1371), durante il quale costituì un regno a parte sotto Vukašin ribellatosi a Uroš V, passò ai Turchi.

Il dominio degli Ottomani. - Più volte questi, a partire dal 1321, avevano fatto la loro apparizione nella Macedonia, ma solo come pirati, assalendo principalmente Tessalonica, o come mercenarî al soldo dei Bizantini e degli stessi Serbi. Una conquista sistematica e per proprio conto non la intrapresero se non dopo che Murād I, occupata Adrianopoli, vi trasportò da Brussa la capitale del suo stato (1365). La conquista procedette con una rapidità fulminea. I Turchi spazzarono via tutti gli stati balcanici, i quali crollarono come edifici tarlati e corrosi. Nel 1371 disfecero presso il fiume Marizza gli eserciti di una lega cristiana formata fra il re d'Ungheria, i principi serbi e lo zar di Bulgaria: Vukašin, re di Macedonia, cadde sul campo insieme col fratello Uglješa; due anni dopo, prendono Sérrai e sottomettono la Macedonia orientale; nel 1380 entrano in Tessalonica e la saccheggiano senza però mantenerne il possesso; nel 1382 occupano Monastir, Prilep, Štip; l'anno seguente riappaiono dinnanzi a Tessalonica. La città resistette per quattro anni ma finalmente fu espugnata e, senza perdere del tutto la sua libertà, dovette accogliere un presidio ottomano. Nel 1389 i Turchi infliggono ai Serbi e ai Bulgari una sconfitta definitiva sui piani di Kosovo. Da quel momento, abbattuta la potenza serba, ridotto l'impero bizantino a un simulacro di stato, la Macedonia rimase in completa balia degli Ottomani che ne occuparono i luoghi principali. Solo Tessalonica resistette ancora per qualche tempo fra continui rivolgimenti politici che la ridussero in misere condizioni. Fu prima disputata tra i figli di Bajazet, morto poco dopo la disfatta di Angora (1402). Approfittando di questi contrasti, i Bizantini ne ottennero la restituzione nel 1407. La riperdettero poco dopo, ma vi ritornarono nel 1414 e per nove anni la città fu retta dal principe imperiale Andronico. Nel 1423, non essendo i Bizantini più in grado di difenderla dai rinnovati attacchi dei Turchi, essa si diede in signoria dei Veneziani. Ma nemmeno questi poterono tenerla a lungo. Nel 1430, assalita con forze imponenti dal sultano Murād II in persona, ricadde in potere dei musulmani. Da quel momento Tessalonica, detta dai Turchi Selanik (Salonicco) seguì le sorti politiche della Macedonia, della quale ritornò ad essere, dal punto di vista amministrativo, il capoluogo.

A mano a mano che estendono sulla penisola balcanica la conquista, gli Ottomani procedono non solo all'organizzazione del paese, ma anche alla presa di possesso del suolo. Dietro gli eserciti vittoriosi si avanza dall'Asia la corrente migratoria delle stirpi turche dirigendosi principalmente verso la Macedonia. I sultani tolgono agli antichi proprietarî le terre più pingui e più fertili e le distribuiscono ai capi dell'esercito creando un sistema feudale che darà poi origine alla potenza dei bey e dei pascià. I feudi, a seconda della loro maggiore o minore estensione, sono detti timar o ziamet. I possessori sono tenuti al servizio militare e al mantenimento di un certo numero di milizie. I centri più importanti come Salonicco, Sérrai, Kjustendil, Štip, Skoplje, Ochrida, Prilep, Bitolj (Monastir), Verria si riempirono di funzionarî turchi, di milizie circasse. Questa immigrazione turca fu accompagnata e seguita da altre variazioni che complicarono sempre più l'etnografia della regione. Sulla fine del sec. XV e gl'inizî del XVI vennero a stanziarsi in Salonicco numerosi ebrei spagnoli sfuggiti alla persecuzione dei re cattolici di Spagna. Intorno allo stesso tempo e poco dopo, le tribù albanesi, discendendo dai loro monti, cominciarono a espandersi nella Macedonia occidentale, mentre i Valacchi si distendevano nella Macedonia sud-occidentale e i Serbi si ritiravano verso nord entro i limiti della loro antica monarchia. In questa fluttuazione di popoli, che denota non solo una instabile costituzione etnica, ma anche una scarsa densità di abitanti, non sarebbe stato difficile ai Turchi dare un'unità spirituale alla Macedonia; pure, nonostante il loro numero e la lunga durata del loro dominio, mantenutosi dalla metà del sec. XIV al secondo decennio del XX, essi non riuscirono nemmeno a mettere, dal punto di vista etnico, profonde e salde radici nel paese mantenendosi sempre nella posizione d'un popolo ivi provvisoriamente attendato e pronto a ritirarsi quando fosse necessario. All'ostacolo rappresentato, per questo riguardo, dalla configurazione fisica della Macedonia, si aggiunsero e il contrasto di religione e l'indole dei Turchi e il loro stesso ordinamento amministrativo. L'islām stabiliva una netta separazione fra i dominatori e i sudditi cristiani. Questa separazione giovava ai primi in quanto assicurava loro un complesso di vantaggi economici e politici che era bene conservare per mantenere la loro prevalenza. I Turchi erano poi, per indole, alieni dal proselitismo religioso. Nulla essi quindi fecero per promuovere l'islām fra i cristiani. Le conversioni certo non mancarono, ma non assunsero mai, tranne che in qualche zona limitata come quella del Rodope, il carattere di un passaggio in massa dal cristianesimo all'islām. Quello che agli Ottomani importava non era guadagnare a sé i vinti o promuovere lo sviluppo economico del paese, ma sfruttarli quanto più fosse possibile. E li sfruttarono fino all'esaurimento, riducendo allo squallore città che un tempo erano state fiorenti. I cristiani furono sottoposti a gravezze fiscali, legali e illegali, insopportabili: decima, tassa sul celibato, diritti sul fidanzamento, tassa sul gregge, sui pascoli, sui mulini; a prestazioni di persona e d'uso che li rendevano schiavi dei musulmani, fossero questi investiti di qualche autorità o semplici privati. Queste condizioni si vennero aggravando nei secoli XVII-XVIII a misura che, indebolendosi il governo centrale, i pascià e i bey si resero quasi del tutto indipendenti nelle loro provincie. Gli arbitrî allora non ebbero più limite e le voglie dei dominatori alcun freno. Non tutti i cristiani sopportarono senza reagire le violenze e i soprusi. In ogni angolo della penisola balcanica si formarono in quel tempo bande armate di clefti (v.) e di aiduchi i quali condussero una guerriglia a morte contro i Turchi; ma il fenomeno del cleftismo ebbe poca estensione nella Macedonia. Ad ogni modo, qui non sono ricordati fino al sec. XIX né rivolte contro il regime ottomano né moti per ottenere dal governo concessioni di privilegi o autonomie locali che sono sempre indizio di una reazione collettiva. La popolazione della Macedonia interna, formata quasi esclusivamente di agricoltori e di pastori, isolata dal resto dell'Europa, nel complesso rimase fino al sec. XIX sottomessa passivamente al giogo dei Turchi.

Considerato in rapporto alle varie popolazioni cristiane soggette, il governo ottomano fu un governo livellatore, in quanto esso non fece alcuna distinzione fra loro. A ciò contribuì anche il fatto che, quale rappresentante dei loro interessi religiosi e capo della loro gerarchia ecclesiastica, la Sublime Porta non riconobbe se non il patriarcato greco di Costantinopoli, il quale non solo riuscì a ottenere l'abolizione del patriarcato bulgaro di Ochrida e di quello serbo di Peć (Ipek), ma affidò anche le diocesi e le chiese macedoniche a prelati greci. Si diffuse, quindi, la lingua greca che era la lingua della liturgia e la sola nella quale, fra i cristiani, si impartisse qualche istruzione, e agli occhi dei pochi europei che conoscevano solo superficialmente, il paese, i Macedoni parvero dei Greci. Ma era questa una patina puramente esteriore. Sotto di essa, come un fuoco sotto le ceneri, si mantenevano le originarie differenze.

La questione macedone nel sec. XIX e la sua attuale soluzione. - Col sec. XIX si apre anche per la Balcania l'era della rinascita delle nazioni. Nel 1804 insorgono i Serbi, nel 1821 i Greci e dopo dura lotta e mercé l'intervento delle potenze europee, principalmente della Russia fattasi protettrice degli ortodossi, riescono a costituire questi un regno indipendente, quelli un principato autonomo. Ma le due rivoluzioni non suscitarono quasi nessuna eco nella Macedonia, che cominciò a uscire dal suo torpore solo verso la metà del secolo quando i Bulgari danubiani, rimasti fino allora tranquilli, cominciarono ad agitarsi domandando alla Porta, in base alla legge di riforma generale dell'impero conosciuta col nome di hatti-humayun (motu-proprio) di Gulhané (18 febbraio 1856), di staccarsi dal patriarcato greco e di costituire una chiesa autonoma. I Macedoni si unirono all'agitazione e allorché, dopo dieci anni di lotta, il 10 marzo 1870, fu istituito l'esarcato bulgaro, con giurisdizione limitata, rispetto alla Macedonia, alla parte nord-orientale, le diocesi di Skoplje (Üsküb) Veles, Ochrida, Niš, Pirot chiesero di farne parte. Contemporaneamente in questi e in altri centri dell'interno, come Monastir (Bitolj) sorgevano scuole nelle quali, reagendosi contro l'influsso greco legato al dominio ecclesiastico del patriarcato ortodosso, s'impartiva l'istruzione in bulgaro. Ritornando alla vita, dopo un letargo di quattro secoli, i Macedoni si orientavano, in tal modo, verso la Bulgaria. Il che era naturale, dato, in primo luogo, che l'elemento bulgaro era nella Macedonia, come già notavano i primi autorevoli studiosi di etnografia balcanica (Ami-Boué, Cyprian Robert, Evans, Kiepert) prevalente sugli altri gruppi etnici, e, in secondo luogo, che Bulgaria e Macedonia si trovavano ancora unite sotto il dominio ottomano e aspiravano a liberarsene. L'intervento russo, seguito ai moti del 1876 e alle atrocità commesse dai Turchi nella repressione, atrocità che fecero fremere di orrore l'Europa e richiamarono l'attenzione sul problema bulgaro, affrettò la liberazione. Nel trattato di Santo Stefano che, il 3 marzo 1878, la Russia impose alla Sublime Porta, fra le altre stipulazioni si stabiliva di riunire in unico stato autonomo la Bulgaria, la Rumelia orientale e tutta la Macedonia, salvo Salonicco e la penisola calcidica. Ma le Potenze occidentali spinte principalmente dall'Austria-Ungheria, la quale, cacciata dall'Italia, si volgeva ora verso la penisola balcanica, e dall'Inghilterra, che temeva che il nuovo stato diventasse docile strumento della Russia, si opposero a quell'unione e nel Congresso di Berlino, convocato nel giugno dello stesso anno per riformare gli accordi di Santo Stefano, pur accettandosi il progetto di un principato bulgaro, se ne ridussero le proporzioni distaccandone la Rumelia, che ebbe un ordinamento a parte, e la Macedonia quasi integralmente resa alla Turchia (solo il bacino di Kjustendil e l'alta valle dello Struma rimasero alla Bulgaria).

Con queste deliberazioni non solo si commise un atto di sopraffazione contro i popoli balcanici, sacrificati agl'interessi orientali dell'Inghilterra e all'egoismo dell'Austria-Ungheria, ma si creò anche nella penisola uno stato di cose per cui la Macedonia doveva gettare la discordia fra gli stati balcanici e causare nuove guerre. Non era infatti possibile che i cristiani della Macedonia, dopo avere intravisto la libertà, si rassegnassero a rimanere sotto il giogo ottomano. Al Congresso di Berlino la Porta, è vero, si era impegnata a introdurre delle riforme nella rioccupata provincia per migliorare le loro condizioni; ma le riforme o non vennero o rimasero lettera morta e il regime, anzi, col tempo, venne peggiorando. D'altra parte, non era possibile che i Bulgari si appagassero dei confini loro assegnati che dividevano la loro nazione in due parti, di là e di qua dal Rodope. La politica del governo di Sofia sin dalla costituzione del principato non ebbe pertanto se non un obiettivo: ricostituire la Grande Bulgaria distrutta dal Congresso di Berlino. Un passo innanzi in questa direzione fu fatto nel 1885 con l'annessione della Rumelia orientale. Da quel momento l'azione fu rivolta alla Macedonia. Ma qui la Bulgaria si trovò di fronte agli altri stati balcanici. Questi erano tutti contrarî alle aspirazioni bulgare, in primo luogo per una ragione di ordine generale, cioè perché il possesso della Macedonia avrebbe dato ai Bulgari il predominio nella penisola distruggendo l'equilibrio di forze già stabilito, e poi perché ognuno aveva interessi o ambizioni da far valere che erano tutti legati alla Macedonia. Per la Serbia, dopo che l'Austria-Ungheria si era insediata nella Bosnia-Erzegovina, la Macedonia rappresentava la sola via di espansione rimastale aperta per giungere al mare, che essa considerava come indispensabile alla libertà e allo sviluppo del suo commercio; per la Grecia, la condizione necessaria sia per realizzare il suo programma nazionale che comprendeva la restaurazione, a proprio profitto, dell'impero bizantino con Costantinopoli per capitale, sia per mantenere la sua egemonia marittima nel Levante; per la Romania, infine, la possibilità d'intervenire nell'attesa liquidazione della Turchia d' Europa per avere la Dobrugia alla quale agognava e che era stata assegnata alla Bulgaria. Conscio di questa complicata e pericolosa situazione, il govemo di Sofia procedette con molta cautela e mentre, da un lato, si svincolava dalla tutela russa per disperdere ogni diffidenza da parte delle altre grandi potenze, si adoperava, dall'altro lato, a rafforzare e ad ampliare in Macedonia quel movimento di carattere nazionale bulgaro che vi si era manifestato prima del 1878, moltiplicandovi le sue scuole (nel 1893 se ne contavano 554 con 30.267 alunni) e sostenendo, per via diplomatica, le rivendicazioni dell'esarca al quale ottenne che fossero restituite, fra il 1890 e il 1894, le diocesi di Skoplie (Üsküb), Ochrida, Veles (Köprülü), Nevrokop, Štip che la Porta gli aveva sottratte durante la guerra del 1877. In quest'azione esso fu sostenuto e, in parte, anche stimolato, dai numerosi Bulgari della Macedonia che, per sottrarsi all'oppressione ottomana, vivevano nel principato (intorno al 1890 ve ne erano circa 150.000, dei quali 20.000 nella sola Sofia che allora contava 70.000 ab.). Ma anche i suoi rivali agirono in questo senso. Anch'essi, come abbiamo già narrato, avevano più o meno a lungo e direttamente dominato sulla Macedonia, anch'essi trovavano ivi, come i Bulgari, sebbene in minori proporzioni, genti della propria stirpe (Serbi nei vilâyet di Kosovo e di Monastir, Greci nella zona costiera, Valacchi o Arumeni sparsi a gruppi dalla Tracia all'Epiro). La loro propaganda, quindi, fatta per mezzo della chiesa e della scuola (i Greci nel 1890 avevano in Macedonia 344 scuole con 18.941 alunni; i Valacchi, 30 con 1760 alunni), con la rievocazione dei ricordi storici e con la stampa, con la corruzione e con le intimidazioni d' ogni genere, trovò in certe zone un terreno favorevole e riuscì a svegliare le originarie differenze etniche che ancora nel 1878 sonnecchiavano e a fare di ogni stirpe una forza politica attiva, tendente a favorire le aspirazioni dello stato affine. Per reagire contro queste tendenze disgregatrici e mantenere unita la Macedonia, come anche per affrettare la liberazione dal dominio ottomano che sotto il regime di ‛Abd ul-ḥamīd diveniva di giorno in giorno più opprimente, i Bulgari, a partire dal 1894, inalberarono il programma dell'autonomia e, rompendo gl'indugi che la prudenza diplomatica imponeva al governo di Sofia, iniziarono un'azione diretta per attuare il loro programma. Quasi contemporaneamente, fra il 1894 e il 1896, si costituirono a questo scopo due vaste associazioni, una in territorio bulgaro, detta perciò Organizzazione esterna, l'altra in Macedonia, onde si disse Organizzazione interna. La prima, formata principalmente dai Bulgaro-macedoni residenti nel principato, era retta da un comitato centrale che aveva sede in Sofia e propugnava l'autonomia della Macedonia come fase preparatoria per l'unione con la Bulgaria; la seconda era aperta a tutti gli abitanti della Macedonia senza distinzione di razza, ma, per la diffidenza e l'ostilità che esistevano verso i Bulgari, fu formata quasi esclusivamente da Bulgari della Macedonia. Era diretta da un comitato centrale residente in Salonicco con sezioni locali in tutti i principali centri della provincia e propugnava l'autonomia senza nessun legame col principato. Le due organizzazioni però s'incontravano nel fine immediato, che era, come si è detto, la liberazione della Macedonia, e nei metodi di lotta che erano rivoluzionarî. Il movimento si doveva svolgere in due tempi: primo, guerra di bande; secondo, insurrezione generale. Esse si misero subito all'opera organizzando le prime bande armate (colpo di mano di Strumica, 1895). Il governo ottomano giocò d'astuzia e di audacia e mentre, da un lato, inveleniva i dissensi fra i cristiani facendo concessioni ora all'una ora all'altra nazione e favorendo la formazione di bande e di comitati antibulgari, dall'altro si abbandonava a feroci repressioni facendone ricadere la responsabilità sul governo di Sofia che accusava di organizzare le bande bulgare. Sperava in tal modo di evitare la rivoluzione; ma questa scoppiò egualmente nell'autunno del 1902. Si rese allora necessario, sia per ragioni di umanità, sia per impedire che nella Balcania scoppiasse una guerra generale che avrebbe potuto avere degli sviluppi impensati, l'intervento delle grandi potenze. Queste però furono lente ad accordarsi perché erano, relativamente alla questione macedone, altrettanto discordi e rivali quanto gli stati balcanici, mirando l'Austria-Ungheria a mantenere la divisione fra i popoli della penisola per potere più agevolmente aprirsi, attraverso la Macedonia, la via di Salonicco che era la meta alla quale, spinta dalla Germania, aspirava; la Russia, a comporre quelle divisioni per riunire in un blocco tutti gli Slavi meridionali onde farsene una base per potersi, col loro aiuto, insediare sugli Stretti; l'Inghilterra, la Francia e l'Italia a impedire ogni progresso della Russia e dell'Austria-Ungheria nella Balcania per salvaguardare l'equilibrio del Mediterraneo e dell'Adriatico. La Russia e l'Austria, che si dicevano le potenze più direttamente interessate nei Balcani, fecero dei passi a Belgrado, Atene e Sofia per ammonirle a rimanere tranquille (il governo bulgaro fu costretto a sciogliere i comitati dell'Organizzazione esterna e a imprigionare i capi) e a Costantinopoli per indurre il sultano a introdurre in Macedonia una serie di riforme che esse stesse suggerivano. Le riforme furono accettate e promulgate nel febbraio 1903; ma pochi mesi dopo scoppiò un nuovo e più vasto movimento promosso anch'esso dai Bulgaro-macedoni (rivoluzione di Sant'Elia). Per suggerimento dell'Inghilterra, in ciò d'accordo con l'Italia e con la Francia, si elaborò un nuovo piano di riforme che, approvato dai ministri degli Esteri russo e austro-ungarico nel convegno di Mürzsteg, fu presentato nell'ottobre dello stesso anno 1903 alla Porta.

In esso le grandi potenze domandavano: 1° la nomina di agenti civili speciali dell'Austria-Ungheria e della Russia presso l'ispettore generale della Macedonia, già istituito dal governo ottomano, allo scopo di attirare la sua attenzione sui bisogni della popolazione e d'informare i loro governi su quanto avveniva in quella provincia; 2° il riordinamento della gendarmeria da affidare a un generale straniero al servizio del sultano e a militari delle grandi potenze a lui subordinati che si sarebbero divise fra loro le circoscrizioni entro cui esplicare le loro attività di controllori, istruttori e organizzatori; 3° il licenziamento delle milizie concentrate dalla Porta in Macedonia riconosciute quali principali autori delle crudeltà ivi commesse; 4° il riordinamento delle unità amministrative allo scopo di aggruppare più regolarmente le nazionalità.

Il sultano accettò queste richieste, nonostante che costituissero una limitazione dei suoi diritti sovrani, e se ne cominciò subito l'applicazione con la nomina degli agenti civili e del comandante in capo della gendarmeria, che fu il gen. italiano De Giorgis. Ma la lotta non cessò; anzi si può dire che divenne più violenta a cagione delle stesse riforme. Lottando per la liberazione della Macedonia, i Bulgari avevano sempre mantenuto fermo il principio della sua unione: lo schieramento delle forze era stato quindi chiaro: da un lato i patrioti bulgari, dall'altro il governo ottomano e le minoranze cristiane più o meno apertamente sostenute dai governi di Atene, Belgrado, Bucarest. Le grandi potenze facevano ora un passo verso la liberazione, ma nello stesso tempo, promettendo una revisione delle unità amministrative "in vista d'un aggruppamento più regolare delle nazionalità", ponevano il principio della divisione. In questa direttiva, che corrispondeva alle mire da lungo tempo perseguite dagli stati rivali della Bulgaria, ora si svolge la lotta nella Macedonia e anche la politica delle grandi potenze.

La mischia diviene generale e caotica appunto perché le nazionalità, nella Macedonia, sono inestricabili e le ambizioni si intersecano e si sovrappongono sul medesimo territorio. Ogni gruppo tenta di sopraffare con la violenza i gruppi vicini per estendere i limiti delle proprie sedi; ogni stato intensifica la propria azione per attrarre nella sua orbita quanti più Macedoni fosse possibile. Le associazioni si moltiplicano e si combattono a vicenda, le bande, armate dai governi di Belgrado, di Sofia, di Atene terrorizzano il paese. Violenze, rapine, incendî, vendette, attentati alle ferrovie, agli edifici pubblici, si succedono spaventosamente e fanno della Macedonia il paese più misero, agitato e malsicuro dell'Europa. E intanto le grandi potenze, sotto la scusa di ristabilire l'ordine, ma in realtà per sorvegliarsi a vicenda, essendo ognuna diffidente e gelosa dell'altra, e forse anche per prepararsi a realizzare ognuna i proprî piani di espansione nei Balcani e in Oriente, s'insediano per mezzo dei loro agenti civili e degl'istruttori militari nella Macedonia ripartendosela in zone d'influenza: gli Austriaci a Üsküb, gl'Italiani a Monastir, i Russi a Salonicco, i Francesi a Sérrai, gl'Inglesi a Dráma.

Di fronte al pericolo di perdere la Macedonia, il che avrebbe significato l'inizio della liquidazione dell'impero, i Turchi reagirono. Nel luglio 1908, mentre l'Austria-Ungheria procedeva all'annessione della Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria si proclamava regno indipendente rompendo il legame di vassallaggio verso il sultano, scoppiava, sul territorio macedone, e in breve trionfava, la rivoluzione dei Giovani Turchi. Deposto il sultano ‛Abd ul-ḥamīd, formato un governo costituzionale, i Giovani Turchi chiesero il ritiro degli agenti e dei militari stranieri dalla Macedonia dichiarando che, avendo ormai promulgato la costituzione che assicurava a tutti i sudditi ottomani l'eguaglianza senza distinzione né di razza né di religione, non esisteva più una speciale questione macedone. Per un momento parve che la loro politica dovesse trionfare e vi furono scene di fratellanza fra le nazioni rivali della Macedonia. Ma l'idillio durò poco. I Turchi non erano in grado, per la loro mentalità e per le loro leggi religiose, di praticare un regime di eguaglianza fra ottomani e cristiani, né gli stati balcanici erano disposti a rinunziare alla liberazione dei loro connazionali. Ricominciò la lotta. Per domarla e per risolvere in modo radicale la questione macedone, i Giovani Turchi concepirono allora il disegno di ottomanizzare la Macedonia deportandone la popolazione cristiana e sostituendola con elementi turchi da far venire dall'Asia. Fu questo disegno, annunziato apertamente e incautamente dai più autorevoli capi del governo ottomano, che indusse gli stati balcanici a iniziare dei negoziati per stringere una lega contro la Turchia. L'accordo, nonostante gli sforzi fatti dal governo bulgaro per far accettare il programma dell'autonomia della Macedonia, non si poté raggiungere se non in base al principio della spartizione. Il 13 marzo 1912, sotto gli auspici della Russia, fu firmato il patto d'alleanza fra Bulgaria e Serbia, al quale poi aderì il Montenegro.

Nella convenzione segreta annessa al trattato si fissavano le modalità e i limiti della spartizione nel modo seguente: la Macedonia era ripartita in tre zone: quella ad oriente del Rodope e dello Struma, quella a nord e ad ovest della Š planina e quella "situata fra lo Š, il Rodope e il lago di Ochrida". Di queste, la prima doveva spettare di diritto alla Bulgaria, la seconda alla Serbia. Quanto alla terza, avrebbe dovuto essere eretta a provincia autonoma; ma nel caso che ciò non fosse stato possibile "per via degl'interessí comuni delle nazionalità bulgara e serba o per altre ragioni d'ordine interno e esterno" si stabiliva che le rivendicazioni dei due stati non avrebbero dovuto oltrepassare rispettivamente una linea divisoria che era fissata e che andava dal monte Golem, sulla frontiera turco-bulgara, al lago di Ochrida. Nel caso che sorgessero delle contestazioni, i due stati s'impegnavano a deferire la contesa allo zar di Russia come arbitro supremo e ad accettare la soluzione da lui proposta.

Il 29 maggio successivo la Bulgaria concludeva un altro patto di alleanza con la Grecia che non fissava nulla di esplicito rispetto alla Macedonia, dichiarandosi in modo generico come scopo della lega "la difesa dei diritti derivanti dai trattati"; ma la spartizione era sottintesa.

La guerra scoppiò il 18 ottobre. La Turchia, indebolita dalla guerra libica, fu rapidamente vinta e gli alleati occuparono tutta la Macedonia (v. balcaniche, guerre). Ma nell'ora della spartizione scoppiarono i dissidî avendo le grandi potenze sostenuta la formazione di uno stato albanese: la Serbia, delusa nelle sue aspirazioni adriatiche, pretese di occupare dei territorî situati a sud della linea divisoria tracciata nel patto con la Bulgaria; i Bulgari si opposero a questa pretesa, ma nello stesso tempo non intendevano abbandonare Salonicco che i Greci rivendicavano a sé. Si venne a una nuova guerra che si ridusse a una generale levata di scudi contro i Bulgari, i quali, vinti, furono costretti ad accettare la pace di Bucarest (10 agosto 1913). Della Macedonia, la Bulgaria poté conservare soltanto la regione sud-orientale, che era la meno popolata e la più povera (in tutto, compresivi alcuni distretti della Tracia, 25.102 kmq. con 431.025 ab.), il resto fu diviso fra i Greci e i Serbi. Questi ebbero la parte settentrionale con Skoplje, Štip, Monastir, Ochrida (54.965 kmq., 1.633.950 ab.); quelli la parte meridionale con Bodená, Salonicco, Sérrai, Dráma, Cavala (32.300 kmq., 1.236.525 ab., senza contare Creta e altre isole dell'Egeo). Grande fu il risentimento dei Bulgari contro gli ex-alleati e principalmente contro i Serbi che, con le loro pretese, contrarie agl'impegni firmati, avevano dato origine al conflitto. Si comprende come, scoppiata la guerra mondiale (per la descrizione delle operazioni, v. appresso) si schierassero a fianco degl'Imperi Centrali (14 ottobre 1915).

Dopo la sconfitta della Bulgaria (armistizio del 29 settembre 1919) e degl'Imperi Centrali, l'assetto territoriale della Macedonia fu regolato con il trattato di Neuilly (27 novembre 1919). Fra la Grecia e la Serbia fu ristabilita la frontiera della pace di Bucarest; ma alla Bulgaria furono imposti nuovi sacrifici. Essa dovette cedere: ai Serbi i distretti di Caribrod (sulla Nišava) di Bosiljevgrad (a nord-ovest di Kjustendil) e di Strumica; ai Greci, oltre alla Tracia occidentale la cui perdita la privava di uno sbocco sull'Egeo, alcuni territorî situati a sud di Melnik sulla destra e sulla sinistra dello Struma. Nel tracciare le nuove frontiere si era seguito principalmente un criterio strategico; ma in un paese di popolazione mista come la Macedonia e dove la lotta etnica aveva raggiunto forme morbose, non era possibile trascurare del tutto la questione nazionale. Sì pensò di risolverla, sia con un complesso di disposizioni relative alla tutela delle minoranze, la cui applicazione fu posta sotto il controllo della Società delle nazioni, sia col volontario scambio di popolazione.

Questo scambio, regolato in una serie di convenzioni concluse fra la Serbia e la Bulgaria (Neuilly, 26 novembre 1919), la Bulgaria e la Grecia (27 novembre 1919), la Grecia e la Turchia (Losanna, 24 luglio 1923) non raggiunse vaste proporzioni se non nella Macedonia greca. Secondo le statistiche presentate dall'ufficio di statistica generale della Grecia e dalla Commissione mista greco-bulgara, dal 1912, inizio della guerra balcanica, al 1924, emigrarono dalla Macedonia greca 329.098 Turchi e 46.878 Bulgari, cioè un totale di 375.976 allogeni. Al loro posto si stanziarono ben 638.253 Greci (censimento del 16 maggio 1928) provenienti dalla Tracia e dall'Anatolia. Il problema nazionale nella Macedonia ellenica è stato in tal modo quasi radicalmente risolto non rappresentando ivi ormai gli allogeni se non una piccola minoranza. Diverso è il caso della Macedonia serba. Scarso qui è stato il movimento migratorio e ciò per due ragioni fondamentali. In primo luogo, perché i Bulgari, che vi costituiscono l'elemento più numeroso, anche ove avessero voluto abbandonare il suolo nativo, non avrebbero potuto trovar posto nella Bulgaria, essendo questa di limitate risorse economiche e satura di immigrati (221.191 dal 1913 al 1926 secondo una statistica compilata dal governo bulgaro); in secondo luogo, perché i vuoti non si sarebbero potuti colmare con popolazione serba. Non è privo d'interesse a questo proposito notare come, in seguito all'esodo di parte della popolazione turca, il numero degli abitanti dei principali centri della Macedonia serba sia diminuito (dal 1914 al 1921, data del censimento serbo, la popolazione è scesa a Prilep da 22.337 a 18.508; a Štip da 15.314 a 11.662; a Bitolj (Monastir) da 48.370 a 28.420) Il numero degli emigrati bulgari dal 1919 al 1926, secondo i calcoli fatti dal Commissariato della Società delle Nazioni per l'insediamento dei rifugiati bulgari in Bulgaria, fu di 9955; quello degl'immigrati dalle altre provincie serbe, dal 1919 al 1929, secondo una statistica del governo iugoslavo, di 6079 famiglie, pari a cirea 25.000 individui; cifre quasi insignificanti ove si mettano a raffronto con l'estensione e la popolazione della Macedonia serba, che sono rispettivamente di 26.776 kmq. e 818.377 ab.

Non avendo potuto per questa via modificare la costituzione etnica della Macedonia, il governo di Belgrado è ricorso alla forzata serbizzazione, politica questa che esso ha del resto adottata anche nei riguardi delle altre nazionalità del regno. Sono state chiuse totalmente le scuole bulgare, allontanati i vescovi e i preti esarchisti, mutati i nomi e i limiti delle circoscrizioni amministrative, imposti dovunque funzionarî serbi, reso obbligatorio l'uso della lingua serba. I Bulgaro-macedoni hanno reagito a questa politica di snazionalizzazione impegnando una vivace lotta per la difesa dei loro diritti. La lotta è stata diretta dal comitato dell'Organizzazione rivoluzionaria interna macedone (O.R.I.M.) ricostituitasi dopo la pace di Neuilly, e si è svolta con i metodi tradizionali: la guerriglia di bande o comitati, l'attentato terroristico, la vendetta. Profonde divergenze si sono manifestate negli anni scorsi in seno alla O.R. I. M., avendo un gruppo di essa, capeggiato dal Protogerov, propugnato l'autonomia della Macedonia serba nell'ambito di uno stato federale iugoslavo, e un'altra frazione, guidata da Teodoro Aleksandrov, sostenuto il principio dell'autonomia, ma fuori dello stato serbo e con un legame con la Bulgaria. Questi dissidî hanno da un lato paralizzato la sua azione rivoluzionaria, dall'altro provocato una lotta interna nella quale sono caduti molti dei principali esponenti del movimento. Il dissidio sembra in parte superato. Nel recente congresso dei rappresentanti delle varie associazioni patriottiche macedoni, tenutosi il 12-13 febbraio 1933, è stato messo al bando il gruppo di Protogerov che è stato accusato di essere stato al soldo di Belgrado, e proclamato apertamente che scopo supremo dell'organizzazione rivoluzionaria interna è la revisione dei trattati e la costituzione di tutta la Macedonia serba, bulgara e greca in uno stato unitario, libero, indipendente. "Si sappia in Europa - ha dichiarato il capo dell'assemblea che per la presenza dei rappresentanti di tutti i Macedoni è stata proclamata: Assemblea nazionale - che noi vogliamo a ogni costo l'indipendenza, perché oggi abbiamo la forza per governarci autonomamente. La Macedonia avrà la propria resurrezione.

Se questo programma sia ormai effettuabile è difficile prevedere; certo però, la soluzione imposta al problema politico della Macedonia non è né definitiva né giovevole alla pace. Essa costituisce una continua minaccia di torbidi, di agitazione e di conflitti tanto per la Bulgaria, che non può patroneggiare i numerosi Bulgari macedoni ivi stanziati, né disinteressarsi del tutto della loro causa che è anche, in gran parte, la propria causa nazionale; quanto per la Serbia, che, ferma nel suo programma di fusione di tutti i popoli racchiusi nei suoi confini, segue una politica di repressione il cui risultato finale non può essere se non quello di rinfocolare gli odî di razza.

Le operazioni durante la guerra mondiale. - Al principio dell'ottobre 1915 incominciarono a sbarcare a Salonicco forze anglo-francesi mandate, sotto il comando del generale francese Sarrail, in soccorso alla Serbia; esse però giunsero in ritardo e in misura insufficiente: il 10 di ottobre, quando la linea del Danubio e Belgrado erano state perse dai Serbi, l'armata d'Oriente aveva a Salonicco complessivamente solo 35 mila uomini, che aumentarono a 75 mila al principio di novembre, quando già la sorte della campagna era decisa e i Serbi, tagliati dall'Egeo, erano costretti a una disastrosa ritirata verso l'Adriatico. In tale situazione il Sarrail mandò successivamente al confine greco-bulgaro tre divisioni francesi, seguite da una divisione inglese. Avvennero scontri di non grande importanza con i Bulgari, i quali però il 21 novembre obbligarono la 122ª divisione francese a ripassare la Crna (Cerna). In conseguenza Sarrail diede l'ordine di ripiegamento su Salonicco dove si trincerò. I Bulgari non oltrepassarono il confine greco.

Nel 1916 l'armata d'Oriente fu notevolmente rinforzata con altre divisioni anglo-francesi, con l'invio dell'esercito serbo ricostituito e con la 35ª divisione italiana, comandata dal generale Petitti di Roreto, inizialmente composta dalle brigate Sicilia e Cagliari, da due squadroni del Lucca, da 4 gruppi di artiglieria da montagna (16, 18, 20, 28), dal 23° battaglione genio e da tutti i servizî necessarî per potersi rifornire senza bisogno di ricorrere agli alleati. La divisione terminò di sbarcare l'11 agosto e su richiesta del generale Petitti fu inviata subito in linea nel settore del Koursã Balkan, a oriente del lago di Dojran, su una fronte di circa 40 km., che fu dalle truppe italiane attivamente organizzata e difesa.

In seguito la divisione fu rafforzata dalla brigata Ivrea che entrò in linea il 25 ottobre 1916. Quando nell'agosto 1916 entrò in campo la Romania, Sarrail disponeva di circa 400 mila uomini per cooperare col nuovo alleato nel teatro di guerra balcanico (116 mila Francesi, 110 mila Inglesi, 117 mila Serbi, 25 mila Italiani aumentati poi a 35 mila, 18 mila Russi). L'iniziativa delle operazioni fu però presa dai Bulgari che riuscirono a occupare Florina (19 agosto) spingendosi fino al lago di Ostrovo: ma l'invasione della Macedonia da parte dei Bulgari rafforzò in Grecia il partito di Venizelos. Intanto il comando della fronte bulgara attorno a Monastir era stato affidato (10 agosto) al generale tedesco von Winckler, nominato comandante dell'11ª armata tedesca; tale armata e la 1ª armata bulgara (che occupavano la fronte fra il lago di Ochrida e quello di Dojran) furono riunite al comando del generale Otto von Below 10 ottobre 1916) che stabilì il suo quartier generale ad Üsküb. Il 4 aprile 1917 il Below fu sostituito dal generale Scholtz. L'11ª armata tedesca e la 1ª bulgara non comprendevano che scarse truppe germaniche (l'11ª armata tedesca aveva essenzialmente di tedesco i comandi di corpo d'armata, di divisione, alcune batterie pesanti e compagnie mitragliatrici: qualche battaglione di fanteria tedesca era alla 1ª armata bulgara. Più tardi furono inviati alcuni battaglioni Jäger, tre reggimenti di fanteria e altre batterie). Le operazioni contro Monastir attuate dal Sarrail per venire in aiuto alla Romania invasa, durarono dal 3 ottobre al 27 novembre (1ª battaglia di Monastir). La città fu abbandonata dai Bulgari il 19 novembre, ma i tentativi dei Franco-Serbi di sfondare la fronte bulgara fallirono: in complesso lo scopo di alleviare la fronte romena non fu raggiunto. In quest'offensiva ebbe parte importante la nostra brigata Cagliari, che attaccò il 15 novembre il Baba planina e respinse i Bulgaro-Tedeschi inseguendoli sino alle alture di Bradinzol e di Nisopale. Dopo la conquista di Monastir le operazioni cessarono e Sarrail fece sistemare a difesa le posizioni. La 35ª divisione fu riunita nel settore Makovo-fiume Crna, sostituendovi, grazie ai suoi forti effettivi, due divisioni francesi e una serba. Nel settore della divisione italiana vi era la quota 1050 (detta dai Tedeschi Armatus Höhe). Le stavano di fronte truppe germaniche e attorno a tale quota furono nei primi mesi del 1917 effettuati numerosi attacchi dalle due parti. Accanite specialmente furono le azioni del 12 e del 27 febbraio, alle quali (secondo dati ufficiali tedeschi) parteciparono i comandi delle divisioni 302 e 201, 4 battaglioni Jäger, 1 battaglione di fanteria oltre a numerose artiglierie e reparti del genio.

Dall'11 al 26 marzo del 1917 avvenne la seconda battaglia di Monastir, ma l'offensiva degli alleati non riuscì a intaccare la fronte bulgara. Analoghi risultati ebbe la "battaglia di maggio" svoltasi tra Monastir e l'arco della Crna. Dopo, le operazioni languirono. Il 1917 aveva fruttato pochi successi militari all'Intesa in Macedonia, essa però riuscì a costringere re Costantino ad abdicare (12 giugno). Venizelos, ritornato al governo, si alleò con l'Intesa: quindi l'armata d'Oriente fu rinforzata dall'esercito greco. Il 6 maggio 1917 il generale Petitti di Roreto venne destinato al comando di un corpo d'armata in Italia; venne nominato comandante il generale Pennella, che poco dopo fu sostituito, per analoga ragione, dal generale Mombelli. Il 14 dicembre 1917 Clemenceau richiamò il generale Sarrail inviando al suo posto il generale Guillaumat, dandogli l'incarico di stabilire un piano di difesa per mantenere l'integrità della fronte dall'Egeo sino all'Albania, dove l'armata d'Oriente doveva assicurare il collegamento col corpo di spedizione italiano comandato dal generale Ferrero. Si temeva che gli Austro-Tedeschi, ottenuta la pace sulla fronte russo-romena, prendessero l'offensiva contro Salonicco.

Durante tutto il 1918, tranne alcune spedizioni presso il lago di Ochrida in collegamento con l'offensiva del XVI corpo d'armata italiano in Albania (10 giugno-fine agosto), la tranquillità regnò sulla fronte macedone. Il generale Guillaumat venne però, dopo la sconfitta francese allo Chemin des Dames, richiamato in Francia per averlo disponibile per il caso in cui fosse stato necessario sostituire il generale Pétain, del quale un forte partito alla camera chiedeva l'esonero. Il generale Guillaumat, giunto a Parigi il 12 giugno, decise il governo a emanare direttive al nuovo comandante dell'armata d'Oriente, intese a preparare un'offensiva di carattere decisivo da iniziarsi prima dell'autunno.

Il nuovo comandante, generale Franchet d'Esperey, già capo del gruppo di armate del centro e dispensato da tale comando in seguito al disastro dello Chemin des Dames, seguì energicamente la via tracciatagli.

Il crollo della Bulgaria. - Sotto la pressione degli avvenimenti di Francia la massima parte delle truppe tedesche erano state ritirate dalla Macedonia. L'11ª armata tedesca (generale Steuben) di germanico non aveva che due battaglioni, 10 compagnie mitraglieri e 100 pezzi. Invano il generale Scholtz aveva chiesto al Comando supremo tedesco una divisione. Solo al principio di settembre furono inviati dalla fronte russoromena 6 battaglioni di Landwehr, di scarso valore combattivo: in complesso l'equivalente di una divisione tedesca si aggiungeva alle 15 grosse divisioni bulgare; in tutto vi erano circa 170 mila fucili. Capo dell'esercito bulgaro-tedesco era il generale Todorov che in settembre aveva sostituito il generale Jekov ammalato.

Oltre a 10 divisioni greche (di limitato valore perché sino al 1917 erano state avverse all'Intesa) Franchet d'Esperey disponeva a Salonicco di 19 divisioni alleate (8 francesi, 6 serbe, 4 inglesi, 1 italiana con un totale di 180 mila fucili): le francesi e le inglesi avevano scarsi effettivi; ma tutte le truppe dell'Intesa erano provviste di ogni mezzo, e avevano alto il morale per l'andamento vittorioso della guerra, mentre dalla parte bulgara avveniva il contrario, e tale situazione era aggravata dalla stanchezza prodotta dalla lunga guerra che aveva seguito a breve distanza quella del 1912. Il soldato bulgaro era ridotto in cenci, mal nutrito; gravi atti d'indisciplina erano frequenti, impressionante il numero dei disertori. Anche nel paese l'opinione pubblica era ormai avversa alla guerra, e irritata per la ritardata concessione dell'intera Dobrugia alla Bulgaria, concessione che Vienna, Berlino e Costantinopoli si decisero a fare solo il 21 settembre, cioè dopo il crollo della fronte bulgara. Sin dalla primavera il tedescofilo Radoslavov aveva dovuto cedere il governo a Malinov, propenso a un accordo con l'Intesa.

In questa situazione Franchet d'Esperey iniziò il 15 settembre la sua offensiva. Egli diresse lo sforzo principale contro il centro bulgaro, che tra la Crna e il Vardar doveva essere attaccato dall'esercito serbo rinforzato da due divisioni francesi (33 mila Bulgari con 158 pezzi contro 56 mila Serbo-Francesi con 566 pezzi). L'attacco fidava sull'abilità dei Serbi a manovrare in quella zona montana e mirava a tagliare la ritirata alla destra dell'11ª armata. Il comando bulgaro-tedesco aveva notato i preparativi e aveva avvicinato le riserve alla fronte minacciata. Mentre a ovest della Crna, sul Vardar e a est del Vardar la fronte bulgara resisteva all'attacco, nel settore decisivo i Serbi riuscivano a penetrare profondamente nelle posizioni avversarie; i Bulgari su questa fronte retrocedettero in disordine; solo gli scarsi reparti tedeschi offrivano resistenza, ma anch'essi, per non restare isolati, furono costretti a cedere. Il comando bulgaro esitava a dare l'ordine di ritirata generale, temendone la dissoluzione dell'esercito: ma la penetrazione dei Serbo-Francesi continuava, assecondata dagl'Inglesi tra il lago di Dojran e il Vardar.

Il 20 anche la 35ª divisione italiana ebbe ordine di avanzare sulla sinistra dei Serbi e in due giorni di lotta riuscì a penetrare per 10 chilometri nelle posizioni avversarie. Intanto il 22 il generale Steuben dava all'11ª armata l'ordine di ritirata su Veles, sperando di poter ricostituire un nuovo fronte all'altezza di Usku̇b, ma l'inseguimento da parte dell'armata d'Oriente avveniva senza tregua. Il 25 i Serbi occupavano Gradiko sul Vardar e la 35ª divisione era non lontana da Prilep. In tale giorno il generale Mombelli ricevette ordine di piegare più a occidente, dirigendosi per Kručevo ed il Baba planina su Sop, per tagliare la ritirata all'avversario che retrocedeva dalla zona Monastir-lago di Ochrida. La manovra fu condotta vigorosamente e stava per essere compiuta, quando il 30 settembre giunse notizia che la Bulgaria aveva accettato l'armistizio: la Bulgaria capitolava, consentendo alle forze dell'Intesa il libero passaggio sul suo territorio. Inoltre tutte le truppe a occidente del meridiano di Üsküb, dovevano arrendersi, compresa la destra della 11ª armata, che sarebbe stata ancora in grado di resistere. Così 8 mila bulgari cedettero le armi alla 35ª divisione italiana. Le truppe tedesche, e in seguito anche quelle austriache d'Albania, ripiegarono verso nord, distruggendo le opere d'arte della ferrovia. La Serbia dovette essere sgombrata; erano così tagliate le comunicazioni con la Turchia, che a sua volta fu costretta ad accettare l'armistizio. Per quanto grande fosse il successo dell'Intesa non da esso era da sperarsi la risoluzione della guerra, perché l'armata d'Oriente non poteva portare l'offensiva nel territorio austro-ungarico, data la rovina delle poche comunicazioni esistenti nella Serbia. La decisione della guerra si ebbe soltanto quando la fortunata offensiva di Vittorio Veneto minacciò di rovescio la Gemiania.

Bibl.: La letteratura storica intorno alla Macedonia è così abbondante che riesce impossibile raccoglierla in quella nota. Tutte le opere che trattano della storia balcanica, dell'impero bizantino, della Bulgaria, della Serbia, dell'impero ottomano, della questione d'Oriente nel sec. XIX e nel dopoguerra riguardano anche la Macedonia. D'altra parte, quasi tutte le pubblicazioni speciali apparse negli ultimi cinquant'anni ubbidiscono a preoccupazioni di carattere nazionale e hanno quindi un valore storico scarso. Per la parte che riguarda il periodo che va dalla caduta del dominio romano al trattato di Santo Stefano v. la bibl. di: bizantina, civiltà; bulgaria, Storia; serbia, Storia; turchia, Storia; per la storia contemporanea si veda: V. Berard, La Macédonie, Parigi 1897; id., La Turquie et l'hellénisme, 6ª ed., Parigi 1907; C. Nicolaides, La Macédoine. La question macédonienne dans l'antiquité, au moyen-âge et dans la politique actuelle, Berlino 1899; A. Cheradame, La question d'Orient. La Macedéoine, Parigi 1903; G. Routier, La Macédoine et les Puissances, Parigi 1904; M. Branoff, La Macédonie et sa population chrétienne, Parigi 1905; V. Mantegazza, Macedonia, Milano 1906; H.N. Breilsfor, Macedonia. Races and theirs future, Londra 1906; V. Kancov, Makedonia. Etnografia i Statistika, Sofia 1900; S. P. Thocas Cosmetatos, La Macédoine: son passé et son présent, Losanna e Parigi 1919; Radeff, La Macédoine et la Renaissance bulgare au XIXe siècle, Sofia 1918; É. Haumant, La question de Macédoine (Travaux du comité d'études, II, Parigi 1919); id., Les origines de la lutte pour la Macédoine, pubbl. in Le Monde Slave, ottobre 1926; G. Baidarof, La question macédonienne dans le passé et le présent, Sofia 1923; V. Colocotronis, La Macédoine et l'hellenisme, Parigi 1918; G. Weigand, Die Aromunen, voll. 2, Lipsia 1895; U. Diamandi e U. de Medonca, Les Roumains de Macédoine, in Revue anthropologique, 1928; Traité de paix signé à Neuilly, Parigi; Établissement des refugiés bulgares, in Rapporti della commiss. della S.d.N., 1926-30; id., L'établissement des réfugiés en Grèce, Ginevra 1928; C. Weigand, Zur Ethnographie von Makedonien, Lipsia 1928; J. Ancel, La Macédoine, son évolution contemp., Parigi 1930. - Per le operazioni belliche in Macedonia durante la guerra mondiale, L. Villari, La campagna di Macedonia, Bologna 1922; P. Maravigna, Gl'Italiani nell'Oriente balcanico, in Russia e in Palestina, Roma 1923; G. Sarrail, Mon commandement en Orient, Parigi 1919.

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