Made in Italy

Il Libro dell'Anno 2004

Laura Biagiotti

Made in Italy

Qualità Italia

Un'esperienza professionale

e umana

di Laura Biagiotti

4 dicembre 2003

Al Quirinale, nel corso della cerimonia di consegna dei premi Leonardo, attribuiti ogni anno alle personalità che meglio hanno rappresentato l'immagine italiana all'estero, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi invita imprenditori, politici e banchieri a impegnarsi affinché l'Italia mantenga il posto conquistato sul mercato globale con il "marchio più forte del mondo", sottraendosi a quella "retorica del declino" che rischia di fiaccare la volontà di reagire in tempi di concorrenza sempre più agguerrita.

L'eccellenza italiana

È con gioia ed entusiasmo che ho accettato di trattare in questo volume il tema del made in Italy, universo attorno al quale da sempre ruota il piccolo pianeta della mia esperienza professionale e umana, tanto da indurmi a immaginare la stesura di questo testo come una sorta di diario della mia attività nel mondo imprenditoriale della moda, nel quale peraltro ho festeggiato nel 2002 un sodalizio lungo trent'anni. È con orgoglio di appartenenza che, anche in qualità di presidente del Comitato Leonardo, posso ragionare attorno a questo grande fenomeno con l'intento di storicizzare il made in Italy nell'ottica di un grande valore culturale espresso negli ultimi cinquant'anni dal nostro paese.

Il Comitato Leonardo è nato nel 1993 su iniziativa dell'ICE (Istituto nazionale per il commercio estero), di Confindustria e di un gruppo di imprenditori, scienziati, artisti, professionisti e uomini di cultura: personalità altamente rappresentative di quei valori e di quelle capacità creative su cui si fonda l'immagine del made in Italy nel mondo. Presidente fondatore è stato Sergio Pininfarina, oggi presidente onorario. Il Comitato ha lo scopo di favorire la diffusione dell'eccellenza italiana all'estero nei campi dell'economia, della cultura e della tecnologia. Ancora oggi la reputazione del prodotto italiano nel mondo poggia sulla felice combinazione di bellezza, stile, design, intelligenza, contenuto tecnologico, innovazione di qualità. Indicativa in tal senso la sintesi programmatica, che è il vademecum del Comitato Leonardo: "La storia italiana ha conosciuto nei secoli molte vicende. Esse sono profondamente diverse, anche perché l'Italia è stata divisa in Stati, repubbliche, città, dominazioni di altre civiltà e di altri paesi. Eppure, non è mai venuto a mancare un segno che ha contraddistinto le genti che formano oggi l'Italia e la storia che insieme compongono: questo segno è la qualità del lavoro. Qualità che si è di frequente manifestata

nelle espressioni più alte dell'arte di ciascun secolo. Si è incarnata nella identificazione del nuovo dal punto di vista della scienza, della filosofia, della scoperta fisica del mondo. Ha preso, di volta in volta, le forme dell'innovazione nella concezione del mondo, nella conoscenza dell'universo, nella presentazione creativa della bellezza. […] Il Comitato Leonardo intende presentare l'immagine di una sola Italia.

È vero, essa si visita separatamente nei musei e nelle botteghe, negli atelier e nelle fabbriche. Ma è un'unica tradizione di lavoro dell'uomo che aggiunge il suo talento come ingrediente prezioso. Un bene, quello della qualità del lavoro, che in Italia ha preso il posto dei beni della natura ed è diventato natura. Il Comitato Leonardo presenta e raccomanda nel mondo l'Italia dei secoli che è diventata l'Italia del presente grazie allo stesso inevitabile rapporto naturale che aggiunge, col lavoro, perfezione all'oggetto".

Il made in Italy è stato e rappresenta tuttora un enzima fondamentale e una grande risorsa della società italiana costruendo un percorso intellettuale e culturale di grande spessore e respiro, accanto e oltre al fondamentale sviluppo economico che ha consentito alla nostra nazione. Posso aggiungere una riflessione personale alla ricchissima sfaccettatura di questo fenomeno: una generazione di imprenditori grandi, medi e piccoli, grazie alla qualità umana delle loro imprese e grazie a una mole immensa di lavoro, di coraggio, di sacrifici, ha saputo far apprezzare in tanti paesi prodotti italiani che vengono spesso ospitati quali oggetti cult nei musei di tutto il mondo. Ma anche e soprattutto ha affermato un'immagine vincente del 'bel paese', offrendo un modello comportamentale e uno stile di vita che, dall'abitare al vestire, dal piacere della tavola alle molte innovazioni tecnologiche, porta sempre e comunque l'imprinting inimitabile di un nuovo grande fenomeno culturale italiano espresso attraverso forme e modalità inedite. Mi chiedo dunque: e se noi tutti avessimo, sia pure involontariamente, operato una colonizzazione intellettuale, un proselitismo estetico e culturale anche attraverso un abito meraviglioso o una superba bottiglia di vino?

Questo è il punto che mi intriga particolarmente: proporci di riaffermare in un futuro che si presenta assai incerto per l'impresa europea un percorso che non sia solo mercantile ma riconsideri il grande fenomeno del made in Italy come un nuovo modo di fare o di essere cultura e impresa a un tempo. Tutto ciò può avvenire attraverso una capillare ricerca di bellezza, di valore aggiunto che non si fonda solo sul lusso o sul censo, ma su quella 'eleganza intellettuale' che così bene continua e sviluppa i grandi presupposti rinascimentali. I collegamenti ideali si sintetizzano nell'impegnativa scelta per il nostro Comitato di un 'eponimo' come Leonardo, quintessenza di ingegno, progettualità, lungimiranza nelle più diverse applicazioni dell'arte del vivere.

Made in Europe

Stante questa premessa, occorre confrontarci oggi con l'entrata in campo dell'euro che ha rappresentato, comunque lo si voglia considerare, un elemento dirompente nella struttura dei costi delle nostre imprese. L'Europa dell'euro rappresenta comunque un'irrinunciabile opportunità, un baluardo di difesa per quelle nazioni con monete quali la lira, ripetutamente oggetto di speculazioni e attacchi valutari capaci di minare la stabilità stessa delle economie nazionali. Anche alla luce del tragico evento dell'11 settembre 2001, la scelta italiana di aderire all'Europa della moneta unica è stata lungimirante e salvifica. Tuttavia nel sentimento di molti cittadini europei e in particolare degli italiani si è insinuato un atteggiamento di sospetto se non di diffidenza, per la conclamata spinta inflazionistica che l'euro ha generato, colpendo duramente le classi più deboli legate a un reddito fisso medio-basso.

Dai tempi del Trattato di Roma (1957) l'Italia rappresenta un caposaldo nella volontà di proseguire sulla strada, per quanto ardua, della maggiore integrazione del Sistema Europa. Allora è logico chiedersi: il made in Italy nell'euro ha trovato motivi di debolezza e quale sarà il futuro nello scenario prossimo di un grande made in Europe?

Si tratta di un argomento assai dibattuto anche in sede parlamentare e confindustriale attraverso la controversa stesura di un nuovo disegno di legge a tutela del made in Italy, in 'risposta' alla proposta, allo studio a Bruxelles, di introdurre un marchio di origine dei prodotti dell'Unione Europea definibile made in Europe, per tutelare la qualità, l'immagine e il valore aggiunto dei prodotti dei paesi europei e rafforzare la competitività del settore difendendolo dalle contraffazioni extracomunitarie. Così come ben riassume la questione un articolo del quotidiano Il Sole 24 Ore del 24 febbraio 2004: "la parola d'ordine dell'Unione Europea è la trasparenza, da realizzarsi con l'introduzione, per i prodotti della Comunità, di un marchio made in Eu al quale va aggiunto il riferimento al paese europeo di produzione (made in Eu/Italy), marchio composito obbligatorio al quale legare controlli e sanzioni. La Finanziaria 2004 ha previsto una serie di misure a tutela del made in Italy e per la lotta alla contraffazione.

Si tratta di disposizioni che vanno dalla valorizzazione dei prodotti tipici e di qualità all'inasprimento delle pene per chi commercializza prodotti recanti false indicazioni di provenienza, al finanziamento di campagne promozionali con stanziamenti di bilancio di 31,5 milioni. Nonostante la congiuntura negativa la fiducia nel sistema non deve venir meno. I settori manifatturieri assicurano ancora all'Italia un saldo commerciale attivo con l'estero di circa 75 miliardi di euro, fondamentale per compensare i passivi strutturali che abbiamo nell'energia e in altri settori. Norme rigorose, correttamente applicate non solo difendono i nostri prodotti, i nostri mercati e i nostri consumatori, ma aiutano gli stessi produttori del Far East a percorrere il sentiero virtuoso e di leale concorrenza che alla lunga è la strada maestra dello sviluppo e della cooperazione. L'Unione Europea deve impegnarsi nel rilancio del dialogo e della cooperazione multilaterale anche nella prospettiva della geopolitica del terrore che stiamo vivendo.

Per farlo è necessario un colpo d'ala politico capace di superare l'approccio prevalentemente burocratico con il quale sono state gestite sinora le relazioni economiche internazionali".

Nel contempo occorre osservare che la dicitura made in appare storicamente superata nei fatti e riduttiva nell'etimologia. L'effetto produzione artigianale a basso costo manufatturiero, che era stata la spinta propulsiva del boom di esportazioni italiane nel secondo dopoguerra, si era già esaurito negli anni Settanta. Nel nuovo ciclo espansivo degli anni Ottanta-Novanta l'eccellenza italiana si è affermata in campi assai diversi con marchi DOC, tra i quali il più emblematico è quello della Ferrari, per indicare la 'formula' italiana vincente.

La stessa definizione etimologica del made in Italy deriva dall'affezione dei buyers americani che frequentavano con entusiasmo e grande perspicacia il mercato italiano della ripresa negli anni Cinquanta e Sessanta. Parliamo dunque degli Stati Uniti come dello sponsor leader delle nostre esportazioni di qualità.

La 'metamorfosi' italiana negli USA

Le luci bianche, rosse e verdi che illuminano la parte superiore dell'Empire State Building nella ricorrenza del Columbus Day sono il tributo più alto, in senso metaforico e fisico, che la nazione americana riserva all'Italia, e quando su Manhattan luci e stelle si confondono e brillano all'unisono, risplende più che mai la stella del made in Italy. Nelle metropoli americane la corsa allo shopping privilegia le eleganti boutique di note firme italiane. I social events più esclusivi parlano la nostra lingua e spesso si realizzano grazie alle nostre sponsorizzazioni generose e raffinate. Nel 1995 ho partecipato, con orgoglio, all'inaugurazione nel Metropolitan Museum di New York di un nuovo centro dedicato alla ricerca storica e al restauro conservativo di tessuti antichi, finanziato dalla Fondazione Ratti di Como. La generosa donazione di Antonio Ratti al Metropolitan pose l'immagine di un'Italia vincente, in grado di sfidare nella cultura e nel marketing i colossi industriali d'oltreoceano.

La statua di bronzo che raffigura Ulisse, opera dello scultore Ugo Attardi, esposta nel Battery Park a New York, proprio di fronte alla Statua della Libertà, sembra fissare l'eroe greco in quella inclinazione e attrazione verso l'ignoto che lo spinse a superare le Colonne d'Ercole, ovvero il limite della curiosità e della conoscenza, trovando in quel luogo il suo approdo finale. Le virtuali 'colonne' sono state varcate, con speranza e angoscia a un tempo, da molti nostri connazionali: tanti Ulisse che fuggivano la povertà e la disoccupazione, o che si sottraevano alla persecuzione politica o razziale, come Enrico Fermi o Ugo Fano. E se inizialmente lo stereotipo che emergeva dell'Italia e degli italiani in America era spesso sintetizzato nello slogan "pizza e mandolini", se non da allusioni alla mafia, è grazie a questi nostri connazionali, che si sono distinti in patria e nel nuovo mondo per ingegno, professionalità, voglia di emergere, che il concetto 'Italia' è cambiato radicalmente facendo sì che la qualità Italia diventasse sempre più un patrimonio e un contributo di idee e non solo un insieme di prodotti di imprese d'avanguardia.

A ricordarci questa 'metamorfosi' nel sentire comune della società americana ci sono le numerose mostre retrospettive di arte e cultura italiane che si sono tenute nel corso di questi anni. La prestigiosa esposizione del 1994 al Guggenheim Museum di New York, intitolata proprio Italian metamorphosis, fu una mostra-puzzle per mostrare al mondo, ma soprattutto agli americani, che cosa è stato dal 1943 al 1968 e che cosa potenzialmente è ancora oggi il design italiano. Un po' come dire: guardate che gli eredi di quei signori che hanno inventato la Vespa, diretto La dolce vita, vestito le più grandi dive di Hollywood, sono ancora qui, disponibili sul mercato con nuove avventure esistenziali da condividere! Sul piano del fascino, la parte del leone in quella straordinaria mostra l'ha fatta la moda italiana. Accanto a registi e pittori famosissimi, a generazioni di architetti e designer, da Giò Ponti ad Alessandro Mendini, accanto agli scooter e alle Ferrari, al 'fido' Marelli, alla poltrona Sacco, al telefono Grillo, ecco apparire abiti mitici con i quali le Sorelle Fontana, Roberto Capucci, Giovanna Caracciolo, Emilio Pucci e Irene Galitzine hanno conquistato i buyers americani già agli inizi degli anni Cinquanta togliendo a Parigi una leadership che era stata fino a quel momento incontrastata.

Passando ai ricordi personali, il mio primo approccio con gli USA è avvenuto negli showroom della Seventh Avenue, il luogo dove orbita tutta la moda americana. Da quelle esperienze lontane ho imparato un metodo: saper creare un modello, ma saper costruire anche il suo costo industriale, la sua collocazione strategica nel mercato. Sono tornata poi frequentemente negli anni Settanta a New York per partecipare con altre case di moda italiane alla presentazione di quanto di meglio veniva prodotto nel settore del prêt-à-porter e della maglieria.

Di fronte agli esigentissimi compratori americani, nonché alla stampa specializzata degli Stati Uniti, sotto le luci e i riflettori, davanti agli schermi televisivi dei più importanti network americani, nel grande salone dell'Hotel Plaza presentai la mia collezione dell'autunno-inverno 1975.

Il Woman's Wear Daily, la 'bibbia' della moda mondiale, dedicò alla manifestazione uno spazio rilevante e commenti lusinghieri. Un'altra tappa importante del mio American dream è stata nel 1981 l'apertura di una serie di 'corner Biagiotti' in prestigiosi stores distribuiti in tutti gli Stati Uniti.

Ma i miei più affezionati clienti sono da sempre gli specialties shops, i cui titolari fungevano da pigmalioni, scopritori di firme esordienti nella moda da lanciare. L'America mi ha accolto generosa e disponibile.

È stato proprio il prestigioso New York Times, per la penna di Bernardine Morris, famosa decana delle giornaliste di moda, a coniare per me l'affettuoso appellativo di "queen of cashmere", che fa onore non solo alla mia griffe, ma gratifica anche la grande professionalità delle maestranze che collaborano da tempo nel nostro Gruppo. E ancora il New York Times mi dedicò nel 1982 una foto in prima pagina, una delle due sole volte nella storia degli ultimi trent'anni del quotidiano in cui la moda sia apparsa sulla cover page. L'occasione era ghiotta. La signora Lydia Gromiko, moglie del ministro degli Esteri sovietico, era stata mia ospite a Roma, al Castello di Marco Simone, per assistere a una mia sfilata. Il New York Times titolò: "Est e Ovest si incontrano sulla passerella di Laura Biagiotti".

Una perestrojka ante litteram era cominciata grazie al ponte ideale della moda, già agli inizi degli anni Ottanta.

Dall'America generosa, ma più precisamente dagli italiani d'America, sono stata nominata nel 1992 'Donna dell'anno' durante il Galà Italia, organizzato dall'Italian Wine and Food Institute, fondazione che riunisce le maggiori aziende italiane del settore alimentare che operano sul mercato USA e che ogni anno premia le personalità che hanno maggiormente contribuito al successo del made in Italy negli Stati Uniti. A New York, all'Hotel Marriot Marquis, dove si tiene ogni anno il Galà, assieme a Sean Connery, a Gina Lollobrigida, ad Anthony Quinn, alla presenza di molti rappresentanti delle istituzioni italo-americane e dei ministri italiani dell'Industria e del Commercio Estero, ho brindato alla salute dell'Azienda Italia trapiantata in America e così ben radicata sul mercato.

Grazie a questa esperienza di lungo corso, cerco di rappresentare e difendere il patrimonio di qualità, conoscenza e competenza che gli americani mi riconoscono e riconoscono al made in Italy, continuando a portare nella 'Grande Mela' i vestiti, i profumi e gli accessori che appartengono al mio mondo e che sono tutti rigorosamente 'fatti in Italia'. È infatti l'alto livello della qualità il segno distintivo della moda italiana, che ha per questo raggiunto grandissimi risultati, ovunque riconosciuti. Il made in Italy veste il pubblico internazionale perché è in grado di parlare un linguaggio universale e di incontrare il gusto dei consumatori, continuando, come nel Rinascimento, a fare scuola di educazione al bello e alla qualità, rivolgendosi sia ai grandi mercati consolidati, come l'America, sia a quelli emergenti. Lo stile di vita Italia è un immenso patrimonio da salvaguardare e promuovere e altre nazioni lo sanno apprezzare e amare meglio che nel nostro paese.

Altre due tappe: Pechino e Mosca

Per me non solo gli Stati Uniti sono stati esperienza fondamentale di made in Italy. Ricordo sempre con grande emozione il mio sbarco a Pechino il 25 aprile 1988, première della moda italiana in Cina. Una sfilata per raccontare il cammino del cashmere: 'Roma-Pechino andata e ritorno'.

Bernardo Bertolucci con il suo magico film L'ultimo imperatore aveva risvegliato la mia curiosità nei confronti della Cina, offrendomene un aspetto decadente, quasi dannunziano, un'atmosfera che fa da sfondo a una storia vicina nel tempo, ma in realtà tanto remota. Una vecchia edizione del Milione, dalle belle illustrazioni, mi aveva avviata, bambina, a itinerari solo letterari del Celeste Impero. In seguito quel paese così lontano da restare relegato nel limbo del mio immaginario si era arricchito di conoscenze culturali e suggestioni oniriche in continua evoluzione. In occasione di un mio viaggio verso il Giappone, mi balenò l'idea di dirottare su Pechino per un lungo week-end. Mi allettava e mi sgomentava il confronto con quella rêverie cinese che avevo costruita nel tempo, tutta mia e senza logici riscontri. Il mal di Cina adesso lo conosco. Sono stata là per la prima volta a novembre del 1987, il paese mi ha subito incantato e la gente mi ha stupito con la sua dignità, esaltata dal minimo indispensabile con cui si vive. Soprattutto mi ha colpito trovare una popolazione vestita in borghese con una rapidissima 'mutazione' che ha fatto abbandonare, a quasi un miliardo di persone, la divisa di Mao. Mi dissi e dissi all'allora ministro del Turismo e cultura Ken Hua (con il quale ebbi la ventura di cenare una sera a Pechino): "questo è il fenomeno del secolo!".

La Cina stava uscendo dall'anonimato delle masse e la persona attraverso l'abito ritrovava la sua individualità.

Da lì nacque il desiderio di far sfilare la moda italiana in quel fascinoso paese dal quale importavo da anni i pregiati filati del cashmere e della seta.

La sfilata è, per sua natura, un evento breve ed effimero, ma quella volta non fu così: la Cina meritava qualcosa di più. Il défilé in Cina di 'Lo.La.Pi.Cio.Ti', come si pronuncia il mio nome secondo la fonetica cinese (l'ideogramma del mio nome, tradotto, significa letteralmente lavoro duro, amore dei fiori, competizione, orgoglio, donna elegante), è stato un regalo che ho voluto farmi in un momento di riflessione e che si è trasformato in una tappa fondamentale della mia vita e della mia carriera. Ricordo il sorriso enigmatico delle 20 modelle cinesi eleganti e flessuose che hanno presentato i miei abiti, gli innumerevoli reportage tra una folla curiosa e divertita sotto il ritratto di Mao a Piazza Tien An Men e nella Città Proibita. In quel mitico viaggio ho avuto anche l'opportunità di conoscere Pu Yi, fratello dell'ultimo imperatore Qing, un distinto signore

che esercitava l'arte del calligrafo.

'Roma-Mosca andata e ritorno' è un'altra puntata del mio giornale di bordo, come ambasciatrice della moda italiana verso paesi che non avevano conoscenza diretta delle nostre meravigliose creazioni. L'ora di Mosca è scandita dai rintocchi della campana grande della Spasskaya, la più possente e la più bella delle venti torri che circondano le mura del Cremlino, opera dell'artista italiano Pietro Antonio Solari che la costruì nel 1491. L'ora della moda italiana a Mosca è stata invece scandita dal passo lieve di 40 indossatrici russe, giovanissime, flessuose, che alle sei del pomeriggio del 5 febbraio 1995 hanno presentato 'il meglio' della mia carriera nello stesso luogo che nell'era del pre-Gorbaciov ospitava 6000 delegati dei grandi congressi del PCUS, il palcoscenico del grande teatro del Cremlino. Una grande festa del bello, dell'ingegno e della fantasia, un miracolo tutto italiano che la moda, musa contemporanea senza bandiere e senza frontiere, sa regalare al mondo. Il passato è volutamente remoto e sepolto come un ingombrante dinosauro del Giurassico. Il presente è il tratto ineffabile e inafferrabile dell'anima russa pervasa da un profondo senso della relatività dell'essere e del non essere, del vero e del falso, del sogno e della realtà. La moda è riuscita a infrangere il muro dei sogni e dei desideri in naftalina delle donne russe e li ha tramutati in realtà, ancora una volta dimostrandosi lo strumento più facile di comunicazione nel grande vaso multiculturale in cui tutti siamo immersi. La moda è testimone del contemporaneo e deve essere presente là dove sono in atto profondi cambiamenti sociali e culturali. In Russia, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, abbiamo assistito a una 'rivoluzione' del costume ancora più profonda e radicale di quella cinese; le giovani donne emergenti desiderano vestire in uno stile che sia più confacente al loro nuovo modo di essere: emozionale, esibito e spesso al limite dell'eccesso. La nuova donna russa scopre una gran voglia di apparire, di cambiare spesso pelle, immagine e guardaroba secondo i dettami del made in Italy.

L'influenza del futurismo

A sottolineare il rapporto tra moda e cultura voglio ricordare un altro grande evento che ho realizzato a Mosca nel luglio 1996: la mostra di 172 opere di Giacomo Balla appartenenti alla Collezione Biagiotti Cigna nella prestigiosa Sala Bianca del Museo Puskin. Mi piace riportare l'introduzione al catalogo redatta dalla curatrice del museo, Irina Antonova. "Il Museo di Stato di Arti Figurative A.S. Puskin ha il piacere di presentare le opere, provenienti dalla collezione Biagiotti Cigna, di uno dei più insigni artisti italiani del nostro secolo: Giacomo Balla. Siamo certi che questa mostra, che presenta un nucleo di materiali poco conosciuti in Russia, sarà accolta con grande interesse e gratitudine da tutti gli amanti dell'arte. Ed è probabile che essa diventi un'autentica rivelazione anche per gli studiosi dei movimenti artistici europei d'avanguardia, e in particolare del futurismo italiano. Il perno concettuale dell'esposizione è costituito da un tema ben preciso, che potremmo definire futurismo e moda. Si tratta, in generale, di progetti grafici di carattere decorativo, in riferimento non solo all'abbigliamento e alla storia del costume, ma anche all'arredamento. Ritengo che un tale risvolto tematico dell'esposizione possa attirare l'attenzione del pubblico russo: la cultura dell'allestimento dell'ambiente che circonda l'uomo, ovvero ciò che chiamiamo design, è stato in Russia per lungo tempo negletta. In Italia, invece, la lunga tradizione nel campo del design non si è mai interrotta, e testimonianza di ciò sarà, prevista in concomitanza con la mostra, una sfilata di modelli creati dalla stessa Laura Biagiotti, stilista nota in tutto il mondo".

A me pare proprio di averlo conosciuto di persona il pittore Giacomo Balla. In realtà la mia 'Balstoria' ebbe inizio nell'ottobre 1986 quando, guidata dalle piste un po' misteriose delle mie costanti ricerche, approdai in modo fortuito, ma con intuizione felice, in una piccola galleria d'arte del centro storico a Roma, dove si teneva per l'appunto una mostra retrospettiva di opere di proprietà della famiglia Balla. Tornai a casa entusiasta e con mio marito decisi di acquistare la più gran parte delle opere esposte. In quell'occasione nacque il primo nucleo della raccolta e soprattutto sbocciò la nostra amicizia con Luce ed Elica Balla, le figlie del pittore. Furono loro a farci conoscere in modo quasi tangibile il padre, non solo sotto il profilo di un grande genio pittorico italiano, ma anche e soprattutto come anima di artista gentile, poeta entusiasta dedicato totalmente alla sua ricerca di arte nella luce, di arte nel movimento, di arte nello stato d'animo. Molte opere le abbiamo acquistate, ma sarebbe più corretto dire ricevute in amorevole affidamento, dalle 'ragazze Balla', così come affettuosamente chiamavamo le due anziane signorine purtroppo recentemente scomparse. In ragione del mio mestiere di stilista, ero soprattutto interessata agli studi sulla moda fatti da Balla già nel suo esordio futurista. Quelle opere, pervenute in nostro possesso o per meglio dire in nostra custodia perché potessimo portarle alla conoscenza di un mondo più vasto, sono diventate il cuore della 'Balmoda', collezione che poi si è arricchita nel tempo di opere del divisionismo prefuturista e di tele postfuturiste, alle quali ci lega identica ammirazione rispetto alle più valorizzate opere futuriste. Memorie che mio marito Gianni Cigna, prematuramente scomparso nel 1996, ed io abbiamo cercato di mantenere e promuovere guardando al maestro, ricercatore arguto e incontentabile evoluzionista, come stella polare del futurismo e padre del design italiano nel 20° secolo, promotore di un movimento di arte comportamentale del quale fa parte a pieno titolo la moda italiana e nei confronti del quale, in misura infinitamente minore, sento di aver dato e di continuare a dare un contributo personale attraverso la mia attività.

Essermi dilungata su Balla non mi ha deviato dal tema centrale del made in Italy, poiché mi piace ricordare come nel Manifesto della ricostruzione futurista dell'universo, firmato nel 1915 dal maestro assieme all'allievo Fortunato Depero, mattone importante del nuovo 'edificio' virtuale proposto dai futuristi è l'abito e dunque la moda. È questa per prima che deve esprimere "l'uomo futurista senza nostalgie, statica, dolore e lontananza, ma con volontà, ottimismo, penetrazione, gioia, splendore geometrico delle forme, proiezione in avanti". Dunque l'arte diventa presenza, nuovo oggetto, nuova realtà, creata con gli elementi astratti dell'universo. Mi pare che a questa matrice si possa far risalire l'origine del design italiano del secolo 20°, che trova la sua maggiore espressione nel secondo dopoguerra, così come abbiamo avuto modo di notare prima. Potremmo dire che si concretizzava in Italia un rapporto predestinato e privilegiato tra arte e moda. Il futurismo attraverso l'arte esplorava i territori del design alla ricerca di una totale legittimazione di un nuovo stile di vita, accentuando l'impulso all'individualizzazione e al piacere di distinguersi, proprio della moda, tanto quanto l'impulso all'imitazione e all'omologazione. Per Balla la moda era una sorta di body art: il vestito, il gilet, la cravatta modificante sono espansioni spazialiste dell'individuo futurista che opera la propria trasformazione dell'esistente attraverso segni, colori e forme. Il rapporto tra arte e moda è stato raramente così intrinseco: dobbiamo attendere gli anni Sessanta e la pop art per ritrovare, sia pure con enormi differenze, una simile congiunzione.

La centralità dell'impresa

Per esprimere il sentimento che ha costituito il motore "energetico ed energizzante" (secondo una terminologia futurista) dell'espansione del prodotto italiano è utile ricordare le parole profetiche di un grande presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi che, nel volgere non facile del nostro percorso economico agli inizi degli anni Sessanta, con grande acume ebbe a dire: "Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, umiliarli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientela sempre più vasta, ampliare gli impianti, organizzare le sedi, costituiscono una molla altrettanto potente del guadagno. Se così non fosse non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi".

Oggi, in tempi certamente difficili per l'economia italiana, per me è importante ribadire, con orgoglio di appartenenza, il valore e la centralità dell'impresa per il Sistema Italia, impresa intesa quale bene supremo da amare, difendere e proteggere per il mantenimento e lo sviluppo stesso della nostra democrazia.

Un'ultima notazione riguarda l'aspetto dinastico dell'imprenditoria del made in Italy, che come abbiamo visto è meglio definibile come eccellenza italiana o qualità Italia: dalle remote origini delle dinastie borghesi, di matrice rinascimentale, nate dalla mercatura dei fondachi veneziani e delle botteghe fiorentine, intere generazioni traggono tuttora linfa vitale e attitudine all'uso del bello. Questo è quanto è accaduto nella mia famiglia: ho appreso questo meraviglioso, intrigante, faticosissimo mestiere da mia madre Delia che aveva un piccolo atelier a Roma negli anni Sessanta. Oggi mia figlia Lavinia, che da poco ha compiuto 25 anni, è il mio 'apprendista stregone'. Tantissimi giovani, come Lavinia, si impegnano con intelligenza e tenacia nel portare avanti un patrimonio non solo aziendale, ma che rappresenta un assett portante dell'Italia, utile anche all'Europa, poiché il ben fare non è solo estetica, ma anche etica.

repertorio

Dall'artigianato al design industriale

Per comprendere la genesi della posizione di prevalenza assunta nel secondo dopoguerra dall'Italia nell'ambito della produzione creativa in piccola scala occorre risalire ai primi secoli dopo il Mille, quando l'Europa cominciò a riorganizzare le proprie attività economiche.

Un fiorente filone di attività artigianali era già presente in Italia fin da epoca etrusca e romana. Lo sviluppo impresso all'artigianato della terracotta e dell'oreficeria dagli etruschi è testimoniato dai ritrovamenti di Vetulonia, Cerveteri, Palestrina; nulla si sa però delle condizioni private degli artigiani. Le attività artigianali presso i romani avevano dato impulso a una produzione non destinata all'esportazione, in quanto totalmente assorbita dal mercato locale, che abbracciava diversi settori: oltre alle arti fabbrili, che rimasero molto sviluppate in Etruria e più tardi in Campania, l'Italia meridionale si distingueva per produzioni artigiane fini, profumi e ceramiche, mentre a Roma fiorivano le botteghe-officine degli orefici, concentrate nella Via Sacra. Tuttavia lo sviluppo dell'artigianato libero fu assai presto ostacolato dall'introduzione della mano d'opera servile, la quale venne peraltro utilizzata, in piccola misura, dagli artigiani stessi. Già in età repubblicana esistevano importanti corporazioni: i fullones (fabbricanti di stoffe), i fictores (ceramisti) e gli orefici; caratteristici, fra gli artigiani, i fabbri ambulanti che percorrevano la campagna prestando opera per le necessità dell'agricoltura. Le botteghe ancora visibili a Pompei o a Ostia possono facilmente illustrare le condizioni, anche nell'età imperiale, del lavoro artigiano che era nello stesso tempo di produzione e di diretto commercio. Durante la decadenza dell'Impero Romano le corporazioni si trasformarono gradatamente in organi ufficiali dello Stato; il lavoro artigiano divenne una pubblica prestazione, con la quale gli imperatori garantivano le condizioni essenziali di vita alle città e sotto Diocleziano si stabilirono poi anche tariffe statali di prezzi.

Alla base dello sviluppo del libero artigianato, che si affermerà definitivamente solo dopo il Mille in stretta connessione con lo sviluppo del mercato cittadino, va tenuta presente la vera rivoluzione radicale della concezione del lavoro che si produsse a partire dal 6° secolo d.C. all'interno del monachesimo italiano, una rivoluzione felicemente sintetizzata dalla celebre frase di san Benedetto "ora et labora". Precedentemente, nell'antichità greca e romana, il lavoro era visto come attribuzione e funzione tipica dello schiavo, cui corrispondeva per l'uomo libero l'attività della guerra. Il merito di san Benedetto consiste precisamente nell'aver chiarito che non è improprio per un uomo colto lavorare, ma anzi ciò è richiesto dalla volontà divina.

All'interno di questa rivoluzionaria concezione del lavoro l'Italia gradualmente sviluppò, tra i secoli 11° e 16°, quella cultura civile che rappresenta la base del moderno made in Italy. La città rappresenta il luogo deputato di questa evoluzione, con la piazza (intesa come luogo o spazio delle decisioni pubbliche), il palazzo del governo, il palazzo delle corporazioni, il mercato (inteso come luogo in cui avvengono le contrattazioni e gli scambi), la cattedrale e le chiese in cui avevano sede le confraternite. In questi luoghi si coltivavano, non tanto in senso ideale quanto fisico, quelle 'virtù civiche' che rappresentano il fondamento della società moderna. La divisione del lavoro fra città e campagna e la ristrettezza del mercato, che non oltrepassava normalmente i confini del territorio soggetto alla città, sono i due elementi principali che, accanto alla modesta densità e al lento movimento della popolazione, spiegano il deciso predominio dell'artigianato. Questo richiedeva un sicuro equilibrio fra domanda e offerta raggiungibile soltanto in un mercato chiuso e ristretto, dove ogni artigiano poteva contare sopra una clientela fedele e conoscerne preventivamente i bisogni. La condizione del lavoratore indipendente che esercitava, da solo o con l'aiuto di un piccolissimo numero di assistenti, nella propria bottega e con strumenti propri, un minuscolo opificio industriale, aveva due forme: vi erano artigiani che acquistavano a proprio rischio la materia prima e vendevano il prodotto finito e altri che ricevevano dal cliente la materia prima e gliela restituivano lavorata dietro un compenso prestabilito.

Ma una simile situazione fu ben presto superata soprattutto in quelle regioni dove era possibile una più intensa attività di scambi. La divisione del lavoro non si manifestò più soltanto fra città e campagna, ma anche fra città e città. Fuori d'Italia il fenomeno si presentò con la massima intensità nelle Fiandre, nel paese classico dell'industria laniera, dove ogni città raggiunse una fama mondiale per alcune determinate varietà di tessuti che vi si producevano. Analogamente accadde, sebbene in proporzioni minori, in alcune città della valle padana, della Toscana, del Nord-Est della Francia, delle contee sudorientali dell'Inghilterra e, più tardi, nella Germania meridionale, estendendosi dall'industria della lana a quella del lino e della seta, alla lavorazione dei metalli e del vetro. Perciò in queste città, accanto alle piccole industrie che provvedevano ai bisogni immediati della popolazione locale e che conservavano, anche sostanzialmente, i caratteri dell'artigianato, sorsero le industrie specializzate, costrette dalla loro stessa specializzazione a destinare i loro prodotti a un mercato molto più vasto. Nell'impossibilità di far fronte alle forti anticipazioni di capitali necessarie per la produzione di manufatti per l'esportazione e di esporsi al rischio della vendita in mercati lontani e sconosciuti, l'artigiano cadde sotto il dominio del mercante, che gli anticipava le materie prime e si accaparrava tutta la sua produzione. Ma se in tal modo, fin dai secoli 13° e 14°, per alcune delle maggiori industrie esportatrici gli artigiani si trasformarono sostanzialmente in lavoratori dipendenti da un'impresa capitalistica, cominciarono invece a svilupparsi nuove industrie di lusso e artistiche, che erano affidate principalmente all'abilità e al genio individuali e a cognizioni empiriche tradizionali, per le quali l'artigianato rappresentava ancora la forma più adatta di organizzazione.

Con il nuovo impulso dato ai commerci, le classi mercantili si strinsero in cerchie associative, che presero le forme della corporazione. Quasi contemporaneamente si rinnovarono le forme di organizzazione corporativistica degli artigiani, che conservavano taluni dei vincoli della tradizione romana, come l'uso di collocarsi in determinate contrade della città. I mercanti furono i principali attori del processo di apertura culturale e a loro si deve l'introduzione di innovazioni nel campo impresariale come quella della commenda (una sorta di 'società per azioni' inventata a Venezia), della partita doppia (che si deve al monaco francescano Luca Pacioli), della lettera di cambio, della banca e della borsa.

Diversa era però l'organizzazione dei corpi dei mercanti rispetto a quelli degli artigiani. La corporazione dei mercanti, detta universitas o ars mercatorum, mercanzia, raccoglieva, in una sola organizzazione o in poche grandi associazioni, industriali e mercanti che producevano su vasta scala merci destinate all'esportazione (lana, seta, armi) o che provvedevano allo scambio dei prodotti, in grandi quantità, nelle fiere e nelle città lontane. Alla metà del 12° secolo, erano già organizzate a Piacenza (1154), a Milano (1158), a Roma (1165) e in altre città. Avevano a capo consoli e rettori, che erano chiamati a partecipare ai negozi politici e a sorvegliare alcuni servizi pubblici relativi al commercio: strade, dazi, giurisdizione mercantile, mercati, annona. Arti, in senso proprio, erano le unioni degli artigiani, legati dal vincolo del mestiere e costituiti in società, con fini di vicendevole difesa e aiuto. Come corpo differenziato, con personalità giuridica, comparvero solo a cominciare dal 12° secolo. In origine l'appartenenza all'arte era libera; successivamente si proibì l'esercizio del mestiere ai non iscritti alla corporazione. Nell'organizzazione delle arti si deve distinguere fra i paesi in cui il potere centrale riuscì a mantenere salde le proprie prerogative (come a Venezia, oltreché nei regni di Napoli e Sicilia, in Francia, in Aragona e in Catalogna e in alcuni paesi della Germania) e gli altri, dominati dallo sviluppo autonomo della città, dove il potere centrale fu costretto a dividere le proprie prerogative con gli interessi delle classi. Nel primo caso le arti furono esclusivamente organizzazioni di mestiere, con fini relativamente limitati e con scarsi poteri politici; nelle città libere, e principalmente nelle grandi città industriali e commerciali, come Milano, Firenze, Piacenza, Bologna, Siena ecc., le arti organizzate si costituirono in regime di privilegio e parteciparono attivamente alla vita politica: cosicché furono meno numerose, ma finirono per soffocare le libertà comunali. Nella maggior parte di queste città si distinsero le arti maggiori, costituite dai grandi collegi industriali e mercantili interessati all'esportazione, dalle arti minori, costituite dalle altre professioni e dagli altri mestieri, che avevano guadagnato il diritto di organizzazione. Per es. a Firenze vi erano sette arti maggiori (giudici e notai, mercanti di Calimala, cambiatori, medici e speziali, arte della lana, arte della seta, pellicciai) e cinque minori, divenute più tardi quattordici (beccai, calzolai, fabbri, maestri di pietre e di legname, galigai, vinattieri, fornai, oliandoli, chiavaiuoli, linaiuoli, legnaiuoli, corazzai, correggiai, albergatori). Nel corso del 13° secolo, in tutte le città italiane, sull'unione delle arti si fondò un commune populi, che si contrapponeva al vecchio comune, sotto il comando del capitano del popolo e dei consigli delle arti; ciò comportò lo smembramento dell'organismo politico del comune e preparò l'avvento delle signorie. In questo processo le arti persero ogni potere politico e rimasero organizzazioni di mestiere, con fini religiosi ed economici, oltreché di controllo della produzione, assumendo un carattere monopolistico, mirante a conservare la tradizione dell'arte, a regolare il prodotto e a determinare i prezzi.

Dal punto di vista produttivo, in tutto il basso Medioevo e nei primi due secoli dell'età moderna, sia per la tenace sopravvivenza dell'economia cittadina anche negli Stati nazionali, sia per la politica delle monarchie assolute, che videro nell'artigianato corporativistico un utile elemento di conservazione, sia infine per il tenace tradizionalismo della tecnica industriale, l'artigianato cittadino aveva ancora una grande prevalenza, sebbene accanto a esso assumessero notevole sviluppo l'industria a domicilio, specialmente nelle campagne, e il salariato nelle manifatture. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento la dimensione mecenatesca della società diede impulso alla produzione di beni durevoli di carattere artistico; accanto a essi la nuova borghesia proseguì la costruzione sia di palazzi pubblici sia di splendide e immense residenze private, ampliando in tal modo la domanda di servizi di architetti, scultori, pittori, decoratori, costruttori di mobili e giardinieri. Parallelamente aumentò la domanda di ceramica e di arazzi nonché di capi di abbigliamento, che si evolvevano verso uno stile più elaborato.

La rapida decadenza delle arti e dell'artigianato si manifestò soltanto dopo la metà del 18° secolo, in seguito all'intensificazione del commercio interno e internazionale, destinato a soddisfare i bisogni non più di una piccola minoranza di potenti e di ricchi, ma di moltitudini sempre più numerose. Alle aumentate richieste di un commercio di massa, per cui la quantità e il minor prezzo avevano un'importanza assai maggiore della qualità, l'artigianato non era in grado di rispondere. Tuttavia, sebbene sconfitto dalla fabbrica e dal vasto impiego delle macchine, l'artigianato non scomparve: non solo continuò a rivelare la sua presenza in un grandissimo numero di piccole imprese, che soddisfacevano i bisogni quotidiani ed elementari; ma la grande industria stessa sembrò dargli almeno un nuovo alimento vitale, valendosi di numerosi artigiani per piccoli lavori di riparazione o anche per la fabbricazione di qualche accessorio. Alle attività artigianali, poi, seguitarono a essere riservate in gran parte le produzioni di lusso e artistiche, per cui la qualità prevaleva sulla quantità e la tradizione locale o familiare aveva spesso un'importanza decisiva. Così per es. nelle industrie dell'abbigliamento, le grandi fabbriche di confezioni e i grandi calzaturifici meccanici non impedirono che i migliori fra sarti e calzolai conservassero una clientela fedele, in vista delle loro attitudini tecniche e soprattutto della loro conoscenza dei bisogni particolari del pubblico ristretto che erano abituati a servire.

In Italia l'avvento del sistema industriale di fabbrica presenta caratteristiche storiche molto peculiari. Il mulino da seta, o 'filatoio alla bolognese', una innovazione tecnologica introdotta nella produzione tessile di Bologna tra i secoli 15° e 17°, aveva anticipato la rivoluzione industriale di circa 200 anni; viceversa, il primo altoforno a coke fu inaugurato soltanto agli inizi del Novecento, due secoli dopo rispetto a quanto verificatosi in Inghilterra. La storia economica italiana, dopo la lenta dissoluzione del sistema corporativo cittadino, fu segnata da una lunga fase protoindustriale, in cui predominò l'industria rurale a domicilio, controllata da intermediari che distribuivano il lavoro nelle campagne.

Nel passaggio alla produzione industriale il made in Italy assunse una nuova veste: non solo artigianato per produzioni di lusso, ma anche progettazione di oggetti destinati a essere prodotti industrialmente, ovvero quello che è stato definito con la locuzione anglosassone industrial design. I primi oggetti frutto di una consapevole progettazione comparvero sul finire degli anni Venti, insieme con il formarsi delle correnti d'architettura razionale, con la pubblicazione delle riviste Domus e Casabella, con l'istituzione delle Esposizioni d'arte decorativa e industriale di Monza e poi di Milano. Di questo primo periodo vanno ricordati il mobile radio di Luigi Figini e Gino Pollini (1933), la Lancia Aprilia del 1937, l'apparecchio radio di Luigi Caccia Dominioni e dei fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni (1939) e non pochi allestimenti di Franco Albini, Marcello Nizzoli ed Edoardo Persico. Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che il disegno industriale italiano ha acquistato rinomanza internazionale con il successo di alcuni modelli di motoscooter, come la Vespa della Piaggio e la Lambretta della Innocenti, con le carrozzerie di Sergio Pininfarina e Nuccio Bertone, i modelli di macchine per scrivere e per cucire che Nizzoli ha disegnato per la Olivetti e per la Necchi, i lumi dei fratelli Castiglioni.

Negli anni successivi, grazie alla molteplice attività di studi di progettazione e di artisti versatili come Gae Aulenti, Cini Boeri, Joe Colombo, Enzo Mari, Bruno Munari, Ettore Sottsass, Giotto Stoppino, Marco Zanuso, l'Italia è divenuta il punto di confluenza delle nuove generazioni creative a livello internazionale. Dal design industriale a quello d'arredo, al design d'auto, lo stile italiano si contraddistingue per la mescolanza di fantasia e rigore progettuale, avvalendosi di ottime istituzioni formative come scuole all'avanguardia nella progettazione, facoltà universitarie, mostre, e di differenti luoghi di comunicazione e di esposizione. Il panorama attuale si presenta, quindi, molto diversificato e dinamico con una rete distributiva e produttiva molto flessibile e una serie di aziende che hanno fatto emergere molti giovani talenti.

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I distretti e i prodotti del made in Italy

Una peculiarità del sistema industriale italiano è stata, dal secondo dopoguerra in poi, quella dei 'distretti industriali', radicati all'interno di un territorio ben definito e costituiti dal fitto tessuto di aziende di dimensioni medio-piccole, ognuna specializzata in una specifica fase della filiera produttiva. Questo modello, sviluppatosi dalle tradizioni manifatturiere locali fin dal tardo Medioevo, comporta pregi e difetti. Spesso sono stati sottolineati gli svantaggi competitivi derivanti all'industria manifatturiera italiana dalla sua specializzazione produttiva in settori 'tradizionali' di piccola e media impresa, che sarebbero caratterizzati dall'assenza di economie di scala e da un tasso di innovazione tecnologica estremamente ridotto. Se, tuttavia, l'enfatizzazione di questi svantaggi competitivi fosse del tutto corretta, non si spiegherebbero né la persistenza nel tempo delle piccole e medie imprese né il fatto che dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta la quota delle esportazioni italiane sul totale del commercio mondiale è rimasta sostanzialmente stabile intorno al 4,5% (subendo cali solo negli ultimi otto anni), mentre quella degli altri paesi del G7 (Giappone escluso) diminuiva in modo sensibile a favore dei paesi di nuova industrializzazione e che, in quest'ambito, proprio i settori 'tradizionali' hanno mostrato un avanzo sistematico di bilancia commerciale.

Tre sono gli elementi principali che caratterizzano i distretti industriali. Il primo di essi è rappresentato dalla divisione del lavoro tra imprese e dalle economie di scala esterne alle singole imprese ma interne al distretto. Un distretto industriale è costituito tipicamente da una agglomerazione territoriale di imprese di dimensione medio-piccola specializzate nel loro insieme in una filiera produttiva e individualmente in una particolare fase di produzione (semilavorati, componenti, beni finali). Questo fenomeno si distingue dalla subfornitura tradizionale in quanto i 'terzisti' distrettuali non dipendono di norma da un singolo committente nell'ambito di un rapporto di tipo gerarchico, ma producono in modo indipendente per molte imprese a valle, contemporaneamente o passando dall'una all'altra a seconda delle circostanze. Il secondo elemento tipico dei distretti industriali è dato dalla particolare integrazione dinamica tra sapere produttivo pratico (contestuale), spesso tacito, e sapere codificato che caratterizza gli imprenditori e i lavoratori delle imprese distrettuali. Il terzo elemento che connota i distretti industriali si ricollega da un lato all'elemento precedente e dall'altro alla presenza di istituzioni locali (quali i centri tecnologici) e di una elevata circolazione delle conoscenze.

Le imprese italiane di minori dimensioni pesano 10 punti percentuali in più rispetto alla Germania, quasi 20 punti in più rispetto alla Francia e 25 rispetto all'Inghilterra. All'interno del distretto le imprese stabiliscono intensi rapporti di relazione che contribuiscono a creare il successo competitivo di questo tipo di sistemi produttivi: se da un lato la forte competizione stimola l'innovazione del prodotto, dall'altro la vicinanza e il forte livello di specializzazione consentono una continua trasmissione di conoscenze. Il successo che i prodotti dei distretti riscuotono sui mercati internazionali è però anche frutto di una grande capacità di innovazione e di una costante ricerca del miglioramento del prodotto, favorite dalla concorrenza tra le stesse aziende del distretto, e dall'interazione tra i sistemi distrettuali e le università distribuite sul territorio in tema di ricerca e formazione.

Riconosciuti giuridicamente dalla legge 317/1991 e dai provvedimenti attuativi che ne sono derivati, i distretti industriali sono, secondo l'ISTAT, poco meno di 200, in massima parte (il 92,5% del totale) localizzati nel Centro-Nord. Di questi, una quota molto rilevante risulta specializzata proprio nei settori in cui è concentrata la produzione di beni del made in Italy diretto e indiretto. Le componenti principali dell'insieme dei beni del made in Italy diretto sono rappresentate dai beni a uso ripetuto per la cura della persona (come gli abiti e le calzature) e dai beni a uso ripetuto del complesso arredo-casa (come i mobili e le piastrelle in ceramica). I beni del made in Italy indiretto sono costituiti dai beni di investimento (come il meccanotessile e le macchine per le industrie dell'abbigliamento e dei prodotti in cuoio e in legno) la cui produzione si è sviluppata per un processo di induzione determinato dall'espansione dei settori tipici del made in Italy diretto.

Secondo fonti ISTAT, il settore del tessile e abbigliamento conta 70 distretti, pari al 35,2% del totale, di cui 64 localizzati nel Centro-Nord; quello delle pelli, dei prodotti in cuoio e delle calzature annovera 28 distretti, pari al 14,1% del totale, di cui 23 localizzati nel Centro-Nord; quello dei prodotti per l'arredamento 37 distretti, pari al 18,6% del totale, di cui 35 localizzati nel Centro-Nord; e quello della meccanica 33 distretti, pari al 16,6% del totale, interamente localizzati nel Centro-Nord.

Per quanto riguarda le dimensioni dei singoli comparti del made in Italy bisogna sottolineare che agroalimentare, metalmeccanico, tessile-abbigliamento sono i settori che pesano maggiormente in termini di fatturato, occupazione e numero d'imprese. Punto di forza dell'agroalimentare italiano è il settore vitivinicolo, con Germania, Francia, Usa e Canada in testa alla classifica dei destinatari dell'export italiano. Il settore dei trasporti ricopre una posizione strategica nell'ambito delle esportazioni. L'Italia, che si posiziona al quinto posto tra i paesi produttori di autoveicoli e componenti per l'auto, dopo Stati Uniti, Giappone, Francia e Germania, è leader mondiale nella nautica da diporto, la cui produzione è destinata per l'80% ai mercati stranieri. L'industria italiana è inoltre prima in Europa nella produzione di ciclomotori, ambito nel quale le esportazioni pesano per il 50% del fatturato.

Un rilevante apporto all'immagine positiva del prodotto italiano è dato dai designer italiani famosi in Europa e nel mondo. Per quanto riguarda il design industriale, esso abbraccia diversi settori. Il più vasto sicuramente è quello relativo al mobile e al complemento d'arredo nel quale l'Italia è al primo posto nel mondo. Con 38.000 imprese e circa 230.000 addetti, l'Italia è il secondo produttore mondiale di mobili dopo gli Stati Uniti ed è leader assoluto delle esportazioni mondiali, con il 46% di export sulla produzione totale e una quota di export italiano di mobili pari al 17% del mercato mondiale. Altri comparti in cui l'Italia si distingue sono l'illuminotecnica, la nautica e il car-design dove firme come quelle di Giorgetto Giugiaro e Sergio Pininfarina sono salite alla ribalta per aver creato le auto più vendute dalla FIAT e da altre compagnie automobilistiche straniere, per aver ideato tanti modelli Ferrari, ma anche altri mezzi di trasporto come l'Eurostar e il Pendolino.

Al vertice della produzione meccanica ci sono le macchine utensili per l'industria tessile, metallurgica, chimica, degli elettrodomestici e alimentare. A proposito di quest'ultima, da citare sono i macchinari per il caffè, per la produzione della pasta, del pane, dei dolci e delle conserve. Nel settore spiccano inoltre le industrie di macchinari per la realizzazione di motori, delle valvole per gli impianti di riscaldamento e dei rubinetti sanitari, in cui l'Italia è seconda nel mondo dopo la Germania. Importanti le società che producono macchine per la lavorazione del metallo, comparto nel quale l'Italia è il terzo paese al mondo.

Il Sistema moda, che rappresenta oltre il 6% dell'intero PIL e ben il 18% delle esportazioni, comprende un insieme vasto di settori: oltre al tessile e all'abbigliamento, sono coinvolte altre tipologie di imprese legate alla produzione di accessori, come le conciarie (pelletteria e calzature), le ditte produttrici di occhiali, gioielli, cosmetici.

Tuttavia, secondo i dati ISTAT (8° Censimento industria e servizi 2001), i settori di punta del marchio Italia hanno perso in 10 anni quote rilevanti di lavoratori: -28,8% nell'abbigliamento; -24,3% nell'industria tessile; -21,2% nei mezzi di trasporto; -15,4% nel cuoio e nelle calzature; -18,2 nella siderurgia. Da un bollettino della Banca d'Italia, presentato il 16 marzo 2004, risulta che le esportazioni italiane sono scese dal 4,5% al 3% dell'export mondiale. Nel 2003, in particolare, le vendite all'estero sono calate del 4,6% rispetto all'anno precedente. Anche in questo caso le flessioni maggiori si sono riscontrate nel settore manifatturiero 'tradizionale': -12,4% nel legno; -10,7% nel cuoio, -9,1% nell'abbigliamento; -7,5% nella ceramica.

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