MAFIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

MAFIA

Giuseppe Giarrizzo

(XXI, p. 863)

La parola e l'immagine. − La storia della m. è stata, e continua a essere in gran parte, storia del ''concetto'' di m. − un concetto in cui peraltro l'immagine ha prevalso e prevale tuttora sull'idea. Le oscillazioni interpretative, connesse alla polemica costante sulla portata socio-culturale del fenomeno, ne sottolineano tuttavia la forte dimensione ideologica, legata a sua volta a momenti significativi della lotta politica in Italia, tutte le volte che la Sicilia e il Mezzogiorno hanno avuto nelle successive crisi una parte rilevante. Da qui la convinzione che della m. come soggetto politico possa darsi storia, e non − come sarebbe forse più corretto − l'impegno a risolvere il fenomeno m. nel mutevole contesto della storia sociale della Sicilia e del paese.

Lo suggerisce l'evoluzione semantica della parola (Lo Monaco 1990); mafia (maffia) deriverebbe da ''mafioso'' (mafiusu), a sua volta derivato dall'arabo marfud, marfuz, donde il siciliano marpiuni (impostore, malandrino)-marfiuni-marfiusu (marfusu, 1862)-ma(r)fiusu (1863-65). ''Mafia'' (ma già negli anni Sessanta è corrente il termine capomafia) potrebbe allora derivare da ''mafioso'', forse per suggestione della coppia camorra/camorrista (ove però ''camorrista'' viene da camorra): chi ha conoscenza della camorra napoletana, e come associazione criminale e come abito, può dedurre dal ''mafioso'' la m. e come modello associativo criminale e come spirito e comportamento. Peraltro è provata la discendenza diretta del mafioso come tipo dal tipo del camorrista: prima che i termini mafioso/m. divenissero correnti (dalla metà degli anni Sessanta dell'Ottocento), le fonti ufficiali e quelle letterarie chiamano camorrista proprio il tipo che presto sarà detto mafiusu. Un guappo, un camorrista è il ''mafioso'' protagonista de Li mafiusi di la Vicaria (1863?) di G. Rizzotto − ripresa da La Camorra (1862) di M. Monnier; e al guappo-paladino rinvia il colorito ritratto del mafioso siciliano disegnato nel 1886 da G. Pitré e destinato a eccezionale fortuna polemica. Più tardi (1901) G. Mosca avrebbe perciò distinto tra la m. come associazione per delinquere ("non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell'associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi"), e la mafiosità o ''spirito di mafia'', che è una particolare maniera di sentire, caratterizzata dall'onore (rispetto e pretesa di rispetto per l'onorata società e per il picciotto onorato) e dall'omertà, che è il rifiuto di denunciare e di affidare alla forza legale del pubblico ragioni o atti privati di violenza e di offesa ("quella regola, secondo la quale è atto disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l'opinione mafiosa crede che si debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella offesa").

Come per la camorra, così per la m. il carcere è lo spazio in cui il modello associativo si struttura e si diffonde, mentre per la definizione e la diffusione dell'ideologia dell'onore mafioso, dell'omertà, dello ''spirito di m.'' un ruolo decisivo hanno i processi, dove non solo la difesa assume un'immagine forte del modello ma ancor più il criminale interiorizza i valori reclamizzati e s'identifica negli aspetti del modello sulla cui riconosciuta positività la cultura alta legittima i comportamenti e i valori della cultura plebea.

Le origini. - C'è oggi, in singolare coincidenza con le origini e la cronologia della camorra, largo consenso su un'origine ottocentesca della m. in Sicilia. E se ne assume, primo documento del fatto senza ancora il nome, la lettera (3 agosto 1838) al ministro Parisi del procuratore generale di Trapani, P. Calà Ulloa, nel quadro di una denuncia (ideologica) della diffusa corruzione e di abusi legali nel circondario e della congiunta inclinazione alla privata giustizia: "Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi [del Trapanese] delle fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senza colore e scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo". La cassa comune è alimentata col furto del bestiame o coi sequestri di persona a fini estorsivi.

È il modello che sarebbe stato illustrato da L. Pirandello in una novella, La lega disciolta (1912): un modello che lo scrittore agrigentino riprende a sua volta dal primo, vero processo di m., quello contro La Fratellanza o Mano fraterna di Girgenti (1882-85). Ora, sia questo il nome comune o quello proprio dell'associazione, la ''fratellanza'' rinvia al più prestigioso modello massonico. Si è indotti a credere che le coincidenze tra camorra/m. e massoneria, presto notate (Monnier, Colacino, Lombroso, Alongi) nelle procedure iniziatiche e nei simboli e giuramenti ("come si brucia questa santa e queste poche gocce del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la Fratellanza; e come non potrà tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue un'altra volta nel proprio stato, così non posso rilasciare la Fratellanza"; e ''infame'' è dichiarato, anche fuori di Sicilia, il delatore massonico), risalgano a questo periodo di fondazione − quello cioè in cui labili associazioni criminali prendono forma ''settaria'' e si radicano nel territorio, per opera certo di soggetti esperti nella configurazione e gestione di strutture di potere parallele. Giacché il nome torna nei fratuzzi di Bagheria degli anni Settanta, o nei più tardi fratuzzi di Corleone, quasi associazione dei fraticelli, di terziari francescani o di membri di confraternita, per i quali tutti sono documentati casi di estorsione, di sequestro di persona, di furto e di banditismo.

E non stupisce che tra i fratuzzi di Bagheria sia stato accolto negli anni Ottanta B. Verro, un capo carismatico dei Fasci siciliani, se ''fratelli'' si diranno i soci stessi dei Fasci e vorranno praticare forme istituzionalizzate di mutuo soccorso. "Anche la classe operaia, fin qui la più moralmente sana, comincia a dare il suo contributo alla mafia, minimo forse, ma che accenna ad incremento per l'accedere di essa alle lotte dei partiti locali che l'adulano, la incoraggiano e ne fomentano le ambizioni. Non sono rare le società operaie che nei loro statuti sanzionano apertamente questo principio: sarà provveduto a spese del sodalizio l'avvocato e il mantenimento alla famiglia del socio che venisse imputato di qualche delitto". Così scrive (1886) G. Alongi, che commenta: "non so quanto vi sia da lodare in questo sentimento di solidarietà, ma rammento benissimo che questo è uno dei tanti articoli fedelmente osservati dalle associazioni di malfattori fin qui scoperte". Sarà questo appunto il terreno sul quale meglio si verrà definendo, alla fine dell'Ottocento, il rapporto tra m. e politica, con l'ascesa di mafiosi al potere locale e lo scambio tra voti e favori col deputato governativo.

Mafia parassitaria, mafia imprenditrice: 1885-1905. − Altrettanto importante, per la nascita e lo sviluppo del modello mafioso, è stata la contiguità con le bande armate, che sono associazioni meno stabili, d'incerto gregarismo, più della m. dipendenti da circostanze temporali e locali, e che dalla m. sono ora protette ora usate, ora contrastate se interferiscono sull'equilibrio dei poteri informali in un dato territorio. Più della ''setta'' e della banda armata, la m. sa comunque imporre la regola dell'omertà in coerenza col principio dell'onore mafioso, e assume la vendetta (''una vera specialità della delinquenza siciliana''), per sentenza dei propri interni tribunali, come strumento della giustizia interna. Sicché, anche rispetto alle bande, all'attività dei fiancheggiatori e alla ''guerriglia'', la m. finirà per costituire un fenomeno associativo più organico e continuo, a carattere massonico-settario, con un rapporto di dominio/protezione del territorio in cui la ''cosca'' opera.

Fino a G. Mosca e oltre, pur riconoscendo all'associazione mafiosa persino i caratteri di ordinamento giuridico (S. Romano 1918), magistrati e studiosi del fenomeno hanno escluso l'esistenza di strutture accentrate di coordinamento e comando, pur ammettendo rapporti tra le cosche, casi di cooperazione per singole imprese criminali: e se "scarsissimi sono gli esempi di cosche diffuse per parecchi comuni dell'isola, e che hanno raggiunto il numero di 80 o 100 e più affiliati", il riconoscimento rispettivo tra affiliati di cosche diverse (e lontane) avverrebbe quasi per istintiva affinità, anziché per segni segreti o per tratti distintivi. Già alla fine dell'Ottocento, prende forma (come vedremo) la ''m. dei giardini'', che controlla fitti, acque, forzalavoro, commercializzazione dei prodotti della Conca d'Oro. Ma è il crescente prestigio del ''modello americano'' che concorrerà a promuovere la m. dalla mediazione parassitaria a un impiego in proprio della ''risorsa fiducia'', da una partecipazione privilegiata al controllo dei mercati, del lavoro e della produzione.

Tra politica e mafia: 1890-1920. − G. Mosca, che studia negli anni Ottanta il fenomeno per l'Alongi, coglie subito il nesso tra l'associazionismo imposto dall'ampliamento del suffragio elettorale (in particolare le società di mutuo soccorso, che hanno nel Sud un'importante funzione di centrali elettorali) e l'associazione mafiosa, laddove esiste. Le elezioni ''giolittiane'' del 1892, le prime col collegio uninominale dopo tre elezioni generali fatte con lo scrutinio di lista, sono nelle province mafiose dell'isola (Trapani, Palermo, Agrigento, Caltanissetta) una prova importante; non lo è meno, negli anni di Codronchi e del Commissariato Civile, il ricorso generalizzato alla malavita isolana (mafiosa e no) per intimidire gli elettori, o per sconsigliare l'accesso ai seggi di elettori non governativi. Restano famosi gli episodi denunciati per Caltagirone e Giarre da G. De Felice: e, aiutato dalla congiunta analisi delle pressioni e dei brogli elettorali effettuati in Campania dalla camorra, N. Colajanni dà corpo ad analoga denuncia amplificando le tesi e i casi su cui (Nuova Antologia, 16 novembre 1899) P. Villari aveva richiamato l'attenzione. Era quel modello dell'''ascarismo'' che da lì a pochi anni G. Salvemini avrebbe individuato e sviluppato ne Il ministro della malavita (1912).

Poi, con l'assassinio di E. Notarbartolo − del quale sono sospettati come esecutore un mafioso dei Colli, il Fontana, e come mandante un deputato di Palermo, già regionista e poi crispino, R. Palizzolo − la m. appare come un ''tenebroso sodalizio'', al quale appartengono anche affaristi e uomini pubblici, che fanno della violenza e del crimine strumento di successo nell'economia e nella politica. Tra il processo di Bologna che condanna Palizzolo e il processo di Milano che l'assolve, il paese s'interroga sul fenomeno, sulla sua natura e sulle sue cause: sono molte le voci che si provano a dar risposta ai quesiti più inquietanti (ancora De Felice, Colajanni, Alongi, Cutrera; e soprattutto M. Vaccaro e G. Mosca). Appare chiaro che Notarbartolo è stato ucciso quando le voci di un suo ritorno alla direzione del Banco di Sicilia si erano fatte insistenti, e il comitato d'affari che regge l'Istituto (e ruota attorno a Palizzolo) teme che una gestione spregiudicata dei fondi possa − nel clima eccitato degli scandali bancari − essere scoperta e portare alla sua rovina. È difficile escludere una diretta responsabilità di Palizzolo, che con la ''cosca'' mafiosa che avrebbe eseguito il delitto aveva avuto rapporti continui non solo per il controllo clientelare del voto, ma più nella protezione di banditi, per ricettazione in un fondo da lui tenuto in fitto di animali e merce rubata, per l'avvio clandestino di questa merce e di animali nel mercato di Palermo.

Sono questi, tra il 1890 e il 1910, gli anni in cui si afferma nella Conca d'Oro la ''m. dei giardini'' che controlla i fitti, la guardiania, l'irrigazione, la produzione della zona − ove, alla fine di una selvaggia guerra di m., i Badalamenti l'avranno vinta sugli Amoroso (e un Badalamenti progetta persino di estendere il metodo nello Stato di Palagonia nella Sicilia Orientale conteso tra i contadini socialisti di G. de Felice e le cooperative cattoliche di L. Sturzo). Emergono personaggi come C. Vizzini e G. Genco-Russo, "non più guardiani, bensì i becchini del feudo" (Lupo). Nel Trapanese, fra il 1904 e il 1914, C. Mori fa le sue prime prove contro la m. abigeataria, i sequestri di persona, e presto la conversione, assistita dalla m. locale, della diserzione militare in brigantaggio: per questa via, gli sarà dato avvertire il carattere di massa del fenomeno mafioso e le ragioni profonde del rapporto speciale tra l'élite mafiosa e la comunità che ne è al tempo stesso vittima e beneficiaria. Una percezione nuova, che differenzia la sua analisi da quella dell'Alongi e consiglierà il ritorno ai metodi della ''retata'', in cui parenti e fiancheggiatori dei mafiosi vedono intercettato e reciso il cordone che nutre e rassicura gli uomini d'onore. Gli anni della prima guerra mondiale, quando il peso dell'elettoralismo è scarso e la lotta anti-diserzione impone di scrutare più a fondo nel sistema di relazione delle province mafiose della Sicilia, saranno perciò decisivi. Quando, nel 1905, il presidente degli Stati Uniti, Th. Roosevelt, chiederà notizie della m. siciliana ad A. di San Giuliano, allora in visita agli emigrati italiani, ne riceverà, forse con sorpresa, l'immagine folklorica creata vent'anni prima da Pitré e dallo stesso rinverdita e arricchita di particolari in occasione del processo Palizzolo. Ma nel 1909 a Palermo, in piazza Marina, sarà assassinato J. Petrosino, il poliziotto di New Orleans venuto a indagare in Sicilia sul vertice della m. italo-americana. Il ponte Sicilia-USA già in quegli anni è saldo e continuo, e i mafiosi lo possono percorrere agevolmente in entrambe le direzioni. La m. di Sicilia si modernizza e si addensa, eppure sino alla prima guerra mondiale non è uscita in Sicilia dalle zone di antica origine: a quanto ne sappiamo, si limita a colmare alcune enclaves delle stesse province mafiose, con qualche penetrazione nella provincia di Enna e nella zona delle Caronie nel Messinese. Il modello associativo, con qualche innovazione ''americana'' (proverrebbe dagli Stati Uniti l'impiego di esplosivi a fini intimidatori, soprattutto nel racket), è sempre quello locale; ma se diminuiscono i sequestri, resta importante l'abigeato in più stretto collegamento con la macellazione clandestina, e cresce l'interesse nelle imprese edili (appalti di opere pubbliche, ecc.), nel mercato dei fitti e nell'usura, nel collocamento e nei consorzi agrari e di bonifica. Con la prima guerra mondiale, e i gruppi di disertori-banditi, la m. della Sicilia occidentale controlla la guerriglia, il contrabbando e le forniture militari, e recupera un ruolo forte di radicamento e controllo territoriale e una dimensione di massa che il dopoguerra avrebbe consolidato.

Il periodo tra le due guerre (1925-45): trasformismo mafioso?. − Il primo dopoguerra conosce, soprattutto nelle province del latifondo, una forte pressione contadina e s'apprestano misure legislative dirette a soddisfare la ''fame'' di terra. Nelle zone in cui la m. è presente, fittuari e campieri mafiosi assumono un ruolo decisivo: regolano, con interventi mirati, ora eccitando ora reprimendo, il conflitto locale; e aumentano il loro tradizionale potere d'intermediazione parassitaria tra proprietari e contadini, ricavandone prestigio locale, danaro e soprattutto terre a condizioni di favore. Il modello prebellico di C. Vizzini (1887-1955), organizzatore di cooperative cattoliche, si espande e si consolida: nelle stesse aree, sono dei mafiosi intraprendenti a introdursi nelle strutture consortili di gestione delle acque e dei prodotti, nell'assistenza tecnica e finanziaria. Si tratta di un modello che si sarebbe consolidato negli anni Trenta, quando l'effetto Mori è già esaurito e il parastato si innerva nei tessuti della produzione e del lavoro.

Tra guerra e dopoguerra Mori, prima organizzatore dei nuclei antiguerriglia, poi (1925-28) prefetto di Palermo, può cogliere il nuovo carattere di massa della m., anche se non riesce a valutare la novità e la portata dell'insediamento nelle istituzioni: da un lato egli intercetta i tradizionali legami con la politica locale, si tratti di vecchi notabili, di fiancheggiatori o di ''gente nuova''; dall'altro − interpretando l'utopia ''statalista'' del fascimo − tenta di dissolvere la m. nel tessuto della nuova statualità. Lo stato rivendica il monopolio della violenza e si fa garante dell'ordine: e l'azione di Mori aggredisce la cintura spessa ed elastica dei fiancheggiatori, imbottiglia e assedia i mafiosi, tende a colpirli nell'onore e nell'invincibilità; all'istituto del domicilio coatto preferisce la deportazione ora in luoghi di pena ora in centri lontani e diversi dal luogo di radicamento. Si discute da tempo dei successi e degli insuccessi di Mori: la liquidazione di talune cosche, la metastasi di altre. Negli stessi anni nel Catanese (non ancora a Catania) sono documentate presenze mafiose di estrazione siculo-occidentale. In ogni caso, negli anni Venti e Trenta, si assiste a un trasformismo mafioso, a significativi mutamenti nella cultura dei soggetti e nel campo di attività mafiosa: ai canali tradizionali di avanzamento si è aggiunto ora il ''partito'' con le sue organizzazioni periferiche, e soprattutto la fitta rete del parastato che ridefinisce, non solo in Sicilia, il rapporto città-campagna, e che nella Sicilia occidentale offre alle vecchie e nuove famiglie mafiose occasioni di potere e ricchezza. Non solo la terra e la commercializzazione dei suoi prodotti, ma anche gli enti preposti agli ammassi, alla vendita dei concimi, alla bonifica e alla distribuzione delle acque, alle facilitazioni nei trasporti, ecc. saranno negli anni Trenta il campo di attività, ove la m. − in proprio e per conto di ''collaterali'' − svolge un'azione mediatrice, di affari e di sostegno. Il centro della politica locale si è spostato dal municipio alle sedi di questi enti, e la m. ha con collaudata prontezza seguito la ricchezza e il potere. L'apparato tecnico del nuovo Ente per la riforma del latifondo (1940) s'incontrerà e scontrerà con la m., quella dei pascoli e delle acque, in ogni fase della sua pur breve attività. La pressione di Mori aveva coinciso con le restrizioni statunitensi all'immigrazione: con il risultato di consegnare alla m. d'America il pieno e sempre più fruttuoso controllo dell'immigrazione clandestina di Siciliani (e in genere di meridionali), avvenisse direttamente o attraverso stazioni intermedie, canadesi o sud-americane. Gli anni Trenta, anche in relazione con questi sviluppi, saranno gli anni grandi della criminalità siculo-americana, mentre in Sicilia si registra − senza contraddizioni col nuovo − una significativa regressione ad attività tradizionali della criminalità organizzata.

Gli spazi politici della mafia (1945-60). − Già nel 1899 P. Villari aveva scritto: "i prefetti divennero non altro che agenti elettorali. Non si chiese loro che governassero bene, si chiese solamente che facessero eleggere deputati sicuri. E il modo più facile per riuscirvi parve che fosse sempre: impadronirsi delle clientele, consorterie o camorre che si vogliano chiamare". La procedura era nota da mezzo secolo, e a essa guardano − a guerra finita − i restauratori e i superstiti del vecchio ceto politico prefascista.

La guerra (1939-43), con la diserzione e il contrabbando, e il secondo dopoguerra, caratterizzato anche in Sicilia da un clima da guerra civile, saranno campo di nuove prove. La lotta politica riprende in un curioso intreccio di restaurazione/rivoluzione, e i partiti, vecchi e nuovi, si attrezzano: gruppi di centro-destra a più saldo radicamento locale riattivano, nelle zone tradizionali della m., il circuito dello scambio tra favori e voto (e le cosche lavorano a ricostituire rapidamente il patrimonio elettorale), e contribuiscono − assai più che talune improvvide e non sempre coscienti scelte del Governo Militare Alleato − a restituire prestigio a cosche e a boss locali, in fase di riorganizzazione e di recupero, tra banditismo vecchio e nuovo e sovversivismo separatista.

Quando la Democrazia Cristiana siciliana scenderà in campo, con una presenza vieppiù determinata tra il 1945 e il 1948 nel fronte ''occidentale-atlantico'' di contenimento e contrasto della sinistra socialcomunista, prevale la scelta d'integrare nel suo corpo politico quel che restava del collasso indipendentista, della morte annunciata della Destra monarchica, delle minori formazioni di centro-destra (travolte dallo scrutinio di lista), e con questo di assorbire i settori ''rispettabili'' dell'associazionismo mafioso, o per trattativa diretta o per mediazione dei superstiti delle aree di originaria appartenenza. Fu l'opera di politici autorevoli ed esperti come S. Aldisio nel Nisseno ed E. La Loggia nell'Agrigentino, B. Mattarella nel Trapanese e A. Ruffini nel Palermitano. Ma non sarà la m. a conquistare i partiti (secondo una formula abusata della polemica politica degli anni Cinquanta), saranno piuttosto i partiti, e in particolare la DC, a tentare − peraltro in coerenza con la tesi socio-antropologica, che ha trovato sostenitori sino ai giorni nostri, della m. come risposta difensiva della società isolana alla modernizzazione − la conversione del tradizionale associazionismo mafioso in strutture legali e moderne di sociabilità politica. Nello scontro, durissimo, con le Sinistre impegnate a sostenere rivendicazioni e strutture del movimento contadino (ove non sono assenti uomini e gruppi contigui alle cosche), la DC e la Destra scelgono di coprire o minimizzare − di contro alle vantaggiose scelte di politici mafiosi o di boss − le tolleranze dei pubblici poteri nei confronti di violenze o crimini di stampo mafioso. Al centro di numerosi scontri, punteggiati dagli assassinii di dirigenti e sindacalisti d'area, assunsero tragico rilievo l'attacco del bandito S. Giuliano a Portella della Ginestra (1° maggio 1947), e il caso politico della morte del bandito (luglio 1950), con la macabra messa in scena accreditata da false versioni ufficiali e avallata dallo stesso ministro degli Interni, il siciliano M. Scelba.

In questo clima, mentre le cosche locali si radicano e si espandono nel nuovo tessuto degli enti regionali e nel vasto apparato della nuova Regione Siciliana, avviene il rientro (per espulsione dagli Stati Uniti) in Italia e in Sicilia di mafiosi siculo-americani, che abilita la Sicilia a centrale mediterranea del narco-traffico e del traffico di armi, sulla rotta Medio Oriente-USA. Un ruolo, questo, che la destabilizzazione del Libano, ''paradiso'' del maggiore affarismo internazionale, avrebbe reso negli anni Sessanta ancora più importante. È in funzione di un ruolo siffatto che la m. del Palermitano si struttura − anche per sollecitazione reiterata (1956-60) della m. nord-americana, della quale si fa terminale − in ''cupola'' (Cosa Nostra) e può avviare un non agevole né rapido processo di espansione e controllo della criminalità organizzata della Sicilia (e dagli anni Settanta, di quella del Mezzogiorno), sì da adeguarsi al quadro internazionale dei traffici illeciti. Negli anni in cui studi, inchieste, dibattiti e delitti sospingono in direzione di indagini parlamentari sul fenomeno che viene percepito ormai come m. ''imprenditrice'' (appalti, speculazioni sulle aree, sacco urbanistico), la prima Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della m. in Sicilia (1962-76) indaga per quindici anni, con esiti contraddittori, regolati sempre dai tempi della politica, in costante ritardo sulle modificazioni e sulla ''modernizzazione'' della m. nella struttura, nei poteri, negli uomini. Mentre la DC è impegnata a contenere entro limiti politicamente non devastanti le denunce incalzanti delle Sinistre, e il PCI è bloccato su una percezione localistica del fenomeno, diffidente di ogni proposta di allargare al quadro internazionale l'attenzione per l'attività e il ruolo della m., la cultura, siciliana e non, oscilla tra modello antropologico ''tradizionale'' (ambiguo vagheggiamento di ''sicilianità'' perduta) e scoperta di aspirazioni politiche della mafia.

L'internazionale mafiosa (1965-90). − Di una ''cupola'' o ''commissione'' della m. siciliana si ha comunque notizia solo dal 1965, nel corso dell'inchiesta seguita alla ''prima guerra di m.'' (Palermo, 1961-63). La commissione avrebbe il compito di coordinare l'attività delle famiglie (cosche) di una provincia, ed è composta dei capimandamento (1 capo ogni tre cosche); la sua costituzione può aver influito sulla recente omologazione della struttura delle cosche. Gli uomini d'onore, gli affiliati (da 20 a 150) eleggerebbero ora il capofamiglia, che si sceglie a sua volta un vice e dei consiglieri; il corpo è diviso in decine, coordinate da un capodecina − che farebbe anche da intermediario tra il soldato e il capofamiglia. Improprio appare dedurre da una struttura siffatta l'esistenza di un esercito della mafia: allo stato degli atti, per lo meno fino alla metà degli anni Ottanta, la ''commissione'' ha svolto funzioni di coordinamento interno, piuttosto che di azione politica o strategica verso l'esterno.

Negli stessi anni, L. Liggio elimina Navarra e attrezza i ''Corleonesi'' alla guerra di m. degli anni Settanta, che gli avrebbe consegnato lo scettro di Cosa Nostra siciliana: nella versione di comodo del pentito T. Buscetta, questa spietata ''nuova'' m. avrebbe avuto nel 1981 ragione della ''vecchia'', rispettabile e patriarcale, con l'assassinio di P. Bontate. Ma la tesi non è sostenibile, giacché dal 1979 la cupola sceglie la linea dura della rimozione violenta degli ostacoli esterni (giornalisti, funzionari di polizia, magistrati, politici) e degli interni, con una nuova strategia delle alleanze, sia politiche che mafiose. La guerra di m. e gli omicidi eccellenti smentiscono in modo clamoroso le previsioni ottimistiche della prima Commissione antimafia, conclusa nel 1976, che si basavano su alcune presunte convergenze tra il declino americano di Cosa Nostra e la riduzione quantitativa delle cosche. Se la ''fuga'' di M. Sindona in Sicilia (tra il luglio e l'ottobre 1979) può essere interpretata come un riconoscimento del rango di Cosa Nostra siciliana, l'assassinio del generale C.A. Della Chiesa (settembre 1982), preceduto dall'assassinio del deputato comunista P. La Torre (aprile 1982) e seguito da quello del giudice R. Chinnici (luglio 1983), apparve all'opinione pubblica non solo italiana una sfida tracotante.

Il dibattito politico si fa quindi più aspro: si approntano nuovi strumenti legislativi, ma restano insufficienti la qualità e la quantità dell'intervento di repressione sia della polizia e dei carabinieri, sia della magistratura, divisa da conflitti e rivalità sconcertanti (il palermitano Palazzo di giustizia diventa il cosiddetto ''palazzo dei veleni''). E nondimeno il magistrato G. Falcone riesce a istruire il ''maxi processo'' di Palermo (1986), che porta alla sbarra i vertici della m. siciliana e riesce per la prima volta a consegnarne al paese i volti, l'ampiezza delle attività, la ricchezza, in una parola la potenza.

Frattanto il 16 aprile 1985 la Commissione antimafia nominata per un bilancio della lotta alla m. e presieduta da A. Alinovi, aveva ''scoperto'' − con l'evoluzione della m. siciliana ("da un ruolo passivo di mediazione parassitaria ad un ruolo attivo, di accumulazione del capitale") − la ''trasformazione in impresa'' della camorra napoletana e della 'ndrangheta calabrese. Sicché la seconda Commissione antimafia presieduta da G. Chiaromonte sarebbe stata chiamata (l. 23 marzo 1988) a indagare "sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali". L'indagine accertava l'insufficienza delle risorse, in uomini e strumenti, per la lotta alla criminalità organizzata; la coesistenza accanto al narcotraffico, al contrabbando delle sigarette, al mercato delle armi, di tradizionali attività della m., in Sicilia e fuori (racket, sequestri di persona, appalti, ecc.); e soprattutto la crescente presenza di capitali ''mafiosi'' nell'economia legale e forme di affarismo politico-mafioso. Su questo terreno maturano esperienze di collaborazione internazionale che − se non ottengono risultati decisivi − consentono tuttavia di disegnare, con buona approssimazione, la mappa internazionale della m. e il ruolo in essa di Siciliani e di Napoletani, interessati peraltro al crescente mercato europeo e orientale della droga e delle armi − ora alleati ora rivali delle potenti m. (colombiana, turca, indocinese, giapponese, ecc.), delle quali si vengono conoscendo negli anni Ottanta le attività e la struttura.

La legislazione degli anni Ottanta non solo ha mirato a definire il delitto di m., ma ha anche dotato la polizia e la magistratura di strumenti atti a colpire le fortune illecite attraverso il sequestro dei patrimoni (spesso ingenti) dei mafiosi e contrastando il riciclaggio di denaro sporco. Sul piano amministrativo, il ministro dell'Interno ha potuto sospendere amministratori locali sospettati di collusioni mafiose e sciogliere consigli comunali e provinciali ''per sospetto inquinamento mafioso''; una miglior vigilanza è stata esercitata su interessi mafiosi in appalti pubblici per costruzioni, forniture, servizi (e sono in corso adeguamenti di norme relative); il rafforzamento degli apparati di repressione (carabinieri, polizia, guardia di finanza) ha reso possibile − anche per una migliore prontezza delle vittime a collaborare − l'arresto di latitanti di rango, di estortori, di killers in Italia e all'estero. Anche se da più parti si lamentano smagliature persistenti nell'attività dei servizi segreti nel coordinamento, la recente istituzione di magistrature centrali e periferiche specializzate nell'indagine e prosecuzione di associazioni e crimini di m. ha consentito una lotta più efficace a livello locale, un'intesa tra affini organismi di altri stati europei ed extra-europei, e una miglior comprensione del fenomeno su scala nazionale e mondiale.

Lo scenario mondiale della criminalità associata, che ha collegamenti e rapporti attorno a comuni interessi nel narcotraffico, nel contrabbando di armi (e in genere di materiale bellico), nella cosiddetta ''economia sporca'', è affollato da vecchi e nuovi soggetti: se sono tradizionali le m. orientali (cinese, giapponese, indocinese, libanese) con le loro propaggini medio-orientali e americane, più aggressive sullo scacchiere europeo appaiono − con la m. siciliana − la m. turca con i terminali balcanici, la m. colombiana e ora la m. russa. Difficile è districarsi nell'intreccio aggrovigliato di questo mondo segreto; su talune rotte della m. ci sono sovrapposizioni e sostituzioni ma, come per la m. siciliana, la letteratura in proposito è pressocché esclusivamente giudiziaria e giornalistica. Impraticabile può apparire al sociologo o politologo italiani (o interessati al caso italiano) procedere, allo stato delle nostre conoscenze, a utili confronti: suggestivo resta il rapporto che in taluni di questi paesi (dagli Stati Uniti e Canada alla Colombia, dall'Indocina alla Turchia) lega le associazioni criminali a gruppi terroristici o a politici 'trasversali', mentre si dilatano e mutano i rapporti tradizionali con i servizi segreti dello stato e di altre potenze. Una miglior conoscenza di siffatti legami può chiarire quello che rimane oggi in Italia il lato più oscuro e controverso della 'modernizzazione mafiosa': la natura vera del rapporto con il potere politico (politici, apparati pubblici, gruppi terroristici, ecc.).

La cooperazione internazionale, la scelta più precisa di metodi di contrasto, la legislazione sui 'pentiti' (il cui numero cresce con ritmo esponenziale in pochi anni da 30 a 500) hanno consentito comunque − anche sull'onda di una generosa mobilitazione della piazza, attivata dall'indignazione per gli assassinii (1992) di G. Falcone e di P. Borsellino, e per la creazione di pools specialistici di magistrati e di centrali di coordinamento a livello centrale e locale − risultati significativi, soprattutto nell'arresto di latitanti eccellenti, nel sequestro dei loro patrimoni e nell'intercettazione di alcune tradizionali 'protezioni' e tolleranze. Ma il capitolo m.-politica resta fra i più oscuri e dagli incerti confini: non è ancora provata la affiliazione 'mafiosa' di politici di rango, le compromissioni venute in evidenza riguardano soprattutto politici locali; e il terrorismo mafioso non pare risponda a un progetto politico, ma è piuttosto confinato ad azioni di disturbo e di provocazione.

Tutto ciò ha creato, e continua a creare, a opera della stampa e della letteratura giornalistica, curiosità e interesse: tuttavia alla crescita fuor di misura dell'immagine non ha corrisposto un altrettanto significativo sviluppo delle conoscenze. E la cultura politica, italiana e no, stenta a trovare un approccio adeguato a un fenomeno, su cui più che nel passato è ricca e diversificata la documentazione, ed esistono le condizioni per una valutazione su base comparativa: ciò si riflette nel profilo culturale della terza Commissione antimafia (Violante presidente), che appare prigioniera di vecchi modelli e ancor più di vecchie scelte. Ma non c'è stato un mutamento nella mutazione? È ancora adeguato il termine 'mafia' a rappresentare la cosa, oggi che essa appare tanto diversa − per soggetti, attività, estensione, contaminazione di modelli, ecc. − dall'originario modello siciliano o siculo-americano; se non è certo che i caratteri settari, e le regole che ne hanno garantito per un secolo l'identità valgono ancora per designarla e individuarla tra le forme di ''associazione per delinquere di stampo mafioso'' che da almeno venti anni attorno al narcotraffico e alla ''economia sporca'' hanno trovato terreno comune di cooperazione e di scontro? Non ci sono studi comparativi, ma non ci sono neppure dati affidabili sulle diversità. L'evoluzione è certa, non altrettanto le forme e gli esiti prevedibili: è un fatto che, se la tipologia del modello siciliano ha trascinato nella sua evoluzione le altre grandi società criminali verso l'omologazione, le difficoltà di Cosa Nostra negli Stati Uniti hanno avuto in questi ultimi anni riflessi pressoché immediati sulla gerarchia della m. (con l'avvento dei Colombiani, non solo la più vecchia camorra ma persino 'ndrangheta e Nuova Corona Unita hanno guadagnato posizioni), e sono ricomparse le stidde mafiose, minori formazioni a più saldo e circoscritto radicamento locale ora rivali ora alleate, tra loro e con le m. centralizzate, in imprese criminali o in affari.

Bibl.: Utile la bibliografia sulla m. di G. Chindemi e M. Corso, Palermo 1987. Un aggiornamento ha offerto nel 1992 S. Di Bella. Per una valutazione aggiornata del periodo storico e del problema v. La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino 1987 (soprattutto i saggi di P. Pezzino sul paradigma mafioso e di R. Spampinato sulla storia dell'idea di m.); e S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993.

V. inoltre: M. Monnier, La camorra, Firenze 1862; T.V. Colacino, La Fratellanza, in Rivista di discipline carcerarie, 15 (1885); G. Alongi, La mafia nei suoi fattori e nelle sue manifestazioni. Saggio sulle classi pericolose di Sicilia, Torino 1886; C. Lombroso, L'uomo delinquente, ivi 18894; M. Vaccaro, La Mafia, Roma 1899; N. Colajanni, Nel regno della mafia (Dai Borboni ai Sabaudi), ivi 1900; A. Cutrera, La mafia e i mafiosi. Saggio di sociologia criminale, Palermo 1900; G. De Felice, Maffia e delinquenza in Sicilia, Milano 1900; G. Mosca, Che cosa è la mafia, in Giornale degli economisti, s. 2a, 11 (1901), pp. 236-62; A. Paternò Castello di S. Giuliano, in La Nuova Antologia, 1905; C. Mori, Con la mafia ai ferri corti, Milano 1932; M. Pantaleone, Mafia e politica 1943-1962, Torino 1962; G.G. Lo Schiavo, 100 anni di mafia, Roma 1962; H. Hess, Mafia. Zentrale Herrschaft und lokale Gegenmacht, Tubinga 1970 (trad. it., Bari 1973); A. Spanò, Faccia a faccia con la mafia, Milano 1978; A. Blok, La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960, Torino 1986; V. Lo Monaco, in Lingua Nostra, 1990; C. Sterling, Cosa non solo nostra. La rete mondiale della mafia siciliana, Milano 1990; G. Falcone-M. Padovani, Cose di Cosa nostra, ivi 1991. Della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della m. in Sicilia (1963 ss.) gli Atti sono stati da tempo resi disponibili in edizioni ufficiali e in antologie. Cf. N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari, Roma-Napoli 1992. Per il 'Maxiprocesso': Mafia. L'atto di accusa dei giudici di Palermo, a cura di C. Stajano, Roma 1986.

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