ENNODIO, Magno Felice

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

ENNODIO, Magno Felice (Magnus Felix Ennodius)

Marc Reydellet

Originario della Gallia, nacque nel 473 o 474, probabilmente ad Arles.

La sua famiglia apparteneva all'aristocrazia ed era imparentata con la più alta nobiltà di Roma. A possibile che discendesse da quel Felice Ennodio che fu proconsole d'Africa tra il 408 e il 423. Il padre, secondo una verosimile congettura di F. Vogel, sembra si chiamasse Firmino: E. difatti cita questo nome, accanto a quello di Geronzio, come uno dei due nonni di suo nipote Lupicino, qualificandoli "aetatis suae sidera" (Dictio 8,4; ediz. Vogel, p. 78). La sorella di Firmino aveva sposato un Camillo, menzionato da Sidonio come uno dei convitati a un festino offerto dall'imperatore Maioriano. E. aveva due sorelle e due nipoti: una, Euprepia, era madre di Lupicino, l'altra, di cui non conosciamo il nome, era madre di Partenio.

Orfano in tenera età, E. fu allevato dalla zia paterna nell'Italia settentrionale, a Milano o, più probabilmente, a Pavia. All'età di sedici anni, dunque verso il 489-490, perse la zia e si ritrovò, come disse egli stesso, "solus, inops, re et consilio destitutus" (Opusc., V, 21; ediz. Vogel, p. 303). La regione, all'epoca, era preda delle miserie conseguenti agli scontri armati tra Teodorico e Odoacre. E. trovò rifugio presso una famiglia pia e facoltosa e si fidanzò con la figlia, ma per ragioni non troppo chiare (un'ipotesi e che la famiglia andasse in rovina a causa della guerra) il matrimonio non ebbe luogo. Verso il 493 E. entrò nel clero di Pavia, il cui vescovo era Epifanio. Morto quest'ultimo il 21 genn. 498, passò come diacono alla Chiesa di Milano, il cui vescovo Lorenzo (490-512) era suo parente.

È al periodo milanese che risale la parte essenziale delle sue opere. Noto per il suo talento letterario, E. fu indotto a scrivere in difesa di papa Simmaco in occasione del lungo conflitto che oppose quest'ultimo al diacono Lorenzo. Stando alla cronologia stabilita dal Vogel, nel giugnoluglio del 511 E. fu colpito da una grave forma febbrile da cui sarebbe guarito per intercessione di s. Vittore. A questa malattia si accompagnò una crisi morale che lo portò alla rinuncia delle futilità letterarie che sino allora aveva praticato con troppo compiacimento. Nel 514, con ogni probabilità, divenne vescovo di Pavia. Trattandosi della città sede del Regno, tutto lascia pensare che a questa nomina non fosse stato estraneo Teodorico. Nel 515 e nel 517, insieme con altri vescovi italiani, E. prese parte ad alcune missioni inviate da papa Ormisda in Oriente per tentare di regolare il conflitto tra le due Chiese.

Pochi anni dopo mori: come riporta il suo epitafio (Corpus inscript. Latin., VI, 6464) fu inumato il 17 luglio 521.

L'opera di E. è costituita da lettere (Epistulae), esercizi di retorica (Dictiones), componimenti poetici (Carmina) e, infine, da un insieme di scritti vari che J. Sirmond, nella sua edizione parigina del 1611, raggruppò sotto il titolo di Opuscula. Nonostante che il Vogel, nella edizione Monumenta Germaniae Historica, Magni Felicis Ennodii Opera (in Auctores antiquissimi, VII, Berolini 1885) abbia ritenuto suo dovere rispettare l'ordine dei manoscritti (o piuttosto il loro disordine, visto che le diverse categorie di questi scritti si trovano mescolate alla rinfusa), è preferibile, per la chiarezza dell'esposizione, attenersi alla classificazione del Sirmond riprodotta nella Patrologia latina, LXIII, coll. 309-363 di J. P. Migne. A parte i Carmina in cui E. rivela un abbandono al puro piacere letterario, tutta la sua opera è quella di un uomo che presta attenzione al proprio tempo, sempre accorto ad agire secondo le sue possibilità nei diversi ruoli che gli capitava di ricoprire: uomo di Chiesa, negoziatore, pedagogo e infine, nella corrispondenza, uomo di mondo, parente e amico tanto esigente quanto fedele. Ma, al di là di tutto questo, cultore tenace delle belle lettere.

Gli Opuscula raggruppano dieci scritti: il Panegyricus dictus clementissimo regi Theoderico, il Libellus adversus eos qui contra synodum scribere praesumpserunt, la Vita beatissimi viri Epiphani episcopi Ticinensis Ecclesiae, la Vita beatissimi Antoni monaci Lirinensis, l'Eucharisticum de vita sua, la Paraenesis didascalica, il Praeceptum quando iussi sunt omnes episcopi cellula-nos habere, il Petitorium quo absolutus est Gerontius puer Agapiti e, infine, due testi di ispirazione liturgica ambedue intitolati Benedictio cerei. La più riuscita è la Vita Epiphani (Opusc., III), posteriore solo di qualche anno, secondo il Vogel, alla morte del biografato: l'originalità di questa biografia appare non appena si pensi che, all'epoca, il modello di biografia episcopale era la Vita Martini di Sulpicio Severo. Nulla di più opposto che la vita di Epifanio salvo, forse, il confronto-scontro tra il santo e l'imperatore o il re. Epifanio difatti non ha nulla del santo taumaturgo: solo due volte E. cita dei casi di esorcismo (un giorno scaccia dei demoni; un altro libera una donna di Tarantasia da uno spirito immondo). L'uomo che E. intese celebrare è soprattutto il diplomatico, il tessitore di delicate missioni tra i principi che stavano spartendosi le spoglie dell'Impero. Una prima volta, nel 471, Epifanio appiana il conflitto latente tra il patrizio Ricimero e l'imperatore Antemio; poco più tardi fa da intermediario tra l'imperatore Giulio Nepote e il re dei Visigoti Eurico recandosi da quest'ultimo a Tolosa per ricordargli con fermezza che il solo padrone è l'imperatore. Viene poi evocata la sollevazione di Odoacre contro il patrizio Oreste, episodio nel quale, fedele alla sua ostilità verso Odoacre, E. vede l'opera del demonio. Divenuto padrone della situazione, Odoacre rende onori ad Epifanio che approfitta di questa deferenza per ottenere sgravi di imposta per le popolazioni italiche del Nord. Con l'arrivo di Teodorico "dispositione caelesti imperii" (è dubbio se interpretare "per volontà di Dio" o "dell'imperatore") tutto muta: a partire da questo momento la Vita non perde occasione per riversare elogi sul re dei Goti. Epifanio si adopera presso Teodorico perché abroghi alcune disposizioni discriminatorie che stava preparando contro coloro che non avevano abbracciato la sua causa sin dagli inizi. A questo proposito, il nuovo re d'Italia gli chiede di andare dal re dei Burgundi, Gundobado, per negoziare il riscatto dei prigionieri italici. Infaticabile, il vescovo di Pavia passa le Alpi e ottiene dal re burgundo, senza nulla sborsare, la liberazione di seimila prigionieri. Ciò basta a mostrare come, più che un'opera agiografica, la biografia è un manifesto politico a celebrazione di Epifanio e di Teodorico.

Sin dagli inizi E. aveva fatto quindi la propria scelta di campo, quello del nuovo regime instaurato da Teodorico. A fornirgli una nuova occasione per affermare le proprie convinzioni fu, poco dopo, la vicenda dello scisma laurenziano, anche se nel corso del conflitto l'atteggiamento del re non fu dei più chiari.

Morto papa Anastasio II, il 19 nov. 498, dopo due anni di regno, si formarono due partiti per provvedere alla sua successione. Gli uni, più favorevoli a un'intesa con l'Oriente, elessero Lorenzo in S. Maria in Trastevere; gli altri, riuniti al Laterano. elessero Simmaco. Per calmare gli animi, il 1º marzo 499 Simmaco riuni i propri suffraganei; Lorenzo fece atto di sottomissione firmando un accordo in qualità di arciprete di S. Prassede e, in compenso, fu nominato vescovo di Nocera e inviato in Campania. L'anno seguente Teodorico venne in visita solenne a Roma per festeggiare i tricennalia del suo regno, non come sovrano d'Italia ma come re dei Goti. Fu in quest'occasione che prestò orecchio agli avversari di Simmaco che accusavano il papa di cattive frequentazioni. A queste accuse si aggiungevano delle controversie sulla data della Pasqua. Poco dopo il re convocò Simmaco a Ravenna, sua capitale, per avere spiegazioni al riguardo, ma messosi in viaggio e facendo sosta a Rimini, il papa vide passare quelle stesse donne per la frequentazione delle quali era accusato di comportamento immorale, anch'esse dirette verso Ravenna dove, evidentemente, erano state convocate per testimoniare contro di lui. Il papa fece marcia indietro e, tornato a Roma, si rinchiuse in S. Pietro. Teodorico nominò un visitatore della Chiesa di Roma nella persona di Pietro di Altino, con il compito di amministrarne provvisoriamente i beni; misura, questa, arbitraria e illegale dal momento che il papa non era né interdetto per incapacità, né deposto. Nel contempo il re convocò un concilio dei vescovi d'Italia per sottoporre Simmaco a giudizio. Una prima riunione si tenne in S. Maria in Trastevere, alla presenza di Simmaco; ma, in occasione di una seconda, che doveva aver luogo a S. Croce in Gerusalemme, egli fu impedito a recarvisi da una sanguinosa sommossa. Di qui il suo rifiuto di partecipare a una nuova seduta, allorché fu convocata da Teodorico il 1º sett. 501. Finalmente, il 23 ottobre successivo, i vescovi riuniti nel cosiddetto sinodo ad Palmam (o Synodus Palmaris) rifiutarono di pronunciarsi rimettendo a Dio il compito di giudicare il papa.

In questo momento la città di Roma si trovava divisa in due fazioni: da una parte Festo e Probino che difendevano Lorenzo, nel frattempo rientrato; dall'altra Fausto, parente e amico di E., che sosteneva il partito di Simmaco. Il 6 nov. 502, presieduto da Simmaco, si riuni un sinodo in S. Pietro nel quale i vescovi assolsero il papa dall'imputazione di aver abusato dei beni della Chiesa per farsi eleggere. Un'accusa che non doveva essere troppo campata in aria, visto che molte lettere di E. riferiscono di consistenti somme prestate a Simmaco, sotto sua cauzione, dall'arcivescovo di Milano. Nel frattempo, incitati dai capi dei due partiti, i tumulti continuavano, e comparve un libello ostile al pontefice, l'Adversus synodum absolutionis incongruae al quale E. rispose su richiesta del papa. Durante tutto il suo regno Simmaco dovette far fronte alla fronda di una parte del proprio clero, anche se Teodorico aveva chiesto a Festo di smettere di sostenere lo scisma e benché Lorenzo si fosse ritirato. Solo l'elezione di Ormisda, alla morte di Simmaco nel 514, valse a spegnere le ultime scintille dell'incendio. È a questa drammatica vicenda che E., con i suoi scritti, prese parte attiva come sostenitore di Simmaco. Il miracolo fu che riusci a conciliare la sua simpatia per il papa con la sua ammirazione per il re che si era mostrato quanto meno tiepido nei riguardi del primo.

Il Libellus pro synodo (Opusc., II) chiarisce i termini della controversia tra i partigiani di Simmaco e quelli di Lorenzo, precisando il retroscena politico della vicenda. E. ribatte punto per punto agli attacchi dei laurenziani; ma l'essenziale è altrove. Il sinodo ad Palmam aveva assolto Simmaco in sua assenza e il verdetto, anche se non aveva soddisfatto Teodorico, tuttavia era stato da lui accettato. Di conseguenza, tutta l'abilità retorica di E. consiste nel dimostrare che questa procedura era stata ineccepibile e che essa era stata voluta dal re. Cosi stando le cose, i partigiani di Lorenzo non avevano di che farsi forti di alcun favore da parte di Teodorico. Al centro della controversia è la nomina di Pietro di Altino a visitatore della Chiesa di Roma. Questa designazione, contraria ai canoni ecclesiastici, era una chiara dimostrazione della diffidenza del re nei confronti di Simmaco. E. cercò in ogni modo di provare che, rifiutando la nomina di un visitatore, i sostenitori di Simmaco si erano conformati alle norme della Chiesa, senza per questo venir meno all'obbedienza al re poiché, cosi facendo, quest'ultimo non aveva avuto altro scopo che ristabilire la concordia, pacificando gli animi. In questo modo la situazione veniva ribaltata: se c'è qualcuno che dev'essere sospettato di opporsi alla volontà del re, questi sono i laurenziani, che E. accusa di essere nemici di Dio, perché al contempo mostrano temerario disprezzo per il vicario di Cristo e per il re ("Videamus tamen, ista si facta sunt, si Dei inimici etiam terreni domini non fuistis, dum Christum et regem parili temeritate despicitis", Opusc., II, par. 88; ediz. Vogel, p. 61). Il risultato è duplice: i sostenitori di Simmaco diventano il partito dell'ordine, e Teodorico, nonostante tutto quanto aveva fatto per provocare la condanna del papa, è accreditato dalla vittoria di quest'ultimo.

Nella sostanza, il Libellus pro synodo è l'opera di un avvocato rotto alle tecniche dell'argomentazione. Anche nella forma, è un'opera assai notevole. Indirizzandosi a un pubblico di teologi e di canonisti, E. fa sfoggio della sua conoscenza delle Sacre Scritture abbondando in citazioni bibliche. Il retore formatosi alla tradizione classica si accompagna al cristiano convinto della giustezza della propria causa: un esempio di ciò può trovarsi nella bella difesa del primato della cattedra di Pietro. Più in generale, questo testo è un capolavoro del genere polemico: esso non dà tregua agli avversari con continue domande, spesso di tono ironico, e li apostrofa con una violenza ("mancipia Tartari et liquido Satanae ministri", par. 9, p. 50) che va acquetandosi verso la fine. Da notare, ancora, una bella prosopopea di Roma che parla ricordando il suo lungo cammino dal paganesimo al cristianesimo e invitando tutti i suoi figli alla concordia.

Due altri scritti di E. si riallacciano direttamente al Libellus: lalettera In Christi signo (Epist., M, 30, certamente indirizzata a Simmaco) e il Panegyricus dictus Theoderico. E. aveva tenuto a far omaggio al re della vittoria riportata da Simmaco sul suo contendente e i suoi alleati. In questo non c'era nessun opportunismo ma semplicemente una fedeltà - fedeltà che durerà tutta la vita - al re dei Goti o, piuttosto, al sovrano che l'imperatore legittimo aveva dato all'Italia. Per quel tanto che è giusto dire che l'Italia teodoriciana fu traversata da due correnti di idee, l'una filobizantina rappresentata da Lorenzo e dai suoi partigiani, l'altra più interessata all'indipendenza italica sotto la garanzia di Teodorico come mandatario dell'imperatore, si può sostenere che E. fece parte di questa seconda tendenza, di cui fu capo quel Fausto Nigro che aveva sposato Cinegia, cugina di E., e che, in qualità di principe del Senato e di console nel 490, fu inviato a Costantinopoli per ottenere che l'imperatore riconoscesse a Teodorico il diritto di rivestire la porpora. Con un lapsus rivelatore, del resto, nel Libellus E. attribuisce a Teodorico il titolo di imperator (par. 74; ediz. Vogel, p. 591, mentre nell'Eucharisticum de vita sua parla della sua venuta in Italia come di un "attesissimo arrivo" ("optatissimus Theoderici regis ingressus"; Opusc., V, par. 20; ediz. Vogel, p. 303).

La lettera In Christi signo celebra il ritorno della pace religiosa dopo l'estinzione dello scisma, dunque verso il 506, ed è un'ulteriore occasione per E. di tessere un elogio ditirambico del re. Le vittorie riportate dal suo esercito (probabile allusione alla guerra di Sirmio) sono la ricompensa per la protezione da lui offerta alla Chiesa, benché egli stesso professi un'altra fede ("aliud ipse sectetur"; Epist., IX, 30, par. 7; ediz. Vogel, p. 309). Politica e religione si mescolano: prescindendo dall'arianesimo di Teodorico, E. riconosce al sovrano d'Italia gli stessi diritti d'intervento in materia di religione che ha l'imperatore.

Il Panegyricus dictusclementissimo regi Theoderico (Opusc., I), pronunciato nel 507, non fa che amplificare l'elogio del re. E. vi dichiara esplicitamente di parlare a nome della Chiesa: "nunc ecclesia dirigit laudatorem" (XVI, par. 77; ediz. Vogel, p. 212). Se non si trattò di una messa in scena, una tale formula suggerisce che si tratta di un discorso realmente pronunciato alla presenza del re, e comunque le dimensioni dell'opera non eccedono i limiti di una declamazione pubblica.

Quanto al luogo, è legittimo pensare a Ravenna o a Milano. Il Panegyricus non è un'opera storica: il racconto delle gesta di Teodorico è assai spesso allusivo, i nomi propri di località e di persone scarseggiano, ma in ogni caso è possibile seguire senza troppa difficoltà il succedersi degli eventi. E. inizia con la biografia di Teodorico ricordandone gli anni di esilio e di formazione a Costantinopoli. Passa poi all'aiuto da lui prestato all'imperatore Zenone per venir a capo della usurpazione di Basilisco, che gli valse il consolato. Segue la battaglia contro i Bulgari. Quanto alla missione contro Odoacre, il panegirista non si sofferma sulle circostanze nelle quali Teodorico ne fu investito; egli evoca la battaglia dell'Ulca contro i Gepidi, il passaggio dell'Isonzo e i combattimenti sotto Verona. Dell'assedio di Ravenna e delle trattative con Odoacre terminate col suo assassinio niente più che un accenno: l'usurpazione di Odoacre fu stroncata alla radice ("suecisa est Odovacris praesumptio", X, par. 52; ediz. Vogel, p. 209). Dopo di che sviluppa il tema della restaurazione delle città italiche, in particolare Roma. Torna poi alla politica estera con la guerra di Sirmio e l'accoglimento degli Alamanni in Italia. L'autore insiste infine sulla protezione accordata da Teodorico agli studi di retorica, concludendo il discorso con un ritratto fisico del sovrano.

Il valore di questo panegirico sta soprattutto in ciò che esso rivela dell'ideologia del regime teodoriciano ai suoi esordi. Basta confrontare questo testo con gli Excerpta Valesiana per rendersi conto di ciò che E. ha scelto di tacere per imporre il proprio punto di vista. Esistono, nel Panegyricus, due vistose omissioni: anzitutto le origini gotiche di Teodorico, che E. ignora appositamente, non andando oltre un accenno a suo padre nel discorso che il re indirizza alla madre e alla sorella prima della battaglia di Verona. In secondo luogo, manca qualsiasi menzione della delega di potere concessa a Teodorico dall'imperatore Zenone per combattere Odoacre. Lo status regale di Teodorico non è quello di un capo di truppe barbare in cerca di stanziamento: non una parola sulla ripartizione delle terre tra Romani e Ostrogoti ad opera del patrizio Liberio. E tanto meno è quello di una luogotenenza del Regno d'Italia sotto obbedienza imperiale. Teodorico è rex genitus, re di nascita, in virtù delle sue qualità morali e intellettuali, e della sua prestanza fisica. Egli è venuto a regnare in Italia per volere della Provvidenza e Roma lo reclama per restaurare il suo dominio sul mondo ("te orbis domina ad status sui reparationem Roma poscebat", Paneg., VII, par.30; ediz. Vogel, p. 207). Sin dai suoi esordi a Costanfinopoli egli era votato a un destino imperiale, avendo prima salvato e poi reso a Zenone il suo trono. La guerra di Sirmio che, in realtà, fu fonte di un grave conflitto con l'Oriente, è presentata da E. come il recupero di territori che un tempo formavano i confini d'Italia. Di fatto si trattava della frontiera tra Oriente e Occidente ai tempi della tetrarchia. E. si affretta ad assimilare Italia e Impero d'Occidente, presagendo quella che, di li a pochi mesi, dopo la battaglia di Vouillé, sarebbe stata la dimensione imperiale di Teodorico, grazie all'occupazione della Provenza e alla tutela sul Regno di Spagna. L'immagine di Teodorico offertaci dal Panegyricus è quella di un re provvidenziale giunto per risollevare la romanità dal declino in cui l'aveva gettata la dominazione di Odoacre. A conclusione del suo discorso, E. si augura con espressione ripresa da Virgilio (Aen., IV, 328 s.) che un crede al trono venga a giocare sulle ginocchia del re ("utinam heres regni in tuis sinibus ludat!", XX, par. 93; ediz. Vogel, p. 214), il che dimostra a sufficienza come, sin dagli inizi del regno, E. rifiutasse l'idea che la concessione dell'Italia a Teodorico fosse attribuita soltanto alla sua persona, nei puri termini del contratto concluso con l'imperatore Zenone. Rendiamo merito a E. di aver intravisto l'evoluzione dei tempi. L'Impero, in Occidente, non sussisteva più se non come un'idea, "imaginarie" come dirà alcuni anni più tardi lo storico dei Goti, Giordano. Comunque sia, questa concezione della missione di Teodorico non è sicuramente un'invenzione di Ennodio. Essa, non v'è dubbio, corrispondeva al suo personale senso di attaccamento alla grandezza d'Italia, dovesse pure passare attraverso concessioni a un'occupazione straniera. Ma essa era anche quella della Chiesa, in nome della quale E. si esprime. Ci si potrebbe forse sorprendere che E. nulla dica dell'atteggiamento del re nella vicenda dello scisma, benché, a quanto sembra, il discorso doveva essere di ringraziamento per la benevolenza dimostrata nei confronti della Chiesa. Ma sarebbe stato maldestro ricordare che, lungo tutta la vicenda, il re aveva assunto un atteggiamento di forzata sottomissione alla volontà dei vescovi. Tanto meno era utile risvegliare, in questa occasione, il dualismo religioso tra il re e i suoi sudditi italici. Va infine detto che, dal punto di vista letterario, il Panegyricus merita attenzione, in quanto rappresenta un modello di prosa d'arte della tarda antichità, col suo stile elaborato e il suo eccesso di espressioni ricercate. Ciò che più colpisce è la ricerca della mistione dei generi. Il racconto è frammisto di discorsi (arringa di Teodorico alle sue truppe prima della battaglia contro i Gepidi; discorso a sua madre e sua sorella prima della battaglia di Verona), a cui talvolta si aggiunge un tono poetico che traspare in un vocabolario improntato all'epica.

Le Dictiones testimoniano dell'interesse nutrito da E. per l'educazione dei giovani. Milano aveva una propria scuola di retorica a capo della quale era un maestro di nome Deuterio. Accanto a lui E. sembra avesse un ruolo di consigliere o di ripetitore, aiutando i giovani allievi a fare i loro esercizi e partecipando, forse personalmente, alle lezioni per improvvisare discorsi su temi assegnati da Deuterio. Ma prima di parlare delle Dictiones è opportuno esaminare il sesto scritto degli Opuscula, al quale i moderni danno talvolta, a torto, il titolo di Paraenesis didascalica. Sitratta di un'introduzione agli studi scritta su richiesta di due giovani, Ambrogio e Beato, nella quale si alternano prosa e versi secondo un procedimento caro ad E. e che si ritroverà più tardi nella Consolatio di Boezio. All'introduzione, in cui si ricorda il dovere d'amare-Dio e il prossimo, segue un elogio della poesia, in endecasillabi faleci. La terza parte è dedicata all'elogio delle tre virtù che sono alla base degli studi letterari: la modestia (verecundia), la castità (castitas) e la fede (fides). Ciascuna è presentata prima in prosa e poi in versi di metri differenti (distici elegiaci, esametri e strofe saffiche); si passa poi al panegirico della grammatica e della retorica secondo lo stesso schema alternato di prosa e versi (tetrametri trocaici e distici elegiaci). E. descrive la potenza della retorica in termini enfatici: essa governa i regni, è superiore alle più alte magistrature, è la sola che assicuri gloria perenne ai grandi uomini, ed è madre della poetica, del diritto, della dialettica, dell'aritmetica. L'opuscolo termina con una rassegna dei più illustri letterati dell'Italia dell'epoca e che E. addita come modelli: Fausto e suo figlio Avieno, Festo e Simmaco, Probino e suo figlio Cetego, Boezio, tutti personaggi che ricoprivano alte cariche nel Regno. Due donne concludono la lista: Barbara e Stefania, sorella di Fausto e che si trova tra i destinatari dell'epistolario. Il primato riconosciuto alla retorica traduce una concezione della cultura angusta ma conforine a una tendenza dell'epoca, alla quale però uomini come Cassiodoro e soprattutto Boezio seppero sottrarsi. Del resto la Paraenesis non ha nulla di originale: l'eloquenza come regina delle scienze è un'idea antica che E. poté derivare da Cicerone. Ma l'interesse dell'opuscolo sta nel reale entusiasmo per la sopravvivenza della cultura che esso traduce. Bisogna inoltre sottolineare lo sforzo di E. di innestare questo ideale antico su di un fondo cristiano.

Le Dictiones riflettono quello che è lo spirito della Paraenesis. Sitratta di ventotto brevi discorsi, alcuni reali, altri semplici esercizi di scuola, che gli editori hanno suddiviso in quattro gruppi: Dictiones sacrae (I-VI), Dietiones scholasticae (VII-XIII), Controversiae (XIV-XXIII), Dictiones ethicae (XXIV-XXVIII).

Le sei Dietiones sacrae sono dedicate a varie cerimonie ecclesiastiche quali la celebrazione dell'anniversario dell'ordinazione di Lorenzo di Milano, l'inaugurazione di basiliche, mentre la quinta è un esempio di discorso per l'entrata in funzione di un vescovo.

Le Dictiones scholasticae costituiscono una testimonianza sulla vita della scuola di Milano. La settima celebra il trasferimento dell'auditorium nel foro di Milano. L'entrata dei giovani allievi nella scuola di Deuterio dava luogo a una cerimonia con una loro declamazione. R a tal fine che E. compose dei pezzi di bravura per festeggiare l'entrata di suo nipote Lupicino, quella di Aratore, il futuro versificatore degli Acta apostolorum, quella del figlio di Eusebio, la cui educazione gli era stata affidata dal padre morente, quella di Paterio e Severo, sia l'uno sia l'altro di ottima famiglia. Uno, infine, è un discorso di ringraziamento per il maestro dell'altro suo nipote, Partenio, che conducendo gli studi a Roma con esiti abbastanza scadenti, si vide approvato in una declamazione di retorica. Benché si tratti di pagine ricche più di belle formule che di indicazioni storiche, nondimeno costituiscono una fonte di informazione sull'ambiente scolastico di quel periodo.

Le dieci Controversiae presenti nella raccolta danno un'idea del conservatorismo della scuola antica; vi si ritrovano infatti gli identici temi, spesso assurdi, il più delle volte inverosimili, che Seneca il Vecchio dava da trattare ai suoi allievi: su un ambasciatore che ha tradito la sua patria; su un giocatore che ha pagato i suoi debiti di gioco con l'appezzamento su cui vivono i genitori. Le Dictiones ethicae sono dello stesso stampo, salvo che i temi affrontati mettono in scena eroi della mitologia: parole di Teti nel vedere Achille morto; parole di Didone nel vedere Enea che s'allontana.

L'epistolario occupa la parte più ampia dell'opera. Se in ogni epoca la lettera ha rappresentato un tipico mezzo di comunicazione, come genere letterario essa ha conosciuto un rinnovato successo alla fine dell'antichità. A questa tradizione della lettera d'arte che E. cerca di continuare. Di lui ci rimangono 297 lettere, che Sirmond ha suddiviso in nove libri, la cui datazione è pressoché impossibile. Sembra tuttavia che tutte quante siano anteriori alla sua nomina a vescovo. La lista dei destinatari dà un'idea del mondo frequentato da Ennodio. Anzitutto i membri della sua famiglia: la sorella Euprepia, i nipoti Lupicino e Partenio, varie cugine come Arcotamia, Camilla e Firmina. Poi altri personaggi, storicamente ben più rilevanti, come papa Simmaco, il diacono e futuro papa Ormisda, Cesareo di Arles, Giuliano Pomerio, tra gli ecclesiastici, e tra i laici Boezio e il patrigno Simmaco, e soprattutto Fausto, destinatario del maggior numero di lettere, insieme con i suoi figli Avieno e Messala, e cosi pure il patrizio Liberio. Chiaramente, l'epistolario non raccoglie che parte delle lettere di E. dato che l'autore, o l'editore, hanno conservato soltanto quelle più significative dal punto di vista letterario. Si tratta di esercizi di stile secondo il gusto dell'epoca, nei quali è tutto un fiorire di figure retoriche, di abbellimenti del discorso, di luoghi comuni; in apparenza, quindi, tutto il contrario della spontaneità e dell'abbandono. Ma dietro la convenzionalità del linguaggio, a cui l'autore è doppiamente obbligato - per tener alto il suo onore come letterato e rendere onore al corrispondente -, si scopre una personalità ad un tempo disponibile, appassionata nei suoi affetti, ombrosa persino, pronta a lodare gli altri e a fare professione di umiltà, ma impaziente alle critiche. Stupisce il pochissimo spazio che questo epistolario lascia agli avvenimenti contemporanei. Una lettera a Liberio ricorda l'abilità del patrizio in occasione dell'insediamento dei Goti in Italia (IX, 23); lo scisma romano - a parte la lettera In Christi signo - fala sua comparsa nelle ripetute rivendicazioni delle somme prestate al papa; una lettera scritta a nome di Simmaco ricorda la persecuzione dei vescovi africani da parte di Trasimondo (11, 14). L'epistolario offre l'affresco di un ambiente aristocratico immobilmente ancorato alla propria tradizione: e un documento quindi del conservatorismo dell'età teodoriciana. Le grandi famiglie rimangono elettivamente legate al servizio dello Stato nell'esercizio delle alte cariche: E. è ben attento a felicitarsi con gli amici per le loro promozioni. La cultura resta un valore essenziale. La bellezza dello stile è un'esigenza, anche nelle relazioni epistolari tra parenti; E. rimprovera sua sorella Euprepia per la troppa trascuratezza mostrata nelle sue lettere (VII, 8). Più di una volta egli dà prova del suo interesse per l'avviamento dei giovani agli studi letterari, "santi" perché sin dagli esordi disabituano ai vizi ("sancta sunt studia litterarum in quibus ante incrementa peritiae vitia dediscuntur", V, 10; ediz. Vogel, p. 180). In più, come già sotto l'Impero, l'eloquenza continua a essere il mezzo con cui l'aristocrazia riesce a mantenere il proprio rango, dal momento che è il talento letterario ad aprire le porte delle grandi carriere pubbliche. Infine, queste lettere pongono soprattutto in risalto l'importanza dell'amicizia e, più in generale, dello scambio di atti di cortesia e di favori.

E. fu anche poeta. Oltre ad alcuni versi che si compiacque di inserire nelle sue lettere, di lui conserviamo 172 componimenti che Sirmond ha diviso in due libri. Nel primo, il più interessante, si trovano due poemi autobiografici: il resoconto di un viaggio a Briangon (I, i), in cui descrive, non senza humour, le variazioni di temperatura a cui andò soggetto; il resoconto di un altro suo viaggio sul Po in piena, mentre si recava da una sorella (1, 5); un'elegia di quaranta versi che accompagna una Dictio in cui evoca il suo rientro dal concilio di Roma (1, 6). Testimonianza di una più alta ambizione letteraria sono due poemi: l'epitalamio per le nozze del suo parente Massimo, che fu console nel 523 (1, 4) e un poemetto epico in centosettanta versi che celebra il trentesimo anniversario dell'ordinazione di Epifanio nel 497 (1, 9). I componimenti 10-21 del I libro sono degli inni liturgici in metro ambrosiano (inno vespertino; inno in tempore tristitiae; per la Pentecoste, per l'Ascensione, in onore della Vergine e dei santi Cipriano, Stefano, Ambrogio, Nazario, Martino e Dionigi), mentre l'inno dedicato a s. Eufemia (1, 17) è in endecasillabi. Il secondo libro raccoglie centocinquantuno epigrammi, molti dei quali non superano i due versi. I temi affrontati, sia profani sia cristiani, sono dei più diversi: epitafi; descrizioni di chiese; celebrazione dei vescovi di Milano, da Ambrogio a Lorenzo (II, 77-81); altri ancora sono descrizioni di opere d'arte e un buon numero sono di contenuto satirico. E. si dimostra abile versificatore: per dar prova della propria padronanza della metrica arriva ad alternare metri diversi in uno stesso componimento, come nel caso di I, 7 che, scritto per celebrare il talento poetico di Fausto, presenta non a caso in serie successiva: trentadue distici elegiaci, dodici esametri, quattro distici elegiaci, cinque strofe saffiche e dodici adonii. Tanto virtuosismo, tuttavia, non compensa un'ispirazione troppo spesso di corto respiro.

La critica moderna è stata poco indulgente nel giudicare l'opera di Ennodio. Come Sidonio egli fu, nel bene e nel male, un tipico prodotto della scuola antica a cui, certo, era venuta a mancare "l'ardente spiro" che aveva permesso ad Ambrogio, a Girolamo, ad Agostino o a Boezio, nonostante una formazione di identico stampo, di svincolarsi dagli schemi di scuola. Sarebbe tuttavia ingiusto non riconoscere meritevoli di lettura il Panegyricus, la Vita Epifani, il Libellus pro synodo nonché molte pagine del suo epistolario. Spesso troppo compiacente verso gli artifizi della retorica, in essa E. seppe trovare accenti capaci di coinvolgere il lettore, quando fossero in gioco le sue convinzioni politiche o religiose o i suoi affetti. Né ci si può rifiutare di riconoscerne l'incrollabile fedeltà al re, agli amici, alla Chiesa. Forse E. fu l'ultimo dei retori, ma con lui la scuola antica si spense nello splendore.

Fonti e Bibl.: Su E. si cfr. l'ampia bibliografia nel Lexikon des Mittelalters, III, 2, sub voce e gli aggiornamenti bibliografici in Medioevo latino, I (1979) e seguenti. Si vedano inoltre: F. Magani, E., Pavia 1886; B. Hasenstab, Studien zu Ennodius, Münich 1890; C. Tanzi, La cronologia degli scritti di M. F. E., in Archeografo triestino, n. s., XV (1890), pp. 339 ss.; H. Laufenberg, Der historische Wert des Panegyricus des Bischofs Ennodius, Rostock 1902; A. Dubois, La latinité d'Ennode, Paris 1903; M. Schanz, Geschichte der römischen Litteratur, IV, Münich 1920, pp. 131-148; G. M. Cook, The life of S. Epiphanius by Ennodius. A translation with an introduction and commentary, Washington 1942; L. Navarra, E. e la facies storico-culturale del suo tempo, Cassino 1974; L. Alfonsi, E. letterato. Nel XV centenario della nascita, in Studi romani, XXIII (1975), pp. 303-310; T. Janson, A concordance to the Latin panegyrics. A concordance to the XII Panegyrici latini and to the panegyrical text and fragments of Symmachus, Ausonius, Merobandes, Ennodius, Cassiodorus, Hildesheim-New York-Olms 1979; G. Fini, Le fonti delle dictiones di E., in Acta antiqua Acad. scient. Hungaricae, XXX (1982-84), pp. 387-393; E. Pietrella, La figura del santo vescovo nella Vita Epiphani di E. di Pavia, in Augustinianum, XXIV (1984), pp. 213-226; W. Schetter, Zu Ennodius Carm. 2,1Hartel, in Hermes, CXIV (1986), pp. 500 ss.; M. Carini, Recenti contributi alla critica ennodiana, in Quaderni catanesi di studi class. e med., IX (1987), pp. 327-342; Ennodio, Vita del beatissimo Epifanio…, a cura di M. Cesa, Como 1988; B. Näf, Das Zeitbewusstsein E…., in Historia, XXXIX (1990), pp. 23 ss.; C. Benjamin, Ennodius, in A. G. Pauly-Wissowa, Realencyclopàdie der class. Alterntumswissenschaft, V, 2, coll. 2629 ss.; J. Fontaine, Ennodius, in Reallexikon für Antika und Christentum, V, coll. 398-421.

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