MANFREDI

Enciclopedia Italiana (1934)

MANFREDI

Raffaello Morghen

. Figlio di Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, che l'imperatore sposò poco prima che ella morisse, per legittimare il figlio avutone.

M. era nato nel 1232 ed era tra i figli di Federico II quello che più rassomigliava al padre. Bello, biondo e cavalleresco come lo dipingono Dante e quasi tutti i cronisti, fu amante dei piaceri, della musica, della poesia, della cultura, e insieme prode soldato e abile e accorto politico. Non ebbe però del padre la potenza spirituale e il genio per i quali Federico II sembra sovrastare a tutti gli uomini del suo tempo.

Dopo avere studiato a Parigi e a Bologna, ed essere stato istruito nella corte paterna, in quella cultura filosofica, oscillante tra l'astrologia e il platonismo che costituiva il sostrato fondamentale della scienza arabo-normanna dominante nella corte di Palermo, nel 1250, a soli 18 anni divenne per la morte del padre principe di Taranto, conte di Tricarico, di Gravina e di Montescaglioso, e reggente del regno di Sicilia, in nome di Corrado IV, che si trovava in Germania. Circondato di larghe simpatie, specie tra la feudalità nazionale del regno, sorretto e guidato dall'energico zio Galvano Lancia, egli tentò sulle prime di difendere lealmente l'eredità del fratello lontano, ma, scoppiata una rivolta di baroni e di città, essendogli nemico Pietro Ruffo, già maresciallo del regno sotto Federico II, ora vicario in Calabria e Sicilia, dove tentava di affermare, all'ombra dei diritti di Corrado IV, il suo personale dominio; dovendo diffidare di Bertoldo di Hohenburg, capo dei baroni tedeschi, sempre pronto a piegare dalla parte dove inclinasse il suo personale interesse, tentò, certo anche per suggestione dei Lancia, di venire, nel 1251, ad accordi personali col pontefice Innocenzo IV forse chiedendogli, in cambio del riconoscimento dell'alto dominio della Chiesa sul regno, la corona di Sicilia.

Anche per questa ragione, oltre che per naturale rivalità tra fratelli, di diversa origine e di diverso temperamento, Corrado IV, venuto nel regno nel dicembre del 1251, sbandì dal regno i Lancia e tolse a M. tutti i feudi, a eccezione del principato di Taranto, tenendolo a corte in umiliante posizione d'inferiorità. Morto nel maggio 1254 Corrado IV, secondo una diffusa leggenda guelfa, di veleno fattogli somministrare da M., egli si trovò di nuovo in primo piano sulla scena politica del regno di Sicilia, ma in condizioni particolarmente difficili. Il fratello, morendo, aveva affidato il figlio ed erede Corradino alla tutela della Chiesa e aveva creato baiulo del regno Bertoldo di Hohenburg. Il papa Innocenzo IV, che aveva già investito del regno di Sicilia Edmondo, figlio dell'inglese Enrico III, s'apprestava a invadere il Mezzogiorno per prenderne personalmente possesso. In Calabria e in Sicilia Pietro Ruffo, con ambigui tentativi d'approccio presso M. e presso la Chiesa, si sforzava di conservare a ogni costo la personale potenza acquistata.

Intorno a M., forte di una più matura esperienza che non avesse quattro anni prima, si stringeva intanto gran parte della nobiltà nazionale del regno, che in lui riconosceva il tutore naturale del piccolo Corradino e, in caso di sua morte, il naturale erede del trono di Sicilia, come figlio di Federico II. Bertoldo di Hohenburg stesso capì che difficilmente avrebbe potuto lottare contro M. e, per il momento, venne a un accordo con lui. Insieme chiesero a Innocenzo IV, in un abboccamento ad Anagni, di riconoscere i diritti di Corradino e forse M. tentò di nuovo il colpo fallitogli già nel 1251; ma Innocenzo IV fu irremovibile nel negare qualsiasi concessione e nel reclamare la consegna immediata del regno. Venuti a guerra aperta, il pontefice scomunicò M. e i suoi aderenti, e si preparò, con un esercito raccolto a S. Germano, all'invasione. M., dopo vani tentativi di organizzare la difesa, stimò allora più opportuno venire a un accordo col pontefice sulla base di consentirgli l'entrata e la presa di possesso del regno, con riserva dei diritti di Corradino. A queste condizioni fu assolto dalla scomunica, reintegrato nei feudi avuti dal padre e insignito dell'ufficio di vicario della Chiesa nella Basilicata e in Puglia. Ma lo scadere da reggente e da presunto pretendente al trono a semplice barone del regno e funzionario papale, gli creò una posizione umiliante di cui profittarono tutti i suoi nemici. Ucciso uno di questi, Borrello d'Anglano, forse per suo mandato, più probabilmente per iniziativa personale di suoi aderenti, egli comprese che di questo episodio avrebbero il papa e i suoi nemici tratto pretesto per disfarsi di lui, e, dopo vani tentativi di scolparsi presso il pontefice, si rifugiò prima dal cognato conte di Acerra, poi, in compagnia di pochi fidi, passò l'Appennino a S. Angelo dei Lombardi, e, con una cavalcata affannosa di più di duecento chilometri, evitando i luoghi che erano in mano dei suoi nemici, giunse a entrare a Lucera, dove i Saraceni, fedeli ancora alla memoria di Federico II, lo accolsero col più grande entusiasmo e lo riconobbero loro signore (2 novembre 1254).

In possesso del tesoro di Federico II e di Corrado IV, a capo di un esercito quanto mai bellicoso, disciplinato e fedele, le sorti di Manfredi mutarono di colpo e risorse radioso l'astro degli Svevi. Sconfitto l'esercito del legato pontificio tra Foggia e Troia, forse anche per tradimento di Bertoldo di Hohenburg che, a capo di una parte delle truppe della Chiesa, cercava ora di venire a nuovi accordi con l'antico rivale, in breve quasi tutta la Puglia ricadde nelle mani del principe, a eccezione della Terra d'Otranto. Quasi nello stesso tempo Innocenzo IV moriva in Napoli (10 agosto 1254).

Falliti i tentativi d'accordo col nuovo pontefice Alessandro IV, M. si diede tutto all'opera di riconquista del regno, che poteva dirsi compiuta nel 1257, anche per la condanna e l'imprigionamento di Bertoldo di Hohenburg e dei suoi fratelli, e la sconfitta di Pietro Ruffo. Si apriva così per M. la via al trono, al quale senza dubbio aveva sempre aspirato. D'altra parte seguitare a governare il regno come reggente per il nipote Corradino, voleva dire perpetuare una condizione di cose oltremodo pericolosa, oltre che per lo stato, per la stessa dinastia sveva. Diffuse perciò, ad arte, voci della morte di Corradino, M. veniva eletto dai baroni e coronato in Palermo re di Sicilia e di Puglia il 10 agosto 1258.

Impadronitosi della corona di Sicilia, egli si diede subito a sviluppare attivamente una larga e ambiziosa politica italiana, invocato come alleato da signori, da città, da fazioni, in una parola da tutti i nuovi organismi politici che, sia pure con una coscienza ancora confusa di sé e dei proprî fini, tendenti ad aggrupparsi in contingenti alleanze con quelle o contro quelle che sembrano nel momento le maggiori forze dominatrici della penisola, vanno sorgendo dal disgregamento delle vecchie forze politiche dell'Italia del sec. XIII. M. fu abilissimo nel profittare del giuoco vario e mutevole di questa nuova vita politica in formazione, a incunearsi nelle zone di frattura di questo mondo tumultuoso e sconvolto. Si allea con Uberto Pelavicino nell'alta Italia, invia come suo vicario il cugino Giordano de Anglano in Toscana, e Percivallo Doria nella Marca, mentre, nel 1257, già si era assicurata l'alleanza delle due massime potenze marinare italiane, Genova e Venezia con la concessione d'importanti privilegi commerciali. Bandita poi dalla Chiesa la crociata contro Ezzelino da Romano, non esitò a porsi contro l'esecrato signore e a unirsi alla lega dei suoi nemici. Nel Piemonte si appoggiò ad Asti e ad Alessandria per combattere Tommaso di Savoia e il marchese Guglielmo di Monferrato, ma poi venne con quest'ultimo a trattative cercando di attirarlo a sé perfino con la promessa di legami di parentela da stringersi con un matrimonio. In Toscana giuocò specialmente sulla rivalità di Firenze e di Siena e sulle divisioni interne delle città, riuscendo a fondere fazioni diverse nel comune scopo della lotta contro la Chiesa. E anche fuori della penisola egli cercò alleanze e amicizie, con spedizioni militari con trattati, con rapporti di parentela. Nel 1258 inviò una spedizione contro l'imperatore d'Oriente, in aiuto di Angelo Comneno despota di Epiro, di cui l'anno appresso, mortagli la prima moglie Beatrice di Savoia, sposò la figlia Elena. Nel 1259 rinnovò il trattato con Venezia e strinse vincoli di amicizia con la città di Spalato. Nel 1262 diede la figlia Costanza in moglie al primogenito di Pietro, re d'Aragona. La vittoria di Montaperti (4 settembre 1260), con la quale i ghibellini di Firenze e di Siena riuscirono, col suo aiuto, a sconfiggere i guelfi di Toscana, segnò l'apogeo della sua potenza. Egli del resto rivelava aspirazioni sempre più vaste. Se agli amici senesi che nel 1259 lo sollecitavano "ut ad habendum imperii diadema expressius intenderet" nulla rispondeva se non ringraziandoli della loro fedeltà, è certo che egli sperava in qualche occasione propizia per accampare sull'impero i diritti che gli venivano dall'essere figlio di Federico II. Intanto non solo iure belli, ma appoggiandosi anche in certo modo a quei diritti e alla tradizione paterna, inviava vicarî in Italia e si atteggiava a signore della penisola.

Ma la Chiesa, sul cui trono, dopo il debole Alessandro IV, era salito l'energico Urbano IV (1261), era più che mai decisa a farla finita una volta per sempre con gli Svevi. Urbano riavviò le trattative con Carlo d'Angiò, vincendo anche gli scrupoli di Luigi IX il Santo; rialzò le sorti del partito guelfo in Italia; legò all'impresa della conquista angioina del regno di Sicilia gl'interessi delle grandi case bancarie di Toscana, specialmente di Firenze e di Siena. M. tentò di stornare la tempesta dal suo capo con l'offerta di nuove trattative, promettendo alla Chiesa 300.000 once d'oro una volta tanto e 10.000 once annualmente, ma nel dicembre 1262 le trattative fallirono completamente e la Chiesa investiva in maniera definitiva del regno di Sicilia Carlo d'Angiò, che nell'estate 1263 veniva anche eletto senatore di Roma.

La lotta riprese con alternative di vittorie e di sconfitte da ambo i lati. Pietro di Vico, alleato di M., riuscì a prendere Sutri e a respingere i Romani e i Provenzali di Carlo dalla sua rocca di Vico; ma nella stessa estate 1264, Percivallo Doria moriva in Umbria, e il suo esercito si ritirava in disordine. In Toscana Guido Novello s'impadroniva di Lucca, ma nel dicembre 1264 falliva un colpo di mano di Pietro di Vico per impadronirsi di Roma.

Intanto Carlo d'Angiò nel maggio 1265 s'imbarcava alla volta di Roma e M. tentava l'ultimo colpo dirigendosi ai Romani con un famoso manifesto nel quale, come erede di Federico II, chiedeva di essere coronato imperatore per mano del popolo romano, in cui solo risiedeva il diritto di conferire l'impero: significativa anticipazione di quelle che poi saranno le idee di Dante, di Marsilio da Padova, di Ludovico il Bavaro, di Cola di Rienzo. Ma il suo appello rimase senza risposta, e Carlo d'Angiò, eludendo la crociera delle galee siciliane nel Tirreno, riuscì a sbarcare a Roma il 28 giugno 1265. La presenza di Carlo in Italia cominciò a produrre lo sfaldamento della potenza di M. della quale si videro allora le debolissime basi. Pietro di Vico si sottomise all'Angioino; Guido Novello sconfitto si rifugiò a Prato; Pisa fece pace col pontefice; Uberto Pelavicino e Buoso da Duera non seppero o non vollero opporsi energicamente all'esercito provenzale che nel dicembre 1265 calava quasi indisturbato in Italia.

M. dopo un infelice tentativo su Roma nell'agosto 1265 si ritirò ai confini del regno per vietarne l'accesso al nemico che si trovava in grandi angustie finanziarie. Egli non disperava anzi di battere facilmente "l'uccello che da se stesso era venuto a mettersi in gabbia", ma il tradimento e l'abbandono dei baroni siciliani che alla lotta preferivano mercanteggiare la loro fedeltà e i loro feudi, fecero crollare d'un tratto la potenza sveva in Sicilia. Ai primi del 1266 Carlo d'Angiò passò il ponte di Ceprano quasi senza colpo ferire, e riuscì a impadronirsi subito dopo di Rocca d'Arce, di S. Germano e di Aquino. Ritiratosi M. a Benevento, nella pianura intorno alla città, si ebbe il 26 febbraio 1266 la battaglia decisiva della campagna, terminata con la sconfitta di M., che sul campo cercò e trovò morte gloriosa.

Il corpo di M., riconosciuto, benché crivellato di colpi, dai suoi baroni, prigionieri dell'Angioino, fu sepolto dalla pietà dei nemici "in co' del ponte presso a Benevento" ma, fatto disseppellire dall'arcivescovo di Cosenza, fu gettato oltre i confini del regno lungo il Garigliano (Dante, Purg., III, 103 segg.).

M. cadde perché ormai segnato, fin dai tempi di Federico II, era il destino degli Svevi. Egli aveva saputo abilmente conseguire fortunati successi, ma essi si mostrarono effimeri nel giorno della prova, quando si vide come il regno di Sicilia, per l'irriducibile avversione del papato e per l'opposizione di formidabili forze particolaristiche regionali e cittadine, era ormai escluso da ogni possibilità di predominio in Italia; e la stessa politica di Federico II non era riuscita a suscitare nel regno né una salda classe di governo, né una profonda coscienza nazionale, né forze economiche autonome che potessero controbilanciare la formidabile potenza finanziaria dell'Italia centrale, naturalmente tendente alla conquista dei mercati del mezzogiorno.

Nella cultura M. proseguì l'opera del padre proteggendo poeti e scienziati, facendo tradurre dall'arabo o dal greco trattati degli antichi filosofi. Poeta e scienziato egli stesso, tradusse dall'ebraico il De vita et morte di Aristotele e commentò il De arte venandi cum avibus dedicatogli dal padre.

Il suo fascino personale, i famosi versi dedicatigli da Dante, la sua fine eroica e pietosa furono gli elementi onde sorse poi una leggenda di M., largamente sfruttata anche ai fini nazionali durante il Risorgimento.

Bibl.: Una guida esatta e sicura di tutte le fonti più importanti per la vita e l'opera di M., si trova in Historia Diplomatica Regni Siciliae (1250-1266) di B. Capasso, Napoli 1874. Per la letteratura, oltre il vecchio G. De Cesare, Storia del re M., Napoli 1837, v. F. Schirrmacher, Die letzen Hohenstaufen, Gottinga 1872; O. Cartellieri, König Manfred, Palermo 1910; A. Karst, Geschichte Manfreds (1250-1258), Berlino 1897; C. Hampe, Urban IV. und Manfred, Heidelberg 1905; H. Jordan, Les origines de la domination angévine en Italie, Parigi 1909; A. Bergmann, König Manfred von Sizilien, Heidelberg 1909; H. Arndt, Studien zur inneren Regierungsgeschichte Manfreds, Heidelberg 1911; W. Cohn, Das Zeitalter der Hohenstaufen in Sizilien, Breslavia 1925 (traduzione italiana, Catania 1932); E. Sthamer, Bruchstücke mittelalterlicher Enqueten aus Unteritalien, Berlino 1933.