RAIMONDI, Marcantonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 86 (2016)

RAIMONDI, Marcantonio

Massimo Giansante

RAIMONDI, Marcantonio. – Figlio di Battista, Marcantonio Raimondi nacque verso il 1479. Secondo quanto accolgono le ricerche recenti, il luogo di nascita fu S. Martino in Argine, località di pianura a nord-est di Bologna, mentre una tradizione recepita fino agli anni Settanta del Novecento indicava S. Andrea in Argene, nei pressi di S. Agata Bolognese (Dillon, 1975, p. 303; Giudici, 1988, p. 355). Nulla si sa della madre e poco della famiglia paterna.

Le uniche notizie documentate provengono da un atto notarile del 1504 (Archivio di Stato di Bologna, Notarile, Antonio Cisti, filza 3, 18 nov. 1504; Giudici, 1988, p. 355). A quella data, il padre era già morto e Raimondi era residente nella cappella bolognese di S. Caterina di Saragozza. Fonte unica, quel rogito, ma piuttosto ricca di informazioni. Se ne deduce che nel 1504 Raimondi era titolare di una cappella presso la cattedrale di S. Pietro, per la quale agiva in prima persona; doveva pertanto avere almeno 25 anni, il che porta a fissare al 1479 o poco prima la sua data di nascita (Bologna e l’Umanesimo, 1988, p. 55). Con quell’atto inoltre, come patrono perpetuo della cappella di S. Bartolomeo, nella sagrestia nuova della cattedrale, Marcantonio concedeva un beneficio ecclesiastico a Camillo Dolfi, che succedeva in questo allo zio Floriano. I Raimondi erano dunque legati a una delle famiglie più eminenti della società cittadina, i Dolfi. Non solo: questo privilegio proveniva, a quanto sembra, da un’ascendenza di assoluto prestigio. La sagrestia nuova della cattedrale e, al suo interno, la cappella di S. Bartolomeo erano state costruite, infatti, negli ultimi anni del Trecento, dal vescovo Bartolomeo Raimondi, che in quello spazio aveva stabilito la propria sepoltura, venendo lì tumulato nel giugno del 1406 (Ghirardacci, 1669, pp. 459, 570). Sia pure in attesa di ulteriori ricerche documentarie, sembra dunque plausibile che questa sia l’origine del patronato che i Raimondi e Marcantonio avrebbero esercitato un secolo dopo, sulla cappella di S. Bartolomeo. In questo caso non sarebbe arbitrario ritenere Marcantonio Raimondi discendente di un fratello o di un cugino del vescovo Bartolomeo Raimondi, che resse la chiesa di Bologna fra il 1394 e il 1406.

I Raimondi costituivano, nella società bolognese del tempo, un nucleo familiare dalle solide relazioni e di antico prestigio. Con la sua famiglia d’origine, tuttavia, Marcantonio ebbe un legame non molto profondo, a giudicare quantomeno dal rapido oblio del nome di famiglia che si registra nella sua ricchissima produzione (310, secondo Henri Delaborde, le sole incisioni a bulino), fenomeno da lui stesso incoraggiato con il fare ricorso al nome Marcantonio Francia oppure de’ Franci e alla sigla, spesso presente nelle incisioni, MAF (Bartsch, 1813, XIV, pp. XI s.). Già Giorgio Vasari nel 1568 sembrò ignorare del tutto il nome di famiglia di Marcantonio, definendolo «Marco Antonio bolognese», e precisando che aveva acquisito il cognome Franci «per essere stato molti anni col Francia, e da lui molto amato» (Vasari, 1568, V, 1906, p. 403). Anche Carlo Cesare Malvasia (1678), un secolo più tardi, riteneva utile ricordare che «Marcantonio era di casa Raimondi, ancorché detto comunemente dei Franci» (p. 64). Quella scelta e quel cognome, che Marcantonio portò con sé nelle sue peregrinazioni fra Venezia, Firenze e Roma, esprimevano dunque un legame umano e artistico, questo sì assai profondo, con il maestro Francesco Francia, del quale per comune riconoscimento, egli fu l’allievo più talentuoso.

L’eredità stilistica franciana, così come quella mantegnesca, è chiaramente percettibile nelle opere della giovinezza e fino al 1510-12, ma secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un’impronta indelebile, che affiora con evidenza anche negli estremi sviluppi, già pienamente rinascimentali, della sua produzione (Bologna e l’Umanesimo, 1988, pp. 81-88). Collocato assai giovane presso la bottega dei Raibolini, Marcantonio vi apprese presto l’arte dell’argento niellato e si diede a realizzare lastre e decorazioni secondo la moda dell’epoca, ottenendo eccellenti risultati, dice il Vasari, grazie alla grande facilità nell’uso del bulino e a una perizia di disegnatore nella quale superava il maestro. Questo talento fu messo a frutto da Marcantonio negli ultimi anni di permanenza a Bologna, con una serie di incisioni che ne fecero, già verso il 1504, un artista famoso. Dall’Orfeo ed Euridice dei primissimi anni del Cinquecento al Priamo e Tisbe del 1505, il catalogo presenta una ventina di stampe di prevalente argomento allegorico o mitologico (Ninfa scoperta da un satiro; Allegoria del Tempo, della Musica, della Vita Umana; Il giudizio di Paride; Venere e Vulcano), ma anche alcune scene di storia sacra (Il Battesimo di Cristo; l’Adorazione dei pastori; S. Giorgio e il drago), in cui è evidentissima la lezione stilistica e compositiva del Francia, se non il ricorso ai suoi disegni preparatori. Si segnala, fra le opere giovanili, per la sua straordinaria rilevanza, il Ritratto di Giovanni Achillini, detto Filoteo, del 1504, nel cui disegno si può notare la presenza dello schema degli angeli musicanti, che Marcantonio deduceva dalle pale d’altare del maestro elaborandolo peraltro con grande originalità, con il proporre il personaggio di tre quarti e adombrando un’identificazione dell’amico poeta con l’Orfeo incantatore, soggetto affrontato fin dalle opere giovanili e poi ripetutamente nel corso degli anni in numerose stampe (De Witt, 1968, p. 6, tav. XVI). Tuttavia, valori altrettanto profondi quell’immagine sottende sul piano dei contenuti culturali e umani, per l’intensità dei rapporti fra l’incisore e il grande umanista bolognese di cui è testimonianza. Mentre Raimondi ne incideva il ritratto, Achillini ricambiava l’omaggio all’amico nel suo Viridario, consacrando la sua capacità di imitare «de gli antiqui le sante orme / col disegno e il bolin» e associandolo dunque a pieno titolo alla schiera dei cultori della bellezza antica e dell’arte come imitazione viva della natura: «Hame retratto in rame [prosegue l’Achillini] chen dubio di noi pendo quale è vivo» (1513, 1868, p. 406, cit. in Bologna e l’Umanesimo, 1988, p. 124).

Un tratto che distinse Raimondi dal suo maestro fu l’indole inquieta, il desiderio di conoscere nuovi luoghi e altri artisti. Nel 1506 si colloca il viaggio a Venezia, esperienza che risultò fondamentale per l’artista. Ben accolto, dice Vasari, dai colleghi incisori veneziani, e inseritosi così in un mercato artistico di vastissimo raggio, Raimondi ampliò a Venezia la sua conoscenza dell’opera grafica dei più grandi maestri dell’epoca, fra tutti Albrecht Dürer, anche se l’opinione oggi prevalente anticipa al periodo bolognese i primi contatti con la produzione dureriana e individua la presenza di quel modello in opere già citate, come il Battesimo di Cristo e l’Allegoria della vita umana, degli anni 1503-04, o La ninfa e il satiro, del maggio del 1506 e quindi precedente il viaggio a Venezia. Non il primo incontro, dunque, ma certo un approfondimento della lezione di Dürer fu ciò che Marcantonio visse a Venezia: «stupefatto della maniera del lavoro e del modo di fare d’Alberto» dice Vasari (1568, V, 1906, p. 405), Raimondi investì tutti i suoi averi nell’acquisto di una serie di silografie di Dürer e si diede a riprodurle con dedizione e impegno assoluti, sia pure con esiti non sempre eccelsi (Luzzatto, 1934, pp. 340 s.). L’espressione testuale di Vasari è «contrafarle» e in effetti le riproduzioni su rame delle silografie dureriane, fra cui le celebri Storie di Maria Vergine, diedero luogo a una controversia legale fra Dürer e Raimondi, non però nel 1506 a Venezia, come sostiene Malvasia, forzando in questo il racconto vasariano, ma dopo il 1511 a Roma, contrasto risolto con un accordo fra i due, in base al quale Marcantonio si impegnava a non inserire più nelle sue copie il monogramma di Dürer (Bologna e l’Umanesimo, 1988, p. 153).

Il periodo veneziano ebbe effetti rilevanti nell’evoluzione stilistica di Raimondi, e non soltanto per le profonde riflessioni suscitate dall’incontro con Dürer: incontro personale, forse, oltre che artistico, dato che in quello stesso 1506 anche Dürer viaggiava fra Venezia e Bologna per perfezionare alla scuola di Luca Pacioli le sue conoscenze nel campo della prospettiva (Anzelewsky, 1987, p. 44; Bologna e l’Umanesimo, 1988, p. 56). A Venezia Raimondi conobbe anche, forse grazie alle incisioni di Giulio Campagnola, l’opera di Giorgione, come denunciano le stampe degli anni 1507-08. È il caso della Donna che annaffia una pianta, forse Allegoria della Grammatica, ispirata a un probabile, ancorché sconosciuto, modello giorgionesco, dell’Incredulità di s. Tommaso e soprattutto del Sogno, incisione nota anche come Il sogno di Raffaello o L’incendio sul lago.

Quest’ultima si presenta come un’immagine misteriosa e onirica appunto, popolata di creature fantastiche dalle nordiche ascendenze, ma chiaramente allusiva a una Venere coricata del Campagnola, a sua volta ispirata a un perduto quadro di Giorgione (Petrucci, 1964, p. 20; Bologna e l’Umanesimo, 1988, p. 156).

A una più meditata assimilazione della lezione grafica di Dürer vengono invece ricondotti alcuni disegni degli stessi anni 1507-08: Adamo, il Giovane seduto o Allegoria del legame amoroso, e la Giovane donna, probabilmente Allegoria della Temperanza e della Prudenza.

Non sappiamo quanto durò il periodo veneziano iniziato nel 1506, ma certamente nel 1508 Raimondi era a Firenze, tappa intermedia del percorso che lo avrebbe poi portato a Roma. Anche quello fiorentino fu un periodo decisivo nell’evoluzione artistica dell’incisore bolognese: a Firenze si determinò in lui una svolta espressiva di grande portata, che lo avrebbe rapidamente indirizzato verso ideali formali compiutamente rinascimentali. Qui infatti Raimondi vide e studiò intensamente il cartone di Michelangelo per La battaglia di Cascina, affresco commissionato nel 1504 per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio ma poi mai realizzato, e quelle riflessioni sulla potenza scultorea e sul movimento delle figure michelangiolesche trovarono piena espressione in Venere, Marte e Amore, opera datata dicembre 1508, e soprattutto nell’Arrampicatore, inciso a Firenze nel 1509, o forse a Roma nel 1510 sulla base di disegni tracciati a Firenze. A Roma, dove Raimondi rimase stabilmente dal 1510 al 1527, quel soggetto venne ripreso e sviluppato in Gli arrampicatori, moltiplicando i personaggi, arricchendo il paesaggio e perfezionando la tecnica incisoria grazie allo studio, al quale si era applicato nel frattempo, delle opere di Luca da Leida. A Roma Raimondi visse l’ultima fase, la più importante forse, della sua evoluzione artistica, segnata potentemente dall’incontro con Raffaello, della cui opera divenne il più fecondo e prezioso divulgatore.

Grazie alle relazioni rapidamente allacciate e, argomenta Vasari, alle raccomandazioni del Francia che lo accompagnarono anche a Roma, Raimondi avviò qui una fiorente attività e poté aprire una vera bottega, in cui si formarono numerosi allievi, fra cui il ravennate Marco Dente e Agostino Veneziano, e altri che dallo studio approfondito della sua opera trassero ispirazione, come Enea Vico e Giulio Bonasone (Bartsch, 1813, XV, pp. 101-178, 275-370).

Ma soprattutto negli anni romani, e in particolare nel periodo 1510-15, egli diede corpo a una poderosa produzione di stampe di soggetto o comunque di ispirazione raffaellesca, fra cui vanno ricordate almeno la celeberrima Lucrezia del 1511, la Strage degli innocenti e il Martirio di s. Cecilia (Foratti, 1941-1942, pp. 186-192). Dopo il 1515, il tratto grafico e il chiaroscuro delle sue stampe tendono ad appesantirsi e a esasperarsi in senso drammatico; uno sviluppo manierista, dunque, sembra caratterizzare la sua ultima produzione e si manifesta con chiarezza nel Martirio di s. Lorenzo inciso fra il 1525 e il 1527 su disegno di Baccio Bandinelli, scena di impianto teatrale e densa di anatomie poderose e dalle attitudini più varie.

Non furono tuttavia, quelli romani, anni privi di turbamenti per Raimondi. La grande impresa delle incisioni raffaellesche lo portò a collaborare con Giulio Romano, che dapprima gli commissionò un’impegnativa serie di immagini di grande formato, tratte dalle Storie di Venere, Apollo e Giacinto e dalle Storie di Maddalena e dei Quattro Evangelisti, per coinvolgerlo poi in una collaborazione dagli effetti imprevedibili. Giulio Romano disegnò e Raimondi incise una serie di sedici immagini, venti secondo Vasari, dai contenuti erotici fin troppo espliciti, anche se riferiti a notissimi episodi mitologici e storici, come gli amori di Venere e Marte, Ercole e Deianira, Antonio e Cleopatra, cui si aggiungevano alcune scabrose variazioni su satiri e ninfe. I Modi, questo il titolo della serie, pubblicati nel 1524 e di nuovo nel 1527, ebbero grande successo editoriale, provocando le ire degli ambienti di curia e quelle di Clemente VII. Giulio Romano evitò le peggiori conseguenze, prosegue Vasari, essendo già partito per Mantova, dove da tempo lo attendeva Federico II Gonzaga, mentre il malcapitato Raimondi finì in carcere.

Il racconto vasariano presenta in realtà alcune incongruenze, ma sembra coerente sul piano cronologico: Giulio Romano partì in effetti per Mantova nell’ottobre del 1524, ignaro delle conseguenze che l’edizione dei Modi avrebbe avuto di lì a poco. Del tutto inattendibile, invece, il racconto degli esiti della vicenda proposto da Vasari. Dal carcere, infatti, Raimondi uscì nel 1525, non per interessamento di Baccio Bandinelli, come sostiene Vasari, ma per intervento di Pietro Aretino, il quale era allora nelle grazie di papa Clemente (P. Aretino, Sonetti lussuriosi, a cura di D. Ronci, 2013, pp. 6 s.; Bernasconi, 1982, pp. 271-273). Incuriosito dalle incisioni, l’Aretino ne avrebbe fatto la fonte principale dei primi sedici Sonetti lussuriosi, pubblicati fra il 1526 e il 1527, mentre Raimondi lo compensò del provvidenziale intervento con un bellissimo ritratto (Bartsch, 1813, XIV, pp. 374 s.; Petrucci, 1964, p. 28). Evidentemente a Vasari dispiacque questo finale della vicenda. Il ruolo del poeta licenzioso, nella liberazione dell’artista dal carcere, rendeva forse ai suoi occhi ancor più sconveniente la disavventura di Raimondi; meglio quindi attribuire la liberazione all’intervento di un imprecisato cardinale de’ Medici, Ippolito forse, che però non era a Roma in quegli anni, e di uno scultore fiorentino come Bandinelli, sia pure non di primo livello e non disinteressato. Prezzo di quell’intercessione sarebbe stata l’incisione del citato Martirio di s. Lorenzo, in cui Raimondi riuscì a correggere non pochi difetti del disegno di Bandinelli; anche questo particolare della narrazione vasariana, peraltro, viene considerato quantomeno dubbio dalla critica recente (Giudici, 1988, p. 356).

Il carcere fu esperienza reale e dolorosa per Raimondi, come attesta, fra gli altri, lo stesso Aretino in una lettera del 1537 (Bernasconi, 1982, p. 272), così come fu duramente reale il dramma del sacco di Roma del 1527, annunciato profeticamente in un’incisione assai complessa, macabra e allucinata, nota come Lo stregozzo o La carcassa, forse un’Allegoria della malaria, attribuita da alcuni all’allievo Agostino Veneziano, ma perfettamente coerente con gli ideali compositivi e stilistici dell’ultimo Raimondi (Petrucci, 1964, p. 29). Nel saccheggio del 1527 Raimondi perse tutti i suoi averi e fu costretto a far ritorno a Bologna «poco meno che mendico», racconta Vasari, che conclude la biografia ricordando i suoi meriti enormi nei confronti «dell’arte nostra, per avere egli in Italia dato principio alle stampe, con molto giovamento et utile dell’arte, e commodo di tutti i virtuosi» (Vasari, 1568, V, 1906, p. 419). Giudizio certo ancora condivisibile, quello sul progresso delle arti visive favorito dalle stampe di Raimondi, che divulgarono in tutta Europa la grande pittura del Rinascimento, ma riduttivo rispetto agli originali contributi di una personalità artistica vivace, feconda e innovativa, come la critica già da tempo riconosce in modo unanime (De Witt, 1968, pp. 7 s.).

Pressoché nulla si sa degli ultimi anni di vita e di attività di Raimondi, che morì a Bologna non molto dopo il suo ritorno da Roma e comunque prima del 1534. In quell’anno, infatti, Pietro Aretino lo ricordò ancora una volta in una pagina della Cortigiana, al passato però, come un grande maestro, il migliore di tutti, anzi, nell’arte del bulino (Giudici, 1988, p. 357).

Fonti e Bibl.: Viridario de Gioanne Philotheo Achillino bolognese, Bologna 1513, rist. in G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, I, Bologna 1868, pp. 396-415; G. Vasari, Le vite (1568), a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1906, pp. 395-446; C. Ghirardacci, Historia di Bologna, II, Bologna 1669, pp. 459, 570; C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, I, Bologna 1678, pp. 63-74; A. Bartsch, Le peintre graveur, XIV-XV, Vienne 1813; H. Delaborde, Marcantoine Raimondi, Paris 1887; G.L. Luzzatto, Dürer e Marcantonio, in L’Archiginnasio, XXIX (1934), pp. 337-342; N. Beets, Alberto Dürer, Luca di Leida e M. R. Un triumvirato nel regno dell’incisione, in Maso Finiguerra, I (1936), pp. 149-159; A. Foratti, Marcantonio e Raffaello, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna, XX (1941-1942), pp. 181-192; A. Petrucci, Panorama della incisione italiana. Il Cinquecento, Roma 1964, pp. 19-35; A. De Witt, M. R. Incisioni, Firenze 1968; G. Dillon, R. M., in Dizionario enciclopedico dei pittori e degli incisori italiani, IX, Torino 1975, pp. 303-305; F. Anzelewsky, Dürer, Werk und Wirkung, Stuttgart 1980; I.H. Shoemaker - E. Broun, The engravings of M. R., Lawrence 1981; F. Bernasconi, Appunti per l’edizione critica dei “Sonetti lussuriosi” dell’Aretino, in Italica, 1982, vol. 59, n. 4, pp. 271-283; K. Oberhuber, Raffaello e l’incisione, Roma 1984, pp. 333-342; F. Anzelewsky, Dürer, in Art e Dossier, 1987, n. 14, monografico; G. Dillon, Il vero Marcantonio, in Studi su Raffaello, a cura di M. Sambucco Hamond - M.L. Strocchi, Urbino 1987, pp. 551-561; Bologna e l’Umanesimo. 1490-1510 (catal.), a cura di M. Faietti - K. Oberhuber, Bologna 1988, pp. 51-210; C. Giudici, M. R., ibid., pp. 355-357; P. Aretino, Sonetti lussuriosi, ed. critica e commento di D. Romei, 2013, http:// www.nuovorinascimento.org (9 giugno 2016).

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