MARCHE

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

MARCHE

E. Simi Varanelli

Regione dell'Italia centrale, bagnata a E dal mare Adriatico e confinante a N con la Romagna, a O con la Toscana e l'Umbria, a S con il Lazio e l'Abruzzo. Esteso dallo spartiacque appenninico fino al mare e approssimativamente compreso tra la valle del Conca a N e il corso del Tronto a S, il territorio delle M. risulta caratterizzato da una naturale coincidenza tra i confini fisici e quelli politico-amministrativi.

Storia e urbanistica

Divise in epoca romana nella Regio VI (Umbria) a N e nella Regio V (Picenum) a S, con confine di separazione sul fiume Esino, le M. nell'Alto Medioevo continuarono a esistere smembrate. Il territorio a N dell'Esino, organizzato in due pentapoli - la Marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) e l'Annonaria (Urbino, Fossombrone, Cagli, Gubbio, Jesi) -, fu sottoposto all'esarcato bizantino, mentre quello del Piceno a S venne conglobato nel ducato longobardo di Spoleto. Una certa unità sembrò essere raggiunta quando, con la donazione del re dei Franchi Pipino (756), riconfermata da Carlo Magno (774) e da Ottone III (999), l'area pentapolitana passò sotto il controllo della Chiesa. In realtà, però, il vero potere su di questa fu esercitato fino nel pieno sec. 12° dalla Chiesa di Ravenna, in stretto rapporto di fedeltà con l'impero.Il nome Marca (dal ted. Mark 'terra di confine') compare nel sec. 10° sotto gli Ottoni, quando, dopo il distacco dal ducato di Spoleto, il territorio di Fermo divenne appunto marca di confine. All'incirca nello stesso periodo si formarono le marche di Camerino e di Ancona e allorché Enrico IV, nel 1080, affidò al suo ministeriale Guarnerio le tre marche formatesi, la regione, con il nome di Marca Warnerii, può dirsi fosse virtualmente costituita.Se nei secc. 10° e 11° nelle M. feudali il potere fu spartito, secondo le regole della Klosterpolitik imperiale, tra grandi vescovadi, costituitisi sulla polverizzazione di feudi laici, e potenti insediamenti monastici, anch'essi progressivamente accresciuti dalle donazioni di privati, il sec. 12° e la prima metà del 13° risultarono caratterizzati dalle lotte e dalle alleanze dei Comuni contro l'impero (Nepi, 1966-1983, I): tra i fatti salienti, la resistenza di Ancona all'assedio di Federico Barbarossa, nel 1173-1174, e quella di Fermo, nel 1175-1176. La regione, ottenuto il riconoscimento delle proprie autonomie, rimase generalmente fedele alla causa imperiale fino al tramonto della potenza sveva (1266). Poi presero il sopravvento forze locali e si accesero lotte intestine. Memorabile la secolare guerra tra Ascoli Piceno e Fermo per assicurarsi gli sbocchi al mare. Questa circostanza favorì l'insediarsi delle signorie: i Malatesta a Pesaro e Fano, i Da Varano a Camerino, gli Ottoni a Matelica, i Chiavelli a Fabriano, gli Smeducci a San Severino Marche. Con la legazione del cardinale Egidio Albornoz - che riuscì, sia pure per breve tempo, a ricondurre alle dipendenze della Chiesa città e castelli usurpati - le M. ricevettero una definizione politico-amministrativa e poleografica fondamentale con le Costitutiones Aegidianae del 1357. Un documento del tempo, la Descriptio Marchiae Anconitanae, descrive analiticamente, quantifica e distingue le civitates maggiori dalle minori e queste dai castra e da ogni altra forma di insediamento (Battelli, 1979).La rete viaria - costituita dalle arterie consolari della Flaminia a N, snodantesi lungo il bacino del Metauro, e della Salaria a S, lungo il Tronto, e dalle strade che, percorrendo la Vallesina (Fiecconi, 1979) e le valli del Potenza (Foschi, 1984-1986) e del Chienti (Coturri, 1984-1986), risalivano verso i valichi dell'Appennino, nonché dai molti percorsi interni trasversali - aveva un naturale asse di congiunzione nella via Marittima, lungo la quale sopravvisse sempre una certa vitalità urbana e dove, fino dai primi secoli della media età, assursero a importanza i centri portuali di Pesaro, Fano, Ancona, Numana. Dopo il promontorio del Conero, anche la costa bassa del Piceno era servita da percorsi più interni controllati da abbazie, pievi e hospitalia (Galiè, 1982; 1984-1986; 1991), cosicché la strada litoranea, che a N presso Fano era ricongiunta alle vie Flaminia ed Emilia, adempiva egregiamente alla funzione di condurre celermente al santuario garganico e agli imbarchi per la Terra Santa militi e pellegrini (Coturri, 1984-1986; Fei, 1992).Tra Antichità e Medioevo, soprattutto il Piceno fu teatro del fenomeno dell'abbandono delle città romane di pianura, della scomparsa di diocesi rilevanti, quali per es. quelle di Helvia Ricina e di Pausula (Saracco Previdi, 1991), e della formazione, spesso a distanza, di nuclei demici collinari e montani più sicuri (Mor, 1973; Alfieri, 1984-1986). Le città romane che non furono abbandonate, come Pesaro, Fano, Ancona, Ascoli Piceno, Jesi, Fermo, nei secoli della depressione subirono comunque una contrazione del perimetro abitato e solo dopo il Mille ripresero il connaturale processo di espansione. Il caso di Fermo, che nel sec. 12° presenta ancora i principali edifici civili e religiosi allineati sull'acropoli e le parrocchie ordinatamente disposte sulle direttrici viarie dei borghi in espansione, appare paradigmatico (Catalino, 1989).Nei secc. 11°-12° il fenomeno della sottomissione dei castelli ai Comuni modificò profondamente la poleografia della regione. L'habitat sparso altomedievale, presidiato da una quantità di castra (Mauro, 1985-1988), impianti monastici e pievi, venne modificato a favore di nuclei di maggiore consistenza demica (Saracco Previdi, 1991). Frequente appare il caso in cui due o più castelli, ubicati a breve distanza, vennero chiusi in un unico giro di mura a simboleggiare la nascita dell'entità urbana e la concordia dei suoi cives: così è avvenuto a Fabriano, Ripatransone, Macerata, Recanati, Amandola e in altri centri. Sono proprio questi centri di nuova formazione, assai numerosi e urbanisticamente contraddistinti da imponenti sistemi di difesa, ancora in massima parte conservati, come Treia (la medievale Montecchio), Filottrano, Appignano, Montelupone, Sant'Elpidio a Mare, Grottammare e Cerreto d'Esi (Mauro, 1985-1988; Architettura fortificata, 1995; Pruneti, 1995), che determinano in gran parte il volto delle M. odierne.Nella regione, durante tutti i secoli del Medioevo, svolse un ruolo di primo piano il monachesimo, soprattutto quello di segno benedettino. Le abbazie documentate - molte in effetti risultano oggi scomparse - ammontano a un centinaio, con una massima concentrazione nel bacino del Metauro, a presidio della Flaminia, e in quelli dell'Esino e del Chienti (Cherubini, 1992). Per tradizione sono riconosciute come antiche fondazioni le abbazie dei Ss. Decenzio e Germano a Pesaro, di S. Gervasio a Mondolfo (prov. Pesaro), di S. Catervo a Tolentino, di S. Lorenzo in Doliolo a San Severino Marche (prov. Macerata) e dei Ss. Rufino e Vitale presso Amandola (prov. Ascoli Piceno).Nella zona pentapolitana, la Chiesa ravennate, fin dal sec. 7°, aveva esteso i suoi possessi nell'Esino e nel Cluentino (Fasoli, 1981; Vasina, 1981). Il territorio meridionale dal sec. 8° era stato invece teatro della penetrazione farfense; tale fenomeno divenne massiccio allorché l'abate Pietro I, nell'898 esule da Farfa in seguito all'occupazione saracena, condusse i suoi monaci sul colle Matenano (prov. Ascoli Piceno), dove fondò l'oratorio turrito di S. Maria, divenuto poi, con il nome di S. Vittoria, avamposto e cellula madre della vasta espansione di Farfa nella regione, annoverante possessi anche nei territori del Chienti e del Potenza (Nocelli, 1993; 1996).Con la presenza di s. Romualdo (952-1027) nelle M. si apre il complesso capitolo delle fondazioni romualdine, delle quali però l'unica comprovata storicamente è quella di S. Salvatore in Val di Castro (1009-1011), presso Fabriano, nell'alta Vallesina, mentre restano dubbie le origini degli insediamenti di S. Elena presso Serra San Quirico (prov. Ancona) e di S. Maria in Insula nella valle del Fiastrone, presso Cessapalombo (prov. Macerata; Cherubini, 1992). Nel sec. 11° s. Pier Damiani (1007-1072), altro grande protagonista della riforma monastica, rinnovò profondamente l'eremo di Santa Croce di Fonte Avellana, presso Serra Sant'Abbondio (prov. Pesaro), che divenne il cuore di un'attivissima congregazione (Simi Varanelli, 1992). Il fenomeno più rimarchevole del sec. 12° è quello dell'irradiazione cistercense dalle case madri lombarde (Gentili, 1978; Viti, 1982).Frequentemente si riscontra il caso di monasteri benedettini insediatisi su aree in cui preesistevano santuari pagani, operando, secondo l'odierno indirizzo interpretativo, il tipico innesto benedettino del culto e del monumento cristiano su quello pagano non per mero scopo utilitaristico, ma con intento sacrale e antiquario: così S. Tommaso in Foglia (prov. Pesaro), S. Maria del Piano, presso Jesi, S. Maria di Rambona (prov. Macerata), S. Lorenzo in Doliolo, Ss. Rufino e Vitale. In tale orientamento meglio si spiega anche la ripetuta circostanza di fondazioni sorte vicino a città romane in rovina e che si avvalsero del materiale di spoglio da esse ricavato (S. Lorenzo in Campo dal centro di Suasa, Santa Croce dei Conti da Sentinum, S. Maria delle Moie da Planina, S. Maria delle Macchie e Chiaravalle di Fiastra da Urbs Salvia, S. Maria di Rambona da Pollentia, S. Marone da Cluana). Lo spoglio e il riuso, praticati in larga scala, diedero peraltro luogo a quel fenomeno di rimarchevole continuità e iterazione nel tempo di temi e modelli antichi che costituisce caratteristica essenziale dell'arte delle Marche.

Architettura

Il cristianesimo giunse precocemente nelle M., importato da Roma, ma anche direttamente dall'Oriente, tramite soprattutto il porto di Ancona. Non mancano quindi nella regione le vestigia architettoniche e figurative paleocristiane, in particolare: ad Ancona, dove sotto la medievale chiesa di S. Maria della Piazza è affiorato un edificio con due sovrapposte pavimentazioni musive del principio del sec. 5° e del 6° (Canti Polichetti, 1981; Barsanti, 1995); a Pesaro, dove l'attuale duomo insiste su un rimarchevole pavimento musivo di epoca giustinianea, restaurato e ampliato in epoca romanica (Farioli Campanati, 1985; Russo, 1989); a Fano (Farioli, 1975; Cocchini, 1985); a Tolentino, dove il panteum cum tricoro, il mausoleo del nobile romano Flavio Giulio Catervio - eretto nel sec. 4° e di recente riportato alla luce (Nestori, 1992) -, assolse la funzione di nucleo di partenza del complesso architettonico dell'attuale cattedrale di S. Catervo; a Fermo e ad Ascoli Piceno, dove sono tornate alla luce sotto le attuali cattedrali le preesistenze paleocristiane.Non esiste ancora un completo quadro delle strutture architettoniche altomedievali della regione. Dei secoli della dominazione longobarda e di quella carolingia rimangono soltanto copiose vestigia scultoree. Risale ai secc. 9°-11° la struttura basilicale a tre navate e tre absidi della pieve di San Leo (prov. Pesaro), ospitante il ciborio donato dal duca Orso nell'881; imparentata alle pievi dell'Esarcato, recentemente essa è stata avvicinata alle chiese di S. Marone di Civitanova Marche (prov. Macerata), di Santa Croce al Chienti (prov. Macerata) e di S. Marco a Ponzano di Fermo, costruzioni che si è ritenuto appartengano, nelle loro parti più antiche, al sec. 9° (Crocetti, Scoccia, 1982; Cerioni, 1993; Favole, 1993). Intorno al Mille può invece collocarsi una serie di monumenti, in maggior numero monastici, denotanti come nelle M. - insieme alla dominante suggestione di Ravenna - siano pervenuti precocemente i riflessi della cultura preromanica lombarda e ottoniana. La cripta monocolonnare di S. Gervasio a Mondolfo, caratterizzata da nicchie tagliate in spessore di muro, quella dei Ss. Decenzio e Germano a Pesaro, con tozze colonne, capitelli cubici e volta a botte lunettata, e le parti più antiche dell'ambulacro di S. Maria a Piè di Chienti, presso Montecosaro (nicchie in spessore di muro, segmenti di volte a botte e lunettate, archetti a diametro oltrepassato), sono attinenti, infatti, alla fase di sperimentazione europea dei sistemi di copertura (Simi Varanelli, 1996). Appartiene al medesimo contesto culturale altomedievale l'abbaziale di Santa Croce al Chienti (notizie dall'884), il cui nucleo ancora leggibile - imparentato a modi di costruzione della Renania e della Sassonia, probabilmente mediati attraverso la pianura Padana - trasmette informazioni preziose sullo stile preromanico carolingio-ottoniano di cui in Italia sono sopravvissute rare vestigia (Simi Varanelli, 1993; 1996).Ai primi decenni del Mille è da collocarsi l'antica cripta di S. Maria di Rambona - monastero fondato nell'898 dalla regina longobarda Ageltrude (Nestori, 1984) -, che lega colonne di spoglio a splendidi capitelli messi in opera assieme alle volte nella campagna ricostruttiva degli inizi del sec. 11° (Betti, 1993). Il sacello cruciforme di Rambona risulta analogo al vano voltato a botte sottostante l'abbazia dei Ss. Rufino e Vitale: anch'esso cruciforme, è attribuibile al sec. 8°-9° e da porre in relazione con coeve strutture e decorazioni farfensi (Taglianini, 1989; Favole, 1993). Nel corso del secolo l'attività costruttiva monastica persistette rigogliosa e accentuò la sua originalità. I secc. 11° e 12° sono infatti il tempo della piena fioritura del Romanico marchigiano, che diede forma a edifici dall'impianto singolare e spazialmente complesso, generati dalle suggestioni le più varie e lontane. Riflessi ravennati, dalla Dalmazia e dall'Oriente bizantino si mescolano a temi lombardi e oltralpini, francesi e germanici, nonché a influssi umbri, abruzzesi e toscani. Importante, poi, specialmente nel Duecento, appare l'influenza dell'architettura dell'Italia meridionale fiorita al tempo degli Svevi, in particolare di quella pugliese (Wagner-Rieger, 1957). Illustra tale stile composito l'abbazia di S. Maria di Portonovo, che presenta un singolare impianto planimetrico dilatato in larghezza con absidi scalate, arieggianti le chiese cluniacensi francesi e normanne, navata conclusa da volta a botte cinghiata su pilastrini pensili di tipologia borgognona e cupola ellittica al centro protetta esternamente da mosso tiburio di ispirazione lombarda (Krönig, 1965; Claudi, 1979).La costruzione di S. Vittore delle Chiuse, presso le grotte di Frasassi (prov. Ancona) nell'alto Esino, documentata come esistente già ai primi del Mille, si pone come prototipo di una singolare icnografia di origine orientale, mediata forse da modelli pugliesi (Barsanti, 1992), con absidi sporgenti dal quadrato di base, scandito da quattro sostegni centrali in nove campate. Reiterano questo schema le abbaziali di Santa Croce dei Conti a Sassoferrato (prov. Ancona), di S. Maria delle Moie (prov. Ancona) e la chiesa di S. Claudio al Chienti presso Corridonia (prov. Macerata), ergentesi sulle rovine della stazione romana di Pausula (Barsanti, 1992). Sorta su territorio pertinente all'abbazia ravennate di S. Apollinare in Classe e probabilmente facente parte di un impianto monastico (Prete, 1982), la chiesa sicuramente era già esistente nel 1135 (Galiè, 1989); simile nella planimetria e nella struttura dell'interno alle cappelle palatine germaniche a piani sovrapposti, tanto da dar luogo alla tesi che originariamente fosse stata cappella palatina del vescovo-conte di Fermo (Krönig, 1965), nella struttura compositiva, nella decorazione degli esterni, nell'uso totale del laterizio, nella disposizione delle torri scalari cilindriche e nella forma dell'originario nartece rivela marcati e preponderanti influssi ravennati (Simi Varanelli, 1996).Edificio di manifesta originalità, i cui inizi sono da collocarsi nel sec. 11°, o al più tardi ai primi del 12°, e altrettanto ricco di valori scenici e ambientali è nell'alto Chienti la rotonda di S. Giusto a San Maroto, presso Camerino, articolata in quattro absidi, la cui cupola, originata da anelli concentrici in pietra, trova unico termine di confronto in quella più tarda della rotonda di S. Galgano presso Chiusdino (Siena), sebbene elementi prossimi si rintraccino anche in battisteri lombardi coevi (S. Tomaso in limine ad Almenno San Bartolomeo e S. Vittore ad Arsago Seprio). Per l'edificio è stata formulata l'ipotesi che esso derivi da un archetipo romano presente in zona (Paoloni, 1995).Presenta l'icnografia tipica dei monumenti delle vie di pellegrinaggio, con abside guarnita da ambulacro e corona di cappelle radiali, l'abbaziale di S. Maria a Piè di Chienti, originariamente cella farfense (notizie dal 936), costruzione la cui esistenza è documentata nel 1122 e che probabilmente assunse planimetria e alzato a gallerie dall'abbaziale cluniacense di Sant'Antimo (prov. Siena; Favole, 1993).Caratteristiche che contraddistinguono molti edifici monastici e non monastici delle M. sono la forte sopraelevazione dei cori che albergano cripte (S. Vincenzo al Furlo, S. Gervasio a Mondolfo, S. Urbano ad Apiro, S. Cassiano in Valbagnola, S. Firmano di Montelupone, S. Maria delle Macchie, S. Pietro al Conero, S. Angelo di Montespino), la dimensione enfatizzata degli stessi rispetto a navate solitamente brevi (S. Cassiano in Valbagnola, S. Urbano, S. Lorenzo in Doliolo, Ss. Rufino e Vitale) e i nudi e massicci schermi divisori in pietra (S. Urbano), particolarità tutte che possono dirsi le risultanti di un'intensa vitalità liturgica del monachesimo marchigiano e della sua condizione signoriale.Verso la fine del sec. 12° giunse nelle M. il tema oltralpino della chiesa 'a sala'. Esso compare nell'abbaziale benedettina di S. Elena presso Serra San Quirico, con copertura a crociera rinforzata da archi a sesto acuto, la quale, mediante la sopraelevazione delle navate laterali, assume l'aspetto di una pseudo-sala (Krönig, 1965; Pierucci, 1981), una tipologia ripresa e diffusa soprattutto nell'edilizia mendicante.Sul calare del sec. 12° fecero il loro ingresso nella zona del Montefeltro il partito gotico dell'arco acuto (archi di valico del duomo di San Leo) e la struttura della volta a botte cinghiata, di origine borgognona. Quest'ultima compare, oltre che nel duomo di San Leo, ultimato, secondo un'iscrizione, nel 1173, anche a S. Maria di Portonovo. Nel sec. 12° iniziò del resto a diffondersi la copertura a botte ogivale, anch'essa di origine borgognona (Santa Croce di Fonte Avellana, S. Cassiano in Valbagnola, S. Urbano, S. Lorenzo al lago di Fiastra), persistendo a lungo nella regione e con più fortuna del tema lombardo della crociera costolonata. Questo fece la sua comparsa nelle abbaziali cistercensi: nella campata prospiciente la controfacciata di Chiaravalle di Fiastra e nella copertura dell'intera navata di Chiaravalle della Castagnola, presso Jesi.La chiesa abbaziale di Fiastra, costruita su modulo quadrato, presenta la tipica alternanza di sostegni di ascendenza lombarda, nonché il partito cistercense della colonna pensile ed è frutto di più campagne di lavori. Le carte fiastrensi illuminano sulla venuta dei Cistercensi. Nel 1142 Guarnerio II, duca di Spoleto e marchese di Ancona, chiese all'abate di Chiaravalle di Milano, Bruno, che una comunità dei suoi monaci venisse a popolare la nuova fondazione (Cadei, 1978): le cubiche cappelle voltate a botte del coro e, su piano bernardino, a terminazione rettilinea sono appunto da rapportarsi alla prima campagna di costruzione intervenuta intorno al 1140 (Romanini, 1975; 1990; Cadei, 1978); campagna che, secondo l'uso, comprese anche la delineazione degli ambienti prospicienti il lato orientale del chiostro, ovvero sacrestia, armarium, sala capitolare (Cadei 1978; 1992). La sopravvivenza sul lato occidentale degli ambienti dei conversi, in particolare del refettorio, e delle annesse strutture di produzione (Righetti Tosti-Croce, 1993; 1994) accresce l'interesse e la peculiarità del monumento. L'abbazia cistercense dell'Esino, che un'epigrafe originale nel nartece dichiara fondata nel 1172, mostra piuttosto un carattere accentuatamente gotico che è dato, oltre che dalla sezione acuta di tutti gli archi, dall'uniforme suddivisione della navata centrale e delle collaterali in campate barlongues di chiara derivazione borgognona. Secondo l'uso lombardo, invece, il rosso del mattone ricorre nelle ogive e nelle profilature degli archi.Oltre a Fiastra, Santa Croce di Fonte Avellana, con chiesa a tipica croce patibulata camaldolese, è uno dei pochi complessi monastici delle M. che conserva ancora integri i severi ambienti medievali: il chiostro, del sec. 12°, che ingloba parti più antiche, la sala capitolare, la cripta, il parlatorio e il luminoso scriptorium gotico (Simi Varanelli, 1992).Il sec. 12° e il 13° furono secoli di prosperità per l'edilizia comunale. Le città si adornarono di monumenti civili e religiosi: San Leo, civitas fortificata, diocesi del Montefeltro, ricostruì, tra la fine del sec. 11° e il principio del 12°, sul dirupo prospiciente la valle del Marecchia, la mole severa del duomo, il quale rivela una singolare commistione di influssi lombardi e borgognoni. Ancona, centro marittimo di primaria importanza, emulo di Venezia e di Pisa (Leonhard, 1983), in contatto da sempre con la cultura costantinopolitana, riedificò sull'altura del Guasco il duomo, dedicato a s. Ciriaco, armonico e articolato organismo a croce greca libera, nel quale persistenti suggestioni bizantine si mescolano a elementi protogotici in un originale sincretismo che denuncia il lungo periodo di costruzione, durato dall'11° al 13° secolo. Sempre ad Ancona, nel 1210 maestro Filippo realizzò la mirabile facciata di S. Maria della Piazza: il monumento, rivestito di prezioso marmo dalmatico, scompartito da più ordini di loggette cieche, è adorno di ampio portale a strombo incorniciato da un fregio riccamente scolpito.Nel Duecento un altro cantiere di richiamo è costituito dal duomo di Osimo, ampliato e rielaborato, secondo le fonti al tempo del vescovo Gentile (1177-1205), in forme gotiche, con l'addizione di un transetto nella cui testata meridionale si apre in alto - similmente a Trani - un rosone, circondato all'uso pugliese da figurazioni animalistiche di forte aggetto. Sulla medesima fiancata un portico a tre fornici introduce ai portali ogivali riccamente e originalmente scolpiti. Singolare la duecentesca cripta, che ospita ab antiquo preziosi cimeli provenienti dalla fabbrica primitiva (sec. 8°); una lapide informa sulla data 1191 e sul nome del suo costruttore, maestro Filippo, probabilmente lo stesso poi presente in Ancona (Grillantini, 1965; Massa, 1993a).In stato di difficile leggibilità appare il duomo di Fano, sottoposto a un restauro restitutivo della facciata e dell'interno nel 1928; documentato a partire dal 744, esso fu ricostruito nel 1140, come attesta un'epigrafe, nella quale peraltro è ricordata l'attività di scultore di maestro Rainerius.Nel 1227 Fermo ricostruì per mano di Giorgio da Como, sull'alto del colle del Girfalco, il suo superbo duomo in pietra d'Istria, il quale, seguendo la sorte di molti altri monumenti medievali delle M., venne malauguratamente rielaborato nel suo interno in forme barocche durante il 18° secolo. Solo la superstite campata occidentale trasmette un'idea della fabbrica gotica: una struttura prossima alla chiesa 'a sala', caratterizzata da archi acuti su impianto colonnare, cornice orizzontale a ballatoio e volte a crociera (Krönig, 1965). Ad Ascoli Piceno (v.) chiese ed edifici civili medievali diedero un'impronta caratterizzante al tessuto urbano.Loci francescani di alta data serbano memorie dei replicati viaggi e soggiorni di s. Francesco nelle M. (Pagnani, Parisciani, Santarelli, 1982; Itinerari francescani, 1983), sul cui territorio i Francescani si insediarono in effetti precocemente, irradiandosi capillarmente. La presenza dei Domenicani è documentata, invece, solo nei centri maggiori e appare numericamente esigua rispetto a quella francescana, ma non per questo culturalmente meno incisiva. Copiosa e del pari significativa la presenza degli Agostiniani. Degli impianti edilizi consueti sono presenti la tipologia a navata unica c.d. a fienile, a navata unica e presbiterio tripartito (Dreikapellensaal) e le Hallenkirchen a tre navate (Wagner-Rieger, 1957; Dellwing, 1992).Modello esemplare della fase iniziale dell'architettura mendicante nelle M. è il S. Francesco a Mercatello sul Metauro (prov. Pesaro), del 1240 ca., vasta fabbrica ad aula unica con coro piatto, del tipo francescano più semplice, e facciata realizzata in blocchi d'arenaria (Dellwing, 1992). Altri esempi rimarchevoli, attestanti la diffusione di questa tipologia sul territorio, sono S. Chiara a San Ginesio (prov. Macerata), S. Agostino (poi S. Nicola) a Tolentino e S. Agostino a Urbino (Dellwing, 1992). Il S. Francesco di Cagli (prov. Pesaro), iniziato anch'esso verso il 1240 ca., è caratterizzato all'esterno da un'imponente mole, conclusa a E da un'abside ottagonale, mentre l'interno gotico a navata unica è stato deformato da sovrastrutture moderne. A Pesaro è notevole la facciata di S. Domenico, con coppie di avelli ai lati del portale similmente al S. Giacomo di Bologna. Le chiese domenicane di Urbino e di Fano recano anch'esse traccia di una sistemazione affine (Fontebuoni, 1986). L'involucro murario e l'impianto gotico del S. Domenico di Fano, una navata allungata terminante con tre cappelle a pareti di fondo rettilinee, sono ancora chiaramente percepibili (Fontebuoni, 1986). A Fabriano la vasta fabbrica di S. Domenico si configura come l'edificio gotico meglio conservato della città: costruita tra gli anni 1363-1365, nonostante i rifacimenti la chiesa presenta ancora leggibile un impianto a navata unica con due cappelle gentilizie al fianco della maggiore. Notevoli il chiostro, di impianto trecentesco, con pilastri poligonali e archi a sesto acuto, e la sacrestia, ampio vano concluso da volta a crociera (Armezzani, 1982). Le chiese mendicanti di Visso (prov. Macerata) appartengono al tipo più semplice a navata unica con abside piatta. Il S. Francesco presenta una facciata a coronamento orizzontale di tipo abruzzese, mentre la chiesa di S. Agostino mostra la più consueta facciata a cuspide. Sulla stessa piazza su cui prospetta l'edificio agostiniano sorge l'ampia collegiata, consacrata nel 1256 e ingrandita nel 1312 (Paoloni, 1995). A Cingoli (prov. Macerata) la chiesa di S. Esuperanzio, anche se non appartenne mai ai Mendicanti, si denota come il più compiuto esempio nelle M. della tipologia a navata unica con copertura a capriate, intervallata da archi-diaframma a sesto acuto. Oltre che nel S. Esuperanzio e nel Cingolano, il medesimo tipo di copertura, diffuso dalle chiese eugubine, si osserva nel S. Salvatore di Acqua Pagana, presso Serravalle di Chienti (prov. Macerata). Nel gruppo delle chiese ascolane di S. Gregorio Magno, S. Maria delle Donne, S. Giacomo, Santa Croce e S. Andrea, il tema, invece, è più probabilmente derivato dall'Abruzzo (Krönig, 1965).La tipologia a Dreikapellensaal, che dovette riscuotere nella regione larga fortuna, risulta presente, oltre che a Fano e a Fabriano, nel S. Francesco di Tolentino e nei santuari francescani di San Ginesio e Amandola (Dellwing, 1992).È palese però che la maggior fortuna nell'edilizia mendicante della regione arrise alla tipologia della grande chiesa trinavata 'a sala' o 'a pseudo-sala', i cui monumenti più significativi sono ubicati ad Ascoli Piceno e a Fermo, ma che in epoca gotica si diffuse largamente su tutto il territorio e al di fuori anche dell'ambito mendicante (per es. antico duomo di Fermo). Le luminose Hallenkirchen di S. Francesco, cominciata nel 1258 e consacrata non ancora finita nel 1371, della domenicana S. Pietro Martire, edificata tra il 1290 e il 1332, entrambe in Ascoli Piceno, e del S. Francesco di Fermo, iniziata secondo le fonti nel 1240, sono state annoverate tra i più importanti esempi italiani di questo tipo architettonico teso alla massima unificazione dell'ambiente interno (Krönig, 1938; 1965; Wagner-Rieger, 1960).Singolare nei dintorni di Ascoli Piceno, sul colle San Marco, la trasformazione da parte dei monaci che vi abitarono fino al 1387 degli ambienti-grotta originari in un piccolo armonioso cenobio con elementi ornamentali di stile gotico.In Offida (prov. Ascoli Piceno) sorge il monastero-fortezza farfense di S. Maria della Rocca, imponente edificio romanico-gotico, ricostruito nel 1330 da maestro Albertino: la singolarità della costruzione è data dall'accesso dall'abside poligonale, notevole per l'elevazione e il contrasto del laterizio con il bianco degli ornati e del portale; all'interno, caratterizzato dalla sovrapposizione di due chiese, rimarchevole architettonicamente è l'inferiore, o cripta, voltata a sesto acuto.La ricerca intorno all'incisività o meno del ruolo degli Ordini ospedalieri nelle M. non è ancora approdata a risultati definitivi. È noto che soprattutto lungo la costa erano concentrati ospizi, lebbrosari e ospedali retti da ordini caritativi, esperti anche nelle cure mediche, come i Crociferi (Galiè, 1992). L'unica architettura superstite di un qualche rilievo risulta essere l'ospedale dei Pellegrini di San Ginesio, d'impianto tardoduecentesco, caratterizzato da una lunga fronte animata da un portico e dal sovrastante loggiato. La presenza dei Templari, documentata ad Ancona, Osimo, Recanati, Ascoli Piceno e in altri centri (Bramato, 1991), non sembra peraltro aver lasciato tracce artistiche degne di nota.Scarseggiano nelle M. anche testimonianze veramente rappresentative dell'edilizia civile. Vi sono, comunque, eccezioni di straordinario interesse: a Fabriano il duecentesco palazzo del Podestà, situato in posizione baricentrica, al punto di convergenza delle strade cittadine disposte a raggiera (Guidoni, 1992); a Fano il trecentesco palazzo della Ragione, dove un'iscrizione reca la data del 1299 e il nome dell'architetto Paulutius (Fontebuoni, 1986); ad Ancona il palazzo del Senato, trasformato nel Quattrocento e restaurato nel dopoguerra, la cui data di edificazione può essere ricondotta alla prima metà del sec. 13° (Serra, 1929), e, sempre nella stessa città, il palazzo degli Anziani o del Comune, detto poi della Farina. Degni di nota, inoltre, il palazzo della Ragione di Sant'Angelo in Vado (prov. Pesaro), eretto sulla fine del sec. 14° in modi toscani; il palazzo del Podestà di Ripatransone (prov. Ascoli Piceno), compiuto nel 1304; il palazzo dei Priori di Offida (secc. 13°-14°); i palazzi dei Priori e del Podestà che prospettano sulla caratteristica piazza alta di Sarnano (prov. Macerata), insieme alla torre civica e alla gotica chiesa di S. Maria Assunta. Le sopravvivenze di edilizia civile medievale più insigni sono però raccolte in Ascoli Piceno.L'architettura castellare, di cui le M. conservano un gran numero di esempi perlopiù risalenti all'epoca tardomedievale, è stata fatta recentemente oggetto di catalogazione sistematica (Mauro, 1985-1988; Architettura fortificata, 1995) e soprattutto si è illustrata la strategica disposizione degli impianti, sia per la successione di torri di avvistamento litoranee sia per la maglia infittita di castra a controllo dei valichi appenninici (Quilici, 1991) e a difesa dei confini signorili, come per es. la sequenza degli impianti castellari dei Da Varano, la c.d. Intagliata.

Scultura

Un ingente numero di pregevoli sarcofagi dei secc. 4°-6°, di varia tipologia e discussa provenienza, testimonia la vitalità artistica della regione nei primi secoli del cristianesimo; tra questi possono essere in particolare ricordati i sarcofagi di S. Gervasio a Mondolfo (Barsanti, 1993) e dei Ss. Decenzio e Germano a Pesaro (Russo, 1989), pregevoli prodotti di officine ravennati e costantinopolitane.Relativamente scarse sono le testimonianze di manufatti di età longobarda rispetto alla copiosità di quelli della successiva età carolingia. Frammenti, generalmente poco leggibili, di decorazione architettonica e di suppellettile liturgica si rinvengono a San Leo, Osimo, Ancona, Fano, Jesi, Ascoli Piceno, nonché in abbazie di alta fondazione (S. Gervasio a Mondolfo, S. Maria a Piè di Chienti, S. Marco di Ponzano, S. Marco alle Paludi presso Fermo) e in pievi-sacrario come S. Marone di Civitanova Marche, da tempo considerata luogo di sepoltura del primo evangelizzatore del Piceno. Non mancano però manufatti di indiscutibile originalità e interesse storico-artistico, quali l'epitaffio del vescovo Vitaliano nella cripta del duomo di Osimo, pannello finemente decorato di età liutprandea (712-744; Betti, 1993), e la lastra ricurva dell'ambone proveniente dalla chiesa di S. Maria della Misericordia ad Ancona (Mus. Diocesano d'Arte Sacra), datata da un'iscrizione all'epoca dell'arcivescovo ravennate Sergio (744-769; Russo, 1981). Un manufatto intrigante, con figure deformate cariche di parossistica tensione, per il quale sono state supposte suggestioni visigote e orientali, è il sarcofago rappresentante una probabile scena di esorcismo, nell'atrio del vescovado di Pesaro (Melucco Vaccaro, 1967; Russo, 1989).Il ricomposto ciborio della pieve di San Leo, donato dal duca Orso nell'881, apre la serie dei manufatti marchigiani di epoca carolingia. Si fanno risalire a questo tempo numerosi frammenti rinvenuti nelle abbazie di San Lorenzo in Campo (prov. Pesaro), S. Vincenzo al Furlo (prov. Pesaro), S. Tommaso in Foglia, S. Maria del Piano, S. Maria di Rambona. È Ascoli Piceno, tuttavia, la città che conserva il maggior numero di testimonianze dell'epoca (Fei, 1985; Betti, 1993): i reperti sono ancora in opera nel battistero, nella cattedrale e in altri monumenti civici o raccolti nel Mus. Archeologico Comunale.I rilievi altomedievali marchigiani iterano spesso le consuete tipologie aniconiche. Alcuni poi, evidenti frammenti di programmi figurativi e arredi unitari, meritano attenzione per le particolarità iconografiche e stilistiche. A S. Maria del Piano un sarcofago con coperchio a spiovente rappresenta deformi animali in lotta tra intrichi vegetali (Russo, 1984). Nel Mus. Civ. di Cingoli una lastra in pietra arenaria, graffita da mano sensibile, con figura femminile abbigliata alla bizantina, raffigura la Vergine annunciata (Avarucci, Salvi, 1986). Rilievo di alta suggestione è quello ora murato nella fiancata della chiesa dei Ss. Biagio e Flaviano a Monterubbiano (Prov. Ascoli Piceno), rappresentante la croce-albero della vita ergentesi vittoriosa tra draghi roditori e mostri anguiformi simboleggianti forze negative cosmiche. È reperto notevole, ma anche questo di difficile datazione, la lunetta ora murata nel presbiterio del duomo di Tolentino raffigurante Cristo benedicente tra gli arcangeli Gabriele e Michele e i principi della Chiesa Pietro e Paolo. Nel Mus. Pinacoteca Civ. di Camerino è conservato un singolare bassorilievo che ritrae S. Michele Arcangelo attorniato dai simboli degli evangelisti e in atto di trafiggere il drago. La composizione spaziata, la sinuosità delle vesti, i tituli in scrittura carolina indicano la presenza di artefici di non grezza cultura. La datazione proposta è il sec. 10° o gli inizi dell'11° (Bittarelli, 1986). Il reperto più interessante, sotto il profilo iconografico e stilistico, è costituito tuttavia da due vasti frammenti - lacerti di recinzione presbiteriale - scoperti nell'abbazia benedettina di S. Lorenzo ad tres rivos presso Montemonaco (prov. Ascoli Piceno).La lunetta del portale dei Ss. Vincenzo e Anastasio di Ascoli Piceno, raffigurante la rigida e frontale Vergine con il Bambino tra i santi titolari, datata da un'iscrizione al 1036 e incastonata nella facciata più recente, offre un termine sicuro per precisare il grado di evoluzione della scultura regionale del sec. 11° (Massa, 1993a), mentre la lunetta proveniente da Santa Croce al Chienti, raffigurante la rara immagine di Cristo in croce che si erge sul cavallo apocalittico, ora murata nella torre gerosolimitana di Sant'Elpidio a Mare (prov. Ascoli Piceno), s'inserisce culturalmente nelle correnti dei lapicidi comaschi e pavesi che intorno al Mille iniziarono a dilagare per la penisola. Alla stessa epoca si fanno risalire i frammenti di suppellettile liturgica in stucco dell'abbazia di S. Michele Arcangelo di Lamoli (prov. Pesaro), dall'ornato di suggestione ancora altomedievale, e inoltre cospicui lacerti delle decorazioni di molte antiche sedi benedettine. Tra gli esemplari più suggestivi si annoverano i cherubini a rilievo piatto e graffito provenienti da S. Vincenzo al Furlo (Urbino, Mus. Lapidario; Il Museo Archeologico di Urbino, 1986) e il capitello corinzio romano rilavorato con massicce protomi umane di S. Tommaso in Foglia. Nei primi decenni del Mille si devono pure collocare il ricco decoro scultoreo della cripta di S. Maria di Rambona, quello altrettanto antichizzante della cripta di S. Maria di Val Fucina, alle pendici meridionali del monte San Vicino (prov. Macerata), e i capitelli, geometrici e di tipo alveolato, di S. Nicolò di Osimo (Fei, 1981). Infine, degni di menzione i capitelli con suggestioni oltremontane e padane della sala capitolare dell'abbazia di S. Salvatore in Val di Castro, caposaldo delle fondazioni monastiche romualdine (Giorgi, 1992), e quelli del nucleo più antico della cripta di S. Maria in Insula presso Cessapalombo (Bittarelli, 1986).Addentrandosi nel sec. 11° il fenomeno della riscoperta del rilievo è testimoniato dalle lastre con figurazioni zoomorfe dell'abbazia di S. Lorenzo in Campo, della pieve di S. Vito sul Cesano presso Pergola, della parrocchiale di Bellocchi presso Fano e del Mus. Lapidario di Urbino; dai rilievi della cripta di S. Salvatore di Iscleto presso Fermignano (Cellini, 1993) e dalla cubica base d'altare proveniente dal duomo vecchio di Jesi (Mus. Civ.), decorata con i simboli degli evangelisti e datata da un'iscrizione al 1083 (Cherubini, 1977). Prevalente nei reperti ricordati risulta l'influsso delle correnti pavesi e comasche (Cellini, 1993).Risalgono al sec. 12° i complessi decorativi di cultura benedettina delle chiese abbaziali di S. Pietro al Conero (prov. Ancona), Santa Croce dei Conti di Sassoferrato (Giorgi, 1992) e S. Elena presso Serra San Quirico (Zampetti, 1940a; Pierucci, 1981), con capitelli a figurazioni fitomorfe e zoomorfe ispirate allo stile padano. Tra i più singolari, ancora, alcuni capitelli di S. Urbano ad Apiro, ispirati a scene di caccia e di tornei cantate dalle coeve epopee cavalleresche (Giorgi, 1992).Tra i marmi graffiti e a incrostazioni, oltre al capolavoro del maestro Leonardo in S. Ciriaco, sono da ricordare gli affini plutei del Mus. Diocesano d'Arte Sacra di Ancona, di committenza del vescovo Lamberto (1140 ca.), e le lastre con analoghe figurazioni zoomorfe reimpiegate nell'altare maggiore del duomo di Ascoli Piceno, riconducibili anch'esse alla seconda metà del 12° secolo.I telamoni del duomo di San Leo riecheggiano temi e stili di area culturale lombarda e borgognona. Due bassorilievi rappresentanti i segni dei Gemelli e dell'Acquario, ora nella cripta dello stesso duomo, databili alla fine del sec. 12°, dovevano far parte di un portale dello Zodiaco aprentesi forse sulla fiancata.È a Fano, però, che si affaccia nella storia artistica della regione il fascino di una specifica personalità: intorno al 1140, infatti, maestro Rainerius scolpisce l'ambone della ricostruita cattedrale rappresentando, su lastre marmoree di riuso, scene dell'Infanzia di Cristo con stile che unisce echi della tradizione nicoliana (Cochetti Pratesi, 1973) diffusi nella Padania - da dove le fonti affermano l'artista provenga - a suggestioni bizantine locali (Massa, 1993a). Recentemente l'ambone, ricomposto nel 1941, è stato oggetto di uno studio che lo individua, invece, come opera di artista o maestranza attiva nel cantiere abruzzese di San Clemente a Casauria (Fossi, 1984). La presenza di maestranze affluite dall'Abruzzo nelle M. è testimoniata, peraltro, dal decoro degli originali capitelli della cistercense chiesa abbaziale di Fiastra (Cadei, 1992).Ancora tangenze con l'ambiente figurativo padano, e sempre con il mondo figurativo di Niccolò, sono state proposte per alcune statue-colonna conservate nel Mus. Diocesano d'Arte Sacra di Ancona, raffiguranti S. Giovanni, Davide e S. Gabriele Arcangelo (Massa, 1993a). Ma la cultura plastica di Ancona, dal sec. 11° al 13°, si rivela sotto il pieno dominio della tradizione bizantina: le due Madonne con il Bambino del Mus. Diocesano d'Arte Sacra, dal fluido rilievo (Massa 1993a); la Vergine orante, frammento realizzato per mano di un esperto lapicida costantinopolitano del sec. 12° e reimpiegato nella facciata di S. Maria della Piazza (Farioli Campanati, 1982; Polverari, 1993); infine, soprattutto le splendide lastre a incrostazione della recinzione presbiteriale del duomo, eseguite da maestro Leonardo nel 1189 (Schneider, 1981), sono quanto di più eletto rimane della produzione di arte bizantina e di suggestione bizantina elaborata ad Ancona nel 12° secolo.Agli inizi del sec. 13° l'opera che meglio esprime l'alta originalità degli artefici attivi nell'ambiente artistico di Ancona (v.) è la facciata di S. Maria della Piazza. L'architrave del portale ne tramanda la data (1210) e il nome dell'artefice, maestro Filippo, il più attivo nella città e nel territorio nella prima metà del Duecento e identificato in antico come originario di Pavia (Posti, 1911). Accanto a maestro Filippo, tuttavia, un'altra iscrizione del portale menziona attivo nel medesimo cantiere anche maestro Leonardo (Polverari, 1993). Si è supposto quindi che il primo sia l'artefice che operò con gusto antiquario al rivestimento della facciata, mentre al secondo si debba piuttosto l'ornamentazione raffinata del portale (Massa, 1993a). Il Filippo anconitano, peraltro, sembra tutt'uno con quel Filippo che nel 1191 è ricordato come l'artefice della ricostruzione della cripta del duomo di Osimo, elaborata con sicuro gusto del riuso del frammento antico (Massa, 1993a).Il complesso gotico del duomo di Osimo si pone come uno dei più singolari delle Marche. Al sommo di una scala un portico introduce ai portali ogivali, di cui il maggiore, al centro, retto da leoni stilofori e con stipiti adorni da ghiere floreali, e quello di destra caratterizzato da un festone anguiforme che originalmente si arrotola in basso ai fianchi del portale in due grandi pittoresche volute. Il rosone della testata sinistra del transetto, circondato da protomi ferine aggettanti, ha riscontri puntuali nel Romanico pugliese. È da pensare, quindi, che le maestranze del composito cantiere siano prevalentemente di origine e di cultura meridionale.Se Filippo fu attivo ad Ancona con una sua bottega, anche Leonardo lasciò in città numerose tracce del suo magistero, tra cui la lunetta con il Redentore benedicente tra i ss. Pietro e Paolo proveniente dalla chiesa di S. Pietro (Ancona, Mus. Diocesano d'Arte Sacra; Massa, 1993a). Il suo stile ornato tendente alla bidimensionalità, inoltre, suggestionò palesemente quel maestro Nicola d'Ancona che nel 1253 firmò il sontuoso portale di S. Maria di Castelnuovo presso Recanati, la cui lunetta, raffigurante la Madonna in trono con il Bambino benedicente tra gli arcangeli Gabriele e Michele, presenta elementi aulici di tradizione bizantina armonicamente fusi con il nascente naturalismo gotico (Massa, 1993a). Alla scuola di Leonardo o, presumibilmente, a lui medesimo va ascritta anche la lunetta, dal profilo archiacuto, rappresentante il Creatore benedicente, murata nella cripta del duomo di Osimo (Massa, 1993a).Nel corso del Duecento, mentre il cantiere di Osimo raccoglieva intorno a sé maestranze di cultura prevalentemente meridionale, è sempre ad Ancona che ci si deve richiamare per gli interventi più originali. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 93) riferisce infatti che per il palazzo dei Governatori (od. palazzo degli Anziani) venisse chiamato nel 1270 Margarito. I reperti rimasti in loco e quelli conservati nel cortile della Pinacoteca Com. Francesco Podesti illustranti storie della Genesi sono tuttavia ritenuti opera di diversi artefici, la cui parentela con la coeva scuola di scultura aretina non è documentalmente comprovabile (Marchini, 1960; Massa, 1993a). Ancora nella Pinacoteca Com. Francesco Podesti, cinque teste fortemente caratterizzate, fungenti da peducci di volta e provenienti dallo stesso palazzo e dal palazzo del Senato, rivelano già la conoscenza dell'arte di Nicola Pisano o almeno connessioni con il mondo federiciano meridionale (Marchini, 1960).Oltre ai maestri Filippo e Leonardo, operoso nelle M. risulta Giorgio da Como, architetto e scultore attivo al duomo di Fermo tra il 1220 e il 1227 - di cui resta il mirabile portale antichizzante a girali abitati - e costruttore, intorno al 1235, del duomo di Jesi, fabbrica di cui rimangono solo i leoni stilofori pertinenti al portale. A Cingoli e nel territorio risulta operante con la sua bottega un maestro Jacobus che nel 1295 firmò il portale di S. Esuperanzio, caratterizzato dall'ornatismo elegante dei motivi vegetali ma dall'elementarità della figurazione della lunetta, di plastica palesemente ritardataria (Cherubini, 1986).Seguendo una consuetudine già manifestatasi nel secolo precedente, nella scultura monumentale del Trecento perdette consistenza il tema della decorazione dei capitelli e crebbe d'importanza quello del portale. Si possono menzionare l'ornato portale di S. Maria Assunta a Sarnano, realizzato intorno al 1280-1300 (Bittarelli, 1986), che presenta nella lunetta una Dormitio Virginis di stile piatto bizantineggiante, ma assai interessante dal punto di vista iconografico; il portale situato nella zona absidale di S. Maria della Rocca a Offida, eseguito nel 1330 da maestro Albertino; gli affini portali di S. Francesco a Montegiorgio (prov. Ascoli Piceno), di mano del maestro Gallo (1335), e di S. Francesco ad Apiro; quello della collegiata di Visso, in stretta colleganza con il portale di S. Francesco in San Ginesio (Bittarelli, 1986), e soprattutto il portale di S. Venanzio a Camerino (Venturi, 1916), presentante stringenti affinità con i portali della facciata orientale del palazzo dei Priori di Perugia. Notevoli nella lunetta sono il gruppo a tutto tondo della Madonna con il Bambino e il realismo dei tratti del superstite S. Porfirio, opere di mano di artista toscano della scuola di Arnolfo. Degno di attenzione, inoltre, il gruppo dei portali gotici pesaresi del tempo della signoria dei Malatesta: quello di S. Francesco (1356-1378) - in pietra rossa di Verona, con incastonata la lunetta più antica, già mostrante una sensibilità protorinascimentale per l'ampiezza del fascione e l'incorniciamento rettangolare - e quello di S. Domenico (1385), guarnito sui fianchi di statue entro tabernacoli e realizzato sotto l'influsso del Gotico veneziano (Fontebuoni, 1986).Ma soprattutto nel Trecento emerge la tematica laziale e toscana della tomba a carattere monumentale. Risale al 1310 il monumento funebre, derivato da modelli arnolfiani, che il cardinale Gentile Partino innalzò nella chiesa di S. Francesco di Montefiore dell'Aso (prov. Ascoli Piceno) per raccogliervi le spoglie dei genitori (Zampetti, 1993). Nell'antico duomo di Camerino aveva sede l'arca di S. Ansovino (attualmente nella cripta della fabbrica moderna), avvicinabile per l'articolata composizione ai monumenti funebri del senese Tino di Camaino (Zampetti, 1993). La tomba di Giovanni Visconti nel duomo di Fermo, allestita da Turi da Imola nel 1366, presenta invece la tipologia più semplice della cassa rettangolare scolpita con ieratiche figure e sostenuta da colonne. Chiudono la serie dei sepolcri trecenteschi marchigiani i sarcofagi, che presentano la fronte scolpita con rigide figure dei giacenti, del beato Meo (1383) e del beato Nicola da Sicilia (1390), entrambi conservati nella collegiata di Visso, i quali si distinguono alla fine del sec. 14° per una severa fedeltà alla tradizione iconografica sepolcrale romanica (Bittarelli, 1986).La suggestione della grande plastica trecentesca toscana è presente ancora in una Madonna con il Bambino in S. Maria Telusiano a Monte San Giusto (prov. Macerata) - piccolo marmo policromo di sensibile artefice prossimo ai modi francesizzanti di Nino Pisano - e nelle Madonne di Torricchio (Camerino, Mus. Diocesano) e di S. Maria delle Grazie a Monte Giberto (prov. Ascoli Piceno), ispirate con diversi esiti alle medesime matrici culturali (Zampetti, 1993). Da ricordare, inoltre, il S. Girolamo allo studio (1336), in una nicchia triloba della facciata del S. Girolamo di Cingoli (Massa, 1993a), rilievo naturalistico e prospettico che può degnamente essere posto in relazione con i modi di Andrea Pisano. Tra i lacerti di arte statuaria trecentesca degni di nota si annoverano ancora due frontoni di ciborio cuspidati - conservati nella cripta del duomo di Camerino, rappresentanti rispettivamente S. Paolo e Cristo benedicenti, riferibili stilisticamente ai secc. 13°-14° (Bittarelli, 1986) - e le grandi statue di S. Pietro e S. Paolo, peraltro di difficile datazione, collocate entro nicchia nella cripta del duomo di Fermo.Il capitolo della scultura lignea policroma delle M. si presenta denso d'interesse per la qualità dei manufatti e perché dall'analisi di questi risulta quel senso di identità culturale, di presenza operante di scuola autoctona che in altri settori della produzione artistica marchigiana ancora sfugge.Il crocifisso di Matelica (Mus. Diocesano), mediato forse dalla Lombardia, ma riallacciantesi a prototipi di arte del metallo di area germanica dei secc. 11°-12°, è capostipite, insieme a quello altrettanto severo del duomo di Camerino, della nutrita serie, stilisticamente ineguale, dei crocifissi romanici a occhi aperti marchigiani (Buccolini, 1983). Tra questi si ricordano: il rude crocifisso della collegiata di S. Martino di Esanatoglia, quelli coronati del santuario del Crocifisso di Numana, di S. Benedetto a Montemonaco e della chiesa degli Scalzi ad Ancona, nonché quello tunicato del S. Francesco di Amandola, riprendenti una tipologia diffusa dalla Catalogna (Pertusi Pucci, 1985-1986). Intorno alla metà del sec. 13° si collocano il Cristo con braccia semovibili nel duomo di San Severino Marche (Bittarelli, 1986) e gli affini di S. Catervo a Tolentino (Neri Lusanna, 1992) e di S. Esuperanzio a Cingoli (Cherubini, 1986), nonostante i richiami con la Deposizione di Tivoli, da riconoscersi come prodotti di eccellenti scuole locali.Tra il sec. 12° e il 13° si moltiplicarono anche le raffigurazioni della Madonna in trono con il Bambino: le Madonne con il volto atteggiato a un arcaico sorriso di Visso (Mus. Pinacoteca) e del monastero di S. Liberatore a Castelsantangelo sul Nera (prov. Macerata), di mano di artefici popolari ma di alto mestiere (Venanzangeli, 1984); l'ascetica Madonna di Camerino (Mus. Diocesano), collegata a quella di Recanati (Mus. Diocesano; Bittarelli, 1986); infine la pensosa Madonna bruna della collegiata di Visso.Ai primi del Trecento risale la Madonna della Natività del convento agostiniano di S. Nicola a Tolentino; la seconda metà del Trecento vide fiorire poi in Fabriano una scuola di intagliatori che presenta tangenze con il decorativismo figurale di Allegretto Nuzi (Donnini, 1993). Di queste connessioni è esempio di grande nobiltà e grazia di forme il gruppo composto da S. Giuseppe e i Magi (Fabriano, Pinacoteca Civ. e Mus. degli Arazzi) e dalla S. Anatolia di Camerino (Mus. Diocesano), attribuito a un Maestro dei Magi di Fabriano (Neri Lusanna, 1992). L'opera più singolare e avvincente di questa o altre botteghe fabrianesi, però, è il Calvario, dovuto all'iniziativa devota degli agostiniani fabrianesi, i beati Pietro e Giovanni Becchetti, al ritorno dal loro pellegrinaggio in Terra Santa, avvenuto nel 1393. Di questa grandiosa sacra rappresentazione lignea - disposta nell'oratorio al centro del chiostro del convento di S. Agostino, costruito a più livelli a imitazione del Santo Sepolcro - rimangono un crocifisso patiens dal volto straordinariamente sereno, una Mater dolorosa, un S. Giovanni in vesti abbrunate, le sagome giacenti di Cristo e della Vergine e una Pietà dalle linee spezzate che tradisce la matrice nordica del suo artefice (Donnini, 1993). Il panorama della scultura lignea medievale marchigiana si completa con lo splendido crocifisso, contorto negli spasimi dell'agonia, di Visso (Mus. Pinacoteca; Previtali, 1986; Neri Lusanna, 1992) e con i crocifissi dolorosi di S. Onofrio e dell'eremo di S. Silvestro in Fabriano.

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Pittura

La pittura altomedievale delle M. non è documentata che da esigui frammenti; più numerose sono le testimonianze protoromaniche, dal sec. 10° all'11°, da ricondurre all'imponente fenomeno del monachesimo benedettino, mentre nuovamente rarefatto diviene il panorama pittorico per il secolo successivo e per la prima metà del Duecento. Costante è comunque la disomogeneità della produzione figurativa, condizionata dalle diverse matrici culturali ricollegabili alla geografia fisica e storica della regione. Durante tutto il Medioevo la direttrice adriatica risultò elemento unificante tra regioni settentrionali e meridionali - dalle Venezie all'Abruzzo - e ciò spiega l'incidenza della cultura artistica bizantina, spesso con innesti linguistici puri provenienti sia d'Oltremare sia dall'alto Adriatico, mentre la barriera appenninica condizionò e limitò la penetrazione degli apporti delle regioni centrali, in primo luogo umbri e toscani, più evidenti a partire dalla metà del Duecento.Nella basilica paleocristiana sottostante la chiesa romanica di S. Maria della Piazza ad Ancona sono stati rinvenuti tre strati pittorici sovrapposti, di cui il più antico con ogni probabilità contestuale al pavimento musivo del sec. 6°; i primi due strati presentano il motivo a finti drappi (velaria), campiti, nel secondo strato (secc. 7°-8°), con grandi motivi cuoriformi ed elementi floreali eseguiti tramite pennellate fluide e colori brillanti. Relativamente al terzo strato, l'affresco staccato - di cui è perduta la metà superiore - con otto personaggi e il committente, concluso in basso da una fascia ornamentale a motivi zoomorfi, le ipotesi di datazione variano tra l'età carolingia e quella ottoniana (Serra, 1929, pp. 27-31; Canti Polichetti, 1981, p. 44; Zampetti, 1988; Romano, 1994, p. 197). L'andamento ritmico degli ampi volumi delle vesti è affidato a una minuziosa tessitura grafica che si caratterizza per le linee spezzate e per la fitta trama di lumeggiature; il riferimento alla cultura bizantina, già avanzato da Serra (1929, p. 27), inserisce le pitture di S. Maria della Piazza in un contesto che senza soluzione di continuità, dall'età paleocristiana a quella romanica, collega Ancona all'Oriente.Nella cripta del primo insediamento benedettino dell'abbazia dei Ss. Rufino e Vitale, presso Amandola, si trova un ciclo genericamente riferito ai secc. 11°-12° (Ferranti 1890; Toesca, 1927, p. 951, n. 11; Zampetti, 1988, p. 58; Romano, 1994, p. 202); poiché l'ambiente ipogeico venne abbandonato e occluso dalla cripta della nuova chiesa, databile non oltre la metà del sec. 11°, gli affreschi trovano in tale ipotesi cronologica un termine ante quem per la loro esecuzione. Due schiere di apostoli occupano il braccio centrale del vano, convergendo verso la monofora sovrastata dalla mano divina, mentre sulle restanti pareti si svolgono teorie di santi - tra i quali S. Michele Arcangelo che trafigge il drago - poggianti su un ordito ornamentale a motivi geometrici rossi e neri che si ritrova quasi identico nella cripta di Epifanio a San Vincenzo al Volturno (prov. Isernia). Nonostante la ripresa di temi iconografici e sigle decorative, gli affreschi di Amandola si distaccano dalla pittura di età carolingia diffusa nelle regioni meridionali della penisola: il dato formale prevalente risulta un originale tratto incisivo della pennellata nera che sigla i panneggi, dalle pieghe tubolari o spezzate ad angolo acuto, e che disegna in maniera sommaria e semplificata le fisionomie, così come le grandi mani, rivelandosi un raro esempio di pittura locale, prettamente occidentale, prodotta nell'area d'influenza del monastero di Farfa tra 10° e 11° secolo.Il c.d. sacello di S. Catervo, sito tra il presbiterio e il campanile dell'omonima chiesa di Tolentino, era pertinente al preesistente insediamento benedettino - forse un cenobio femminile - di fondazione altomedievale (Semmoloni, 1988, p. 62). Uno dei tre nicchioni del vano conserva una decorazione pittorica frammentaria con una teoria di Vergini sagge inquadrate da finte colonnine dipinte, datata tra i secc. 9° e 10° da Nestori (1992, p. 610) e all'età romanica da Romano (1994, p. 201), che ne ha evidenziato le tangenze formali e iconografiche con la produzione figurativa dell'Europa sudoccidentale, in particolare catalana, tra l'11° e il 12° secolo. Si tratta di una pittura di spiccata sensibilità ornamentale, svolta sulla superficie di immagini bidimensionali campite da colori puri e brillanti, che, se da una parte esclude l'ipotesi carolingia, dall'altra, considerate anche la rigidezza e la schematicità nella resa della figura umana, non sembra superare l'11° secolo.Di tarda età ottoniana (sec. 11°) e organicamente inseriti nell'ambito culturale altoadriatico sono gli affreschi della cripta benedettina dell'antica abbaziale pesarese dei Ss. Decenzio e Germano. L'impaginazione ornamentale del vano, ancora visibile in situ, consiste in una decorazione a orbicoli annodati con elementi geometrici e floreali nelle volte, clipei con busti di santi e un fregio nastriforme a meandri intervallato da tabellae con il pesce, mentre un frammento oggi staccato (Pesaro, Mus. Civ.) raffigura i Ss. Germano, Decenzio e Terenzio. Se si escludono le ipotesi di datazione di Rizzardi (1979) al sec. 7° e di Zampetti (1988, p. 37) al 10°, la critica si è orientata nell'attribuire le pitture al sec. 11° (Van Marle, 1925, p. 511; Toesca, 1927, p. 591, n. 11; Farioli Campanati, 1982-1983, p. 138, n. 23). La perduta immagine dell'imperatore Costantino - nota da disegni del sec. 18° (Russo, 1989) - nella teoria dei santi locali ha determinato una lettura politico-ideologica del ciclo con relativa datazione tra la fine del sec. 11° e gli inizi del 12° (Russo, 1989), confermata su base stilistica da Romano (1994, p. 199).Nel sottotetto della chiesa di S. Angelo Magno ad Ascoli Piceno si trovano resti della decorazione pittorica dell'arco trionfale dell'antica abbaziale, ascrivibili a una fase architettonica collocabile non oltre il 13° secolo. Le figure di profeti, costruite nelle tre dimensioni da una pennellata fluida e vigorosa, sono inserite entro una finta architettura dipinta ad arcate su colonne, delimitata in alto da un fascione a intrecci ondulati policromi. Nonostante la monumentalità delle figure, di ascendenza umbro-romana, il lessico ornamentale ancora pienamente romanico contiene la datazione delle pitture entro il sec. 12° (Romano, 1994, pp. 202-203).Il Piceno, lembo meridionale delle M., se da una parte venne influenzato dalle esperienze pittoriche dell'entroterra appenninico, dall'altra rappresentò l'estrema tappa della risalita lungo la costa adriatica della pittura bizantina diffusa nelle regioni meridionali della penisola, sino all'Abruzzo. Ciò non esclude la presenza di una pittura di matrice tardocomnena che presuppone contatti con le coste balcaniche. Il caso più rilevante è quello degli affreschi absidali della chiesa di S. Giorgio a San Giorgio all'Isola, presso Montemonaco, raffiguranti nella calotta la Déesis, cui si sottopone la teoria degli apostoli, mentre sull'arco absidale si scorgono resti frammentari dei simboli degli evangelisti (toro e leone alati e rampanti) e il volto dell'angelo annunciante. La resa plastica dei volti delicatamente chiaroscurati, così come dei corpi rivestiti da panneggi voluminosi, si coniuga a una gamma coloristica che alterna i toni caldi delle terre a colori freddi e brillanti che esulano dalla tradizione artistica locale lasciando aperta l'ipotesi dell'intervento di un pittore di formazione orientale, operante forse nei primi decenni del Duecento.Una tipica traduzione in pittura del bizantinismo diffuso nei cantieri musivi tardocomneni tra il sec. 12° e il 13° è rappresentata dal frammento rinvenuto su un pilastro della primitiva chiesa benedettina di S. Maria del Piano, presso Jesi: una testa - forse un angelo - caratterizzata dall'ovale pieno del volto con i due tipici pomelli rossi, naso camuso e occhi sgranati dalle grandi pupille nere. Di tutt'altra matrice culturale, ma con ogni probabilità contemporaneo o di poco successivo (primo quarto del sec. 13°), è il frescante dal tratto grafico raffinato che traduce la diffusa lingua bizantineggiante in una maniera declinante verso modi umbro-spoletini nel pannello isolato con una Madonna in trono con il Bambino tra s. Giovanni Evangelista e un arcangelo su un pilastro della chiesa di S. Maria inter vineas ad Ascoli Piceno.La dipendenza dalla cultura figurativa spoletina, e più genericamente umbro-toscana, è particolarmente evidente nella produzione su tavola. All'attardarsi, nel terzo quarto del sec. 13°, del tipo romanico del crocifisso con il Cristo invictus (per es. convento della Beata Mattia Nazzarei a Matelica; chiesa di S. Clemente a Serrapetrona; Vitalini Sacconi, 1971, pp. 38-43) segue la naturale adozione del Cristo patiens, come nella croce del monastero di S. Chiara, già in S. Francesco delle Fratte, a Montalto delle Marche (prov. Ascoli Piceno; Vitalini Sacconi, 1971, pp. 36-38), o in quella firmata da Rainaldo di Ranuccio de Spoleto (Fabriano, Pinacoteca Civ. e Mus. degli Arazzi; Molajoli, 1936), sino al capolavoro del Maestro di Borgo (Camerino, Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata; Vitalini Sacconi, 1971, pp. 44-46), il quale fu attivo tra le M. e l'Emilia negli ultimi decenni del Duecento, inserendosi in quel filone che, dal Maestro di S. Francesco attraverso il Maestro Espressionista di S. Chiara e quello dei Crocifissi blu, sviluppa sino ai limiti estremi dei canoni estetici già gotici di fine secolo le potenzialità espressionistiche e plastico-ornamentali della croce dipinta di matrice giuntesca.Le tavole con la Madonna e il Bambino sono tutte assimilabili a un gruppo stilisticamente unitario che si concentra tra il versante orientale di Umbria e Lazio e quello occidentale di M. e Abruzzo: tra gli esemplari di tono più arcaico, con le figure impostate frontalmente, come in quella di Visso (Mus. Pinacoteca; già nella parrocchiale di Mevale; Restauri nelle Marche, 1973, p. 40) o nella piccola tavola inserita entro un tabernacolo della chiesa di S. Giusto a San Maroto (Garrison, 1949b; Vitalini Sacconi, 1971, pp. 33-34), spicca la Madonna di S. Maria in Via a Camerino (Restauri nelle Marche, 1973, pp. 32-35), con l'Annunciazione nella predella, opera chiave per il passaggio, tra ottavo e nono decennio del sec. 13°, dal tipo bizantineggiante della Madonna Regina Odighítria, a quello definitivamente adottato nella pittura gotica occidentale dell'Eleúsa, testimoniato nelle M. dalla tavola firmata da Bonaventura di Michele nel S. Francesco a Mercatello sul Metauro (prov. Pesaro) e da quella, più tarda, del convento della Beata Mattia Nazzarei di Matelica (Vitalini Sacconi, 1971, pp. 47-49).Per quanto riguarda la pittura murale, si assiste nel corso del sec. 13° allo svilupparsi di fenomeni ricollegabili alla committenza mendicante o a quella laica, sia pubblica sia privata, entrambe strettamente connesse alla civiltà urbana di età gotica. Un caso isolato di pittura 'politica' è fornito dagli affreschi che rivestono l'arcone del palazzo del Podestà di Fabriano, del 1255 (Molajoli, 1936), con una scena di battaglia - da ricollegare verosimilmente a un evento storico contemporaneo - conclusa da una raffigurazione della ruota della Fortuna: il tema didattico-allegorico e il linguaggio formale rimandano alla cultura figurativa d'età tardosveva. La volta è rivestita da una decorazione aniconica a dischi e stelle che si ritrova simile nella sala capitolare del monastero di Santa Croce a Fonte Avellana, della seconda metà del 13° secolo.I cicli frammentari del convento di S. Agostino a Fabriano e della chiesa di S. Francesco a Sassoferrato vanno ricondotti alla tradizione pittorica centroitaliana pregiottesca di committenza mendicante. Gli affreschi di Fabriano (Pinacoteca Civ. e Mus. degli Arazzi) con S. Antonio Abate, la Crocifissione e la Consegna della regola, eseguiti con ogni probabilità da un maestro locale tra l'ottavo e il nono decennio del Duecento, si collegano direttamente alla coeva pittura umbra (Maestro di Montelabate; Neri Lusanna, 1986, p. 414), così come quelli del coro della chiesa di Sassoferrato, dei quali si scorgono ancora la fitta trama di ornati geometrici e fitomorfi e un clipeo con il busto di Cristo sorretto da angeli, che sono assimilabili agli affreschi della chiesa di S. Francesco di Gubbio, sino a rendere ipotizzabile un'identità di bottega.La chiesa di S. Vittore ad Ascoli Piceno conserva sul fianco destro resti di affreschi con il Redentore benedicente tra santi entro arcate (secondo quarto del sec. 13°), mentre le pareti interne sono rivestite da una serie di pannelli (in parte in deposito presso il Mus. Diocesano), che costituiscono un campionario della pittura votiva locale, con la frequente presenza del committente, come nel bel pannello con la Crocifissione, databile alla seconda metà del Duecento. Su uno strato pittorico precedente, che non sembra superare di molto la metà del secolo, emergono le tracce di un ciclo cristologico, piuttosto disarticolato e opera di diverse mani, incentrato sugli episodi della Passione, tra i quali spiccano i precoci esempi del Cristo deriso e del Cristo spogliato della tunica purpurea prima di salire sulla croce. La stessa presenza dell'insolita iconografia della Madonna che conduce per mano Gesù con l'abbecedario, iconografia assai rara in Occidente, presente anche nella cripta della Candelora a Massafra (prov. Taranto), conduce a un ambito culturale che, attraverso le rotte adriatiche del pellegrinaggio, raccoglieva tradizioni devozionali direttamente importate dalla Terra Santa. L'accentuato grafismo accomuna le pitture murali del S. Vittore a un gruppo stilisticamente omogeneo che interessa il Piceno e la Massa Fermana e nel quale rientrano a pieno titolo il frammento di un affresco staccato con la Crocifissione, databile all'ultimo quarto del Duecento e proveniente dalla chiesa dei Minori riformati di Massa Fermana (Aliberti Gaudioso, 1969), e gli affreschi della c.d. cripta di S. Ugo a Montegranaro, datati da un'iscrizione al 1298 (Dania, 1967, p. 50), dove alle immagini di santi di devozione benedettina (Paolo, Benedetto, Scolastica) si aggiungono il Martirio di s. Barbara ed episodi neotestamentari improntati a una semplice e piana narratività che trova confronti dall'Umbria all'Abruzzo tra la fine del 13° e il primo decennio del 14° secolo.Appartiene a una temperie culturale e linguistica differente la decorazione dell'aula di culto adiacente la chiesa di San Lorenzo al Lago presso Fiastra, saldamente ancorata al 1275 da un'iscrizione mutila. Gli affreschi, caratterizzati da una gamma cromatica limitata alle terre ocra e rossa e scanditi da cornici a tralci fitomorfi, si svolgono su tre registri: in alto una finta cortina dipinta, al centro scene della Passione - di cui si vedono ancora il Cristo crocifisso e il Compianto sul Cristo morto -, parte del Giudizio universale e in basso un fregio con animali affrontati, mentre è forse un simbolo araldico il cane corrente su un disco ornato a motivi geometrici e con un nodo all'estremità. Evidenti sono i debiti nei confronti della pittura gotica d'Oltralpe in alcuni particolari fisionomici, così come nella Madonna coronata dipinta nell'intradosso dell'arcone centrale. Un'altro ciclo dedicato alla Vita e Passione di Cristo si trova nella chiesa di S. Maria del Caggio a Cicconi (Fiastra), ma di datazione più avanzata, come dimostra la cornice a mensole cubiche in prospettiva.Nel primi decenni del Trecento la zona settentrionale delle M., coincidente con il Montefeltro e la Massa Trabaria, partecipa direttamente della felice stagione del giottismo aperta dalla presenza del maestro a Rimini, di cui la croce del Tempio Malatestiano (v. Giotto) funse da prototipo per un'intera generazione di pittori al servizio degli Ordini mendicanti (Leonardi, 1988; Boskovits, 1992). Tra gli esemplari più significativi si ricordano le croci eseguite da Giovanni da Rimini (v.) per la chiesa di S. Lorenzo a Talamello (1300 ca.; Marchi, 1995) e per la chiesa di S. Francesco a Mercatello sul Metauro (1309) e quella destinata alla chiesa dei Frati Minori di Sassoferrato (1310-1320; Marchi, 1995), attribuita anche a Giuliano da Rimini (v.); a quest'ultimo sono da riferire i contemporanei affreschi della chiesa francescana di Fermo e quelli del S. Marco a Jesi, attribuiti alternativamente anche a Giovanni. È autografa di Pietro da Rimini, personalità-guida della decorazione del Cappellone di S. Nicola a Tolentino (Boskovits, 1969; Benati, 1992; Bellosi, 1994), la croce della chiesa dei Morti di Urbania (ora nella cattedrale), dov'era giunto nel 1307 il dossale con la Madonna con il Bambino di Giuliano da Rimini oggi a Boston (Isabella Stewart Garden Mus.). Di discussa attribuzione (Marchi, 1995, pp. 113-114) sono le croci di Sassocorvaro (Rocca Ubaldinesca) e di Pietracuta (chiesa di S. Domenico al Monte; Marchi, 1984), così come gli affreschi della pieve di Cavallino (prov. Urbino), attribuiti a Pietro da Rimini (Boskovits, 1993, p. 176); esulano invece dal contesto più strettamente riminese le croci nel duomo e nella chiesa di S. Francesco a Pergola, quest'ultima attribuita a Mello da Gubbio (Todini, 1989, p. 221). L'ultimo artista riminese a lasciare sue opere nelle M. fu Giovanni Baronzio (v.), con il polittico di Macerata Feltria datato 1345 (Urbino, Gall. Naz. delle Marche).La produzione pittorica marchigiana della prima metà del Trecento attinse anche ad altre fonti della pittura giottesca - assisiate e padovana - per rivolgersi, soprattutto a partire dal secondo quarto del secolo, verso la produzione umbro-toscana dei Lorenzetti, se pure mediata da personaggi 'di confine' come Mello da Gubbio (Neri Lusanna, 1986, p. 418); questi trovò il suo più diretto seguace nel Maestro di Monte Martello, autore degli affreschi in S. Maria delle Stelle e, nella vicina Cagli, della Crocifissione e Deposizione nella chiesa della Misericordia (Donnini, 1974) e di altri affreschi nelle chiese di S. Francesco e di S. Giovanni Battista (Marchi, 1995, p. 121). Anche l'aretino Maestro del Vescovado, autore del trittico nella chiesa di S. Maria dei Servi a Sant'Angelo in Vado (Boskovits, 1993, p. 180, n. 72), si inserisce sulla falsa-riga della raffinata cultura filosenese già introdotta nelle M., per altre vie, dal catalano Maestro dell'Incoronazione di Bellpuig (v.), ovvero Antonius magister, cui sono stati attributi, in stretta correlazione con opere di Ferrer Bassa (v.), fra gli altri, gli affreschi staccati dal coro del S. Domenico di Urbino (Gall. Naz. delle Marche, depositi; Bologna, 1961, p. 38; Boskovits, 1969) e la croce dipinta del convento del Beato Sante, presso Mombaroccio (prov. Pesaro).Un esempio precoce di sincretismo tra il giottismo assisiate e il nuovo lessico riminese divulgato nelle grandi imprese decorative commissionate dagli Ordini mendicanti, prima fra tutte quella degli Eremitani di Tolentino, è fornito dagli affreschi, riferibili gli anni venti-trenta del Trecento (Marchi, 1995, p. 120), con storie cristologiche ed episodi della biografia di s. Francesco, nella cappella alla base del campanile della chiesa dei Minori a San Ginesio; lungo l'asse Assisi-Rimini si collocano anche i frammenti del ciclo francescano della chiesa di S. Francesco di Matelica (Rossi, 1967).La c.d. scuola fabrianese, che ebbe il suo hapax nella figura eccentrica del Maestro di Campodonico (v.) per raggiungere la massima diffusione nella seconda metà del Trecento con la pittura di marca toscana di Allegretto Nuzi (v.) e Francescuccio Ghissi (v.), si aprì alla cultura figurativa giottesca, pur sempre mediata da suggestioni riminesi, con il Maestro di S. Emiliano, attivo dal secondo decennio del secolo. La sua mano, oltre che nell'affresco proveniente dall'omonima badia (Fabriano, Pinacoteca Civ. e Mus. degli Arazzi), raffigurante la Madonna che allatta il Bambino e santi entro un'evoluta struttura architettonica in prospettiva, è stata riconosciuta nelle Storie della Vergine in S. Marco a Jesi (Marchi, 1995, pp. 114-116) e negli affreschi delle cappelle laterali al coro della chiesa di S. Agostino a Fabriano (Molajoli, 1934). Questi ultimi sono stati attribuiti al Maestro dell'Incoronazione di Urbino (Boskovits, 1993, pp. 72-73), il quale condivide con il Maestro di S. Emiliano, sino alla possibile identificazione, la rilettura in chiave volumetrico-spaziale della pittura riminese di prima generazione (Zeri, 1950). Oltre al polittico eponimo con l'Incoronazione della Vergine, al quale va aggiunta la cimasa con Crocifissione, del 1340 ca. (Urbino, Gall. Naz. delle Marche), rientrano nel catalogo del pittore urbinate gli affreschi staccati e smembrati dalla chiesa dei Domenicani a Fabriano: la Crocifissione (Boston, Mus. of Fine Arts), la Natività di S. Giovanni Battista (Roma, Gall. Naz. d'Arte Antica, Palazzo Barberini) e l'Annuncio a Zaccaria (Rochester, NY, Memorial Art Gall. of the Univ. of Rochester); inoltre una croce dipinta (Urbino, Gall. Naz. delle Marche), una lunetta affrescata nel S. Domenico a Fano e, nella stessa città, dubitativamente, la Crocifissione della chiesa di S. Maria del Suffragio (Marchi, 1995, pp. 116-117). In tale ambito, direttamente influenzato da Giuliano da Rimini (Zeri, 1958, p. 50; Tambini, 1988), s'inserisce anche l'affresco con la Madonna e il Bambino in trono nell'oratorio del Carmine a Urbania.Un altro caso discusso di identificazione coinvolge il Maestro del Polittico di Ascoli Piceno (o Maestro di Camerino; Volpe, 1965, p. 52), autore della tavola proveniente dal S. Domenico di Ascoli Piceno (Pinacoteca Civ.), e il pittore delle lunette con il Compianto sul Cristo morto e la Madonna in trono con vescovo committente in S. Francesco a Camerino, centro di ricezione e diffusione di una pittura devozionale prettamente locale, influenzata soprattutto dalla coeva produzione umbra. Da tale substrato, ma con un'attenzione particolare alle opere assisiati di Pietro Lorenzetti, semplificate in chiave grafica e come 'smaterializzate' dall'uso di toni pastello, emerge la figura dell'anonimo maestro che eseguì, tra il terzo e il quarto decennio del secolo (Rossi, 1967, p. 70), gli affreschi della chiesa di S. Maria di Colle Altino (Crocifissione, Flagellazione, S. Francesco che riceve le stimmate, Madonna in trono con il Bambino e santi) ora nel Mus. Diocesano di Camerino.Superata la metà del sec. 14° l'asse della variegata cultura pittorica marchigiana si spostò verso le regioni nordorientali della penisola, dalle quali giunsero opere e artisti come Andrea da Bologna (v.). Influenzato dalla pittura bolognese fu il marchigiano Maestro di Offida (v.), mentre Carlo da Camerino (v.), che della precedente fioritura tosco-riminese fornì una raffinata interpretazione in chiave patetica e manierata, aprì la strada a pittori già tardogotici quali Giovanni di Corraduccio, attivo tra la fine del sec. 14° e la prima metà del 15°, interessato a soggetti di più ampia orchestrazione compositiva, come si può osservare nella Crocifissione del convento di S. Chiara a Camerino (Scarpellini, 1976; Boskovits, 1977, pp. 40-41).

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Arti suntuarie

L'epoca paleocristiana è rappresentata nelle M., oltre che da un'interessante serie di mosaici, anche dai numerosi sarcofagi e dalle raccolte dei musei lapidari, dagli splendenti vetri policromi a figura d'oro del Mus. Archeologico Oliveriano di Pesaro e dalla pisside del Mus. Civ. di Pesaro (Faedo, 1985; Rizzardi, 1985; Melucco Vaccaro, 1993).Ritrovamenti e indagini anche recenti hanno confermato l'importanza che assunse nelle M. la presenza di Goti, Bizantini e Longobardi. Il riesame critico della necropoli di Castel Trosino, con le sue duecentosessantanove tombe - tra cui emerge, per la completezza del suo corredo, la tomba di guerriero longobardo nr. 144 -, ha consentito di pervenire a risultati di grande interesse per l'arricchimento delle conoscenze nel campo dell'oreficeria e del costume longobardo (Profumo, 1995).Nell'ambito degli avori altomedievali emerge il dittico commissionato da Olderico abate di Rambona all'atto di fondazione dell'abbazia alla fine del sec. 9° (Roma, BAV, Mus. Sacro), il quale, a significativa testimonianza della continuità tra evo pagano ed evo cristiano, mostra l'emblema della lupa capitolina sormontata dal crocifisso (Morey, 1936; Bovini, Cottolenghi, 1956). Vi sono state individuate anche ascendenze decorative musulmane (Morey, 1936) e affinità con più tardi avori campani e cassinesi del sec. 11° (Bergmann, 1974; Gaborit-Chopin, 1978).Nel Mus. Civ. di Pesaro due rilievi eburnei del sec. 12°, con la Cacciata dei progenitori e l'Uccisione di Abele, manifestano palesi influssi bizantini, similmente a due tavolette, già coperture di evangeliario (Morey, 1936).L'arte islamica della lavorazione dell'avorio è rappresentata nelle M. da un pezzo di eccezione: il cofanetto eburneo, arricchito di ori e di smalti, del Mus. Civ. e Pinacoteca Com. di San Severino Marche, proveniente dal tesoro dell'abbazia di S. Lorenzo in Doliolo. L'opera, con figurazioni antropomorfe, zoomorfe e fitomorfe di sottile significato, è databile al sec. 14° e si configura quale mirabile prodotto di officina arabo-sicula, non senza echi e riflessi di cultura persiana (Kühnel, 1971; Moretti, Zampetti, 1992). Il panorama degli avori della regione si completa con frammenti più tardi e meno conosciuti: uno sportello con la Natività, del sec. 13°, un dittico e una valva di dittico di manifattura francese tardogotica (Pesaro, Mus. Civ.), un dittico, sempre di bottega francese, del sec. 14° (Sassoferrato, Mus. Civ.), e un dittico-reliquiario di osso policromo databile alla seconda metà del Duecento (Recanati, Mus. Diocesano; Serra, 1929; Varinelli, 1979).La lamina d'argento sbalzata con la figura di s. Leopardo della cattedrale di Osimo (Mus. Sacro Diocesano), riconducibile al tempo del vescovo Vitaliano (sec. 8°), già coperta di codice, apre la serie degli oggetti di arte del metallo e orafa costituenti il ricco patrimonio della regione. Seguono l'urnareliquiario con scene del Martirio di s. Venanzio, incise su lamina d'argento (secc. 11°-12°), nella collegiata di S. Venanzio a Camerino: opera di grande suggestione per l'accostamento del crudo verismo essenziale delle figurazioni - rapportabili a codici della scuola medica salernitana (sec. 9°-10°) - con l'eleganza delle fasce rotatae incornicianti uno smagliante bestiario di fattura islamica (Bittarelli, 1986); inoltre la stauroteca nel monastero di Fonte Avellana, opera di oreficeria costantinopolitana, risalente ai secc. 11°-12° (Ross, 1964). Il Mus. del Duomo Albani di Urbino conserva un cimelio di valore storico e artistico: il leggio in bronzo con figura d'aquila ad ali spiegate, di arte inglese del sec. 12°, appartenuto a Federico da Montefeltro (Negroni, Cuoco, 1984).Alla copiosa serie delle croci in metallo del sec. 12°-13° (per es. quelle di Arquata del Tronto, Castel Trosino, Roccafluvione, Aschio, Meschia) analizzate da Serra (1929) - tra cui merita particolare menzione il crocifisso in seno all'Eterno, appartenente alla confraternita di Avenale, presso Cingoli, e ora nel S. Esuperanzio - è da aggiungere la perduta croce astile della parrocchiale di Castelletta, presso Fabriano, con estremità a coda di rondine e figure rilevate a mezzo tondo, opera di arte tedesca del sec. 12° o degli inizi 13° (de Francovich, 1935). All'arte orafa del Duecento limosino è da riferirsi, invece, un raffinato gruppo statuario in rame dorato rappresentante, entro un'edicoletta sormontata da croce, una Vergine con il Bambino in trono, forse l'opera medievale più importante del tesoro della basilica di Loreto (Palazzo Apostolico, Mus. Pinacoteca). Altre opere interessanti sono la figura di un angelo, di fine fattura duecentesca francese, entro il prezioso reliquiario della Santa Spina - opera dell'orafo abruzzese Nicola da Campli, del sec. 15° - in S. Pietro Martire ad Ascoli Piceno, donato ai Domenicani di Ascoli dal confessore di Filippo il Bello (Serra, 1929), e un rocco smaltato con S. Michele che trafigge il drago, anch'essa opera limosina del Duecento, nella collegiata di Cupra Marittima (prov. Ascoli Piceno).Nell'oreficeria del Trecento emerge il paliotto sbalzato in lamina d'argento del duomo di Ascoli Piceno, raffigurante in ventisette formelle le storie della Vita e della Passione di Cristo. L'opera è da ricondursi ad artista abruzzese educato a modi toscani (Serra, 1929), ma è stata riferita anche a Vanno Vanni, esponente di una nota famiglia di orafi ascolani e padre del più famoso Pietro. Nel Mus. Civ. e Pinacoteca Com. di San Severino Marche è il reliquiario in bronzo dorato, datato 1366, con figure di santi e decorazioni floreali a sbalzo e nielli di Gherardo di Jacopo Cavazza, orafo bolognese residente a Camerino (Bittarelli, 1986). Il Mus. Civ. di Sassoferrato possiede una copiosa collezione di oreficerie tardogotiche: quattro teche di forma circolare d'argento dorato, di arte fiamminga della fine del sec. 14°, con raffinate figurazioni; una teca rettangolare, purtroppo manomessa, riconducibile al medesimo ambito di cultura, seppure qualitativamente più alta; cofanetti-reliquiari, tra cui un reliquiario di argento e cristallo, anch'esso di fattura gotica oltremontana, e croci in argento dorato di arte orafa del Trecento fiammingo e renano. Completa il panorama dell'oreficeria gotica marchigiana - tributaria della abruzzese ma anche collegata alla cultura d'Oltralpe e toscana - la rimarchevole croce astile di S. Maria in Cellis a Montedinove (prov. Ascoli Piceno), di chiara manifattura tedesca del Trecento. Nel Mus. Diocesano di Recanati sono da ricordare tre preziose teche in vetro dorato e graffito attribuite alla scuola di Oderisi da Gubbio (Varinelli, 1979).Le M. posseggono importanti esemplari di arte tessile e del ricamo. Le spoglie di s. Ciriaco erano avvolte in un drappo di lino e seta di manifattura arabo-sicula, adorno di motivi geometrici e floreali entro medaglioni (Ancona, Mus. Diocesano d'Arte Sacra), datato alla fine del sec. 10°, momento della prima ricognizione della salma: ne fanno fede le monete di Ottone III rinvenute insieme. Esposta nel Mus. Diocesano di Fermo, la casula appartenuta a Tommaso Becket e donata nel 1218 alla Chiesa fermana è stata riconosciuta come manufatto ricamato in Almería nel 1117 (Rice, 1959; Menéndez Pidal, 1961). L'opera, ricamata in filo d'oro e presentante quaranta medaglioni con scene di caccia, dame e uccelli rari, è uno dei più antichi e preziosi tessuti ispano-moreschi conosciuti. Nella Pinacoteca Civ. di Ascoli Piceno il piviale donato da Niccolò IV alla città nel 1288 è esempio insigne di opus anglicanum. Di rilievo è il soggetto iconografico costituito da storie di alcuni papi, nella pienezza del proprio magistero e nel martirio; la loro identità è fornita dai tituli. Realizzato sotto il pontificato di Gregorio X, intorno al 1272-1276, il piviale è stato definito oggetto carismatico e manifesto dell'autorità papale (Gagliardi, Piccinini Fabi, 1990; Il piviale di Ascoli Piceno, 1990; Ciardi Dupré Dal Poggetto, 1991). Lavoro di manifattura francese, databile intorno alla metà del sec. 13°, è invece una borsa con pregevoli figurazioni in seta e oro proveniente da S. Lorenzo in Doliolo (San Severino Marche, Mus. Civ. e Pinacoteca Com.), che la tradizione vuole fosse appartenuta a Pietro da Morrone, poi papa Celestino V.

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