Marco Lombardo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Marco Lombardo

Pietro Mazzamuto

Personaggio del Purgatorio (XVI 25-145), posto nella cornice degl'iracondi e immaginato da D. senza alcun profilo fisico, perché avvolto dal fumo amaro e sozzo che fa soffrire quelle anime purganti. È M. Lombardo a intervenire per primo, non appena si accorge che vicino a lui qualcuno parla come se fosse vivo (vv. 25-27). D. sollecitato da Virgilio gli rivela la sua condizione e ne chiede il nome. Lo spirito risponde dichiarando di essere stato lombardo e di essersi chiamato M., nonché di aver avuto saggia e virtuosa conoscenza del mondo. Dopo di che il poeta gli chiede una risposta al problema della causa che determina la corruzione degli uomini. M., di rimando, confuta il fatalismo medievale, che, attribuendo tale causa alle influenze celesti, finisce col negare la libertà e la responsabilità dell'uomo; e spiega invece come nasca, vittoriosa sugl'impulsi naturali e sulle influenze celesti, tale libertà, che ha bisogno solo del condizionamento divino e delle autorità volute da Dio, affinché, nella scelta che le compete fra il bene e il male, possa essere opportunamente guidata. Guida che è venuta a mancare, da quando è sorta la confusione tra potere religioso e potere politico, i due poteri che dovrebbero operare distinti l'uno dall'altro, perché ognuno investito di un compito suo proprio e specifico. Ecco perché la virtù è spenta nel mondo, specialmente in Lombardia, dove pochi fanno pensare all'antica età ed ecco perché la Chiesa, la maggiore responsabile di questa confusione, cade nel fango (vv. 28-129). Il discorso viene approvato da D., che si allontana da M. dopo qualche altra battuta interlocutoria (vv. 130-145).

Il problema più grosso che pone il personaggio è indubbiamente quello della sua identificazione storica. La documentazione di cui disponiamo è varia e poco probante. Intanto un M. lombardo figura quale protagonista del XLVI racconto del Novellino, nel quale è definito " savissimo uom di corte " e insieme " povero " e disdegnoso di chiedere ad altri (il racconto consiste in una pungente risposta di M. a tal Paolino, " orrevole uomo e leggiadro ", che gli rimproverava la povertà). Sempre come " savio e valente uomo " viene presentato dal Villani (VII 121), che lo trova a Pisa presso la corte del conte Ugolino della Gherardesca, al quale, quando questi gli chiese che cosa pensasse dello splendore della sua corte, avrebbe risposto: " non vi falla altro che l'ira d'Iddio ". In altre parole, le due fonti letterarie ne danno una concorde qualificazione sociale (quella di cortigiano) e insieme sottolineano le sue doti morali e intellettuali, ma non forniscono alcuna esplicita o motivata indicazione della sua origine (tra l'altro il testo del Novellino lo registra come ‛ lombardo ' e quello del Villani come ‛ Lombardo '). Argomento, questo, affrontato dai primi commentatori, i quali, mentre confermano la sua appartenenza alla categoria degli uomini di corte e arricchiscono ulteriormente la sua aneddotica, forse perché convinti e sollecitati dal nome e probabilmente perché confortati da qualche notizia, lo fanno originario di Venezia. Così il Lana, che perciò considera ‛ Lombardo ' quale cognome: " Questo fo un Marco da Ca' Lombardo da Venesia, lo quale foe omo de Corte, e quasi tutto ço che guadagnava despensava in lemosene " (uguale informazione danno il Boccaccio, l'Ottimo - che aggiunge essere stato a Parigi - e le Chiose Anonime). Così pure l'Anonimo, al quale si deve un altro episodio attribuito a Marco. Benvenuto, invece, che conferma l'episodio del soggiorno presso Ugolino e lo dà pure come familiare di Rizzardo da Camino, pur non rinunziando del tutto all'idea dell'origine veneziana, è il primo ad avanzare l'ipotesi che ‛ Lombardo ' non sia cognome ma indicazione del luogo di nascita o della regione frequentata. L'incertezza si riflette nell'opinione del Serravalle (il quale conferma le notizie su Rizzardo da Camino) e nelle chiose, che nulla aggiungono alla questione, del Vellutello e del Venturi.

Si deve giungere alla critica dantesca tra fine '800 e '900, per avere alcune ricerche più puntuali e documentate. Soprattutto si fa sempre più convincente la necessità (già avvertita dal Lombardi, dal Tommaseo e dall'Andreoli, ma viziata dalla persistente tesi della venezianità) di rispettare il testo dantesco, nel quale la parola ‛ lombardo ' indica inequivocabilmente l'origine geografica del personaggio, e di far cadere definitivamente l'idea della genesi veneziana, che si era ulteriormente complicata di ipotesi meno verosimili, come quella del Portirelli e del Pochhammer, che avevano pensato a M. Polo (nessun veneziano aveva saputo del mondo quanto lui: ma forse che il grande viaggiatore non era ancora vivo agl'inizi del '300?). Ecco che, dopo aver verificato attraverso il Predelli (I libri commemoriali della Repubblica di Venezia, regesti I 1, 723; I 2, 179 e 310) che esisteva un M. Lombardo a Venezia, ma solo nel 1316, e, attraverso il Verci (Storia della Marca XVI 139) che ne riveva (in epoca ancora più recente) uno pure a Mestre, quale provveditore dei Veneziani, lo Zenatti, nel 1901, sostiene che Venezia si debba escludere dalla definizione dantesca di Lombardia, che secondo il poeta è senz'altro la regione compresa tra Adige e Po e tale comunque da comprendere la Marca veronese e trivigiana (ovviamente, Venezia va esclusa anche dalla definizione " per lo meno equivoca " di quest'ultima, in Pd IX 25-27) e propende decisamente per un M. nativo della Lombardia, cortigiano " di vivace ingegno e di varia cultura " presso signori lombardi e toscani, " un di que' savi e piacevoli famigliari... atti a dar consigli, a stringere parentadi, a trattar paci, leghe ed accordi, e a tempo e luogo a dare colpi di spada; ma anche, e adoperati più di solito, a tener di buon umore il principe cantandogli versi d'amore e narrandogli argute novelle ". Un M. da ambientare non nel primo Duecento, come aveva pensato il D'Ancona, cioè nella generazione che vide regnare valore e cortesia, prima che Federigo avesse briga (XVI 116-117), perché ciò lo farebbe " più vecchio dei tre vecchioni che esalta " e porrebbe in discussione il suo soggiorno pisano che il D'Ancona assegna agli anni fra 1282 e 1284 (e sarebbe stata l'età senile di M.) e che va invece riportato agli anni fra 1285 e 1287, al momento di maggiore potenza di Ugolino.

A questo punto, cade in sul nascere l'ipotesi avanzata prima dall'Orioli e poi dal Filippini che si tratti di un Marco da Saliceto di Bologna, maestro e notaio di Andrea re d'Ungheria (secondo il Filippini, viveva ancora nel 1305; fu in contatto con Corso Donati; nel 1294 poté essere a Firenze, in occasione della visita di Carlo Martello, quale ambasciatore ungherese, e vi poté conoscere D.; fu avversario di Azzo VIII d'Este; probabilmente conobbe Gherardo da Camino e fu uomo di larga dottrina). A confutarla provvidero prima lo Zaccagnini e poi il Maggini. Al primo dei quali si deve, più che altro, un'accurata e documentata conferma della tesi dello Zenatti, in ordine sia all'opportunità di considerare come ‛ Lombardia inferior ' la marca trivigiana, sia alla fiducia da accordare anche alla tradizione offerta dal Novellino e dal Villani, che consente una datazione pressocché rigorosa del soggiorno pisano (1285-1287): è così che, se va collocato negli ultimi decenni del sec. XIII, M. diventa la stessa persona citata da un documento del 5 gennaio 1267 dell'Archivio di Stato di Bologna, nel quale figura come testimonio (" dominus Marchus lombardus "), e prende una certa consistenza l'ipotesi che egli abbia frequentato lo Studio di Bologna e vi abbia conosciuto il poeta. Solo che vien fuori il Filippini a esibire un altro documento bolognese del 1270, nel quale figura nientemeno che un Lombardo de Venetiis!

Certo, non sembra del tutto producente seguire questo o quel documento, dove figuri un M. Lombardo che non abbia un'attinenza rigorosamente specifica col personaggio dantesco. Secondo il nostro modesto avviso, dovendosi rispettare il testo del canto, che vuole lombardo come aggettivo-attributo, per la designazione del luogo di origine, e non come sostantivo-cognome, il M. dantesco non può essere che l'unico che risulti, nella varia ma esile documentazione di cui disponiamo, originario dalla Lombardia e precisamente dalla ‛ Lombardia inferior ', cioè dalla Marca trivigiana (quindi, almeno finché non saremo confortati in altro senso da qualche documento più probante, né veneziano, né bolognese).

Tra l'altro, è anche estremamente chiaro che non solo per D. è lombarda l'origine, ma anche l'ambientazione, in ordine cioè a relazioni umane, a frequentazione e a esperienza di luoghi e si potrebbe aggiungere a rapporti di lavoro, se M., al momento di esemplificare sulla situazione del suo tempo, fa preciso riferimento al paese ch'Adice e Po riga e a tre vecchi nobili lombardi (Corrado da Palazzo, podestà a Piacenza; Gherardo da Camino, signore di Treviso; Guido da Castello, esule a Verona), Per questo assume validità l'altra notizia che egli sia stato alla corte trivigiana. Ma presso quale dei Caminesi? Benvenuto e Giovanni di Serravalle concordano sul nome di Rizzardo. Che non sarà il figlio di Gherardo, cosignore col padre dal 1302 e suo successore solo nel 1306. A meno che M. non sia ancora vivo dopo il 1302 o dopo il 1306 e D. lo abbia creduto morto nel 1300, s'intende prima dell'epoca pasquale, cioè prima della data del suo immaginario viaggio, come accade con Alessio Interminelli morto nel 1302 e creduto tale dal poeta sin dal 1300. Ovvero, a meno che M. non sia stato al servizio e non propriamente nella corte di Rizzardo, che dal 1293 possedeva già beni suoi e dal 1296 disponeva di uomini suoi e combatteva e stringeva accordi per suo conto (Picotti). Il fatto è che D. è solitamente rigoroso nell'accertare la morte dei suoi personaggi oltremondani e particolarmente su M., nel suo soggiorno lombardo, poté aver raccolto notizie esatte. Né convince M., in età certamente matura, al seguito di un signore senza corte, forse partecipe a qualche azione di guerra e per giunta prigioniero. A parte la difficoltà di giustificare, in rapporto a tutto questo, l'atteggiamento polemico di D. verso Rizzardo (Pd IX 49-51) e l'impegno di M. a celebrare il padre Gherardo, la cui figura viene giudicata in opposizione a quella dei figli. Pertanto, ferma restando la notizia su Rizzardo, c'è da ripiegare sul Ricciardo (o Rizzardo) che, secondo un'antica cronaca segnalata dal Bonifacio nella sua Historia trivigiana del 1591, fu signore di Feltre nel 1260, che non è il Rizzardo discendente da Guecellone e dato per morto prima del 1261, ma il cugino di Biaquino II e discendente da Serravalle fratello o fratellastro del buon Gherardo: tale Rizzardo ebbe un momento di prestigio e di forza, quando, estinti i Da Romano, con i quali i Caminesi avevano avuto una lunga e alterna contesa, poté raccogliere sotto di sé gran parte dei possessi della sua famiglia. Allora si fa verosimile un M. giovane al suo servizio, impegnato anche sul piano militare e persino prigioniero, mentre il M. maturo, più uomo di corte che d'armi, più politico che guerriero, fatto ormai conoscitor del mondo e del valore, che è il M. del Novellino e del Villani (la cui registrazione cade giusto, rispettivamente, alla fine del secolo e nel '300 un po' inoltrato, e utilizza la fama toscana, specialmente fiorentina, di cui godeva il nostro personaggio) lo si vedrebbe più verisimilmente, salvo qualche parentesi, come quella pisana (e qui non è inutile aggiungere che, se D. lo conobbe, non poté incontrarlo se non in Toscana), negli ultimi due decenni del sec. XIII, alla corte di Gherardo da Camino, che fu signore di Treviso dal 1283 e, dopo le intemperanze dovute alla conquista del potere, assunse atteggiamenti non faziosi e favorì una politica di pace, di rispetto della Chiesa e di protezione di letterati e artisti (Picotti). Non a caso, mi pare, D. immagina che M. esalti proprio e soprattutto Gherardo, come egli stesso aveva fatto coi Malaspina e come avrebbe fatto con gli Scaligeri. E non a caso s'istituisce, attraverso lo stesso testo dantesco, oltre che attraverso le testimonianze storiche, una notevole singolare affinità d'ideali politici e morali fra cortigiano e signore.

Un M. dunque lombardo, perché trivigiano, il M., per intenderci, dello Zenatti, intorno al quale la tradizione novellistica del cortigiano salace e morditore non sembra contrastare con quella del politico impegnato a trattare " concordias, paces, affinitates et confoederationes "; dal momento che i due aspetti si trovano costantemente e convenientemente riuniti e contemperati nel ritratto offertoci dai primi commentatori.

Tale è del resto la ricostruzione fatta dallo stesso poeta, nella quale l'attitudine polemica è in fondo quella stessa verificata dal Novellino e dal Villani a livello di battuta mordace; mentre la sua volontà di pace e di libertà corrisponde bene ai compiti diplomatici e politici che gli furono affidati o di cui si fece promotore nelle relazioni fra le signorie lombarde. Signorie anch'esse travagliate, allora, da mutamenti di parte, nella contesa fra ghibellini e guelfi, che si era inasprita proprio nel paese tra Adige e Po. Ora, se, come pare, M. fu uomo di pace, dovette appunto tendere ad accordare fra loro guelfi e ghibellini (l'ideale di D.), sia pure a livello d'interessi e patti locali, tant'è vero che il poeta gli fa accomunare nella stessa lode i guelfi Currado e Gherardo col ghibellino Guido.

In altre parole, un personaggio siffatto non poteva sfuggire all'attenzione di D., nel momento in cui ebbe bisogno di chi dall'oltretomba denunziasse la responsabilità della confusione dei due poteri sulla terra e agitasse l'ideale di una loro funzionale e feconda coesistenza. Per tale ragione, non bisogna calcare troppo la mano sul ghibellinismo laico di M., se pensiamo agl'ideali pauperistici e libertari che animarono la sua vita, come costantemente risulta da tutta l'aneddotica sul suo conto. Questo, anche se fece comodo a D. disporre di un personaggio ghibellino (ma al servizio di un signore guelfo, che volle rapporti di pace con la fazione avversa) nella sua polemica contro la Chiesa responsabile di aver invaso il regno del temporale. Marco è allora personaggio storico e insieme autobiografico, come lo sono un po' tutti i personaggi della Commedia. Perciò non è possibile né identificarlo tutto con D. (Cosmo), né staccarlo interamente dal poeta (Montano). Né possiamo accettare il rifiuto dell'esperienza dantesca al momento della composizione del canto, convinti come siamo che il poeta, non in questo caso soltanto, ora a livello di profezia post eventum, ora a livello di anticipazioni dottrinarie, trasferisca al tempo dell'immaginario viaggio la varia e crescente esperienza storica e culturale accumulata nel corso dell'elaborazione del poema. È così che confermiamo l'opinione, espressa altrove, di un M. simbolo poetico e ideologico della particolare temperie politica suscitata, soprattutto fra 1311 e il 1312, dall'avvento di Enrico VII e della particolare condizione maturatasi nel pensiero filosofico-religioso e politico di D. nella stessa epoca, in ordine ai concetti di libertà e dei rapporti fra i due poteri (opinione da me confortata con un'adeguata documentazione attinta dalle tre epistole coeve al canto, la V dell'1 settembre 1310, la VI del 30 marzo 1311 e la VII del 16 aprile 1311). Per di più non condividiamo l'opinione del Maccarrone e del Montano secondo la quale, nel discorso di M., D. avrebbe esposto le idee del ghibellinismo laico piuttosto che le sue, quando invece pare che il poeta intuisca proprio nel canto XVI il principio non solo della distinzione tra i due poteri (ne condannava la confusione, perché ne voleva la distinzione e la reciproca autonomia), ma anche della rivalutazione dell'autorità imperiale sollevata dalla dignità di luna a quella di sole.

Quanto, poi, al valore artistico del personaggio, sono stati variamente e ampiamente sottolineati sia gli esiti tematici e stilistici dovuti alla ricostruzione per così dire storica di M. (ad es. la sua condizione di cortigiano e quindi la sua " abilità di arguto favellatore ", " tutta la raffinata eleganza e le sapienti giaciture di parola onde un dicitor " come lui " aveva ad esser maestro ", Cosmo), sia gli arricchimenti di contenuto e le implicazioni di tono derivanti dal suo carattere autobiografico (ora la comune e anche amara esperienza di corte, ora la somiglianza di nobiltà di spirito e di sdegnosa magnanimità, ora l'affinità di idee politiche: Colagrosso, D'Ovidio, Scherillo, Zenatti, Cosmo).

Per qualcuno (Cosmo) la presenza di D. nel personaggio è così invadente da giustificare il fatto che questo divenga una pura e semplice " voce ", " una figura sbiadita " un " simbolo " e non " un individuo concreto " come Farinata, Guido Guerra e altri personaggi soprattutto fiorentini: indeterminatezza che è stata anche intesa tanto come " effetto dell'alta concettualizzazione dell'episodio " e quindi come espediente per fare di M. una figura interiore e non una figura fisica (Mazzamuto), quanto come tramite per dare alle parole del personaggio " solennità e religiosità quasi da oracolo ", un tono arcano e remoto, che sarebbe stato turbato da un'intensa caratterizzazione psicologica " (Agrimi).

Bibl. - G. Bonifacio, Historia trivigiana, Treviso 1591, 285-286; A. D'Ancona, Studi di critica, Bologna 1880, 230-231; F. Colagrosso, Gli uomini di corte nella D.C., Napoli 1900; F. D'ovidio, Studii culla D.C., Milano-Palermo 1901, 89 n. 1; M. Scherillo, D. uomo di corte, in " Nuova Antol. " XCV S. 4 (1901), 114-123; A. Zenatti, Il c. XVI del Purgatorio, Firenze 1901; G.B. Picotti, I Caminesi, Livorno 1904; M. Cevolotto, D. e la Marca trivigiana, Treviso 1906; U. Cosmo, Il c. XVI del Purgatorio, in " Giorn. d. " XVII (1909), ora in Lett. dant. 969 ss.; E. Orioli, Un Bolognese maestro di un Re d'Ungheria, in " Atti e Mem. R. Deputazione St. Patria Romagna " s. 3, XXVIII (1910); A. Serena, D. a Treviso?, in " Nuovo Arch. Veneto " XLI (1921) 81 ss.; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi: I. Marco Lombardo; II. Lizio da Valbona e Rinieri da Calboli, in " Giorn. d. " XXVI (1923) 8-14; F. Filippini, Il M.L. dantesco, in " Atti e Mem. R. Deputazione St. Patria Provincie Romagna " XIV (1924) 229-253 (recens. di F. Maggini, in " Studi d. " X [1925] 146-147); B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930, 324 ss.; M. Maccarrone, La teoria ierocratica e il c. XVI del Purgatorio, in " Rivista di Storia della Chiesa in Italia " IV (1950) 359 ss.; Robert E. Lott, M.L., in " Delta " n.s., 11-12 (1957) 77-86; R. Montano, Storia della poesia di D., II, Napoli 1963, 109 ss.; P. Mazzamuto, Il c. XVI del Purgatorio, Firenze 1964 (ora in Lect. Scaligera II 577-608); T. Spoerri, Introduzione alla D.C., Milano 1966, 150-151; P. Giannantonio, Il c. XVI del Purgatorio, in " Vichiana " III (1966); M. Agrimi, Il c. XVI del Purgatorio, Torino 1968; M. Scotti, Il c. XVI del Purg., in Nuove lett. IV 193-219.

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