MINGHETTI, Marco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MINGHETTI, Marco

Raffaella Gherardi

– Primo di tre fratelli, nacque a Bologna l’8 nov. 1818 da Giuseppe, appartenente a un’agiata famiglia di proprietari terrieri arricchitisi con il commercio durante il periodo napoleonico, e da Rosa Sarti, anche lei proveniente da una ricca famiglia borghese di sentimenti liberali. Dopo aver appreso in casa le prime nozioni, il M., che nel 1828 perse il padre, frequentò la scuola di latino dei barnabiti, della quale conservò in particolare il ricordo di Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi, noti per le loro accese idee liberali. Nel 1830 durante un viaggio con la madre a Venezia, rimase colpito dai tesori artistici della città e in particolare dalla pittura, per la quale concepì una vera e propria passione che non lo abbandonerà più nel corso della vita e che fungerà sempre da sua grande «consolazione».

Il 30 genn. 1832 il M. partì con la madre per Parigi, dove viveva lo zio, Pio Sarti, costretto all’esilio per aver sostenuto i moti bolognesi del 1831. A Parigi, oltre a subire l’influenza delle idee liberali dello zio, ebbe modo di incontrare il generale M.J.P. Motier de La Fayette, C.M. de Talleyrand Périgord e molti dei più noti esuli italiani quali F. Orioli, T. Mamiani della Rovere, P. Maroncelli e, fra i bolognesi, C. Pepoli, A. Zanolini, A. Silvani. Con lo zio, in aprile, visitò Londra restandone profondamente ammirato. A fine maggio era di nuovo a Bologna.

Nel 1833 intraprese studi a carattere scientifico (fisica, mineralogia, chimica, geologia, astronomia) sotto la guida di Vincenzo Michelini, medico e matematico: condotto da lui anche ad ascoltare lezioni all’Università, che non frequentò mai regolarmente.

Per gli studi a carattere letterario il suo maestro fu Michele Medici, fisiologo, letterato e buon latinista; contemporaneamente fu discepolo di Paolo Costa che gli trasmise in particolare l’amore per gli studi letterari e filosofici: di lui, giudicandolo troppo legato al sensismo, il M. avrebbe in seguito criticato i limiti. Risale al 1837, un anno dopo la morte di Costa, il primo saggio del M., una analisi Intorno all’opera del prof. Paolo Costa intitolata «Del modo di comporre le idee e di contrassegnarle con vocaboli precisi per potere scomporle regolarmente a fine di ben ragionare e delle forze e dei limiti dell’umano intelletto», pubblicata nel Nuovo Giornale dei letterati. Seguirono, nel marzo del 1838, ne L’Istitutore, le osservazioni critiche sul dramma Dante in Ravenna di Luigi Biondi.

Socio fondatore nel 1837 della Cassa di risparmio di Bologna, nell’autunno 1839 il M. prese parte a Pisa al primo congresso degli scienziati conoscendovi alcuni fra i più noti esponenti delle scienze e delle lettere: fra gli italiani R. Lambruschini, G. Montanelli, G. Giusti, G.B. Giorgini, e fra gli stranieri L.A.J. Quételet. Da Pisa passò poi a Roma e a Napoli, allacciando nuovi rapporti con scienziati e letterati. Intanto approfondiva gli studi filosofici, spaziando dall’antichità fino ai pensatori contemporanei; studiava con regolarità la lingua tedesca; si occupava sistematicamente di pensiero economico (A. Smith e J.B. Say in particolare); corrispondeva dal 1842 con P. Giordani; provava particolare interesse per le opere di J.Ch. Sismond de Sismondi e per la sua trattazione dei problemi sociali. A conclusione di queste letture giunsero le due lettere Intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel secolo presente (Firenze 1841), primo nucleo dei suoi successivi, importanti scritti in materia economica.

Amministratore dei beni di famiglia già nel 1843, il M. si dedicò ora anche a livello teorico ai problemi dell’agricoltura e delle possibili innovazioni tecniche applicabili in tale ambito. Membro della Società agraria di Bologna e collaboratore del periodico Il Felsineo che dal 1840 ne fu l’organo, ebbe un ruolo assai attivo nel dibattito sull’economia in cui fece spicco il 23 apr. 1843 il suo discorso Della proprietà rurale e dei patti fra il padrone e il lavoratore (Bologna 1845). Poi riprese a viaggiare (prima in Svizzera, Germania, Belgio e Olanda, poi, nel dicembre 1844, in Francia e in Inghilterra); un soggiorno di cinque mesi a Parigi gli consentì di frequentare la Sorbona e il Collège de France, e di seguire in particolare il corso di diritto costituzionale tenuto da Pellegrino Rossi, di cui divenne amico. Ebbe anche modo di assistere ad alcune riunioni di fourieristi e di conoscere J. Michelet ed E. Quinet; in casa Arconati, ritrovo di molti esuli italiani, ascoltò le discussioni sulle tesi politiche di V. Gioberti (conosciuto di persona a Zurigo pochi mesi dopo) e di C. Balbo.

La successiva permanenza in Inghilterra (maggio-luglio 1845) servì soprattutto a fargli conoscere alcuni centri manifatturieri e a rinsaldarlo nella sua ammirazione per l’Inghilterra, mentre gli incontri londinesi con G. Mazzini non poterono che confermargli la distanza dal metodo rivoluzionario dei democratici. L’esperienza fatta oltre Manica gli avrebbe poi dettato l’intervento che tenne il 1° marzo 1846 alla Società agraria parlando Della riforma delle leggi frumentarie in Inghilterra e degli effetti che possono derivarne al commercio italiano (Bologna 1846). Intanto si infittivano i suoi contatti con i capi del liberalismo moderato italiano, con M. Taparelli d’Azeglio soprattutto, incontrato a Firenze, e con Montanelli e R. Ruschi, conosciuti a Pisa, e ne nasceva la strategia della formazione di una opinione pubblica nazionale che dopo l’elezione di Pio IX coinvolgeva nel patriottismo anche il mondo cattolico. Di qui il ruolo di interlocutore informale degli ambienti di Curia che il M., presto ricevuto in udienza dal nuovo papa, veniva via via assumendo.

Direttore nel 1847 per sette mesi de Il Felsineo, alla trattazione delle materie agrarie il M. affiancò argomenti a carattere economico generale e di attualità, con particolare attenzione ai problemi relativi alle riforme (lavori pubblici, ferrovie, sicurezza personale, amministrazione, scuole); diede anche un grosso rilievo alla cronaca politica delineandovi con chiarezza un programma di riforme orientate all’armonia fra le classi sociali. Nel novembre del 1847 fu chiamato a far parte della Consulta di Stato e inserito nella commissione incaricata di redigere la risposta al discorso pronunciato da Pio IX in occasione dell’inaugurazione della stessa Consulta (15 novembre).

Segnalatosi dunque come tra i più sensibili all’esigenza di una politica riformista, il M. fu chiamato il 10 marzo 1848 al governo dello Stato pontificio come ministro dei Lavori pubblici; lo rimase fino al 1° maggio, cioè fino a quando l’allocuzione papale del 29 aprile non ebbe chiarito i limiti del liberalismo attribuito a Pio IX. Lasciata Roma, il M. in Piemonte si arruolò nell’esercito di Carlo Alberto rivestendo dal 10 maggio all’11 agosto il grado di ufficiale di stato maggiore al quartier generale sardo e partecipando alle battaglie di Goito e Custoza. Nel frattempo, vigendo ancora a Roma la costituzione, era stato eletto deputato per il collegio di San Giovanni in Persiceto: un incarico al quale rinunziò dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi, indignato per la riluttanza del nuovo ministero ad iniziare pubblicamente il processo contro gli autori del delitto. Dopo la fuga del papa a Gaeta, il M. non ebbe esitazioni a mettersi alla testa di quella parte dei moderati contrari a portare propri candidati alla Costituente.

Richiamato nel marzo 1849 al quartier generale sardo in seguito alla ripresa della guerra contro l’Austria, nel novembre ottenne la dispensa definitiva da ogni servizio. La pubblicazione dell’opuscolo Della restaurazione del governo pontificio (Firenze 1849), molto critico verso Pio IX, fu il preludio all’abbandono della politica attiva da parte del M. che fra il 1850 e il 1851 visse per lo più in campagna, a Cadriano, approfondendo gli studi di agricoltura, filosofia (Kant e Rosmini in particolare), arte, scienza e soprattutto di economia. Collaboratore del giornale fiorentino Lo Statuto con alcuni articoli in cui prendeva le distanze dalla restaurazione papale, nel 1851 lesse alla Società agraria l’Elogio di Antonio Silvani che non fu però pubblicato (lo sarà soltanto nel 1864) per timore della censura pontificia; poi passò a Torino per essere ricevuto (22 luglio 1851) da Vittorio Emanuele II al quale parlò della condizione delle Romagne. Ma l’incontro torinese più importante fu quello con C. Benso conte di Cavour col quale scoprì immediatamente di avere una profonda affinità sia intellettuale sia morale. Oltre ai comuni studi di economia e agricoltura, ciò che univa i due uomini politici era l’amore per la discussione delle idee, la fiducia nel governo parlamentare e la convinzione che la soluzione del problema italiano si dovesse fondare innanzitutto sull’azione diplomatica da parte del Piemonte presso gli Stati europei.

Divenne questa, in modo informale, la sua missione. Durante un viaggio in Francia e in Inghilterra, nell’estate del 1853 a Londra ebbe modo di conoscere H.J. Temple visconte di Palmerston, W.E. Gladstone e lord John Russell. Infittendo i contatti con Cavour, nel 1854 ne sostenne la politica di intervento del Piemonte a fianco della Francia e dell’Inghilterra nella guerra d’Oriente. In una pausa dei suoi spostamenti riprese gli studi dando alle stampe nel 1855 le sue 12 lettere Della libertà religiosa (poi, con altri scritti giovanili minori, in Opuscoli letterari ed economici) e tenendo privatamente nell’inverno 1855-56 un corso di economia politica in quaranta lezioni. Nel 1856 su incarico di Cavour preparò un memorandum sulla situazione dello Stato pontificio additando nel malgoverno papale una causa di continua e pericolosa instabilità: concetto che riprese l’anno dopo quando il 20 giugno 1857 fu ricevuto da Pio IX, in visita a Bologna, e gli fece presente l’urgenza di una politica di riforme, prospettandogli come inevitabile la candidatura del Piemonte alla guida di quanti coltivavano le «speranze dei popoli».

Alla fine del 1858 il M. portò a termine una delle sue opere di più vasto respiro edita a Firenze l’anno successivo: si tratta Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto. A ragione il M. ricorderà più volte, anche in occasione di dibattiti parlamentari, il largo successo di quest’opera in Italia e in Europa; testimoniano in tal senso la traduzione francese, edita a Parigi nel 1863 (Des rapports de l’économie publique avec la morale et le droit, corredata da un’importante prefazione di F. Passy) e le successive riedizioni in Italia (Firenze 1868 e 1881). Soprattutto nel decennio 1875-85, periodo in cui il dibattito politico-culturale italiano si incentrò sul tema del cosiddetto «germanesimo economico» (secondo la sarcastica espressione dell’economista liberista Francesco Ferrara), l’opera del M. sulla economia pubblica verrà vista come capostipite di quella originale «via media» tutta italiana con cui molti fra gli economisti nostrani concilieranno i principî base del liberismo con la necessità di commisurare gli stessi a una disincantata analisi dei «fatti», concretamente analizzati nella loro realtà storica. In causa c’era anzitutto il problema del ruolo dello Stato e degli interventi che si riteneva più o meno legittimo esso compisse sul terreno dell’economia e della questione sociale. Sia nei suoi scritti più organici sia nei suoi scritti minori così come negli interventi parlamentari ed extraparlamentari, il M. studioso e uomo politico non si stancherà di portare alla ribalta il tema della trasformazione dello Stato liberale da puro e semplice Stato di diritto (così come lo pensavano i liberali della prima metà dell’Ottocento e come lo avevano pensato i patrioti italiani prima di raggiungere l’Unità) a Stato amministrativo chiamato a darsi carico insieme della «questione amministrativa» e della «questione sociale». Il M., così come la più avvertita pubblicistica liberale italiana, poneva più volte in risalto il passaggio dalla cosiddetta «età della poesia» (il periodo in cui la meta cui tendere era l’unificazione nazionale) all’«età della prosa», in cui si trattava di costruire effettivamente lo Stato nazionale e di disegnarne i compiti.

All’inizio del 1859, mentre era in viaggio in Egitto, il M. ricevette da Cavour una lettera che lo sollecitava a rientrare immediatamente a Torino: lì giunto il 22 aprile, dopo aver giurato come suddito sardo, fu nominato segretario generale del ministero degli Esteri. Suo compito particolare era quello di seguire a diretto contatto con Cavour gli affari italiani. Di Cavour condivise poi la sorte dimettendosi dopo la firma dei preliminari di Villafranca (11 luglio). Chiamato il 3 sett. 1859 a presiedere l’Assemblea convocata per preparare l’annessione delle Romagne al Piemonte, il 7 settembre presentò e fece votare una sua mozione nella quale si dichiarava che «i popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto, non vogliono più governo temporale».

Con l’elezione del 22 apr. 1860 il M. entrò nel Parlamento sardo, proseguendo poi il suo mandato nel Parlamento del Regno d’Italia e conservandolo fino alla morte, dalla VII alla XVI legislatura. Pochi mesi dopo, il 1° novembre, Cavour, vinta qualche resistenza da parte del re, gli affidò il ministero degli Interni, carica confermatagli anche nel successivo ministero Ricasoli.

Con la creazione del Regno riprese in lui concretezza e urgenza il tema dell’assetto interno del nuovo Stato: su ciò intervenne nel 1861 il suo importante progetto sull’Ordinamento amministrativo del Regno d’Italia, largamente ispirato al motivo delle autonomie locali (vi venivano, per esempio, delineati «consorzi permanenti di province» che mettevano sul tappeto il tema della regione). Approdato all’esame di una commissione parlamentare, il progetto fu respinto con ventiquattro voti contrari e diciotto a favore, ma fu destinato a costituire anche nei decenni successivi un utile terreno di confronto, in Italia e altrove, per proposte e dottrine ispirate alla prospettiva del decentramento amministrativo; dell’interesse che esso immediatamente suscitò fa fede la pressoché immediata traduzione in lingua francese (De l’organisation administrative du Royaume d’Italie), pubblicata a Parigi (1862) con una introduzione di A. Levy. Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 B. Croce avrà modo di sottolineare come, se approvato, il disegno Minghetti del 1861 «avrebbe risparmiato gli inconvenienti e i danni dell’accentramento». D’altronde le dimissioni presentate dal M. il 1° sett. 1861 al Ricasoli furono originate appunto da profonde divergenze sull’ordinamento amministrativo.

Tornò al potere l’8 dic. 1862 come titolare delle Finanze, conservando il suo portafoglio anche quando subentrò a L.C. Farini nella presidenza del Consiglio (24 marzo 1863). Famosi restano i discorsi in materia finanziaria in cui delineò i provvedimenti per risanare il deficit. Questa prima esperienza alla testa di un governo si chiuse per il M. il 24 sett. 1864 (venti giorni dopo il matrimonio con Laura Acton, vedova di D. Beccadelli principe di Camporeale), quando fu costretto alle dimissioni dai tumulti scoppiati a Torino e duramente repressi a seguito dell’annuncio della Convenzione di settembre, negoziata con Napoleone III tramite il ministro degli Esteri Visconti Venosta. In un volume edito postumo dal titolo La Convenzione di settembre: un capitolo dei miei ricordi (Bologna 1899), il M. avrebbe poi rievocato questo suo atto di politica estera come «il passo più decisivo all’Unità d’Italia con Roma capitale».

Restò un semplice deputato fino al 13 maggio 1869, quando L.F. Menabrea lo volle con sé al governo come ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio. In tale funzione, durata fino al 14 dic. 1869, il M. chiamò a collaborare tecnici di primo piano, quali l’economista L. Luzzatti, e promosse la realizzazione di due grandi iniziative: l’inchiesta industriale e l’inchiesta agraria, i cui risultati, pubblicati nel decennio successivo, segneranno l’avvio della revisione dei trattati commerciali e della cosiddetta «svolta protezionistica» della politica economica italiana. La fine dell’impegno ministeriale gli consentì di dedicarsi agli studi ma gli lasciò anche spazio per importanti missioni politiche: la maggiore fu quella che il 24 ag. 1870 lo destinò quale ministro plenipotenziario a Vienna. Vi rimase per dieci mesi seguendo in particolare la posizione del governo austriaco sulla questione romana.

L’apice della carriera politica il M. lo toccò come presidente del Consiglio negli anni 1873-76. Successore di G. Lanza a partire dal 10 luglio 1873, il M. riservò a sé anche la titolarità delle Finanze. Denso di significato fu uno dei suoi primi impegni presidenziali al seguito di Vittorio Emanuele II in un viaggio ufficiale a Vienna e a Berlino compiuto, dopo molte esitazioni, per rafforzare l’alleanza con il mondo tedesco; appunto a Berlino il M. incontrò lo storico L. von Ranke che registrerà nel suo diario l’impressione positiva fattagli dalla grande «cultura europea» dello statista italiano. Il fatto che nel M. la statura del politico e dell’uomo di cultura si sommassero è un elemento su cui molti esponenti del mondo della politica e della scienza del tempo posero l’accento, paragonandolo in ciò alla figura di Gladstone. Il collare della Ss. Annunziata di cui fu insignito dal re il 5 giugno 1874 rappresentò per lui un segno tangibile del prestigio raggiunto come uomo di Stato.

Sul piano interno l’azione di governo del M. fu largamente orientata al problema del risanamento del deficit finanziario, questione ritenuta di fondamentale importanza anche rispetto ai problemi politici. Come ebbe modo di ribadire in un discorso ai suoi elettori a Cologna Veneta nell’ottobre 1875, «le cattive finanze fanno la cattiva politica, ed aprono le porte alla rivoluzione». Nel 1876 il traguardo del pareggio del bilancio fu finalmente raggiunto, e fu il M. stesso ad annunciarlo in Parlamento il 16 marzo. Malgrado il suo indubbio rilievo, la notizia fu accolta con una certa freddezza anche dalla sua stessa parte politica, la Destra, ormai lacerata al suo interno in riferimento, in primo luogo, a un’altra urgente questione sul tappeto: quella delle ferrovie. Accusato di statalismo soprattutto da illustri esponenti della potente «consorteria toscana» (i Peruzzi, Bastogi, Cambray-Digny), in gran parte direttamente coinvolta nella gestione delle diverse società delle strade ferrate, il governo Minghetti cadde il 18 marzo 1876, quando giunse in Parlamento la legge sul riscatto delle ferrovie e la Destra toscana votò con la Sinistra, mettendo in minoranza il governo (241 voti contrari, 181 favorevoli; dei voti contrari 57 furono della Destra: le dimissioni del governo furono immediate). Si parlò allora di «rivoluzione parlamentare», e si trattò comunque di una svolta storica che segnò l’avvento della Sinistra al potere. Sostituito da A. Depretis, il M. sarà l’ultimo primo ministro della Destra nell’Italia liberale.

Il fatto che nell’ultimo decennio della sua vita il M. non rivestisse più responsabilità governative e si impegnasse anzitutto nei suoi amati studi, come più volte volle ricordare, non segnò affatto la conclusione della sua attività di uomo politico di primo piano, unanimemente riconosciuto da alleati e avversari come interlocutore privilegiato. Da deputato dell’opposizione continuò a svolgere un’intensa attività parlamentare che si esplicò nella formulazione e nella presentazione alla Camera di importanti proposte di legge e interpellanze: portano la sua firma, ad esempio, le prime leggi varate in Italia in tema di legislazione sociale; memorabili sono i suoi discorsi in tema di riforma del suffragio elettorale. Sempre attento all’evoluzione della politica interna, fu lui ad avviare con A. Depretis la politica del trasformismo giudicata indispensabile per battere l’estrema sinistra nelle elezioni del 1882, le prime a suffragio allargato.

Come presidente dell’Associazione costituzionale delle Romagne, il M. fu tra i più attivi nel promuovere coi suoi discorsi il dibattito sui grandi temi del liberalismo. Peso notevole ebbero pure i suoi interventi elettorali, le commemorazioni di personaggi illustri (si vedano, per esempio, Vittorio Emanuele come re costituzionale, 1882; Commemorazione di G.B. Ercolani, 1884) e le conferenze, tutti largamente ripresi dalla stampa nazionale, alcuni diffusi anche all’estero, e specialmente in Francia. Grande attenzione il M. darà, per esempio, al tema della legislazione sociale e ai differenti modelli (inglese e tedesco in particolare) affermatisi in Europa in tale prospettiva. Una sua conferenza tenuta a Milano su La legislazione sociale (1882) avrà tale eco nella stampa e nel dibattito fra intellettuali e uomini politici che lo stesso M. la pubblicherà, arricchendola di note, come opuscolo autonomo.

Risalgono a questo periodo gli articoli di politica, letteratura ed arte che il M. pubblicò nella Nuova Antologia; dopo avervi edito uno studio su Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV e XVI (1877), nei primi anni Ottanta, dedicò, nella stessa rivista, numerosi studi all’opera di Raffaello, ai suoi maestri e ai pittori che a lui si ispirarono (tali saggi sono elencati negli Indici per autori e materie della «Nuova Antologia» dal 1866 al 1830, a cura di L. Barbieri, Firenze 1934, p. 190): tanto accurata e sentita si rivelò alla fine tale ricerca da merita­re una monografia, l’ultima del M., intitolata appunto Raffaello, pubblicata nel 1885 a Bologna, e subito dopo tradotta in tedesco ed edita a Breslavia nel 1887 col titolo Rafael von Marco Minghetti.

D’altra parte la casa romana del M. rappresentava, anche per merito della moglie, un circolo politico-culturale di altissimo livello, punto di incontro di esponenti di primo piano, e non solo nazionali, del mondo della politica, dell’arte, della cultura. Sempre nella Nuova Antologia (1° nov. 1885), comparve un lungo articolo su Il cittadino e lo Stato, tema-cardine del liberalismo e centrale nella riflessione politica del M. sia della giovinezza sia della maturità piena. Sinteticamente, a partire dalla discussione delle tesi presentate da E. Spencer ne L’individuo e lo Stato, il M. vi delineava le trasformazioni dello Stato liberale contemporaneo chiamato a darsi carico, pur mantenendo ferma la cornice dello Stato di diritto, di nuovi campi di intervento: la questione sociale e il tema di servizi pubblici quali le ferrovie vi erano posti in particolare risalto nella prospettiva appena accennata.

Quale pensatore politico il M. raggiunse tuttavia il vertice della sua riflessione in due grandi opere pubblicate a cavallo degli anni Settanta-Ottanta e il cui successo fu tale che entrambe godettero di due edizioni successive nel corso del primo anno di pubblicazione: si tratta di Stato e Chiesa (Milano 1878) e de I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (Bologna 1881). Se la prima venne presto tradotta in tedesco (Staat und Kirche, Gotha 1881) e in francese (L’État et l’Église, Paris 1882, con una lunga ed entusiastica introduzione di E. de Laveleye che ne parlava come del migliore scritto pubblicato in Europa sul tema dei rapporti Stato-Chiesa), il volume sui partiti politici, pubblicato nel vivo del dibattito accesosi in Italia in quegli anni sul parlamentarismo, divenne ben presto punto di riferimento obbligato per i maggiori esponenti del pensiero politico contemporaneo e delle nuove scienze politiche, giuridiche e sociali, quali V.E. Orlando, G. Mosca, C.F. Ferraris. Nella prospettiva cavouriana della «libera Chiesa in libero Stato», il nodo della separazione tra Stato e Chiesa è per il M. il punto d’avvio di un’indagine a tutto campo su come in Italia e in Occidente, nella storia moderna e contemporanea, i rapporti tra Stato e Chiesa si sono venuti man mano strutturando, in epoche e realtà storiche diverse; relativamente all’Italia l’auspicio era quello di una possibile conciliazione della religione cattolica con i principî liberali.

L’opera sui Partiti politici ebbe immediata risonanza nel dibattito politico-culturale contemporaneo non solo per le tematiche affrontate (la distinzione tra partiti e amministrazione, tra partiti e giustizia, il rapporto tra partiti e governo parlamentare, il ruolo del decentramento amministrativo) ma, in via generale, per la lezione di metodo che da essa veniva. Contrario a ogni forma di astrattismo pregiudiziale, il M., confrontandosi con i grandi pensatori moderni (da Rosmini a Romagnosi, da Constant a Tocqueville, da Bentham a Spencer) identificava infatti il «liberalismo moderno» come costante confronto dei principî della dottrina con una puntuale analisi dei fatti, nella loro realtà storica. Un’indagine per quanto possibile scientifica del politico era a suo avviso imprescindibile, e a questo tendeva la proposta, avanzata già nello scritto, di istituire facoltà di scienze politiche nelle università.

Dal 1880 il M. fu incaricato dell’insegnamento del latino alla regina Margherita, con la quale, a partire dal 1882, intratterrà una fitta corrispondenza epistolare che durerà fino alla morte (a Milano nel 1947 verranno pubblicate a cura di L. Lipparini le Lettere fra la regina Margherita e Marco Minghetti 1882-1886). L’ultimo suo discorso lo tenne a Torino per commemorare il 21 giugno 1886 l’anniversario della morte di Cavour.

Morì a Roma il 10 dic. 1886.

Dopo i solenni funerali la salma fu trasferita a Bologna su un treno con la locomotiva imbandierata a lutto.

Fu sepolto a Bologna, la città natale nella quale M. aveva sempre mantenuto la sua residenza, il 16 dicembre, dopo che gli era stato reso l’ultimo omaggio in una piazza Maggiore gremita di cittadini.

Scritti minori del M.: Della filosofia della storia: dialogo, Firenze 1852; Di alcune novità agrarie in Inghilterra: discorso letto alla Società agraria di Bologna, ibid. 1854; Elogio di Gaetano Recchi letto alla Società agraria di Bologna il 7 marzo 1857, Rovigo 1858; Chiesa e finanza: lettere di M. M. al comm. Carlo Bon-Compagni, Firenze 1866; Discorso all’Associazione costituzionale delle Romagne pronunziato in Bologna il 17 nov. 1878, Bologna 1878; Sulla riforma elettorale, Roma 1881; La legislazione sociale: conferenza tenuta al teatro Castelli in Milano il 28 maggio 1882, Milano 1882; La Maddalena nell’arte: conferenza tenuta al Circolo filologico di Napoli il 22 maggio 1884, Napoli 1884.

Fonti e Bibl.: Per espressa disposizione testamentaria del M. i suoi manoscritti sono conservati presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, sistemati in cartoni numerati da 1 a 172 e distribuiti per argomento. Vi sono inoltre quattro cartoni di aggiunte (nn. 173-176) e i cartoni nn. 177-178 contenenti, l’uno, necrologi e pubblicazioni diverse apparsi in occasione della sua morte, e l’altro il carteggio Zajotti - Minghetti; è disponibile un Catalogo del Fondo Marco Minghetti, a cura di M. Gavelli, Bologna 1986. Un inventario della corrispondenza del M. è pubblicato in M.G. Gobbi Cicognani - M. Marcelli, Inventario della corrispondenza di M. M., in L’Archiginnasio, LXIX-LXXIII (1974-78); utile risulta l’edizione dei Copialettere 1873-76, a cura di M.P. Cuccoli, I-II, Roma 1978, mentre le principali edizioni di lettere del M. o a lui dirette sono: Lettere a Leopoldo Galeotti, a cura di D. Zanichelli, Bologna 1903; Carteggio tra M. M. e Giuseppe Pasolini, a cura di G. Pasolini, I-IV, Torino 1924-30; Lettere di M. Minghetti a G.B. Giorgini, a cura di M. Puccioni, Firenze 1937; M. Minghetti e Diomede Pantaleoni: carteggio (1848-1885), a cura di U. Marcelli, Bologna 1978; La correspondance entre E. de Lavéleye et M., a cura di M. Dumoulin, Bruxelles 1979; Carteggio Galeotti-Minghetti, 1847-77, a cura di M. Pignotti, Firenze 2002; per altri documenti d’archivio cfr. l’Inventario degli appunti e docc. manoscritti di M. M., a cura di U. Marcelli, in L’Archiginnasio, LXXX (1985), pp. 37-263. Per un sintetico inventario dei manoscritti cfr. R. Gherardi, I manoscritti di M. M., in M. Minghetti, Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Roma 1986, pp. 67-76. Si rimanda a quest’ultimo volume anche per una dettagliata bibliografia degli scritti del M. e degli studi che ne hanno preso in esame la figura di statista e studioso (ibid., pp. 77-106). Gli Scritti politici citati raccolgono in un volume di più di ottocento pagine le seguenti opere di M.: Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto; Stato e Chiesa; I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione; La legislazione sociale; Il cittadino e lo Stato. Fra le opere del M., oltre quelle appena indicate o comunque citate nel testo, va sottolineata l’importanza dei Miei ricordi, I-III, Torino 1888-90 (relativi agli anni 1818-59: il M. vi utilizzò ampi estratti della corrispondenza inviatagli da conoscenti italiani ed europei), e dei Discorsi parlamentari, I-VIII, Torino 1888-90. Sono da ricordare inoltre due raccolte di scritti minori, rilevanti per capire l’ampio spettro delle tematiche da lui trattate; una raccolta di Opuscoli letterari ed economici (Firenze 1872) fu curata dallo stesso M.: l’altra si deve ad A. Dallolio e reca il titolo Scritti vari (Bologna 1896). Per ulteriori sussidi bibliografici: Bibl. dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 213-214; Università degli studi di Lecce, La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915), Roma 1987, pp. 501-506, e la Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, I, Roma 2003, pp. 337-338. Tra gli storici che in Italia più da vicino hanno indagato la figura del M. come uomo politico, sia nella Bologna dello Stato pontificio sia nell’Italia unita, a partire da un’attenta indagine dei manoscritti, si ricordano in particolare A. Berselli e U. Marcelli: i loro lavori vengono specificamente indicati nella citata bibliografia agli Scritti politici. Di Berselli giova ricordare, per il particolare rilievo dato alla figura del M., anche Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità (Bologna 1997). Nella prospettiva di un rinnovato interesse per il pensiero politico del M., a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, occorre inoltre menzionare F. Tessitore, Crisi e trasformazioni dello Stato. Ricerche sul pensiero giuspubblicistico italiano tra Otto e Novecento, Napoli 1971. Sul silenzio che, da parte di molti studiosi del liberalismo italiano, nel corso del XX secolo ha avvolto la figura del M. come pensatore politico, ha più volte richiamato l’attenzione N. Matteucci, tra l’altro nel saggio di apertura (M. M. pensatore politico) del primo volume di Atti del Convegno internazionale organizzato a Bologna nel primo centenario della morte: M. M. statista e pensatore politico. Dalla realtà italiana alla dimensione europea, a cura di R. Gherardi - N. Matteucci, Bologna 1988; il II volume, L’organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti nell’Europa liberale, a cura di N. Matteucci - P. Pombeni, è pure apparso a Bologna nel 1988. Approfondimenti della figura e dell’opera del M. si devono a R. Gherardi, che ha evidenziato il contributo della sua ricerca teorica allo sviluppo delle scienze politico-sociali in L’arte del compromesso. La politica della mediazione nell’Italia liberale, Bologna 1993. Tra gli studi più recenti: M. M. e le sue opere. Atti del Convegno di Società libera, Bologna … 2000, Milano 2001; N. Matteucci, Un liberale dimenticato: M. M., in Id., Filosofi politici contemporanei, Bologna 2001, pp. 187-220; R. Gherardi, Politica, scienza e opinione pubblica: il riformismo ben temperato di M. M., in Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale, a cura di M.M. Augello - M.E.L. Guidi, Milano 2003, pp. 31-52; Id., M., Ferraris e la trasformazione dello Stato liberale: le scienze politiche dalle università ai nuovi compiti del Rechtsstaat. Dal Monferrato alla costruzione dello Stato sociale italiano, a cura di C. Malandrino, Torino 2007, pp. 241-260; Id., Da Bologna all’Europa: il liberalismo di M. M. tra forme di governo e funzioni dello Stato, in Città e pensiero politico italiano dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di R. Ghiringhelli, Milano 2007, pp. 347-372; Id., Classi sociali e classi politiche nel «liberalismo moderno» di M. M., in Classe dominante, classe politica ed élites negli scrittori politici dell’Ottocento e del Novecento, a cura di S. Amato, Firenze 2008, pp. 451-482; N. Del Bianco, M. M. La difficile Unità italiana da Cavour a Crispi, Milano 2008.

R. Gherardi

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