Minghetti, Marco

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Marco Minghetti

Raffaella Gherardi

Molti illustri contemporanei di Minghetti, in Italia e in Europa, sottolineano l’eccezionalità della sua figura, capace di coniugare strettamente la sfera della politica attiva e una riflessione alta sul politico, che assume a proprio fondamento il metro delle nuove scienze giuridiche, politiche e sociali. Le sue opere più importanti divengono immediatamente punti di riferimento del dibattito politico-culturale e godono di larga circolazione, come testimoniano le successive riedizioni e traduzioni nelle più importanti lingue europee.

La vita

Minghetti nasce a Bologna l’8 novembre 1818, in un’agiata famiglia di proprietari terrieri. Nella città natale matura il suo interesse per le idee liberali, in primo luogo grazie all’influenza dello zio materno, Pio Sarti (esule a Parigi dopo aver partecipato ai moti scoppiati a Bologna nel 1831). Giovanissimo entra a far parte della Società agraria, approfondendo sempre più in tale ambito i suoi studi a carattere economico. Non frequenta regolarmente l’università, ma la sua formazione copre ambiti e interessi culturali differenti, da studi a carattere letterario e filosofico a studi prettamente scientifici (matematica, fisica, mineralogia, chimica, astronomia).

Sia dal punto di vista politico sia sotto il profilo culturale, molto importanti risultano i frequenti viaggi che egli ha modo di compiere in Europa, in particolare in Inghilterra, Germania e Francia (a Parigi, per es., segue per alcuni mesi il corso di diritto costituzionale tenuto da Pellegrino Rossi ed entra in contatto con molti esuli italiani).

Il 1848 segna il suo esordio nell’alta politica: per due mesi è ministro dei Lavori pubblici dello Stato pontificio, carica che lascia per andare ad arruolarsi nell’esercito del re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia. Diretto interlocutore di Camillo Benso conte di Cavour, Minghetti diventa uno dei protagonisti della politica italiana postunitaria; deputato eletto a ogni legislatura, dalla VII alla XVI, rappresenta uno dei capi riconosciuti della Destra storica. È uomo politico di statura europea (amico tra l'altro di ministri come William E. Gladstone e John Russell), più volte ministro (degli Interni, delle Finanze, dell’Agricoltura, industria e commercio), due volte presidente del Consiglio, autore della Convenzione di settembre del 1864 (tra Italia e Francia, sulla questione dello Stato pontificio) e artefice, nella sua duplice veste di  presidente del Consiglio e di ministro delle Finanze, del raggiungimento del pareggio nel bilancio nell’ultimo governo da lui presieduto (1873-76). La caduta del suo governo segna la cosiddetta rivoluzione parlamentare e l’avvento della Sinistra al potere.

Anche nell’ultimo decennio della sua vita, negli anni di governo della Sinistra, egli continua a svolgere un’intensa attività politica e parlamentare; è fra i firmatari di importanti proposte di legge in tema di legislazione sociale, ed è l’interlocutore principale di Agostino Depretis per quanto riguarda l’avvio della stagione del trasformismo. È presidente dell'Associazione costituzionale delle Romagne, e i suoi discorsi politici (parlamentari ed extraparlamentari) rappresentano un’importante occasione di confronto nel dibattito politico italiano ed europeo, non solo sulle immediate scelte politiche in campo ma, più in generale, sui grandi temi del liberalismo contemporaneo, primo fra tutti quello delle trasformazioni dello Stato di diritto nella cosiddetta età dell’amministrazione. Muore a Roma il 10 dicembre 1886.

La «via media» fra ragione e storia

Minghetti è fautore, a livello metodologico generale, di una «via media», sintetica del «metodo razionale» e del «metodo storico»; in Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859) chiama esplicitamente in causa Anton F.J. Thibaut e Friedrich K. von Savigny relativamente alla «controversia» che attraversa in quel periodo il dibattito economico ma che trae «appunto origine dal diritto» (in Scritti politici, 1986, p. 356). Sia come studioso sia come uomo politico, egli porta spesso alla ribalta il tema della necessità di un nuovo liberalismo rispetto a quello a carattere fondamentalmente giuridico-costituzionale che ha caratterizzato la prima metà del 19° secolo. Esso deve, a suo avviso, dimostrarsi in grado di fare i conti con i fatti che caratterizzano il presente, riconsiderando il Rechtsstaat alla luce delle questioni più urgenti ora sul tappeto, prime fra tutte la questione amministrativa e la questione sociale.

In sintonia con la più avvertita pubblicistica liberale degli ultimi decenni dell’Ottocento, egli ripenserà tali problemi (e gli interventi ritenuti necessari da parte dello Stato) specificamente per quanto riguarda un’Italia che si è ormai lasciata alle spalle l’«età della poesia» (gli anni in cui l’obiettivo da raggiungere era l’unificazione nazionale) ed è entrata nell’«età della prosa», quella cioè della costruzione effettiva dello Stato nazionale.

D’altra parte, Minghetti non perde un solo istante del suo impegno politico in diatribe a carattere costituzionale-formale (che nei suoi interventi parlamentari e nei suoi scritti politici mette costantemente alla berlina quale esercizio di mero astrattismo teorico, di marca francese), ma si misura immediatamente con il problema dell’assetto amministrativo dell’Italia unita. Questo trova conferma nella sollecita presentazione da parte sua di un importante progetto sull’Ordinamento amministrativo del Regno d’Italia (1861). Il fatto che tale progetto approdi poi all’esame di una commissione parlamentare e da questa venga respinto, con ventiquattro voti contrari e diciotto a favore, e di conseguenza non trovi concreta applicazione, non esclude che esso divenga da subito essenziale pietra di paragone per il dibattito in tal senso, in Italia e in Europa (una traduzione in francese del progetto vede la luce a Parigi già nel 1862), in particolare per proposte e dottrine orientate alla prospettiva del decentramento amministrativo, nell’Italia liberale e oltre. Il richiamo a Minghetti e al tema delle regioni, quali «consorzi permanenti di provincie», così come veniva delineato nel progetto, risuonerà anche nei lavori della Costituente repubblicana.

Dal punto di vista dell’approfondimento teorico di alcuni cruciali problemi della politica contemporanea, il periodo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta è certamente quello in cui Minghetti dà il suo più rilevante contributo, in particolare con  Stato e Chiesa (1878) e I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (1881). Il successo di queste due grandi opere è immediato, tanto che di entrambe vengono fatte due edizioni successive nel corso del loro primo anno di pubblicazione.

In Stato e Chiesa il metodo della ricerca storica comparata è il terreno privilegiato sul quale Minghetti fonda, in linea con la prospettiva cavouriana, la sua opzione per una «libera Chiesa in libero Stato». Le proposte orientate a una possibile conciliazione, per quanto riguarda l’Italia del presente, fra gli insegnamenti della religione cattolica e le idee liberali, rappresentano il punto di arrivo di un’indagine condotta ad ampio spettro su come in Occidente, nella storia moderna e contemporanea, si siano venuti a mano a mano evolvendo i rapporti fra Stato e Chiesa. Anche in riferimento a questi ultimi si tratta di non perdere mai di vista, secondo quanto ribadisce Minghetti, le specifiche condizioni di tempo e di luogo e gli elementi distintivi dell'«odierna civiltà».

Politica e amministrazione nell'età del parlamentarismo

La metodologia di analisi è la stessa che egli adotta anche a proposito del suo lavoro sul ruolo dei partiti politici.

A tale proposito, va ricordato che il giovane Vittorio Emanuele Orlando recensirà con grande entusiasmo e tempestività per la «Rivista europea» quest'opera, in cui la riflessione politica di Minghetti gli appare aver raggiunto il più alto livello, anche rispetto alle pur significative opere precedenti (la lunga recensione, datata Palermo 10 dicembre 1881, viene pubblicata nel 1882 sotto il titolo Il nuovo libro di Marco Minghetti). Orlando considera di tale rilievo questo volume che dedica a esso, al metodo con il quale la materia vi è indagata e alle tesi che vi sono espresse,  una quindicina di pagine, costruendovi intorno un vero e proprio articolo. Nel vivo del dibattito sul parlamentarismo che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, impegna intensamente in Italia politici e uomini di cultura, Orlando chiude il suo lavoro indicando nell’opera di Minghetti un punto di riferimento obbligato per chiunque voglia cimentarsi con una questione di così vitale importanza «per l’avvenire del Governo rappresentativo»; è questa un’opera che  «emergendo fra gli altri libri che si pubblicano fra noi, tiene alto l’onore dell’ingegno e della valentìa degl’Italiani all’estero» (pp. 90-91).

Ne I partiti politici, sulla base del principio secondo il quale «gli ordini di governo debbono conformarsi [...] alla civiltà dei popoli, [...] il regime rappresentativo» appare a Minghetti come il più idoneo alle odierne condizioni dei Paesi a livello avanzato di civiltà: egli punta in particolare l’attenzione alla «forma che è propriamente quella che si chiama governo parlamentare», che si configura necessariamente come «un governo di partito» e che bisogna indagare da vicino per individuare «pregi e difetti che gli sono inerenti» (in Scritti politici, 1986, pp. 632-33). Ora, se appare chiaro a tutti che «ai partiti spetta l’indirizzo generale politico: ma nella giustizia e nell’amministrazione è necessaria la imparzialità», è altrettanto evidente che fra i «mali» che si verificano frequentemente c’è la «indebita ingerenza» da parte dei partiti stessi nelle sfere dalla giustizia e dell’amministrazione; essi «vogliono insinuarvisi, e maneggiarle a loro profitto» (pp. 643 e segg.).

Minghetti sottolinea con forza «i pericoli che la giustizia venga guastata dallo spirito di parte» e «quanto sia necessario mantenere il prestigio della magistratura», in considerazione del fatto che rendere giustizia è per lo Stato «il suo fine primo e principalissimo» (p. 664). Il giovane Stato unitario deve considerare attentamente che «il peggior danno in un popolo civile è il dubbio sulla imparzialità della giustizia» e (anche sulla scorta dell’esempio di altri Paesi 'civili', nonché facendo tesoro dei problemi che si sono verificati all’interno della legislazione vigente) puntare a rendere ben salda la fiducia dei cittadini in proposito.

Il tema della «inamovibilità dei giudici», discusso dalla dottrina come «uno dei grandi progressi della moderna civiltà», viene attentamente declinato sulla base dei dettami dello Statuto e di recenti provvedimenti di legge che erano parsi far sì che «la magistratura perdesse quella sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza».

Anche il ruolo e le funzioni del pubblico ministero («sopra talune materie, la legislazione non è ben chiara, o almeno l’interpretazione l’interpretazione delle leggi l’ha resa oscura»; vengono portati alla ribalta da Minghetti insieme con altri «mali», quali l'«ingerenza dei deputati nella nomina di qualche magistrato» e il «male gravissimo» che deriva dal spettacolo poco edificante degli

avvocati patrocinanti i quali siedono nella Camera dei deputati, perché quando si presentano al tribunale per difendere una causa, s’ammantano di un cotal prestigio che suona minaccia o promessa quel giorno che diventeranno ministri (p. 668).

Tuttavia, come mette in evidenza Orlando, soprattutto

nella parte relativa all’amministrazione il Minghetti rivela tutta la potenza della sua esperienza consumata degli affari pubblici, mirabilmente illuminata e diretta dai suoi studi profondi sulla materia (Il nuovo libro, cit., p. 89).

D’altra parte è lo stesso Minghetti che confessa di essere molto più competente in questa materia che in tema di giustizia. La centralità dell’amministrazione negli Stati contemporanei, inevitabile dato derivante dalla complicazione dei nuovi compiti di cui questi ultimi sono chiamati a rispondere, viene del resto ampiamente da lui messa in risalto. Egli rileva come non ci sia

cittadino che o per le tasse, o per la leva, o per la polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà, o per l’industria, o pel lavoro non si trovi quasi quotidianamente in attinenze coll’amministrazione [...]. Si direbbe quasi ch’ella c’involve da ogni parte; imperocché nelle moderne costituzioni ha preso anche in molti rispetti il posto della Chiesa come in tutte le funzioni dello stato civile dal nascimento sino alla morte (I partiti politici, in Scritti politici, cit., p. 645).

E così «la vasta tela dell’amministrazione pubblica», a livello centrale e periferico, le funzioni e i servizi che lo Stato fornisce in prima persona o «delega o lascia esercitare ai corpi locali, alle Provincie e ai Comuni», insomma tutta la «grande macchina composta di pubblici uffici» deve, nel suo insieme, mirare a «sottoporre l’interesse di ogni cittadino e di ogni classe all’interesse pubblico».

L'imparzialità nell’amministrazione è dunque l’obiettivo da perseguire, tenendo a bada gli interessi specifici dei partiti:

Qualunque sia il partito che abbia nelle mani il reggimento, esso dovrebbe lasciare che l’amministrazione proceda senza riguardo al partito stesso, ma sibbene al solo intento di conseguire l’utilità pubblica (p. 645).

È innegabile infatti che ministri, senatori, deputati e «uomini politici di ogni sorte» tendono a «insinuarsi» nell’amministrazione, così come nella giustizia, «e farvi entrare spiriti partigiani per trarle a profitto di sé medesimi e degli aderenti loro».

Sulla scorta dei più importanti contributi della letteratura europea contemporanea (primo fra tutti «un dotto scrittore germanico, Rodolfo Gneist»; p. 648) e dell’analisi dei differenti modelli di amministrazione vigenti in Europa e negli Stati Uniti, Minghetti, relativamente ai «rimedi» da indicare, sottolinea con forza come l’Italia, pur ispirandosi all’esempio di altri Paesi, debba procedere alla creazione di un «ordinamento d’indole nazionale».

Nell'Introduzione a I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, egli mette bene in evidenza come il volume tragga la sua origine da un «fatto personale» (Scritti politici, p. 607) riguardante la sua attività di uomo politico, e specificamente da un discorso fatto all’Associazione costituzionale di Napoli l’8 gennaio 1880, che aveva suscitato larga eco e addirittura la presentazione di interpellanze parlamentari. Egli cita per esteso questo discorso, in cui aveva avuto toni durissimi contro l’azione di quei deputati che assediano l’amministrazione nel suo insieme:

Il misero impiegato quasi passero tremante vede il nibbio aliare intorno al suo nido, e questa vista gli impedisce la pronta e rigida risoluzione degli affari. Egli teme di essere scaraventato dalle Alpi sino all’estrema Sicilia; egli teme di veder chiusa la sua carriera; e forse talora un biglietto di favore gli impone di passar sopra alle leggi ed ai regolamenti (p. 608).

Allora aveva anche sottolineato l’estrema urgenza di studiare misure per «sottrarre alle ingerenze e agli influssi politici le amministrazioni dello Stato e degli altri enti civili»: l'«ingerenza perturbatrice [...] stende i suoi influssi ancora sulle provincie, sui municipi, sulle opere pie, su tutti quanti gli enti civili che hanno una attinenza col Governo» (p. 608).

Benché il suo discorso di Napoli avesse suscitato scalpore, egli rileva come le sue «osservazioni non fossero nuove né in Italia né fuori» (p. 610), e cita anche alcuni uomini politici italiani (da Stefano Jacini a Francesco De Sanctis, Luigi Zini, Giuseppe Zanardelli, Ruggiero Bonghi e altri) che, a vari livelli, avevano denunciato i problemi del parlamentarismo.

Il discorso di Napoli è del resto il punto di partenza dal quale prende le mosse Silvio Spaventa (ministro nell’ultimo governo Minghetti e, insieme con lui, esponente principe del liberalismo italiano postunitario), nel suo celebre discorso di Bergamo del 6 maggio 1880 sulla Giustizia nell’amministrazione, che a sua volta diviene terreno privilegiato di confronto per Minghetti nell’ultimo capitolo de I partiti politici, laddove egli propone i «rimedi» ai «mali» denunciati.

La letteratura successiva, anche nel 20° sec. e oltre, assumerà largamente i nomi di Minghetti e Spaventa quali campioni per eccellenza della battaglia per la giustizia nell’amministrazione nell’Italia liberale. In tale prospettiva, gran parte di questa letteratura costruirà anche una sorta di doppio modello Spaventa-Minghetti: il primo, più ‘statalista’, che fa perno sulla giustizia amministrativa, il secondo che ha invece il suo cardine nel decentramento e di conseguenza trova la sua matrice fondamentale nella società civile. Al di là di questo schema (che non rende ragione delle varie contaminazioni fra i progetti avanzati dai due uomini politici e fra le loro prospettive di analisi teorica), è certo che i «rimedi» indicati da Minghetti in tema di decentramento divengono il fulcro del dibattito contemporaneo e successivo.

Lo stesso Orlando, nella recensione sopra ricordata, plaude alla chiarezza con la quale Minghetti affronta il tema del decentramento e alle concrete proposte da lui avanzate in proposito, che Orlando giudica molto chiare e

improntate a quello spirito di riforma pratico che sa unire all’arditezza la prudenza e la previsione precisa degli effetti possibili (Il nuovo libro, cit., p. 89).

E infatti ne I partiti politici Minghetti si ferma innanzitutto sul concetto di decentramento, per specificare che

come lo si intende generalmente, ha luogo in due forme, o per delegazione governativa ai suoi agenti, o per facoltà attribuite a corpi elettivi (pp. 715 e segg.).

Esiste poi una terza modalità, sulla quale egli sottolinea di aver sempre richiamato l’attenzione nei suoi scritti, ed è quella della «istituzione di Enti giuridici autonomi»; questa via gli sembra particolarmente promettente per l’avvenire, dato che

importerebbe assaissimo il costituire nuove istituzioni secondo che la civiltà moderna consente, e dar loro vita e vigore [...]. Ora niente vieta, e l’esperienza credo ne confermerebbe i buoni effetti, che le università, le accademie, le diocesi, le parrocchie, molte Opere pie, e sodalizi di mutuo soccorso e associazioni d’industria, di commercio, d’agricoltura potessero costituirsi sotto determinate regole in Enti giuridici, salvo l’alta vigilanza dello Stato.

Concrete misure debbono essere prese anche per le altre due modalità secondo le quali

può derivarsi la fonte dell’autorità dal centro alla circonferenza [, e cioè] per delegazione che il governo centrale ne faccia ai suoi agenti, per ampliazione di attribuzioni e maggior libertà ai corpi locali elettivi.

Si tratta di misure che occorre realisticamente pensare anche in riferimento alle leggi e regolamenti vigenti. L’allargamento della sfera d’azione degli uffici periferici e delle «attribuzioni dei corpi locali» tocca però da vicino un problema che larga importanza aveva avuto nell’attività di Minghetti come uomo politico: la questione finanziaria. Così, da una parte egli si dichiara favorevole a rendere più ampia la libertà dei Comuni e delle province:

Io penso che sia oggi conveniente ancor più che nel 1861 rendere il sindaco elettivo; e togliere al prefetto la presidenza della deputazione provinciale; ma che nello stesso tempo convenga che cessi nella deputazione ogni autorità tutoria. L’amministrazione e la tutela non si vogliono confondere: libera una ai corpi locali, l’altra, per quanto riguarda l’osservanza delle leggi, spetti allo Stato (pp. 715 e segg.).

Dall’altra parte egli mette bene in evidenza gli aspetti finanziari, inscindibilmente connessi con qualsiasi proposta di riorganizzazione amministrativa:

Però mi sia lecito fare un’osservazione preliminare. Quanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale, tanto bisogna assicurarsi ch’esso abbia le forze corrispondenti a bene reggerlo. Dico le forze non solo morali ma materiali: cosicché l’ordinamento amministrativo dei comuni e delle provincie si collega in modo indissolubile all’ordinamento loro finanziario. Un piccolo comune o una piccola provincia, posto che trovasse fra i suoi cittadini uomini capaci di sopraintendere a tanti atti pubblici, avrebbe pur sempre mestieri di poter attingere ai suoi contribuenti i mezzi pecuniari che a tal fine occorrono. A lume di questo criterio gioverebbe esaminare sino a che punto le attribuzioni degli Enti locali possono essere ampliate (pp. 716-17).

Alcune funzioni, certamente, sono e debbono essere di esclusiva pertinenza del governo:

Tale è la difesa della patria, la rappresentanza esterna, il mantenimento del diritto privato e pubblico, l’osservanza generale delle leggi, la giustizia e la finanza (p. 716).

Altre, come dimostra l’esperienza di alcuni Paesi europei, potrebbero essere oggetto di decentramento:

Come dal ministero dell’interno la polizia preventiva, le carceri di custodia, la sanità pubblica; da quello dei lavori pubblici le strade, le acque, i porti minori; da quello dell’agricoltura, industria e commercio la navigazione interna, le foreste, la caccia, la pesca, infine tutto o parte del pubblico insegnamento, delle biblioteche, degli archivi.

A tale proposito Minghetti ripropone il tema della regione, con esplicito riferimento al citato progetto sull’Ordinamento amministrativo del 1861, ma rivedendolo alla luce delle differenze che caratterizzano l’epoca attuale. Particolarmente interessante è la riproposta della necessità di pensare a regole per la formazione di consorzi obbligatori e facoltativi, «non solo fra privati, corpi morali e comuni ma eziandio fra provincie», ai fini della gestione di determinati compiti e servizi. Come nel 1861, anche ora egli afferma di non temere ora una «tendenza troppo autonomica, e politicamente separativa», a patto, ovviamente, che diritti e doveri risultino ben definiti e non siano dati «alle rappresentanze interprovinciali carattere e procedimento di piccoli parlamenti».

Minghetti non nasconde tuttavia che il tema del decentramento, così come lo ha indicato, non è di per sé risolutivo dell'«indebita ingerenza della politica nell’amministrazione», dato che la politica stessa potrebbe facilmente estendere il suo nefasto raggio d’influenza dal centro alla periferia. Da studioso e uomo politico di caratura europea, egli richiama da una parte un Paese come l’Inghilterra, «esemplare» in tema di decentramento (il cui «pernio» sta «nella istituzione dei giudici di pace», le cui «funzioni svariatissime» si preoccupa di passare dettagliatamente in rassegna, anche se giudica impossibile trasferire tale istituzione «così com’è sul continente»; pp. 719-20); dall’altra la Germania, che gli pare alquanto degna di considerazione, dato che ivi «il problema della giustizia amministrativa è stato sollevato e risoluto in occasione di un grande rivolgimento politico» (p. 727), cioè la formazione dell’Impero tedesco nel 1871.

L’ammirazione per il «nuovo ordinamento amministrativo» tedesco e per lo «studio profondo, vario che si è fatto in questa materia in Germania negli ultimi tempi» (p. 728), non significa che egli intenda riproporlo così com’è per l’Italia; relativamente al nostro Paese occorre indagare in dettaglio, per esempio, «utili effetti» e «lacune» derivati dall'«abolizione del contenzioso amministrativo colla legge del 1865», e ancora una volta confrontarsi da vicino con le caratteristiche precipue dell’ordinamento amministrativo italiano.

Continuando nella sua disamina dei vari modelli esistenti in Europa, Minghetti giudica degna di particolare attenzione la recente istituzione in Austria-Ungheria di una corte suprema di giustizia amministrativa:

L’istituzione di una Corte suprema di giustizia amministrativa nella Austria-Ungheria data dalla legge 22 ottobre 1875 e merita special menzione, come quella che soprapposta ad autorità locali in un ordinamento assai decentrato, coordina e mantiene in esse il rispetto della legge e l’unità della giurisprudenza (p. 728).

Ma quando si chiede se si possa fare qualcosa di analogo in Italia, si trova di nuovo a fare i conti con la specificità della situazione nostrana, pur sembrandogli il «metodo austro-ungarico», cioè la «creazione di un tribunale amministrativo supremo» (p. 735), un obiettivo da perseguire. D’altra parte, il compito del suo volume è semplicemente quello di

segnare alcune linee generali [, né è suo] intendimento di proporre un ordinamento preciso, descrivendolo nelle sue varie parti e quasi apparecchiando uno schema di legge da discutere (p. 735).

L’invito è dunque quello a confrontarsi con i grandi modelli dell’Europa e degli Stati Uniti, ai fini di costruire poi un «ordinamento d’indole nazionale» (p. 738).

In una delle pagine conclusive del suo volume, Minghetti indica di nuovo nel decentramento e nella giustizia amministrativa le linee maestre della progettualità riformatrice in campo:

Noi dovremmo fare opera di decentramento in ogni pubblico servigio ed ufficio, sia per delegazione di facoltà del governo ai suoi propri agenti locali, sia per maggior ampiezza di facoltà data alle aziende provinciali e comunali, sia togliendo ogni diretta ingerenza del governo nell’amministrazione loro vera e propria, sia finalmente agevolando e favoreggiando la costituzione di associazioni autonome aventi carattere di Ente giuridico, e avvalorando quel che gli inglesi dicono diritto d’incorporazione sotto determinate leggi e cautele. Finalmente noi dovremmo costituire la giustizia amministrativa, togliendo all’amministratore stesso il sindacato dei suoi propri atti, e il definitivo pronunciato sui medesimi, e ammettere il richiamo amministrativo per quelle controversie che non posson esser giudicate dai tribunali ordinari. Al qual uopo è mestieri dare ai regolamenti effetto giuridico e creare una giurisdizione amministrativa (p. 738).

Fra le indicazioni generali che Minghetti dà in relazione all’«ordinamento» che prospetta, e «parte sostanziale» dello stesso, ci sono inoltre «due leggi, l’una sullo stato degli impiegati, l’altra sulla responsabilità degli agenti del governo e degli amministratori della cosa pubblica» (p. 748).

A tali considerazioni egli fa seguire immediatamente la proposta di fondare nelle università italiane «una vera facoltà politica e amministrativa» (p. 749; Orlando darà largo spazio a tale progetto, citando per esteso da I partiti politici) e si spinge fino a elencare gli insegnamenti fondamentali che vi debbono essere impartiti. La scommessa in campo è duplice: da un lato si tratta di far sì che l’amministrazione sia esercitata da «uomini esperti» (il che rende necessario «che vi sia un corso di studi destinato a formarli»; p. 749), dall’altro saranno proprio le nuove scienze attinenti la politica e l’amministrazione che contribuiranno a risolvere i «mali» che lo Stato di diritto deve oggi affrontare:

Imperocchè se non si comincia dal dimostrare scientificamente quale debba essere il compito del governo, che cosa sia amministrazione pubblica, delineandone le differenze colla giurisprudenza, sarà difficile che nella pratica sia rettificato e si migliori l’andamento delle cose, e si tronchino alla radice gli abusi di che abbiamo parlato. Egli è alla gioventù che esce dalle scuole pubbliche, innamorata del giusto e del buono non solo nella ragion privata, ma eziandio nella pubblica, che si appartiene di preparar l’opinione, affinché siano recati in atto legislativo i provvedimenti atti a riparare questi mali, fondando lo Stato giuridico nella sua pienezza (p. 749).

In conclusione, decentramento, giustizia amministrativa, sviluppo di un'autentica scienza della politica e dell'amministrazione, sono gli ingredienti principali di cui si alimenta la progettualità riformatrice di Minghetti, da cui dovrebbe scaturire il rinnovamento dell'orizzonte politico-giuridico della penisola.

Opere

Le principali opere politiche di Minghetti sono edite in:

Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Roma 1986.

Si veda anche:

Il cittadino e lo Stato, a cura di R. Gherardi, Brescia 2011.

Bibliografia

Per indicazioni bibliografiche relative alla figura di Minghetti come statista e pensatore politico, si veda:

R, Gherardi, Minghetti Marco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 74° vol., Roma 2010, ad vocem.

Come punto di svolta per gli studi contemporanei su Minghetti e sulla  sua statura europea  sia come uomo politico sia come esponente di primo piano del pensiero politico liberale, fondamentale il convegno internazionale organizzato a Bologna nel primo centenario della morte dello statista (1986), i cui atti sono raccolti in Marco Minghetti statista e pensatore politico. Dalla realtà italiana alla dimensione europea, a cura di R. Gherardi, N. Matteucci, Bologna 1988, e in L’organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti nell’Europa liberale, a cura di N. Matteucci, P. Pombeni, Bologna 1988.

In occasione del 150° anniversario dell’Unità d'Italia, la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna ha organizzato nella sua sede, in data 11-12 marzo 2011, un convegno internazionale su La nazione come destino comune. Minghetti e l’Italia contemporanea, dei cui atti si prevede la pubblicazione.

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