ZOEBELI, Margherita

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

ZOEBELI, Margherita

Tiziana Pironi

ZOEBELI, Margherita. – Nacque a Zurigo il 7 giugno 1912, figlia primogenita di Ernst, tecnico specializzato, e di Frida Schiess.

Il padre, esponente molto attivo del Partito socialista svizzero, subì un arresto, nel novembre del 1918, per aver aderito a un grande sciopero generale.

Conseguita la maturità scientifica, nel 1929, Margherita si iscrisse alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Zurigo, ma non poté terminare gli studi per l’insorgere di gravi problemi familiari, dovuti alla separazione dei genitori. A partire dal 1932, si occupò dell’organizzazione di iniziative socioeducative rivolte ai figli degli operai disoccupati, all’interno del Soccorso operaio svizzero, un’istituzione di solidarietà dei sindacati elvetici, sorta per far fronte alle gravi ricadute della crisi economica sui lavoratori del settore dell’orologeria. Anche sul piano internazionale, il Soccorso assunse un ruolo nevralgico per l’espatrio in Svizzera dei perseguitati dal nazismo e dal fascismo.

Durante la guerra civile spagnola, l’Associazione delle donne socialiste incaricò Zoebeli di occuparsi, nel 1938, dell’assistenza dei bambini orfani, ospitati in una casa di accoglienza a Puigcerdà, cittadina catalana a pochi chilometri dal confine francese. Durante i bombardamenti Margherita riuscì a organizzare l’espatrio e a porre in salvo i piccoli profughi che le erano stati affidati, attraverso un viaggio che li portò a raggiungere una colonia estiva presso la spiaggia di Sète, nel Sud della Francia, dove l’educatrice svizzera ebbe modo di conoscere personalmente Célestin Freinet, alla cui pedagogia avrebbe in seguito fatto riferimento.

Tale esperienza rappresentò infatti un importante banco di prova per la sua successiva attività educativa, nella consapevolezza che la cura di un’infanzia traumatizzata dagli eventi bellici richiedesse una precisa professionalità educativa. Di conseguenza, negli anni successivi, ella si abilitò all’Università di Zurigo per l’insegnamento nella scuola dell’obbligo, specializzandosi anche in pedagogia differenziale, per poter poi insegnare nelle scuole svizzere. Nel 1944, frequentò l’Haute École de travail social, al fine di promuovere interventi sociali ed educativi nei paesi devastati dalla guerra. Venne perciò inviata a Saint-Etienne dal Don suisse pour les victimes de la guerre con il compito di occuparsi dell’assistenza della popolazione del noto centro carbonifero francese. Il governo elvetico aveva infatti deliberato, nel 1944, la nascita del Dono svizzero per le vittime della guerra, il quale raggruppava una serie di organizzazioni impegnate sul versante assistenziale, con lo scopo di elaborare progetti di intervento nelle zone maggiormente colpite. Nel maggio del 1945, il sindaco di Milano, Antonio Greppi, che, durante il fascismo grazie al Soccorso operaio, aveva trovato rifugio in Svizzera, fece da tramite alla richiesta di sostegno da parte dell’allora sindaco socialista di Rimini, Arturo Clari. La cittadina romagnola risultava essere infatti quasi del tutto rasa al suolo dai bombardamenti. Nel luglio del 1945, l’Associazione svizzera rispose immediatamente all’appello, incaricando una commissione di organizzare gli aiuti umanitari. Della commissione faceva parte Margherita Zoebeli, che si distinse come l’animatrice di quel progetto per la creazione di un centro sociale dotato di corsi professionali e laboratori per le donne, di una biblioteca, di una scuola dell’infanzia per centocinquanta bambini e di una casa per gli orfani. Fu così che nel novembre del 1945, Zoebeli, insieme all’architetto Felix Schwarz, elaborò la costruzione di un edificio che doveva ospitare una ventina di bambini senza famiglia, che, a differenza delle logiche spersonalizzanti degli istituti esistenti, si distinse per il clima protettivo e accogliente, «un esempio di entità umana, metà famiglia, metà società» (Laporta, 1998, p. 11). Il 17 dicembre 1945 l’educatrice giunse a Rimini, accompagnata da una delegazione di altre tre persone, di cui faceva parte anche l’architetto Schwarz, il quale sottolineava la precisa intenzionalità educativa ritenuta alla base della realizzazione del Villaggio italo-svizzero, che venne inaugurato simbolicamente il primo maggio 1946.

Così si esprimeva Schwarz, in merito alla nuova predisposizione delle baracche in legno, in precedenza utilizzate per scopi militari: «Queste baracche, triste ricordo di un’epoca amara, dovevano essere progettate e trasformate in modo da avviare l’educazione dei bambini verso un avvenire migliore, esprimere la gioia e la pace e diventare il simbolo della ricostruzione della città [...]. Forse ci sarà dato di raggiungere una modestissima tappa dei nostri scopi politici: educare uomini indipendenti e sicuri di se stessi, capaci di rifiutare ogni forma di concezione del mondo esteriore che tenda a intervenire in modo autoritario. L’architettura è l’espressione più chiara della volontà e delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo, servendosi dell’architettura, ne è direttamente influenzato» (Schwarz, 1946, p. 2). La fiducia nelle possibilità di realizzare una società fondata sull’autogoverno si manifestava anche nel progetto urbanistico del Villaggio italo-svizzero, tramite la distribuzione dei padiglioni, l’articolazione degli spazi esterni, la presenza di una piazza comune, collegata da piccoli viottoli ad altre piccole piazzette, protette da piante ad alto fusto e contrassegnate da cespugli e aiuole. La valenza estetica dell’ambiente doveva infatti favorire un contesto socializzante, valorizzando insieme l’educazione all’autoespressione e all’autonomia dei suoi piccoli abitanti. L’ideale di una democrazia, antitetica a una concezione irreggimentata della vita sociale, risultava espressa chiaramente in ogni attività educativa del Centro.

In convergenza con queste iniziative-pilota, Margherita Zoebeli, grazie al supporto del Dono svizzero, si fece promotrice di seminari internazionali finalizzati allo studio dei problemi dell’infanzia vittima della guerra, promuovendo il lavoro d’équipe tra pedagogisti, medici, psichiatri, provenienti da tutto il mondo. Fra il 1947 e il 1948, il Centro riminese fu la sede delle Semaines internationales d’études pour l’enfance victime de la guerre (SEPEG). Durante quelle giornate di studio vennero progettate molteplici iniziative che portarono alla nascita dei Centri medico-psico-pedagogici in Italia. Il primo a costituirsi fu infatti quello avviato dal Centro riminese diretto da Zoebeli, organizzato con l’ausilio di neuropsichiatri svizzeri, che esercitò un servizio di consulenza a disposizione del pubblico e degli enti assistenziali dell’area romagnola, finalizzato alla diagnosi e alla cura delle anomalie intellettive e del comportamento. Il Centro riminese si qualificò perciò come un laboratorio pedagogico all’avanguardia, in quanto l’attenzione alle problematiche dei bambini disabili consentì di sperimentare tecniche di individualizzazione dell’apprendimento. La ‘casina’, inizialmente destinata agli orfani di guerra, venne poi trasformata nella ‘betulla’, un edificio, contraddistinto dall’omonimo albero che vi venne piantato di fronte, disegnato dall’architetto Giancarlo De Carlo per poter ospitare minori in situazione di gravi difficoltà familiari.

La presenza presso il Villaggio italo-svizzero di molti bambini affetti da problemi psichici fu il motivo per cui nel 1947 si decise di istituire una scuola elementare, con l’introduzione sperimentale del tempo pieno, in stretta continuità con la scuola dell’infanzia, tramite la pratica dei gruppi di lavoro a classi aperte, onde favorire il rapporto stimolante tra età diverse. Si trattava di una sperimentazione per la quale occorreva da parte degli insegnanti la frequenza di stages nei più importanti centri dell’attivismo europeo, in particolare presso l’Istituto J.J. Rousseau di Ginevra. Presso il Centro riminese si tennero anche i primi incontri dei CEMEA (Centri Esercitazione Metodi Educazione Attiva) e del Movimento di cooperazione educativa (MCE). Nel 1948, sempre per volontà di Zoebeli, il Centro aderì alla Féderation internationale des communautés d’entants (FICE), fondata dall’UNESCO. Di conseguenza, il Villaggio si caratterizzò quale punto di irradiazione della pedagogia attiva e cooperativa in Italia, «un punto d’incontro in cui si sono spesso trovati insieme teorici, studiosi, ricercatori nel campo della pedagogia e dell’educazione e insegnanti che in gruppo hanno lavorato» (Tassinari, 1998, p. 38). Esso divenne infatti oggetto di interesse da parte dei maggiori pedagogisti, italiani e stranieri, che ne sottolinearono la funzione innovativa a livello educativo. In particolare, nel 1961, un gruppo di ricercatori dell’Università di Torino, coordinati da Francesco De Bartolomeis, lo considerarono un progetto-pilota per la realizzazione, a livello nazionale, della nuova scuola dell’infanzia. Così, sempre in quell’anno, l’Università di Firenze organizzò un seminario, a cui partecipò la stessa Zoebeli, durante il quale si confrontarono pedagogisti, come Lamberto Borghi, e urbanisti, tra cui Ludovico Quaroni, con l’obiettivo di prendere in esame il tema dell’edilizia per la nuova scuola materna. Anche in quella sede il Villaggio italo-svizzero fu ritenuto un modello a cui ispirarsi e rappresentò in seguito un punto di riferimento per l’organizzazione di scuole dell’infanzia da parte di diversi comuni italiani. Facendo del Centro riminese un crocevia delle esperienze italiane ed europee più all’avanguardia, Margherita Zoebeli venne definita da Laporta «uno dei fuochi della pedagogia italiana» (Laporta, 1998, p. 10).

L’educatrice svizzera fu sempre alquanto refrattaria a esplicare in un metodo specifico la pedagogia operativa del Villaggio, ribattezzato Centro educativo italo-svizzero (CEIS) e ancor oggi esistente. Ella non ha lasciato infatti alcun manuale di didattica, preferendo salvaguardare il carattere sempre in fieri del suo lavoro, che si misurò continuamente con la concretezza delle situazioni, senza mai cristallizzarsi in un’unica metodologia.

Margherita Zoebeli rimase alla guida del CEIS fino al 1978, per poi, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, rivolgere di nuovo il suo impegno educativo e umanitario all’infanzia presente nelle zone più martoriate della guerra, come in Bosnia-Erzegovina e nello Zimbabwe. Negli ultimi anni della sua vita ottenne prestigiosi riconoscimenti, tra cui la laurea honoris causa in pedagogia, conferita dall’Università di Bologna, il 23 gennaio 1989.

Morì a Rimini il 25 febbraio 1996.

Fonti e Bibl.: F. Schwarz, Il soccorso operaio svizzero per i bimbi riminesi, in Città nuova. Settimanale indipendente di ricostruzione, I (1946), 7, pp. 2 s.; F. De Bartolomeis, Il Villaggio di Rimini, in Scuola e Città, III (1952), 5, pp. 320-326; G. Pagliazzi, Il rinnovamento educativo dopo il 1945, in Scuola e Città, XVIII (1967), 4-5, pp. 294-302; G. Iacobucci, Il CEIS di Rimini, Roma 1986; Una scuola, una città. Il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, a cura di M. Castiglioni et al., Venezia 1991; R. Laporta, Presente finché duri amore, in Paesaggio con figura. M. Z. e il Ceis. Documenti di un’utopia, a cura della Fondazione Margherita Zoebeli, Rimini 1998, pp. 7-12; G. Tassinari, ibid., pp. 37-40; G. Pecorini, Per esempio: M. Z. e l’asilo italo-svizzero di Rimini, in Lo straniero, 1998-1999, n. 5, pp. 42 s.; G. Fofi, Una maestra svizzera a Rimini, in Id., Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia, Napoli 1999, pp. 150-156; U. Gobbi, Trent’anni all’Asilo svizzero e dintorni, in Bollettino Archivio G. Pinelli, 2002, n. 18, pp. 18-24; Intervento sociale e azione educativa. M. Z. nell’Italia del secondo dopoguerra, a cura di C. De Maria, Bologna 2012; Lo spazio che educa. Il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, a cura di E. Dubach et al., Venezia 2012; T. Pironi, La comunità educativa di M. Z.: il CEIS di Rimini, in Ead., Percorsi di pedagogia al femminile. Dall’unità d’Italia al secondo dopoguerra, Roma 2014, pp. 151-179; C. De Maria, Lavoro di comunità e ricostruzione civile in Italia. M. Z. e il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, Roma 2015.

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