LODI, Mario

Dizionario Biografico degli Italiani (2015)

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LODI, Mario

Adolfo Scotto di Luzio

La famiglia

Nacque a Piadena, in provincia di Cremona, il 17 febbraio 1922 da Ferruccio e da Maria Morbi, primo di tre fratelli (Fausto, di un anno più giovane; Sergio, nato nel 1935). Suo padre era socialista, sua madre una casalinga cattolica.

Crebbe in una famiglia di condizioni molto modeste.

Piccolo impiegato di un’officina meccanica che produceva attrezzi agricoli, la Girelli di Piadena, il padre era stato sergente di artiglieria durante la prima guerra mondiale e assessore socialista nel primo dopoguerra. Nel 1932 fu lambito dalle indagini sull’attività antifascista a Piadena, che portarono all’arresto di alcuni lavoratori della Girelli accusati di far parte del movimento comunista locale. Fu perciò iscritto nell’indice dei sovversivi della Questura di Cremona e sottoposto a vigilanza politica. Tuttavia le preoccupazioni del padre di famiglia dovettero prevalere in lui sull’antica militanza socialista, se già nel 1935 il podestà di Piadena scriveva al prefetto di Cremona per perorare la causa di Ferruccio in occasione della sua richiesta di rinnovo di una licenza per il porto di un fucile, sostenendo addirittura che le accuse contro di lui fossero dovute a uno scambio di persona, e per questo prendendosi una reprimenda del prefetto. Nel 1936, un rapporto dei carabinieri di Casalmaggiore ne accertava l’iscrizione ai sindacati fascisti della categoria industria e al dopolavoro di Piadena. Da un rapporto successivo risultava anche che più volte Ferruccio aveva chiesto l’iscrizione al Partito nazionale fascista (PNF), senza che la domanda venisse accolta. Nel 1937, poi, il segretario locale del Fascio scriveva alla Questura per assicurare che dal 1933 in avanti Ferruccio Lodi aveva «sempre tenuta ottima condotta politica» e, tra i meriti, citava Mario, il primo dei suoi tre figli, «che si distinse per la sua fede ed ebbe la Croce al Merito dell’Opera Balilla» (Archivio di Stato di Cremona, Questura di Cremona, Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768; M. Lodi, Il corvo, Firenze 2001, p. 21). Dal fascicolo dell'Indice dei sovversivi sia lui che il fratello Fausto risulta fossero iscritti all’Opera Nazionale Balilla.

Tutti questi interessamenti produssero alla fine il risultato auspicato, e Ferruccio Lodi fu «radiato» dal novero dei sovversivi iscritti negli elenchi della Questura. L’uomo aveva «ormai dato sicure prove di ravvedimento». È evidente, tuttavia, che il suo contegno riguardo al fascismo rimase quello di un antico oppositore, piegatosi per ragioni di convenienza e di quieto vivere. L’irriducibile antifascista, «persona scaltra, che opera in modo da non farsi scoprire», di un rapporto del dicembre 1932 (Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768), immediatamente a ridosso degli arresti della Girelli, era divenuto a metà del decennio l’uomo appartato che non prendeva parte alle manifestazioni del regime e che per questo non convinceva il comandante della tenenza dei carabinieri di Casalmaggiore.

In Il Corvo, piccolo romanzo autobiografico pubblicato nel 1971, Lodi ricorda che il padre leggeva in famiglia I Miserabili (la prima figlia di Mario fu chiamata Cosetta) e nel 1932 annunciò commosso la morte in esilio di Filippo Turati. Questo è il mondo in cui, come ricorda Gianni Bosio, la generazione degli uomini nati nel 1900 aveva l’abitudine di farsi chiamare con il cognome dei grandi capi socialisti, da Ferri a Prampolini a Turati (Musoni, Gianni Bosio… 1984, p. 92)

La Chiesa era altrettanto influente. Grazie soprattutto alle donne, negli anni Trenta l’organizzazione cattolica contendeva efficacemente al fascismo l’educazione dei giovani. E così il piccolo Mario Lodi crebbe tra sordo risentimento paterno, custodia materna dei valori religiosi e militanza giovanile fascista.

La formazione

Il 30 settembre 1933, a undici anni, si iscrisse alla prima classe del corso inferiore dell’Istituto magistrale di Cremona, dove sarebbe rimasto per i sette anni del ciclo di studi riformato nel 1923 da Giovanni Gentile ministro della Pubblica istruzione. Ne uscì, diplomato maestro, nell’estate del 1940.

Dopo aver assolto agli obblighi di leva, fu congedato il 24 aprile 1941 con l’obbligo di frequentare il corso allievi ufficiali di complemento. Richiamato alle armi il 3 febbraio 1943, i suoi mesi successivi furono contrassegnati da ricoveri e convalescenze per una corticopleurite che gli valse, nell’ottobre di quello stesso anno, la licenza illimitata senza assegni. Il 29 febbraio 1944 fu nuovamente chiamato alle armi dal neo costituito esercito repubblicano per completare la leva, così afferma il provvedimento, interrotta l’8 settembre 1943, con l'armistizio. Allontanatosi dal reparto il 25 settembre 1944, si presentò alle autorità militari del Comune di Piadena il 28 ottobre in occasione del bando di amnistia. A disposizione del comando tedesco di Piadena, fu arrestato il 26 marzo 1945 e tradotto dalla Guardia nazionale repubblicana al distretto militare di Cremona. Il 23 aprile, «in seguito agli eventi della liberazione», si allontanò dal reparto (Archivio di Stato di Cremona, Distretto militare di CremonaFascicoli militariFogli matricolari, ad nomen).

In quei giorni, dopo la Liberazione, aderì a Piadena al Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà, l’organizzazione giovanile partigiana fondata a Milano nel gennaio del 1944 sotto la direzione di Eugenio Curiel.

Iniziò la carriera di maestro nel 1948 a San Giovanni in Croce, a pochi chilometri di distanza dal paese natale.

L'attività

Da quella prima esperienza magistrale sarebbe nato il libro C’è speranza se questo accade al Vho. Pagine di diario, accolto da Gianni Bosio per le edizioni Avanti! nella collana «Il Gallo grande» nel 1963. Il diario scolastico di Lodi si estendeva lungo un periodo compreso tra il 1951 e il 1962, da San Giovanni in Croce a Vho di Piadena. L’arrivo a Vho, nel settembre del 1956, coincise con l’entrata in vigore dei nuovi programmi per la scuola elementare del ministro democristiano Giuseppe Ermini.

«I nuovi programmi» – scrive Lodi – «pur presentando contraddizioni di fondo lasciano largo margine all’iniziativa del maestro e favoriscono, almeno formalmente, l’impostazione di una didattica che intende rispettare la psicologia del fanciullo» (p. 87).

Da questo giudizio emerge uno sguardo tutto incentrato sui temi della didattica e del «fare scuola». Come è noto, i programmi Ermini furono oggetto di dure polemiche tra gli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto da parte comunista. Si imputava loro l’ispirazione clericale, la religione cattolica, coronamento e fondamento della scuola elementare, le preghiere recitate tutti i santi giorni prima dell’inizio delle lezioni, l’insegnamento religioso.

Tutto questo c’era senz’altro, ma il cuore delle obiezioni stava altrove. I comunisti rigettavano il blando roussovianesimo dei cattolici, proposto come terreno di riproduzione della cultura magistrale degli anni Cinquanta. Su questo terreno invece Ermini incontrava l’approvazione dei maestri progressisti come Lodi e del loro vago romanticismo pedagogico.

Dina Bertoni Jovine, a capo della sezione scuola del Partito comunista italiano (PCI) dalla fine del 1950, scrisse che i nuovi programmi mantenevano «il ragazzo fino a nove o dieci anni in una specie di ambiente fantasioso, evanescente». Per non tradire «la spontaneità infantile», ogni cognizione doveva rimanere «sporadica, rapsodica, slegata» e il maestro «guardarsi bene [dal] dare organicità al […] mondo sfocato» del bambino. Il lavoro intellettuale, semmai, sarebbe venuto dopo e per quei pochi cui era riservata una carriera scolastica superiore (Storia della didattica. Dalla legge Casati ad oggi, a cura di A. Semeraro, I, Roma 1976, pp. 250 s.).

La laboriosità era ciò che contraddistingueva il tipo del bambino sentimentalizzato prefigurato dai programmi Ermini. La nuova cultura magistrale del dopoguerra vi riconosceva il tratto distintivo di una vita infantile popolare che la scuola non avrebbe dovuto spegnere. Per i comunisti era la conferma dell’infanzia povera dentro i limiti angusti di una condizione sociale subalterna (pp. 246 s.).

Era con tutta evidenza, quello della dirigente comunista, un approccio alla questione scolastica molto poco preoccupato di metodologie didattiche e molto attento, invece, a interpretare la scuola come istituzione politica e ideologica di prima grandezza.

Da questo punto di vista, allora, il giudizio di Lodi si segnala perché, nonostante l’accenno prude alle «contraddizioni di fondo» secondo un uso tipico del tempo, rimanda a una opposizione strutturale nel discorso scolastico del secondo Novecento (e da lì fino a noi), non tanto tra destra e sinistra, ma tra politica e «mondo della scuola», tra cultura e didattica.

Dentro questo solco scavava in particolare il Movimento di cooperazione educativa, al quale Lodi aderì a metà degli anni Cinquanta. Il didatticismo di Giuseppe Tamagnini, il primo animatore del Movimento, nasceva, attraverso Maria Boschetti Alberti e l’esperienza della Scuola serena di Muzzano nel Canton Ticino, da una lettura unilaterale della pedagogia di Giuseppe Lombardo Radice, di cui Tamagnini era stato allievo negli anni Trenta. Il tentativo era, con tutta evidenza, di staccare, nel nome di un presunto sapere professionale della scuola, la figura del pedagogista siciliano dalla presenza ingombrante e ormai dannata del suo maestro, Giovanni Gentile. L’opzione didattica rappresentava insomma la soluzione più a portata di mano per una generazione magistrale di formazione idealistica in cerca di riposizionamento in un quadro ideologico radicalmente mutato. Un ruolo importante in questa operazione lo svolse Ernesto Codignola.

A Codignola si deve innanzitutto l’introduzione nel dibattito italiano delle proposte didattiche di Célestin Freinet, il maestro francese affiliato al Partito comunista (ne fu espulso nel 1953), che nel 1925 era entrato in contatto, durante un viaggio in Russia, con Nadezhda Kostantìnovna Krùpskaya, la moglie di Lenin, all’epoca ministro sovietico dell’educazione.

Freinet arrivò in Italia su invito proprio di Ernesto Codignola, e fu a Firenze nel 1950. Qui entrò in contatto con alcuni maestri elementari, tra i quali Aldo Pettini, che insegnava nel quartiere del Pignone, fuori Porta San Frediano ed era un altro degli animatori della prima ora del Movimento di cooperazione educativa. Con Codignola si era laureato nel 1947.

Sia Giuseppe Tamagnini che la moglie, Giovanna Legatti, avevano combattuto nella guerra partigiana. Al di là della autorappresentazione del Movimento, con la sua insistenza sulla cooperazione e sulla promozione nei bambini di un abito alla discussione, l’aspetto più interessante della loro attività all’inizio degli anni Cinquanta stava nella definizione di una nuova geografia dell’esperienza magistrale dopo il forte accentramento della politica scolastica di epoca fascista. Una geografia individuata sui punti di un’Italia periferica, di esplicita matrice rurale e contadina. Tamagnini insegnava a Fano, Giovanna Legatti aveva cominciato a Vigolzone nella campagna di Piacenza. La parte centrale della loro esperienza magistrale si sarebbe svolta tra il 1960 e il 1970 nelle Marche, a Coldigioco, un posto sperduto ai piedi del monte San Vicino, nell’Appennino umbro marchigiano, tra Ancona e Macerata. Tamagnini teneva un corso per insegnanti a Frontale di Apiro ed era alla ricerca di un metodo che funzionasse con bambini di posti isolati come quelli della sua infanzia.

Lodi entrò in contatto con il Movimento nell’autunno del 1955. A Novembre partecipò al congresso magistrale di San Marino, nel Cremonese (C’è speranza, pp. 44 s., 49). L’idea stessa di tenere un diario della propria attività scolastica era fortemente ispirata dalle pratiche di Cooperazione educativa.

Questo tema della perifericità rurale che il Movimento di Tamagnini mette in evidenza riporta a un aspetto cruciale nell’esperienza di Lodi: la centralità del tema contadino.

Gli anni della formazione di Lodi si svolgono sullo sfondo di un universo rurale, quello della bassa pianura orientale, tra Brescia, Cremona e Mantova, che è anche la scena cruciale, tra Otto e Novecento, dei movimenti sociali dell’Italia contemporanea. Per essere più precisi, del permanere del nuovo Stato sulle basi di un mondo agrario violento e ribelle che solo le trasformazioni generate dalla seconda guerra mondiale avrebbero finalmente dissolto. Tanto rapidamente quanto a lungo la sua questione aveva gravato sulla situazione politica e sociale del Paese.

La bassa pianura orientale è il luogo dove, ancora negli anni dell’infanzia e della prima giovinezza di Lodi, va in scena il grande conflitto tra la 'Nazione' e la 'Bandiera rossa'. Il cinema italiano radicale degli anni Settanta lo ha raccontato con immagini tanto unilaterali quanto cariche di eloquenza, da Novecento di Bernardo Bertolucci al Mondo degli ultimi del fotografo e regista Gian Butturini.

Quel mondo era diventato oggetto di recupero culturale già a partire dalla metà degli anni Cinquanta, proprio quando cominciava la sua liquidazione economica e sociale, per opera di un gruppo di intellettuali locali profondamente ispirati dalla lezione di Ernesto De Martino. Il saggio, che tante polemiche avrebbe suscitato con il PCI, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, era apparso nella rivista Società nel 1949. Sulle tracce di questa storia si era mosso, primo fra tutti, Gianni Bosio. Organizzatore socialista di cultura, Bosio fu l’animatore del movimento delle leghe di cultura nel Mantovano e nel Cremonese.

Proprio nel film Novecento c’è un preciso riferimento a questo universo ideologico maturato dopo la seconda guerra mondiale, all’epoca delle grandi lotte contadine tra il 1947 e il 1950. Nella celebre scena dell’ammazzamento del maiale, Gérard Depardieu chiama Genia perché intoni Quando bandiera rossa si cantava. Genia era Eugenia Arnoldi Azzali. La scena del maiale fu girata in una cascina di Voltido a pochi chilometri da Piadena, dove gli Azzali abitavano. Figlio di Genia era Gianfranco Azzali che insieme a Giuseppe Morandi era stato uno dei giovani collaboratori di Lodi alla Biblioteca popolare della Cooperativa di consumo di Piadena all’inizio degli anni Cinquanta. Nel 1966, in contatto con Bosio, aveva fondato nel paese natale la Lega di Cultura. La sede della Lega era nella casa degli Azzali.

Lodi collaborava con Bosio alle edizioni dell’Avanti!, di cui questi aveva assunto la direzione nel 1953 in stretto rapporto con Raniero Panzieri. Nel 1957, sulla scia dell’impegno demartiniano di Bosio, aveva costituito il Gruppo padano, che si dedicava alla ricerca dei documenti dell'espressività popolare e, nel quadro delle attività della Biblioteca, aveva iniziato la pubblicazione dei Quaderni di Piadena. Il primo, dedicato alla Storia del Natale, si presentava come «studio collettivo di un gruppo di giovani piadenesi» (cfr. http://gruppo_padano_piadena.e-cremona.it/biblioteca_popolare/storia_del_natale.htm).

Sposatosi nel luglio del 1958 con Fiorella Ferrazza (dal matrimonio nacquero le figlie Cosetta e Rossella), nel 1961 Bosio gli affidò la nuova collana delle edizioni Avanti!, l’«Universale ragazzi» in cui apparve, tre anni dopo, la seconda edizione di Cipì, il suo libro forse più noto (la prima edizione, nel 1961, era uscita sotto l’insegna delle «Messaggerie del Gallo», altra creatura di Bosio). A questa collaborazione è con molta probabilità legato il trasferimento di Lodi a Milano, registrato dall’estate del 1963.

Questo tessuto di legami politici e intellettuali, a cui va aggiunta la partecipazione del fratello di Mario, Sergio, musicista e produttore musicale, al Nuovo Canzoniere Italiano, colloca la formazione del maestro di Piadena non solo come si è detto all’interno dei problemi posti dalla permanenza ideologica della 'questione contadina' nell’Italia del secondo dopoguerra ma fa emergere, insieme alla costanza dei riferimenti sociali, le basi effettive della sua proposta pedagogica. Non senza, tuttavia, imprimere a questa proposta una significativa virata.

Il tema contadino era stato infatti posto da Bosio e dai gruppi socialisti più radicali in rapporto al problema squisitamente politico dell’autonomia della classe.

Lodi da parte sua accantonò queste preoccupazioni. In lui il riferimento al passato contadino diventa generico, disponibile a recuperi nostalgici e piuttosto edulcorati, come dimostrano il racconto autobiografico Il corvo (1971), già ricordato, e soprattutto, I bambini della cascina. Crescere tra le due guerre (Venezia 1999), dedicato alla memoria di quello che avrebbe significato «crescere tra le due guerre».

Per comprendere questo passaggio, che corrisponde sul piano locale a una spaccatura a metà degli anni Sessanta del gruppo di Piadena tra il maestro e i suoi più giovani collaboratori e alla nascita della Lega di cultura, bisogna rifarsi proprio al mutato contesto che matura a mezzo del decennio, con la conclusione del primo ciclo della scuola media unificata (1963-1966).

I temi demartiniani dei primi anni Cinquanta furono consegnati a una sorta di antiquaria proletaria ormai del tutto incapace di cogliere, almeno sul piano dell’educazione, le nuove questioni poste dalla scolarizzazione di massa. Anche le proposte operative del vecchio Movimento di cooperazione educativa di Tamagnini e compagni conobbero una crisi significativa. Il vecchio progetto resistenziale della scuola per i figli dei contadini poveri è ormai superato dagli eventi. Il centro dell’associazione abbandonò, allora, la sua antica dislocazione periferica e rurale e si spostò sempre di più verso i centri urbani maggiori, Torino innanzitutto e poi Roma, l’Università e i nuovi saperi a base psicologica, più adatti ad affrontare le questioni inedite poste dall’integrazione degli alunni di nuovo tipo prodotti dalla riforma dell’istruzione post elementare.

La nuova scuola di massa ha ormai nel mondo contadino non più un referente sociale concreto ma semmai un paradigma di natura mitopoietica. I contadini forniscono al nuovo immaginario pedagogico le figure rimpiante di un mondo sociale compatto vagheggiato nella forma di quella che Michelangelo Pira ha definito la «bottega familiare» (cfr. La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano 1978): spazio dell’integrazione di conoscenze e pratiche, sapere e saper fare, di cui la scuola avrebbe dovuto fornire una sorta di riproduzione artificiale, da laboratorio, nel nome dei bambini dei banchi dell’ultima fila prodotti dalla difficile inclusione del nuovo popolo della scuola media nel quadro di un'istruzione prolungata.

Ripulito di ogni asprezza, deconflittualizzato e reso ideologicamente neutro, il mondo rurale-contadino poteva così diventare la base di una pedagogia senza troppe pretese teoriche e Lodi il maestro per eccellenza della nuova scuola democratica che, messa su questa strada, imparava a concepire se stessa in termini di pratiche più che di studio, di valorizzazione delle 'culture' in opposizione al tradizionale primato della cultura, polemicamente identificata in termini di astrazione intellettuale e ideologico-letteraria. Insomma, come custode di valori perduti più che come istituzione impegnata a sostenere, con forti strumenti intellettuali, la fuoriuscita della società italiana dalla sua lunga condizione di arretratezza. E questo avveniva negli anni cruciali della grande trasformazione del Paese.

Per questa via il tema delle espressioni spontanee e via via coscienti della cultura della classe, che era stato al centro della ricerca di Bosio e della sua proposta di una federazione delle leghe di cultura, riformulato sul terreno dell’educazione, si risolveva nella formula certamente più inoffensiva del diritto all’espressione, garantito dalla Costituzione, dei semplici, bambini in testa. Nel nome di una scuola ancora una volta meno preoccupata di istruire che di controllare ideologicamente il nuovo popolo.

In questo contesto Lodi incontrò Gianni Rodari. Rodari era in contatto con Bruno Ciari, ex partigiano garibaldino e segretario della Sezione comunista di Certaldo. Per il quotidiano Paese sera seguiva le attività di Cooperazione educativa. Fu Rodari che mise in contatto Lodi con Einaudi, cui aveva già proposto la pubblicazione dei testi del gruppo di Tamagnini (Lettere a Don Julio Einaudi…, 2008, p. 69). Attraverso l’autore delle Filastrocche in cielo e in terra, il maestro di Piadena conobbe Daniele Ponchiroli, che andò a trovare nella sua casa di Viadana, alla fine degli anni Sessanta. Ponchiroli, che con lo pseudonimo di Franco Bedulli aveva scritto un libro per ragazzi ed era inoltre un raffinato illustratore, aveva un interesse specifico per la nuova letteratura per i bambini, oltre che una particolare attenzione politica per la nuova questione scolastica.

Il paese sbagliato, il diario dell’esperienza didattica condotta a Vho di Piadena dal 1964 al 1969, che prolunga le riflessioni del precedente C’è speranza se questo accade al Vho, uscì nel 1970 non più per le edizioni del Partito socialista ma per i tipi ben più prestigiosi dell’editore torinese. Il libro vinse il premio Viareggio nel 1971 e Lodi divennne uno scrittore di successo.

La fama di Lodi è fortemente legata alla particolare temperie ideologica degli anni Settanta e si prolunga sostanzialmente come effetto della sua stanca sopravvivenza culturale nell’Italia, pure profondamente cambiata, dei decenni successivi. L’affermazione del maestro di Piadena a partire dalla pubblicazione del Paese sbagliato surroga la crisi di fatto dei tentativi del secondo dopoguerra di una nuova pedagogia e si risolve, insieme all’altra esperienza 'contadina', quella di Barbiana, in una mitografia della scuola democratica sempre più distante dai movimenti reali dei sistemi di istruzione.

Lodi aveva incontrato don Lorenzo Milani nell’agosto del 1963 grazie alla mediazione del giornalista Giorgio Pecorini, lo stesso che alla fine del decennio avrebbe fatto da tramite con Tullio De Mauro. Nella pratica della scuola di Barbiana della scrittura collettiva, Lodi aveva ritrovato alcuni punti di contatto con la sua antica ispirazione freinetiana e da lì era nato un breve scambio epistolare con don Milani. Dopo questa stagione e sempre sulla linea di una pedagogia degli ultimi, Lodi incrociò negli anni Ottanta la divulgazione della pedagogia degli oppressi del brasiliano Paulo Freire, in occasione della partecipazione nel 1986 al convegno, organizzato ad Assisi dal Centro di educazione alla mondialità, «Liberare l’educazione sommersa». Si tratta, come è evidente, di materiali eterocliti incapaci di ricomporsi in un quadro coerente, tale da dare forma a una rinnovata proposta pedagogica e culturale.

Messo a riposo nel 1978, dagli anni Ottanta in avanti Lodi appare sostanzialmente impegnato ad amministrare il patrimonio di esperienza accumulato negli anni di più intensa militanza magistrale, come testimonia l’iniziativa più rilevante dell’ultima fase della sua vita, la costituzione nel 1989, con i proventi del premio internazionale «Lego», della Casa delle arti e del gioco in una cascina di Drizzona, il Comune a pochi chilometri da Piadena in cui si trasferì nel gennaio del 1990.

Quel mondo rurale che aveva avuto il suo centro nella cascina padana primo-novecentesca torna alla fine, ormai dileguatosi come mondo sociale concreto, nella forma di una vaga metafora pedagogica, come citazione di uno spazio di possibilità della libera esperienza infantile prima della televisione.

Nel 2000 Tullio De Mauro, allora ministro della Pubblica istruzione, lo nominò nella commissione incaricata del riordino dei cicli scolastici e nel 2001 membro dell’Indire, l’istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, nato dalla soppressione della Biblioteca nazionale pedagogica e riconfigurato con la nascita del Sistema nazionale di valutazione nel 2011. In quegli anni scrisse su un tema in lui sempre presente, il rapporto tra scuola e Costituzione, (Costituzione. La legge degli italiani, riscritta per i bambini, per i giovani… per tutti, a cura di M. Lodi, Drizzona 2008).

Mario Lodi morì, al termine di una lunga e intensa vita, tre anni più tardi, il 2 marzo 2014.

Fonti e Bibliografia

Piadena, Archivio del Comune, Ufficio Anagrafe, Schede anagrafiche personali, ad nomen; Archivio di Stato di Cremona, Questura di Cremona, Indice dei sovversivi, b. 75, f. 1768; Distretto militare di Cremona, Fascicoli militariFogli matricolari, ad nomen; Cremona, Archivio del liceo Sofonisba Anguissola, Registri, anni 1933-1840.

Sui rapporti con Gianni Bosio si veda G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, a cura di C. Bermani, Milano 1998, ad ind., in particolare la sezione Cronologia della vita e delle opere di Gianni Bosio; si vedano anche F. Nardini, Dalle società di mutuo soccorso ai sindacati: il movimento operaio e contadino nella Bassa, ad indicem e R. Musoni, Gianni Bosio e l’ «altra cultura», in Atlante della Bassa, II, Uomini, vicende, paesi della pianura orientale, Brescia 1984, pp. 79-82; 92-96 e il più recente A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’ Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino 2012, pp. 90-128 (sull’esperienza di Lodi a Piadena); sul Movimento di cooperazione educativa, Didattica operativa. Le tecniche di Freinet in Italia, a cura di G. Tamagnini, Frontale 1965, passim (Azzano San Paolo 2002); su Daniele Ponchiroli si veda G. Davico Bonino, Incontri con uomini di qualità. Editori e scrittori di un’epoca che non c’è più, Milano 2013, pp. 46-51; sulla proposta di Gianni Rodari a Einaudi riguardo a Tamagnini e compagni si veda G. Rodari, Lettere a Don Julio Einaudi, Hidalgo editorial e ad altri queridos amigos (1952-1980), a cura di S. Bartezzaghi, Torino 2008, p. 69; sui rapporti tra Lodi e don Lorenzo Milani e tra Lodi e De Mauro si veda, tra gli altri, la testimonianza di quest’ultimo in T. De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di F. Erbani, Roma 2010, pp. 100 s. Il sito http://gruppo_padano_piadena.e-cremona.it/biblioteca_popolare/storia_del_natale.htm è stato visitato il 12 giugno 2015.

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