ROATTA, Mario

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

ROATTA, Mario

Filippo Focardi

ROATTA, Mario. – Nacque a Modena il 2 gennaio 1887 da Giovan Battista, capitano di fanteria, e da Maria Antonietta Richard, francese originaria della Savoia.

Nel 1904 entrò come allievo alla scuola militare di Modena. Appena diciannovenne, nel 1906, divenne sottotenente presso il 26° reggimento di fanteria a Torino; tre anni dopo ottenne i gradi di tenente. Nel 1911 fece ingresso alla scuola di guerra di Torino, istituto militare superiore destinato alla formazione degli ufficiali di carriera. Nell’agosto del 1914, a soli 27 anni, fu nominato capitano nel corpo dello stato maggiore dell’esercito. Partecipò alla Grande Guerra combattendo sul fronte italiano, albanese e francese, dove fu capo di stato maggiore di una divisione del II corpo d’armata guidato dal generale Alberico Albricci. Nel gennaio del 1917 fu promosso maggiore e poi tenente colonnello, nell’ottobre dello stesso anno; al termine della guerra aveva ricevuto tre medaglie d’argento al valor militare da parte italiana e la croce di guerra francese.

Nel febbraio del 1919 fu inviato a Berlino come capo di stato maggiore della missione militare italiana incaricata del rimpatrio dei prigionieri di guerra russi; nell’agosto fu addetto della sezione militare della delegazione italiana impegnata a Parigi nei negoziati di pace.

Non si hanno notizie circa il suo orientamento politico nel periodo dell’avvento al potere del fascismo. Il 14 gennaio 1922, nell’anno della marcia su Roma (28 ottobre), sposò Ines Mancini, con la quale nel 1928 ebbe un figlio, Sergio.

Negli anni Venti fu istruttore della scuola centrale di fanteria a Civitavecchia. Dal febbraio 1926 al dicembre 1930 fu addetto militare presso la legazione d’Italia a Varsavia, ricevendo poi un accreditamento anche in Lettonia, Estonia e Finlandia. Nel maggio del 1929 fu nominato addetto militare presso la legazione d’Italia a Helsinki. Nel frattempo, nel dicembre del 1926, era stato promosso a colonnello e nel febbraio 1928 nominato aiutante di campo del re Vittorio Emanuele III.

Rientrato in Italia, dal dicembre del 1930 al luglio del 1933 assunse il comando dell’84° reggimento di fanteria, passando poi al corpo d’armata di Bari come capo di stato maggiore.

Legato al sottosegretario alla Guerra Federico Baistrocchi, nel gennaio del 1934 Roatta fu da questi chiamato a dirigere il Servizio informazioni militare (SIM), ovvero il servizio segreto militare, un organo fondato nel 1925 e dipendente dal capo di stato maggiore dell’esercito. Fu artefice di un’importante opera di modernizzazione e potenziamento del SIM, che fu uno strumento efficace e senza scrupoli della politica di espansione dell’Italia fascista in Etiopia e in Spagna. In quest’ultimo Paese cooperò con i servizi segreti della Germania nazista. Si deve a lui, nel 1936, la costituzione, nell’ambito del SIM, di una sezione Servizi speciali alle dirette dipendenze del sottosegretario alla Guerra e capo di stato maggiore dell’esercito Alberto Pariani, adibita a svolgere azioni di sabotaggio, attentati, omicidi, attività sovversive e di terrorismo. L’episodio più noto fu l’assassinio, a Bagnoles-de-l’Orne (Francia), il 9 giugno 1937, del leader antifascista Carlo Rosselli e del fratello Nello commesso da sicari appartenenti a un gruppo di estrema destra francese, la Cagoule, sulla base di un piano orchestrato dai più stretti collaboratori di Roatta attivi nel controspionaggio del SIM, fra cui il tenente colonnello dei carabinieri Santo Emanuele.

Roatta ebbe un ruolo di primo piano nell’intervento italiano a sostegno delle forze nazionaliste spagnole del generale Francisco Franco. Nel settembre 1936, su mandato di Benito Mussolini e del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, si recò sotto falso nome presso il quartier generale di Franco, dove stabilì la Missione militare italiana in Spagna (MMIS). In virtù del nuovo incarico delegò i poteri in seno al SIM al suo vice, il colonnello Paolo Angioy, rimanendo tuttavia formalmente capo del Servizio fino al giugno del 1937. Il 7 dicembre 1936 il duce mise tutte le forze armate italiane in Spagna al comando di Roatta, che dal 1933 aveva assunto il grado di generale di brigata. Il 16 febbraio 1937, sempre sotto il suo comando, fu costituito il Corpo truppe volontarie (CTV), che raggruppava quattro divisioni di ‘legionari’ italiani. All’inizio di febbraio 1937 Roatta aveva guidato i suoi uomini al successo nella battaglia per la conquista di Malaga (dove fu ferito a un braccio da un colpo di mitragliatrice), che gli valse la promozione a generale di divisione per meriti di guerra e la medaglia d’argento al valor militare. Il mese successivo subì però lo smacco di una grave sconfitta a Guadalajara, sul fronte madrileno, dovuta a impreparazione e sottovalutazione dell’avversario, fra le cui fila combatteva il battaglione Garibaldi, composto da volontari antifascisti italiani. La débâcle gli costò la rimozione, nell’aprile 1937, dal comando del CTV, che fu affidato al generale di corpo d’armata Ettore Bastico.

Fino al 1° dicembre 1938 Roatta restò tuttavia in Spagna alla guida di reparti italiani impegnati sul fronte settentrionale (Bilbao e Santander) e dopo la fine della guerra, nel 1939, ricevette il titolo di cavaliere dell’ordine militare di Savoia e da Franco la Medalla militar.

Guadalajara rappresentò solo un intoppo passeggero nella carriera militare di Roatta, che godeva della protezione del ministro degli Esteri Ciano: dopo un breve periodo passato a Berlino come addetto militare dell’ambasciata d’Italia (17 agosto - 10 novembre 1939), il 16 novembre 1939 fu nominato sottocapo di stato maggiore dell’esercito, affiancando il capo di stato maggiore maresciallo Rodolfo Graziani. Ebbe dunque un ruolo importante nella pianificazione della partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale. Quando, alla fine di giugno, Graziani assunse il comando operativo delle forze italiane in Libia Roatta si trovò a svolgere di fatto le funzioni di capo di stato maggiore, carica che ricoprì ufficialmente dal 24 marzo 1941 al 20 gennaio 1942. In quest’ultimo mese ricevette la croce di ferro tedesca.

Come dimostrano le informative raccolte dal duce, l’azione di Roatta al vertice dello stato maggiore suscitò negli ambienti militari numerose critiche, tanto che il comando supremo, guidato dal generale Ugo Cavallero, lo destituì dalla carica e gli affidò, non certo come premio, il comando della 2a armata di stanza in Slovenia, Dalmazia e Croazia (territori occupati dall’Italia nell’aprile 1941). Tenne tale comando dal marzo del 1942 al febbraio del 1943, distinguendosi per una draconiana politica repressiva nei confronti del movimento partigiano iugoslavo affrontato con misure di controguerriglia compendiate in una circolare (Circolare 3C) diramata proprio nel marzo del 1942. Nel contesto di una guerra feroce da ambo i lati, sotto il suo comando gli occupanti italiani si macchiarono di numerosi crimini di guerra contro la popolazione civile. Roatta ebbe invece un ruolo cruciale nel salvataggio di circa 2500 ebrei che si erano rifugiati nelle zone sotto controllo italiano, opponendosi alle reiterate domande di consegna avanzate dalle autorità croate e tedesche animate da propositi di sterminio.

Tornato in Italia, dall’11 febbraio 1943 fu al comando della 6a armata in Sicilia, ma già il 1° giugno 1943 fu nuovamente nominato capo di stato maggiore dell’esercito. Confermato nella carica dopo la sfiducia a Mussolini votata il 25 luglio 1943 dal Gran consiglio del fascismo, nei quarantacinque giorni del governo di Pietro Badoglio ordinò la repressione delle manifestazioni popolari autorizzando l’esercito a procedere come «contro truppe nemiche» (L’Italia dei quarantacinque giorni. Studio e documenti, Milano 1969, pp. 11 s.).

Insieme al re, a Badoglio, al capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio e agli altri generali al vertice delle forze armate Roatta ebbe gravi responsabilità nella gestione dell’armistizio firmato con gli anglo-americani a Cassibile il 3 settembre e reso noto l’8. Lasciò i comandi e le truppe senza chiare direttive, e quindi in balia dell’ex alleato germanico, né predispose alcuna azione adeguata per difendere Roma, dove pure i rapporti di forza avrebbero permesso una resistenza antitedesca (peraltro prevista dagli accordi con gli Alleati, pronti all’invio di una divisione aviotrasportata). Anzi, il 9 settembre ordinò al corpo motocorazzato del generale Giacomo Carboni di ripiegare su Tivoli e subito dopo si mise in salvo raggiungendo via mare Brindisi insieme al re e ai suoi familiari, a Badoglio e agli altri esponenti militari e del governo.

Dopo la costituzione del Regno del Sud, alla fine di settembre, Badoglio confermò Roatta nella carica di capo di stato maggiore dell’esercito e Ambrosio in quella di capo di stato maggiore generale. Con ciò suscitò vibrate proteste sia da parte iugoslava sia da parte della stampa e del Parlamento britannici, che consideravano i due generali italiani dei criminali di guerra: il 18 novembre 1943 Badoglio li esonerò entrambi.

Nell’autunno dell’anno successivo, dopo la liberazione di Roma e la formazione del governo Bonomi, Roatta fu indagato dalla Commissione d’inchiesta per la mancata difesa di Roma e nell’ambito dei processi di epurazione, come ex capo del SIM, fu arrestato il 16 novembre 1944 su ordine dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo per rispondere dell’omicidio dei fratelli Rosselli e di altre azioni di natura terroristica. Il 22 gennaio 1945 si aprì a Roma, presso l’Alta Corte di giustizia, il processo a carico di Roatta e di altri 14 imputati, fra i quali esponenti del ministero degli Esteri e alcuni suoi collaboratori al SIM come Santo Emanuele, Paolo Angioy e Roberto Navale. La sera del 4 marzo 1945, sebbene principale imputato nel dibattimento, Roatta fuggì dall’ospedale militare presso il liceo Virgilio, dove era stato ricoverato per problemi cardiaci. La fuga suscitò enorme scalpore e grandi proteste di piazza: a Roma e in numerose altre località italiane vi furono manifestazioni e scioperi promossi dai partiti della sinistra. Risultò subito evidente che per mettersi in salvo Roatta aveva potuto contare su un aiuto esterno e su connivenze istituzionali. In un memoriale pubblicato nel 1955, Sciacalli addosso al SIM, affermò di aver compiuto la fuga da solo, dopo aver appreso che alcuni settori del governo erano propensi a concedere alla Iugoslavia di Tito la sua estradizione come criminale di guerra. Dopo la fuga di Roatta il governo Bonomi provvide a esonerare dall’incarico di comandante dell’Arma dei carabinieri il generale Taddeo Orlando, già subalterno di Roatta in Iugoslavia, per non aver provveduto a un’adeguata sorveglianza.

Il 12 marzo 1945 l’Alta Corte condannò in contumacia Roatta all’ergastolo; il giorno stesso fu degradato, cessando dal ruolo di generale designato d’armata. In settembre il ministro della Guerra chiese alla Procura generale militare di procedere contro il latitante Roatta per «resa colposa» quale «principale responsabile» del «disastro morale e materiale» seguito all’8 settembre. Nel frattempo, come altri militari e civili italiani inscritti nelle liste dei criminali di guerra delle Nazioni Unite, Roatta restava nel mirino delle autorità iugoslave che ne chiedevano la consegna ai sensi dell’armistizio ‘lungo’ (e poi del trattato di pace). Le autorità di Roma si opposero, rivendicando il diritto di giudicare i presunti criminali di guerra presso tribunali italiani. A questo scopo nel maggio del 1946 fu istituita presso il ministero della Guerra una commissione d’inchiesta per vagliare il comportamento degli indiziati. Nell’ottobre del 1946 Roatta fu inscritto dalla commissione in una lista di criminali di guerra contro cui avrebbe dovuto procedere la giustizia militare italiana.

Nel clima di mobilitazione anticomunista generato dalla guerra fredda le priorità cambiarono rapidamente. Il 6 marzo 1948 la Corte di cassazione annullò la sentenza dell’Alta Corte di giustizia: Roatta riottenne così la libertà e i gradi; il 19 febbraio 1949 il Tribunale militare di Roma stabilì poi il «non doversi procedere» anche per le accuse rivoltegli di «resa colposa» e «abbandono di comando» dopo l’8 settembre perché «i fatti non sono preveduti dalla legge come reati» (L’armistizio e la difesa di Roma, s.l. 1949, p. 115). Infine, nel giugno 1951 la Procura generale militare archiviò anche l’istruttoria per i crimini di guerra sulla base di un cavillo giuridico offerto dall’art. 165 del codice penale militare di guerra, che vincolava l’azione giudiziaria italiana al presupposto della reciprocità, vale a dire alla disponibilità della Iugoslavia di Tito a procedere nei confronti di chi aveva commesso crimini di guerra contro cittadini italiani, come nel caso delle foibe.

Sulla latitanza di Roatta resta ancora un fitto mistero. Fonti americane coeve segnalarono che si fosse rifugiato presso l’ambasciata spagnola in Vaticano; altre indicarono il suo rifugio in una villa del Senese. Il mistero avvolge anche le sue attività. Secondo alcune carte provenienti da un fondo del ministero degli Interni rinvenuto negli anni Novanta dallo storico Aldo Giannuli (il cosiddetto armadio della vergogna), Roatta sarebbe stato il fondatore di un servizio segreto clandestino – il ‘noto servizio’ o ‘Anello’ – attivo in Italia dalla fine della guerra agli anni Ottanta in funzione anticomunista (S. Limiti, L’Anello della Repubblica, Milano 2009). Nessuna notizia è stata però rintracciata sulle attività svolte da tale servizio negli anni in cui Roatta era ancora in vita.

Nel dopoguerra pubblicò a scopo difensivo due ampi memoriali: il primo, Un generale e otto milioni di baionette (Milano 1946), ricostruisce le vicende della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale e il ruolo svolto dall’autore; il secondo, Sciacalli addosso al S.I.M. (Roma 1955), unisce una difesa dell’operato del SIM alla ricostruzione del processo subito nel 1945 e culminato nella fuga.

È certo che dopo l’annullamento della sentenza di condanna dell’Alta Corte Roatta si stabilì in Spagna, dove poté contare sulla protezione di Franco e dove ufficialmente risultò impegnato in attività di import-export. Tornò in Italia nel 1966, due anni prima di morire a Roma il 6 gennaio 1968.

Fonti e Bibl.: Roma, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Archivio storico, Direzione generale per il personale militare, stato di servizio n. 6617; Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 73, f. 525: R. gen. M.; Ministero della Difesa, Stato maggiore dell’esercito, Ufficio segreteria e personale, b. 21; Presidenza del Consiglio dei Ministri, f. 1.2.1. 29441/1: Generale M. R. - evasione ospedale di Roma; Roma, Archivio della Camera dei deputati, Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, Documenti ministero Affari esteri, Processo R., 107/4; Il processo R., Roma 1945; A.M. Brondi, Un generale e otto milioni di baionette, Roma 1946; C. Conti, Servizio segreto. Cronache e documenti dei delitti di Stato, Roma 1946; Il processo Carboni-R. L’armistizio e la difesa di Roma nella sentenza del tribunale militare, s.l. 1949; F. Borsato, La leggendaria fuga del generale R., Roma 1965; L’Italia dei quarantacinque giorni. Studio e documenti, Milano 1969.

E. Ni., R., M., in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, V, Milano 1987, pp. 207 s.; M. Legnani, Il «ginger» del generale R. Le direttive della 2a armata sulla repressione antipartigiana in Slovenia e Croazia, in Italia contemporanea, dicembre 1997 - marzo 1998, nn. 209-210, pp. 156-174; R.P. Domenico, R., M., in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia - S. Luzzatto, II, Torino 2003, pp. 532 s.; C. Di Sante, Un generale all’altezza dei tempi: M. R., in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, IV, t. 2, Il ventennio fascista: la seconda guerra mondiale, a cura di M. Isnenghi - G. Albanese, Torino 2008, pp. 442-449; U. Munzi, Il generale. La storia misteriosa di M. R., Costabissara 2009.

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