LUTERO, Martino

Enciclopedia Italiana (1934)

LUTERO, Martino

Alberto PINCHERLE
Giuseppe GABETTI

Infanzia e giovinezza. - Ego sum rusticus et durus Saxo; "io non sono della Turingia, appartengo alla Sassonia): ma queste dichiarazioni indicano solo la lealtà di L. verso il suo principe e la sua reazione contro le voci che lo dicevano originario della Boemia e ussita. Heine Luther (anche Ludher, Luder, Lutter, Lauther, ecc.), il nonno, discendeva da una famiglia di contadini stabilita in Möhra, nella Turingia, tra Salzungen e Eisenach. Da Möhra, suo figlio Hans s'era recato in cerca di fortuna, come minatore, a Eisleben; e lì, il 10 novembre 1483 - secondo il computo più probabile - gli nasceva il primo figliolo, battezzato l'indomani nella chiesa di S. Pietro col nome del santo del giorno: Martino.

Povera gente, dunque. Ma non conviene esagerare questa miseria. Hans era stato un povero minatore; sua moglie, Margaretha Ziegler, si portava in spalla la legna. Ma L. stesso soggiunge, parlando del padre: in adolescentia sua; e in Mansfeld, nel centro del distretto minerario e sede di più intensa vita economica, dove s'era trasferito già all'inizio dell'estate del 1484, la fortuna dovette arridere a Hans, che tra il 1491 e il 1507 ci appare borghese abbastanza influente e imprenditore prosperoso, padrone di case e cavalli. Ricchezza, s'intende, relativa; benessere acquistato forse non meno col lavoro, la tenacia, l'astuzia, che con l'economia rigida, onde appare abbastanza verosimile che i sette figli soffrissero qualche privazione, non però eccessiva: il tenor di vita, insomma, d'una famiglia della piccola borghesia cui peraltro non mancavano, per ascendere ancora, né forza né ambizione.

E questa, certo, suggerì a Hans di far studiare il figlio. Dapprima, nella scuola stessa di Mansfeld; poi, dopo la Pasqua del 1497, a Magdeburgo, nella scuola annessa al duomo, affidata ai Fratelli della vita comune. Qui, nell'atmosfera di una pietà e di una vita religiosa particolarmente intense, L. ebbe probabilmente la prima conoscenza diretta della Bibbia, che una leggenda ispirata da motivi di polemica anticattolica attribuì a un'epoca di parecchio più tarda. L'anno seguente, Martino fu mandato in Eisenach, dove vivevano alcuni parenti, come Konrad Hutter e dove nella scuola di San Giorgio, diretta da un Giovanni Trebonio e sotto la guida anche di Wigand Güldennapf, continuò la sua preparazione agli studî superiori. Ma anche lì dovette guadagnarsi il pane, questuando e cantando: come del resto i suoi compagni. La leggenda ha poi ricamato attorno a ciò episodî non privi di gentilezza; suggeriti forse dalla buona accoglienza che al ragazzo fecero i ricchi borghesi Kunz e Ursula Cotta, il loro parente Heinrich Schalbe e il vicario della chiesa della Madonna, Johann Braun.

Di tutto questo suo mondo di Eisenach, L. serbò poi sempre vivo il ricordo. Ma non sembra che ricevesse una formazione scolastica diversa dalla tradizionale, nè che in Eisenach più che in famiglia subisse influssi spirituali che ci permettano di preconizzare in lui, nonché il riformatore, il monaco. Nulla autorizza a ritenere ch'egli fosse animato da un fervore religioso particolare; mentre neppure vaga notizia gli giunse della predicazione apocalittica e antiromana di quel Giovanni Hilten, recluso appunto allora in Eisenach, e del quale, come d'un precursore, doveva interessarsi nel 1529.

Così, all'inizio del semestre estivo del 1501, L. s'immatricolava studente nella facoltà delle arti dell'università di Erfurt. Conseguì il baccalaureato alla fine del 1502; ottenne il grado di maestro delle arti, secondo su 17 candidati, il giorno dell'Epifania del 1505.

Quale cultura aveva ricevuto? I suoi maestri, tra i quali spetta un posto particolare a Jodocus Truttvetter e a Bartolomeo (Arnoldi) di Usingen, erano tutti seguaci di quella che si chiamava allora la "scuola moderna": l'occamismo, il cui influsso L. doveva subire con forza anche maggiore più tardi. La predicazione eterodossa di Giovannì di Wesel non sembra avesse lasciato alcuna traccia nell'università, dove s'era occupato soltanto di filosofia. L'umanesimo, come corrente culturale e modo di vita - all'infuori cioè della lettura dei classici latini fondamentali - non sembra abbia potuto esercitare allora alcuna influenza sul giovine L.: ché Nicola Marschalk, dopo avervi insegnato anche greco, lasciava Erfurt proprio nell'ottobre 1502; insomma, l'umanesimo non s'era ancora affermato nel mondo universitario. E il "circolo umanistico" di Erfurt attorno a Muziano Rufo (Konrad Mut), del quale si è parlato, dopo un esame più attento rischia, per quanto riguarda L., di svanire nel nulla. Ché Muziano e L. si conobbero solo molto più tardi; e di tutti i componenti di quel circolo, Martino, nei suoi anni universitarî, conobbe forse il solo Croto Rubiano (Johann Jäger, di Dornheim), che lo ricorda, in lettere del 1519 e 1520, compagno di scuola, e tutto preso dalla filosofia e dalla musica; ma non accenna affatto a un interesse di L. per la letteratura.

Promosso magister artium, L. doveva per due anni tenere lezioni ed esercitazioni sulle arti liberali: e a partire dal giorno di S. Giorgio (24 aprile) incominciò, leggendo molto probabilmente la Fisica. Ma ciò non gli precludeva la via a studî ulteriori: e il padre, fiero del suo Martino, sognava per lui una carriera anche più onorevole, e soprattutto più lucrosa, di quella dell'insegnante; e pensava già ad accasarlo vantaggiosamente. Così, per ottemperare a un desiderio paterno, L. s'iscriveva nella facoltà giuridica, si provvedeva di una copia del Corpus iuris (non sappiamo se canonico o civile, ma è da supporsi il secondo) e, se possiamo fidarci d'un suo ricordo lontano (del 1545), incominciò a leggere Accursio. Ma secondo altre notizie, L. si sarebbe dedicato, fin dal principio, al diritto canonico. Se fosse vero, ciò avrebbe importanza grande: perché, essendo del tutto improbabile che Hans pensasse a fare del figlio un canonista, cioè un chierico, sarebbe da attribuire interamente alla volontà di Martino.

Ed ecco sopravvenire quello che alcuni biografi presentano come il coronamento naturale d'una lunga preparazione spirituale, altri (e tra i più recenti) come subitanea "catastrofe": l'ingresso nel chiostro. Il 2 luglio, un mercoledì, L., di ritorno da una visita fatta ai suoi, presso Stotternheim (a circa 6 km. da Erfurt) fu colto da un temporale. Un fulmine cadutogli vicinissimo lo sbigottì; pieno di sgomento mormorò, in tedesco, l'invocazione: "Aiutami tu, cara S. Anna, e io diventerò un monaco". Gli amici cui rese nota la sua deliberazione, lo dissuasero; tuttavia, egli perseverò e diede laro una cena di addio. Il giorno dopo (S. Alessio, 17 luglio) ne fu accompagnato alla porta del convento degli agostiniani.

Questo il racconto, generalmente accolto come genuino, di L. medesimo (TR., IV, 4707). Ma in questo racconto si dice, prima di accennare ai consigli degli amici, ch'egli stesso si pentì del voto. Ciò ha indotto i critici ad aprire una lunga discussione intorno alla validità del voto medesimo. Discussione, in fondo, oziosa, perché, comunque, L. avrebbe potuto esimersi dal pronunciare i voti solenni alla fine del noviziato, o almeno ritardarli. Ma l'allusione al pentimento, fatta nel 1539, come la qualifica: coactum et necessarium votum, nella prefazione al De votis monasticis iudicium (1521), tradiscono già la mentalità di L. riformatore, non quella del 1505. La leggenda s'impadronì poi dell'episodio. Melantone non lo ricorda, ma attribuisce la decisione di entrare in convento al dolore provato per la morte d'un amico. Gli eruditi moderni ci sanno dire anche il nome di Girolamo Buntz, morto di pleurite prima di poter conseguire il diploma magistrale: ma il compagno di cui parlano Melantone e Mathesius sarebbe perito di morte violenta. Da chi sottolinea la subitaneità della risoluzione, si ricorda un altro episodio, quando L., passeggiando in campagna con un amico, per caso si ferì ad una gamba e perdette tanto sangue, da ridursi in fin di vita: perché allora egli invocò bensì l'aiuto della Vergine, ma non pensò affatto di entrare in convento. Di questo elemento del compagno che gli era vicino, si compiacque poi l'elaborazione leggendaria: fino a dargli il nome di Alessio e farlo morire al fianco di L. E, sempre per spiegare il suo atto, s'invoca altresì l'epidemia di peste che, sappiamo, persuase poco dopo Hans, già privato da essa di due figli, a recedere dalla sua opposizione.

Un indirizzo critico intermedio è rappresentato da K. Holl, secondo cui il voto fu "l'adempimento di un desiderio segreto", che L. avrebbe accarezzato per qualche tempo. In questa direzione, che cerca i motivi della sua decisione in uno stato d'animo del quale egli stesso non aveva avuto fino a Stotternheim chiara coscienza, è forse lecito fare anche qualche altro passo; pur non dimenticando che siamo nel campo delle ipotesi. Appare da dichiarazioni di L. stesso che i progetti del padre e gli studî legali - Martino era minus amans lucra - non corrispondevano alle sue aspirazioni. Ora, a Stotternheim, L. stava ritornando da casa. Non appare psicologicamente assurdo che, lungo la via, il giovine meditasse sul contrasto tra le sue aspirazioni e quelle del padre. Víssuto da parecchi anni ormai nel mondo della cultura e dello studio disinteressato; spirito fantasioso, amante della musica, incline al poetico e particolarmente sensibile al fascino della natura, egli doveva sentire vivissima quell'attrazione per la vita speculativa, comune a tanti giovani e, a quell'età, causa non infrequente di dissidî familiari. Alla preoccupazione che la vera libertà dello spirito e la salvezza dell'anima non fossero conseguibili dedicandosi a un'attività pratica; e, insieme, all'attrazione che il chiostro poteva esercitare su lui come un mezzo per sottrarsi alla volontà del padre, si possono essere aggiunti anche scrupoli morali. La vita degli studenti, per quanto regolata da prescrizioni minute, non doveva essere molto esemplare. Così tutte le aspirazioni segrete del suo animo, in lotta sorda contro il padre e contro l'ambiente che offendeva il suo senso morale (forse reso più sensibile da rimorsi) si sarebbero come concentrate e, nel voto provocato dal terrore di morire all'improvviso o comunque di non potere altrimenti salvare l'anima, avrebbero trovato - almeno per il momento - la loro espressione.

La crisi spirituale. - Il convento degli agostiniani eremitani di Erfurt apparteneva alla sezione dell'ordine detta degli osservanti. Ma per quanto il novizio dovesse adattarsi, anche a necessaria prova della sua vocazione, alle asprezze che la vita ascetica naturalmente comporta, è tardiva leggenda il racconto di maltrattamenti. L. stesso ricorda con affetto il maestro dei novizî, che gli suggerì letture patristiche; e, lungi dall'essere impedito di studiare la Bibbia, ne ricevette una entrando nel monastero. Probabilmente nel settembre 1506, L. pronunziò i voti solenni: può darsi che - come L. asserisce - alcuni monaci considerassero questa cerimonia come un nuovo battesimo. Dopo di che egli, che come maestro delle arti possedeva i titoli necessarî, ebbe l'autorizzazione o il consiglio di proseguire gli studî, nella facoltà teologica connessa col monastero, sotto la guida di Johann Paltz e Johann Nathin, entrambi seguaci di quell'indirizzo occamistico, che abbiamo visto prevalente in Erfurt. Così egli lesse in quel tempo le opere dí G. Biel e di Pietro d'Ailly, di altri teologi medievali, e dello stesso Occam. L'influenza dei principî fondamentali di questa corrente teologica - in specie, la separazione netta tra la conoscenza razionale e quella della fede, e la tesi dell'assoluta arbitrarietà dell'azione divina (non: Dio vuole il bene, ma: bene è tutto ciò che Dio vuole) - è riconoscibile anche nella sua teologia di riformatore. Fra Martino si avviava così verso una carriera accademica, di cui doveva percorrere le varie tappe con notevole rapidità. Ottenuta l'ordinazione sacerdotale, forse la Pasqua (4 aprile) del 1507, celebrava poco dopo (2 maggio) la sua prima messa, alla quale invitò alcuni amici e il padre, il quale augurò che la sua vocazione non fosse stata un miraggio e gli ricordò il dovere di onorare i genitori. Nell'autunno del 1508 veniva trasferito a Wittenberg, nell'università dove l'insegnamento teologico era affidato agli agostiniani, tra gli altri al vicario generale dell'ordine, Johann von Staupitz. L. vi lesse, nella facoltà delle arti, l'Etica nicomachea e vi continuò gli studî teologici, ottenendo nel marzo 1509 il grado di baccelliere biblico, che lo autorizzava a leggere parti della Bibbia e Aristotele. Ma l'insegnamento filosofico gli piaceva poco. Si preparava intanto a studî teologici superiori, sul testo fondamentale dell'epoca, le Sentenze di Pier Lombardo. Non è chiaro se ottenesse il grado di sententiarius ancora a Wittenberg o a Erfurt, dove effettivamente, per due semestri, lesse Pier Lombardo, fino al momento del viaggio a Roma, per recarvi la protesta del monastero contro l'unione tra osservanti e conventuali, caldeggiata dallo Staupitz.

A questo viaggio (compiuto tra l'autunno del 1510 e i primi mesi del 1511), cioè allo spettacolo della corruttela trionfante e dilagante nella Roma "Babilonia" di Leone X, una serie di biografi ha attribuito per lungo tempo importanza decisiva: l'indignazione avrebbe suggerito a L. la necessità di una radicale riforma della Chiesa. La base per questa elaborazione è data da racconti di L. stesso, troppo pieni dell'avversione al papato propria dei suoi anni maturi, per poter essere accolti senz'altro. Così, è probabilmente da respingere il racconto, di L. stesso o del figlio Paolo e di altri, secondo cui, mentre compiva devotamente la Scala santa, gli sarebbe sorto nell'anima il dubbio: "quis scit, an sit verum?" (EW., LI, p. 89) o balenato alla mente il detto di Abacuc, ripetuto da S. Paolo (Romani, I, 17): "il giusto vivrà in virtù della fede". Non meno sospetta è la diceria che L. a Roma si mettesse ad apprendere l'ebraico e rivolgesse al papa una petizione di essere esentato dai voti per un decennio, per dedicarsi agli studî. In realtà, fra Martino rimase a Roma per un tempo piuttosto breve, e dev'essere stato abbastanza occupato dalle faccende per cui era stato spedito; è credibile però che approfittasse dell'occasione per dire numerose messe, guadagnarsi delle indulgenze, e conversare con i suoi confratelli, nel convento di S. Maria del Popolo.

La missione romana fallì, e L. stesso finì con l'aderire alla tesi dello Staupitz (il quale però, di fronte all'opposizione, desistette). Perciò, ritornato a Erfurt, vi si trovò a disagio. Lo Staupitz lo trasferì a Wittenberg. Nel capitolo tenuto a Colonia nel maggio 1512, egli veniva nominato sottopriore del suo convento; nell'ottobre, conseguiva la licenza e il dottorato in teologia, provvedendo alle spese per la laurea l'elettore in persona; ma non senza che l'università di Erfurt si risentisse, per questa laurea conseguita altrove, come per una grave mancanza di riguardo. Successore dello Staupitz come professore di Sacra Scrittura, chiamato a far parte del senato accademico, già distintosi nell'ordine, e dallo Staupitz designato a predicare, L., non ancora trentenne, poteva sperare in una brillante carriera ecclesiastica, mentre era giunto al vertice di quella d'insegnante. Aveva ormai modo di proclamare e far trionfare le sue idee.

Ma cos'era la sua vita spirituale? Entrato nel monastero per' salvare l'anima propria e per "prestare maggiore ossequio a Dio", L. ha incominciato certamente con l'essere un pio e zelante monaco. Se pure non avessimo testimonianze non sospette, lo stesso suo carattere ardente e passionale potrebbe bastare a garantirci che, nel primo entusiasmo, egli fu uno zelante, scrupoloso, puntiglioso osservatore della regola; e avrà piuttosto esagerato che trascurato le pratiche ascetiche e le divozioni. Ora, la teologia occamistica gl'insegnava, in sostanza, che la volontà dell'uomo è pienamente, assolutamente libera; essa può, rivolgendosi al bene, ottenere - almeno come rimunerazione divina del suo sforzo meritorio (de congruo) - la grazia che, anche dal punto di vista della più stretta giustizia retributiva (de condigno), la rende degna della salvezza: "a chi fa quanto sta in lui, Dio non nega la grazia". Ma questa dottrina, di cui importa considerare qui solo le reazioni di natura psicologica ch'essa può provocare, è consolante e ottimistica soltanto in apparenza. Perché, chi può dire in coscienza di avere, sempre e con uniforme fermezza, fatto tutto quel che poteva? Un'anima come quella di L. doveva anzi essere portata a scrutare ogni atto, a moltiplicare gli esami di coscienza e le confessioni, a domandarsi di continuo se avesse proprio "fatto abbastanza" per "soddisfare" (satisfacere) Dio. Onde scrupoli e tormenti: le famose "tentazioni", le Anfechtungen ("angustie, afflizioni, tormenti"). Che L. distingue in corporales tentationes... ut sunt inopia, cupiditas gloriae, opum, ignominia et similes, pur riconoscendo di aver provato anche malum motum, libidinem, iram, odium, invidiam etc. adversus aliquem fratrem... tentationes irae, impatientiae, libidinis; e in spirituali, le più gravi e tremende: quando lo prendeva il terrore d'essere abbandonato da Dio, e pensava che Dio odia i peccatori, e dunque condannava anche lui, che la coscienza dichiarava peccatore e gravissimo. Allora L. tremava tutto, alla sola idea di accostarsi ai sacramenti; e correva a confessarsi presso lo Staupitz: "non de mulieribus, sed die rechten knotten". E il superiore lo consolava. Gli confidava di avere mille e mille volte promesso a sé medesimo di diventar migliore, senza mai mantenere; sapere ormai che ogni proponimento dell'uomo è inutile e vano, senza il soccorso di Cristo; e quando udiva L. esporgli i suoi dubbî sulla predestinazione, lo ammoniva di meditare sulle piaghe di Cristo: il quale "non spaventa, ma consola". (TR., I, 518; II, 2318). E, certo, lo Staupitz indusse L. a leggere Gersone. La cui teologia mistica, che - tra l'altro - muove da presupposti filosofici occamistici (v. gerson, XVI, p. 831), presenta singolari affinità con i consigli dati a L. dallo Staupitz, di confidare, con tutte le forze dell'anima, nell'opera redentrice di Cristo. Non v'ha dubbio che, tra gl'influssi subiti da L., questo sia stato uno dei più efficaci.

Vi è molto maggiore incertezza rispetto ad un'altra questione, ed è quella dell'azione che sullo spirito di L., negli anni critici, avrebbe esercitato - a detta di alcuni - la cosiddetta scuola agostiniana. Si allude all'agostinismo teologico in stretto senso, che si aggira in prevalenza, e quasi esclusivamente, attorno ai problemi della grazia e della predestinazione. Tra gli Opuscula (originali e spurî) di S. Agostino, che L. annotò nel 1509, si può dire che il solo Enchiridium ad Laurentium tratti di questi problemi; e le note apposte da lui al De Trinitate o alle Confessioni non presentano che un interesse relativamente scarso, se non in quanto contengono allusioni ostili alla filosofia in genere, a Scoto, ai "moderni" e al fabulator Aristoteles. Anzi, nelle annotazioni del 1510-11 a Pier Lombardo il peccato originale è per L. non la concupiscentia carnis, come per il Maestro delle Sentenze, ma la carentia iustitiae originalis. Ma si è detto che L. non sia stato che il continuatore di una vera e propria scuola agostiniana, perpetuatasi soprattutto nell'ordine e rappresentata dal sec. XIV in poi, dal beato Simone Fidati, da Gregorio da Rimini, da Gerardo Zerbold di Zütphen, da Giacomo Perez di Valenza, dal generale dell'ordine Agostino Favaroni; e, tra i contemporanei di L., da Giovanni Driedo e dall'altro generale dell'ordine e poi cardinale, Girolamo Seripando, difensore al Concilio di Trento della teoria della duplice giustificazione. Benché sostenuta con vigore da A. V. Müller, questa tesi non ha trovato dapprima molti consensi. Per quanto impressionanti taluni parallelismi, per quanto ad alcuni pochi di questi teologi L. faccia allusione, manca una vera dimostrazione d'una sua dipendenza da essi. E sta di fatto che i maestri di Erfurt, lo Staupitz e tutti i teologi che L. può aver conosciuto in Germania, erano più o meno imbevuti di occamismo. Più di recente si è pensato che, con queste idee, L. sarebbe venuto in contatto durante il soggiorno romano; il quale rappresenterebbe così, in un senso del tutto diverso dal tradizionale, un momento decisivo della sua evoluzione spirituale; l'antiaristotelismo che si manifesta in L. verso il 1509-10, l'avrebbe fatto pencolare verso il platonismo. E L. si sarebbe trasformato da sostenitore in avversario delle osservanze. Tesi suggestiva, questa del Paquier, ma che non possiamo considerare dimostrata.

Dallo Staupitz, L. avrebbe appreso anche un'altra cosa. Il termine "penitenza" è, nel greco del Nuovo Testamento, μετάνοια, da μετά e νοεῖν: dunque "resipiscentia et post acceptum damnum et cognitum errorem intelligentia sui mali, quod sine mutatione affectus et amoris fieri est impossibile... Excepimus quod poenitentia vera non est, nisi quae ab amore iustitiae et Dei incipit, et hoc esse potius principium poenitentiae, quod illis [i trattatisti] finis et consummatio censetur". Anzi, L. intende μετά come equivalente non di post, ma di trans: "ut Metania transmutationem mentis et affectus significat, quod non modo affectus mutationem sed et modum mutandi, id est, gratiam Dei videbatur spirare". I teologi, che dànno tanto valore alle opere della penitenza, sbagliano "latino scilicet vocabulo abducti; quod poenitentiam agere actionem magis sonet quam mutationem affectus et Graeco illi ‛Metanoin' nullo modo satisfacit" (EW., I, p. 525 segg.). Rivolgimento interiore, dunque, che per L. è interamente e unicamente opera della grazia. Anche per il richiamo alle letture della Bibbia, di S. Paolo in specie, quest'attestazione del maggio 1518 si può considerare come parallela dell'altra, e più celebre, in cui il riformatore, il 5 marzo 1545, nella prefazione alla raccolta delle opere latine, ha descritto la sua esperienza decisiva. Narra L. che "eo anno (1519) iam redieram ad psalterium denuo interpretandum, fretus eo, quod exercitatior essem", avendo già tenuto dei corsi sulle epistole di S. Paolo Ai Romani, Ai Galati e quella Agli Ebrei. "Miro certo ardore captus fueram cognoscendi Pauli in epistola ad Romanos sed obstierat hactenus... unicum vocabulum, quod est cap. 1: iustitia Dei revelatur in illo. Oderam enim vocabulum istud iustitia Dei, quod usu et consuetudine omnium doctorum doctus eram philosophice intelligere de iustitia (ut vocant) formali seu activa, qua Deus est iustus et peccatores iniustosque punit. Ego autem qui me, utcumque irreprehensibilis monachus vivebam, sentirem coram Deo esse peccatorem in quietissimae conscientiae, nec mea satisfactione placatum confidere possem, non amabam, imo odiebam iustum et punientem peccatores Deum, tacitaque si non blasphemia, certe ingenti murmuratione indignabar Deo... Donec miserente Deo meditabundus dies et noctes connexionem verborum attenderem, nempe: Iustitia Dei revelatur in illo, sicut scriptum est: "Iustus ex fide vivit", ibi iustitiam Dei coepi intelligere eam, qua iustus dono Dei vivit, nempe ex fide, et hanc esse sententiam, revelari per evangelium iustitiam Dei, scilicet passivam, qua Deus nos misericors iustificat per fidem, sicut scriptum est: Iustus ex fide vivit. Hic me prorsus renatum esse sensi et apertis portis in ipsam paradisum intrasse" (EW., LIV, p. 185 seg.; cfr. EW., XLIV, p. 485 seg.; TR., IV, 4567; V, 5518; EW., XLIII, p. 537).

Questo passo ha dato molto lavoro a tutti i critici. Una serie di questioni, che si possono anche ritenere oziose, riguarda il luogo in cui si sarebbe verificata quella subitanea illuminazione, che va ormai sotto il nome di Turmerlebnis ("esperienza", forse meglio "avvenimento della torre"). Inoltre, in altre varianti del racconto, tre volte almeno i dubbî esegetici di L. hanno per oggetto, con quello di S. Paolo, un altro testo (Salmo XXXI, 2): in iustitia tua libera me (cfr. TR., IV, 4007; V, 5247 e 5553; cfr. EW., XLIV, p. 485 seg.). Si aggiunga, che il passo di Romani è per l'appunto quello che sarebbe venuto in mente a L. lungo la Scala santa in Roma. Questo complesso di fatti può far sorgere l'impressione che L. abbia, inconsciamente, riferito a un solo momento e, per così dire, puntualizzato - come spesso in chi narra una propria conversione - un lavorìo mentale complesso e durato abbastanza a lungo.

Ancora. Secondo L., tutti i dottori cattolici (eccetto Agostino, di cui avrebbe letto il De spiritu et littera solo alquanto più tardi) avrebbero inteso la "giustizia di Dio" come iustitia activa; H. Denifle (v.) ha esaminato 60 commentatori, nessuno dei quali intende il passo di S. Paolo in quel senso: dunque, sarà ignoranza o malafede? Ma - si è osservato - L. non parla di esegeti, bensì di dottori; ora, Pier Lombardo definisce Dio come distributor et iudex meritorum, mentre G. Biel usa il termine misericordia per l'attività di Dio che salva gli eletti, iustitia per indicare l'atteggiamento verso i peccatori. Infine, riprendendo l'esame fatto dal Denifle, K. Holl ha mostrato che nella tradizione esegetica (occidentale) del passo famoso, si possono distinguere almeno tre tendenze, a capo delle quali stanno rispettivamente S. Agostino, il suo avversario Pelagio e, intermedio, l'Ambrosiastro (quella per cui Dio ci giustifica è misericordia; ma anche giustizia, in quanto Dio accoglie coloro che si rifugiano presso di lui e "non suscipere confugientem iniquitas est"; d'altra parte, la giustizia di Dio consiste nell'adempiere le promesse). V'è un fatto non privo di significato. Nel De vita spirituali animae - che Lutero ha certamente letto (TR., V. 6017, cfr. Gerson, ed. L'Aia 1727, III, col. 20) - Gerson applica alla giustizia di Dio la classica definizione del diritto romano: "definitio illa iustitiae, iustitia est perpetua et constans voluntas ius suum unicuique tribuens, competit principaliter iustitiae divinae in ordine ad suas creaturas. Deus nempe solus est qui voluntate perpetua et constanti dat unicuique quod suum est, suum inquam non ex debito rigoris sed ex liberissima et dignantissima condescensione aut donatione Creatoris" (O. c., col. 31). Ora, per L. la difficoltà era appunto questa: come mai S. Paolo e il Salmo chiamano "giustizia" quella ch'è "misericordia"? I suoi dubbî si capiscono bene, quando ci si ponga nel punto di vista della teologia insegnata al futuro riformatore dallo Staupitz attraverso Gerson. Per chi attende la salvezza unicamente dalla generosa bontà di Dio, come è pensabile che questi doni all'uomo ciò che è suo - e tale soltanto in virtù di questo dono - attenendosi a una mera giustizia retributiva7 Non per nulla L. esclamava fra sé e sé - e gli pareva di bestemmiare: "quāsi vero non satis sit, miseros peccatores et aeternaliter perditos peccato originali omni genere calamitatis oppressos esse per legem decalogi, nisi Deus per evangelium dolori adderet, et etiam per evangelium nobis iustitiam et iram suam intentaret" (EW., LIV, p. 185).

Infine, si riconosce generalmente che L. non vuole riferire la sua scoperta al 1519, ma ad un'epoca che precede la lettura scolastica di S. Paolo. Qual'è dunque la data della Turmerlebnis? Si oscilla tra il 1508-1509 (R. Seeberg) e il 1515 (H. Denifle). Ma generalmente si crede di poterla collocare dopo il ritorno da Roma e poco prima, o durante, l'esposizione universitaria del Salterio, che L. cominciò col semestre estivo del 1513. Secondo una testimonianza di L. stesso, egli non vedeva ancora chiaro quando divenne dottore (ottobre 1512): il che permetterebbe di stabilire un preciso termine iniziale. Il finale, va cercato nelle dichiarazioni dello stesso Commento ai Salmi. Ma questo appunto dà luogo alle maggiori incertezze. Si è osservato che l'interpretazione di iustitia Dei come "giustizia passiva" vi diventa costante solo a partire dal Salmo XXXV; negli scolî al I° v'è però una frase ("non erit nec oritur in nobis iustitia Dei, nisi prius omnino cadat iustitia et pereat iustitia nostra" EW., III, p. 31), in mezzo a un contesto che riecheggia le idee di Gersone, la quale smentirebbe quell'asserto. Che L. correggesse e rimaneggiasse più tardi il suo manoscritto, manca una prova sicura. Ma dichiarazioni di pretto carattere scolastico non mancano anche verso la fine (p. es., Salmo CXIII, scolî; EW., IV, p. 262). Anche per questa via siamo ricondotti a constatare, che alla sua concezione della salvezza come effetto d'una giustizia imputata da Dio, indipendentemente dai meriti umani, anzi causa essa medesima d'ogni merito, L. non giunse probabilmente d'acchito, ma per gradi. E a formarla contribuirono, non meno che il celebre testo di S. Paolo, anche altri fattori; non soltanto Gersone con la sua "teologia dell'umiltà" ma proprio l'occamismo, con la sua dottrina dell'acceptatio che Dio fa delle azioni umane, rendendole così buone, con un atto arbitrario: il quale non è sotto questo riguardo sostanzialmente diverso dalla luterana imputazione della giustizia.

Nel commentare i Salmi; L. si era servito, oltre che dei commenti di Niccolò di Lyra e degli altri usati nelle scuole, anche del Psalterium quintuple del Lefèvre d'Étaples, e della grammatica ebraica del Reuchlin. Questo sforzo di avvicinarsi, per intendere meglio, al testo originale, questa tendenza a risalire cioè ai "principî", che L. ha in comune con l'umanesimo ma che per lui, va notato, riguarda la Bibbia, cioè il libro ispirato, si manifesta anche nel Commento a Romani, ch'egli tenne all'incirca tra la Pasqua del 1815 e l'estate del 1516: servendosi, dal c. IX, del Nuovo Testamento di Erasmo. Le concezioni fondamentali della teologia luterana appaiono ora già formate ed enunciate in maniera assai netta: il peccato originale è la concupiscenza, che tutti gli uomini rende peccatori, vizia e contamina anche le opere buone; sola giustizia è quella che Dio comunica agli uomini, non imputando i peccati, così come solo in virtù di una non-imputazione si può dire che esistono peccati veniali. La polemica contro la filosofia aristotelica e la teologia tradizionale si fa più aspra. L. ha ora coscienza di predicare una teologia, nuova in confronto dell'insegnamento scolastico, ma ch'è secondo lui la vera, la pura teologia cristiana degli apostoli: la "teologia della fede". La quale fede è concessa da Dio al credente, che si sente peccatore, ma, quanto più si sente tale, tanto più forte confida in Lui, che non gl'imputa il peccato, e nella promessa divina di salvarlo: simul peccator et iustus. Una teologia che, nelle sue prime, più timide e ambigue formulazioni (come i sermoni predicati tra il 1514 e il 1517) poteva anche apparire innocua, o quasi, e tutta impregnata di elementi mistici, e che insisteva soprattutto sull'umiltà.

Questa stessa dottrina, L. credeva di ritrovarla nei sermoni di Giovanni Tauler, ch'egli cita spesso nel Commento a Romani, e dei quali gli parve fosse un compendio lo scritto mistico anonimo, ch'egli pubblicò, incompleto, nel 1516, sotto il titolo Eyn geystlich edles Buchleynn e intero nel 1518, con una nuova prefazione, e col titolo che doveva renderlo celebre: Eyn deutsch Theologia. Se, dunque, le date non consentono di parlare di un vero e proprio influsso decisivo di questi mistici (per certi riguardi, poi, molto lontani da lui) sul suo pensiero, è indubbio che L. credette di ritrovare in essi - dei quali raccomandava la lettura agli amici - le proprie dottrine.

Predicatore molto ascoltato e desiderato, a questa e all'attività d'insegnante L. aggiungeva, dal maggio 1815, quella di vicario distrettuale. Ma soprattutto, si preoccupava di difendere e propagare la sua teologia, della quale vantava la conformità col pensiero di Agostino; negava la paternità agostiniana del libretto De vera et falsa poenitentia, polemizzando anche col suo collega Carlostadio; attratto anche costui, con l'Amsdorf, alle sue idee, dopo che il primo ebbe pubblicato le sue 152 tesi sulla grazia, poteva annunciare all'amico Lang: "Theologia nostra et S. Augustinus prospere procedunt et regnant in nostra universitate" (18 maggio 1517). Contraeva amicizia col Muziano, mandava le tesi di Carlostadio a Cristoforo Scheurl, che lo metteva in relazione con Giovanni Eck, faceva disputare a Bartolomeo Bernhardi, per l'esame di sententiarius, una Quaestio de viribus et voluntate hominis sine gratia (25 settembre 1516), e a Franz Günther, per l'esame di baccelliere biblico, una Disputatio contra scholasticam theologiam (4 settembre 1517). Aveva anche esposto i suoi dubbî su varî punti della dottrina delle indulgenze, in particolare per i morti. Ma più forte ancora, mettendo in dubbio tra l'altro l'origine evangelica della confessione auricolare, ed esaltando la penitenza nel senso ch'egli aveva appreso dallo Staupitz, egli parlò più tardi, dicendo apertamente tutto il suo pensiero: maxime cum sit prae foribus pompa ista indulgentiarum (EW., I, 94 segg.). Infatti nel gennaio 1517 era ad Eisleben e nel marzo a Jüterbog - ove molti si recarono da Wittenberg - il domenicano Johann Tetzel, sottocommissario generale, per la predicazione dell'indulgenza per la fabbrica di San Pietro (v. indulgenza, XIX, p. 151), dell'arcivescovo di Magonza, Alberto di Brandeburgo. Concessa fin dal 1515, la proclamazione ne fu differita per varie ragioni; l'elettore Federico di Sassonia proibì di predicarla nei suoi territorî, sia per inimicizia per i Brandeburghesi, sia che sperasse di trarne profitto, come, pendente ancora l'esecuzione, aveva fatto l'imperatore Massimiliano. Ma per L. si trattava di ben altro. Accanto a dottrine affatto ortodosse, il Tetzel predicava, in conformità delle istruzioni avute, che l'indulgenza a favore dei morti si poteva acquistare con la sola oblazione pecuniaria, senza confessione, e che tale indulgenza si applicava infallibilmente a una determinata anima; sì che, secondo una sua frase "tosto che il denaro suona nella cassetta, l'anima balza fuori del purgatorio". "Un'opinione scolastica non sicura, già riprovata dalla Sorbona nel 1482 e poi ancora nel 1518, era quella che in modo affatto indebito venne così presentata come verità sicura" (Pastor). Professore, L. ricorse al metodo allora universalmente usato; e il 31 ottobre, affisse alla chiesa d'Ognissanti, o chiesa del castello, in Wittenberg, proponendo di sostenerle in una pubblica discussione, le famosissime 95 tesi della Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum.

Lutero riformatore. - Le polemiche e il processo. - Il gesto, in sé, non aveva nulla di rivoluzionario o scorretto; L. non intendeva né prevedeva certo di rompere con la Chiesa. Desiderava soltanto segnalare abusi e discutere una dottrina che gli sembrava, e in parte era, aperta alla controversia. Ma, tra gli abusi, egli poneva la divergenza dalle sue idee personali. Si faceva innanzi come rappresentante della scuola teologica di Wittenberg, sostenitrice d'un neo-agostinianesimo, così come altre scuole erano tomiste, scotiste, occamiste. Ma quella sua teologia era il risultato d'un'esperienza personale: L. non è un puro teologo che svolge le sue deduzioni, le sostiene con ogni risorsa dialettica, ma in fondo si affida alla Chiesa; bensì il predicatore, prima e più ancora che d'una teologia, d'un'esperienza che si tratta di imporre agli altri. Non lui con la Chiesa, ma la Chiesa dev'essere solidale con lui, sino in fondo: dov'egli è conseguente e anche dov'è inconseguente, in virtù appunto della dialettica intima di quella sua esperienza. Profeta, per i suoi cari Tedeschi, si proclamerà; quanto alla dottrina, non lo dice, ma si sente ispirato: per sua bocca parla, per suo mezzo opera Dio. Egli potrà perciò ricorrere ad astuzie; sarà volta a volta conciliante e aggressivo; predicando la sottomissione darà esca alla rivolta; e, scatenate forze che gli faranno paura, invocherà contro esse la violenza, pur esaltando l'inazione. Ricostruirà in parte ciò che avrà demolito. Si appellerà alla parola di Dio, ma la Scrittura stessa sarà da lui, nonché interpretata, valutata nelle sue parti alla luce di quella sua esperienza fondamentale: a ogni altra esegesi negherà valore, affermandone l'origine demoniaca. Proclamatore d'una nuova libertà, si mostrerà intollerante, spietato. Negato al papa il potere delle chiavi, si arbitrerà lui di legare e di sciogliere. Ma più aspri gli ostacoli, più numerosi i nemici, e maggiore la sua fiducia; pure, talvolta, dubiterà della sua opera. Per riacquistare coraggio e intransigenza, non appena gli compaia dinnanzi un avversario. Appunto agli avversarî, L. riconosce - ironia da parte sua, ma verità incontestabile - di dovere quasi tutto. Ché l'evoluzione di L., nel 1517, è lungi dall'essere terminata, e solo attraverso la polemica egli svolgerà sino in fondo - per poi, su qualche punto almeno, ritrarsi come inorridito - quei principî che nel famoso "manifesto della Riforma" sono, bensì, già impliciti, ma senza ch'egli ne avesse ancora chiara coscienza.

Affermato il carattere della "penitenza" evangelica, del tutto distinta dalla sacramentale, perché cosa di tutta la vita, L. ammette ora esplicitamente le opere esterne (tesi 1-4). In conseguenza, rovescia le affermazioni del Tetzel, ma da esse distingue l'intenzione del papa; al quale non nega l'ossequio, pur riconoscendogli solo il diritto di rimettere le pene imposte da lui e negando il potere delle chiavi (tesi 20, 25, 26, 28, ecc.). Nega, come ignota al popolo cristiano, la dottrina del "tesoro dei meriti": non i meriti di Cristo e dei santi (i quali hanno sempre agito all'infuori del papa), ma "verus thesaurus ecclesiae est sacrosanctum evangelium gloriae et gratiae Dei" (tesi 56-62). Cerca consensi tra il laicato, indicando "sottili questioni" che avrebbe potuto muovere e cui non si può rispondere ricorrendo alla sola autorità senza esporre Chiesa e papa al ridicolo (tesi 81-90); insiste sulla venalità degli ecclesiastici (tesi 43, 49, 50, 65-66).

L. stesso inviò le sue tesi all'arcivescovo Alberto di Magonza. Impressionato per la loro diffusione, questi ne mandò il testo a Roma, dove l'8 dicembre il card. Caetano (Tommaso de Vio) segnalava, in risposta a una richiesta papale, le divergenti opinioni intorno alle indulgenze. Nel capitolo dei domenicani a Lipsia, nel gennaio, il Tetzel sostenne delle anti-tesi, preparategli da Konrad Koch di Wimpffen (Wimpina); s'accese cosi la polemica, con sermoni di L. sull'indulgenza e la grazia e sulla libertà di predicare (Eyn Freyheyt desz Sermons), risposte e altre 50 tesi del Tetzel. L., che accetta ancora il sacramento della penitenza come istituzione ecclesiastica, già afferma che solo un Concilio ecumenico può interpretare autoritativamente la Scrittura. Contro i domenicani, cerca il consenso degli umanisti, ancora commossi per la lotta intorno al Reuchlin e ai quali appare come il realizzatore del programma di Erasmo: e si foggia anche lui un nome umanistico, significativo: Martinus Eleutherius, il liberatore; ma quelli lo accusano a Roma, dove ormai si conoscono anche gli altri sermoni e le tesi di Bernhardi e di Günther. Il 3 febbraio 1518, Gabriele Dalla Volta (Veneto), nuovo generale degli agostiniani, riceve l'ordine di far tacere L. Il quale, alla fine d'aprile, nel capitolo generale degli agostiniani a Heidelberg, nonché ritrattarsi, e benché abbia contrarî suoi antichi maestri, l'Usingen e il Trutvetter, trionfa e acquista aderenti: il domenicano Bucer, il Brenz, il Billican, l'umanista Beato Renano. Giovanni Eck (v.) con i suoi Obelisci lo accusa di eresia, come ussita; poi, dati i buoni rapporti personali, spiega che lo scritto ha carattere puramente privato. E circola in privato anche la risposta di L., Asterisci (i due nomi sono tolti dai segni, usati fin dall'antichità come richiamo per note, appunti, ecc.). Da Roma, giunge il Dialogus de potestate papae, opera di Silvestro Mazzolini (o Mazolini) da Priero presso Ceva (Prierias), maestro del Sacro palazzo e aggiunto al giudice di L., l'uditore della Camera apostolica Girolamo Ghinucci vescovo di Ascoli. L., deciso ad appellare al papa, prepara la Responsio al Prieriate. Nelle Resolutiones delle 95 tesi, accompagnate da lettere allo Staupitz e al pontefice; e più nel Sermo de virtute excommunicationis pronunciato prevedendo la condanna, ha fatto progressi: il sacerdote dichiara, garantisce l'assoluzione, non la pronuncia, ché i peccati sono rimessi da Dio al credente (non c'è dunque più intermediario tra l'anima e Dio, ed è già implicito che il valore del sacramento dipende dalla fede di chi lo riceve); la scomunica è pena solo esteriore ché la vera Chiesa è invisibile e da essa ci separa solo il peccato; il papa è inferiore al Concilio ecumenico. Ma col dialogo del Prieriate arrivava a L., ai primi di agosto, trasmessagli dal Caetano legato papale alla dieta di Augusta, la citazione a comparire a Roma entro 60 giorni. L. si rivolgeva allo Spalatino (v.), chiedendo d'essere giudicato in Germania. Ma a Roma giungevano altri rapporti che permettevano di considerarlo eretico manifesto. Un breve del 23 agosto ordina al Caetano, se L. si presenti e ritratti, di riconciliarlo; altrimenti, arrestarlo e tradurlo a Roma; se contumace, scomunicarlo. L'imperatore Massimiliano s'è mostrato infatti pieno di zelo. In realtà, vuole il consenso papale alla progettata elezione di Carlo a re dei Romani, contraria agl'interessi dello stato pontificio e dei Medici. A essa è contrario anche Federico, cui il papa destina la rosa d'oro: e sulla richiesta di lui che L. sia giudicato in Germania, il Caetano - che spera di trovare un accomodamento - è autorizzato a giudicare, ma senza scendere a discussioni. Munito di assicurazioni dell'elettore e di un salvacondotto imperiale, L. si presenta al cardinale, in Augusta. In tre colloqui, il 12, 13 e 14 ottobre, il Caetano con benevolenza gli contesta errori, principalmente intorno al tesoro della Chiesa e al sacramento della penitenza; L. offre di discutere, chiede il giudizio di università (in ultima istanza, Parigi) ma rifiuta di ritrattare, contro coscienza. Intanto prepara, su consigli ricevuti, un appello al papa meglio informato. Lo Staupitz parte, il 16, dopo avere sciolto dai voti L. che, annunciato l'appello, se ne va lui pure di nascosto, la notte sul 21 ottobre. L'imbarazzo dell'elettore aumenta quando L. (che da questo momento - mostrando, a dir vero, di non conoscere troppo bene la situazione - tenta di farsi amici i sostenitori delle dottrine conciliari) pubblica gli Acta augustana e il nuovo appello (28 novembre) dal papa al futuro concilio. C'è quanto basta per condannarlo senz'altro come eretico. Ma l'elettore, benché spaventato, spera ancora di procurargli un giudizio in Germania. Da Roma, Carlo von Miltitz reca a Federico la rosa d'oro e molti privilegi, se questi compia il suo dovere di principe cristiano. L. già si chiedeva se il papa non fosse l'anticristo; ma in un colloquio col Miltitz, ad Altenburg (gennaio 1519), l'accordo sembra raggiunto: L. sarà giudicato dall'arcivescovo di Salisburgo, ma prima scriverà al papa una lettera di scusa. Roma, ora più che mai - dopo che è stata pubblicata il 9 novembre una costituzione che fissa i capisaldi della dottrina indulgenziale - non può accettare che una ritrattazione; il Miltitz lascia credere che L. l'abbia promessa. E un breve del 29 marzo, piuttosto benevolo, invita L. a ritrattarsi in Roma, promettendogli un salvacondotto. Intanto il Miltitz s'era, a Lipsia, sfogato sull'infelice Tetzel, che doveva morire il 4 luglio, proprio mentre L. vi sosteneva la famosa "disputa".

Questa era stata provocata da un nuovo intervento dell'Eck, che aveva sfidato Carlostadio, quindi lo stesso L. Fra le tesi che questi prepara, una è nettamente contro il primato papale. A Lipsia, L. e Carlostadio, accompagnati da Melantone e dall'Amsdorf, sono bene accolti anche dal cattolicissimo duca Giorgio di Sassonia. Alla discussione assistono nobili, umanisti, professori. Contro Carlostadio, sulla grazia e sul libero arbitrio, Eck, in complesso, sembra avere la meglio. Contro L., dal 4 al 14 luglio, la discussione si porta sull'ecclesiologia. Per L., capo della Chiesa è lo stesso Gesù Cristo; i vescovi hanno tutti uguali poteri; il dogma si prova solo in base alla Scrittura. Eck rimprovera a L. gli errori di Hus, condannati a Costanza. L. nega; poi, dichiara apertamente che tra gli articoli di Hus ve ne sono molti di cristiani ed evangelici; e aggrava lo scandalo dei cattolici, sostenendo che anche il Concilio ecumenico è soggetto ad errare. Il 7, parlando tedesco, riconosce il primato papale, ma non come istituto di diritto divino. In attesa che le facoltà teologiche di Erfurt e Parigi (esclusi i dottori degli ordini agostiniano e domenicano) diano il giudizio richiesto, Eck e L. si proclamano vincitori. Con l'Eck sono i teologi di Colonia e Lovanio, l'Emser, il Hoogstraten, l'Alveld, il Prieriate; L. ha con sé il gruppo dei riformatori minori, Bucer, Ecolampadio, Capito; umanisti, come W. Pirckheimer e Croto Rubiano; e Ulrico von Hutten. Dai circoli umanistici esce la feroce satira Eccius dedolatus; da L., la Responsio alla Condemnatio doctrinalis di Colonia e Lovanio e, tra l'altro, il libretto tedesco: Von dem Bapstum zu Rom wieder den hoch berumpsten Romanisten zu Leiptzick (del giugno 1520).

Intanto continuavano, a Roma il processo, in Germania le inutili trattative. Pendente l'elezione imperiale, Roma, che avversa e Carlo e Francesco e vorrebbe eletto Federico, lascia che il Miltitz compia nuovi tentativi. Ancora dopo il voto del 28 giugno 1519, si attende; solo il 25 settembre il nunzio consegna finalmente la rosa d'oro e, il 9 ottobre, ha un nuovo e vano colloquio con L. Da parte di Federico, si manifesta già l'intenzione di far comparire il monaco ribelle alla prossima dieta imperiale. Ma a Roma, il cardinal Giulio de' Medici decide di agire: ordina al Miltitz di chiedere spiegazioni all'elettore, che diplomaticamente risponde con pretesti; nel concistoro del 9 gennaio 1520 è denunciato senza ambagi. Dal febbraio al maggio, tre commissioni lavorano successivamente, sotto la presidenza dei cardinali Caetano e P. Accolti; nella seconda è il Prieriate, nella terza l'Eck, giunto a Roma nel marzo. Dal 21 maggio al i° giugno, si tengono ben quattro concistori. Si discute se distinguere tra proposizioni più e meno condannabili; il Carvajal, già membro del conciliabolo di Pisa, non trova "gravissimo fallo" l'appello al concilio. Si affida la stesura della bolla all'Accolti; e il 15 giugno Leone X "fulmina" la bolla Exsurge Domine (cfr. Salmo LXXIII, 22). L. ha 60 giorni per ritrattare le 41 proposizioni condannate. I suoi libri sono bruciati in Piazza Navona. La pubblicazione e l'esecuzione in Germania furono poco dopo affidate, con atto "poco giudizioso" (Pastor) allo stesso Eck e a Girolamo Aleandro (v.), pur egli, per la condotta non esemplare, poco ben visto.

A L., 100 cavalieri franconi, con Silvestro von Schaumburg alla testa, offrono di proteggerlo fino al futuro concilio; un'altra offerta gli arriva, attraverso il Hutten, dal temuto Franz von Sickingen. L. ne avverte l'elettore, che gli comunica le lettere di Roma. Federico, di cui egli stimola così l'amor proprio, è un appoggio più sicuro che la piccola nobiltà; ma L. ne cerca altri. E, illudendosi ancora sulla forza del partito conciliare, scrive al Carvajal; illudendosi sul conto dell'imperatore, si rivolge anche a lui. Il 28 agosto, il Miltitz fa un altro tentativo, al capitolo generale degli agostiniani in Eisleben, dove lo Staupitz si ritira: L. scriva al papa. E il 12 ottobre, in un colloquio col Miltitz a Lichtenburg, L. conviene di premettere la lettera al suo trattato sulla "Libertà cristiana".

È questo il terzo dei grandi trattati del 1520, i "manifesti della Riforma". Nel giugno, il sermone tedesco sulle opere buone contiene già parecchie delle tesi formulate nei tre scritti maggiori; nel luglio, quando scrive allo Spalatino che il dado è tratto: iacta mihi alea!, L. sta già redigendo il manifesto An den Christlichen Adel deutscher Nation: von des Chrstlichen standes besserung. Veemente ed efficace nello stile, benché alquanto disordinato perché composto probabilmente in varie riprese; ispirato almeno in parte dal Vadiscus del Hutten, dall'opera del Valla sulla donazione di Costantino (ripubblicata dal Hutten medesimo) e dai gravamina della nazione tedesca, l'Appello è un invito ad assalire le tre muraglie entro cui si difendono i "romanisti". La prima è la distinzione tra clero e laicato, l'affermazione della superiorità assoluta dei valori spirituali e della gerarchia ecclesiastica. L. nega quella differenza: la distinzione è di funzioni, di ufficio (Amt), non di stato (Stand). Il secondo muro è l'affermazione che solo il papa può interpretare la Scrittura; il terzo, la dottrina che solo il papa può convocare il Concilio ecumenico. L. dichiara entrambe queste pretese assurde e contrarie alla Scrittura. Dalla teoria, già adombrata, del sacerdozio universale dei credenti, egli deduce il carattere e le funzioni etiche del potere temporale: e allo stato cristiano attribuisce il diritto e il dovere di convocare, se necessario, il Concilio, per rimediare agli abusi. L'elenco di questi è tratto dalle solite lagnanze, elencate con grande efficacia: i benefizî tedeschi accordati a stranieri; le annate, commende, dispense, composizioni e indulgenze inventate, d'accordo fra la Dataria romana e i Fugger di Augusta, per carpire denaro tedesco. E radicali le riforme proposte: restringere i poteri del papa, abolire o ridurre i cardinali e il sistema dei legati papali; fare dell'episcopato tedesco una specie di chiesa nazionale (ebbe L., che voleva fare appello all'università parigina, presente la Prammatica di Bourges, abrogata proprio poco prima ch'egli iniziasse la sua opera di rifomiatore?); abolire o ridurre i pellegrinaggi, gli ordini mendicanti, il celibato del clero. La simpatia che L. prova ora per l'umanesimo gl'ispira anche un progetto di riforma dell'educazione. Ma, prima che la Chiesa, stato e società laicale devono riformare sé stessi.

Contro la gerarchia, in nome della sua concezione della Chiesa, L. si scaglia nel De captivitate babylonica Ecclesiae praeludium. Scritto subito dopo l'Appello, pubblicato il 6 ottobre, fin dal prologo afferma che indulgentiae sunt adulatorum romanorum nequiciae e - poiché gli avversarî nel combattere le sue tesi hanno sostenuto l'autorità del pontefice - papatus est robusta venatio (l'allusione è a Nimrod) romani episcopi. Alla base della gerarchia ecclesiastica, alla base della dottrina della superiorità della società ecclesiastica sulla temporale, è l'amministrazione dei sacramenti e la dottrina della Chiesa intorno ad essi. L. la impugna. Tre soli sacramenti, egli dice, sono sanciti dalla Scrittura: il battesimo, la penitenza, l'eucaristia (panis); anzi, se volesse parlare come suole la Scrittura, non dovrebbe riconoscere che un solo sacramento e tre "segni sacramentali" (cfr. EW., VI, p. 501). Circa l'eucaristia, dice falsa la dottrina della transustanziazione, cui ne sostituisce una della "consustanziazione" (il pane e il vino conservano, con le apparenze, anche la loro sostanza; ma Cristo è realmente presente); abuso, la comunione dei laici sotto una sola specie (in un sermone, aveva detto solo di preferire quella sotto le due specie, sull'esempio - pur esso ormai anacronistico - degli utraquisti boemi); errore anche più grave, considerare la Messa come un sacrificio. A questa concezione, cui si congiunge la nozione del tesoro dei meriti che perpetuamente si rinnova, L. oppone che l'efficacia del sacramento è nella fede di chi lo riceve: e con ciò distrugge la dottrina tradizionale della validità del sacramento per sé stesso (ex opere operato). Ma per lui, l'essenziale, nel sacramento, è la parola di Cristo, la promessa della redenzione e il segno, cui la fede rende efficace. Nel battesimo, agl'infanti soccorre la fede di chi li presenta. Ma il battesimo è la rigenerazione dell'anima, efficace per tutta la vita: non le opere, non il pentimento, ci sottraggono alla coscienza del peccato, ma semplicemente il ricordo del battesimo: chi ha fiducia in esso, sente rinnovata la promessa di Cristo. Pertanto, anche l'intera concezione cattolica del sacramento della penitenza è negata. Concorrono qui tutti i motivi che animano L.: la fede sola, non la contrizione, che ne è conseguenza, procura la remissione del peccato, e il sacerdote non assolve, ma solo dà testimonianza dell'assoluzione: suo unico ufficio è infatti il ministero della parola.

Lo svolgimento logico di queste posizioni è nel De libertate christiana. È preceduto dalla lettera a Leone X, promessa già al Miltitz, e datata dal 6 ottobre: L. distingue ancora il papa - che vi sta come Daniele in mezzo ai leoni - dalla curia. Il trattato, terminato nel novembre, con la traduzione o rielaborazione tedesca di L. stesso (Eyn sendbrieff an den Bapst Leo den czehenden; Von der Freyheyt einisz Christen menschen) incomincia con le due affermazioni contrastanti: "il cristiano, signore di tutti, è liberissimo, non soggetto a nessuno; il cristiano, servo di tutti, è legatissimo, soggetto a tutti". Base del ragionamento è la netta, assoluta distinzione, tra l'"uomo interiore" e l'"uomo esterno". Il primo, spirituale, rinnovato, veramente cristiano, è libero, in virtù della fede nel Vangelo, che sola giustifica. Qual'è dunque la funzione della Legge? Essa rivela all'uomo la sua impotenza e dalla prima parte della Scrittura, i precetti, lo fa volgere alla seconda, le promesse. Il giusto è posto sopra la legge; ma la fede lo fa rivolgere a Dio, per onorarlo in umiltà e in ubbidienza. In fine, la fede congiunge l'anima, sicut sponsam cum sponso, a Cristo: per tale unione, tutti i veri cristiani sono partecipi delle sue due dignità, regale e sacerdotale. "Ad quem amorem [Christi] nullis unquam legibus vel operibus pervenire potest. Quis est qui tali cordi nocere possit aut ipsum pavefaciat? Si inruat conscientia peccati aut horror mortis, paratum est sperare in Domino, nec timet ab auditione ista mala nec commovetur, donec despiciat inimicos suos. Credit enim iustitiam Christi suam esse, et peccatum suum iam non suum sed Christi esse" (EW., VII, p. 59). Applicazione immediata dei meriti di Cristo al credente, dei peccati del credente a Cristo: è il nocciolo di tutta la dottrina luterana, è l'esperienza religiosa di Lutero. Ma c'è anche l'uomo esteriore. Il cristiano non è puro spirito: "manet in hac vita mortali super terram, in qua necesse est ut corpus suum proprium regat et cum hominibus conversetur" (ib., p. 60). Questo è il regno dei precetti e delle opere: ora, non le opere buone fanno buono l'uomo, ma l'uomo buono compie opere buone. Bisogna fare ciò che la fede - in questo mondo sempre imperfetta - ci suggerisce; giacché il cristiano è libero, non dalle opere ma dalla fiducia nel valore di esse; e compiere queste in conseguenza della fede, per amore di Dio, gratuito amore... in obsequium Dei. Il mondo, negato in un primo momento, e il potere politico, vengono pertanto giustificati e, per così dire, consacrati, per effetto della dottrina del sacerdozio universale: ogni attività mondana ha valore in quanto animata, vivificata dalla fede, indipendentemente da ogni dettame della Chiesa.

Intanto la pubblicazione della bolla procede a stento, fra satire e proteste contro l'Eck, rifiuti o proteste o dilazioni, suggerite dal timore di disordini. Ma le dà piena esecuzione, nei suoi dominî ereditarî, Carlo V, incoronato il 23 ottobre in Aquisgrana: buon cattolico, circondato da consiglieri cattolici (non per nulla i teologi di Lovanio hanno dedicato la loro condanna di L. al cardinale Adriano da Utrecht). Ma anch'egli non vuole agire con precipitazione. Ancora, anzi più che mai, entrano in giuoco le considerazioni politiche: L., contro cui Roma è ormai impegnata a fondo, può rappresentare una carta importante nel suo giuoco diplomatico. Tra il novembre e il gennaio, si svolge una serie di complicate trattative tra Carlo con i ministri Chièvres e Gattinara, l'Aleandro, legato pontificio, e l'elettore Federico. Intanto, da Roma, trascorso ben più tempo di quello accordato, viene, con la bolla Decet Romanum Pontificem (3 gennaio 1521), la condanna definitiva. E l'Aleandro parla alla dieta; ma i principi sono divisi, L. ha forti sostenitori, si temono disordini. E si manda a L. un invito a comparire, più un salvacondotto imperiale e uno di Federico.

Finora, L. non ha cessato di polemizzare contro l'Emser, contro il domenicano Ambrogio Catarino (Lancellotto Politi da Siena) e altri; lo Staupitz si è sottomesso, ma egli non ne dimentica l'insegnamento. Il 10 dicembre, ha bruciato la bolla Exsurge, con opere di teologi e i testi del diritto canonico. Ora, sicuro di sé, è convinto che la "Parola di Dio" trionferà. Disposto ad affrontare anche l'estremo cimento, non dispera di vincere: stato d'animo complesso e difficile a definire, che non è, forse, l'eroismo di chi va senz'altro incontro al martirio, ma neppure millanteria d'uno già certo di non correre pericolo. Nulla lo arresta, né cade, come Hutten, nel tranello di Carlo V: i cui messi fanno credere al cavaliere umanista che l'imperatore è in cuor suo per la Riforma, gli fanno accettare un assegno, lo inducono a invitare, per mezzo del Bucer, il riformatore alla Ebernburg del Sickingen: perché non vada a Worms e frattanto scada il salvacondotto e, peggio di tutto, egli mostri al mondo tedesco di aver avuto paura. Il 16 aprile, L. entra nella città della dieta. Il giorno dopo, si presenta. Gli si mostrano le sue opere; le riconosce per sue, aggiungendo che ve ne sono altre. Alla domanda se intende ritrattare, chiede ventiquattr'ore per riflettere. Il giorno dopo distingue. V'è un gruppo di scritti, che tratta principalmente di morale e di edificazione: su essi nessuno trova da ridire, e L. non li condannerà certo. Un secondo gruppo, è dei libri contro il papato e la curia, di cui sono ben noti gli abusi, la corruzione e il danno che ne viene al mondo cristiano: L. non può rendersi complice di questi mali e della "tirannide" papale, dunque non sconfesserà. Un terzo gruppo, è di scritti polemici. Qui egli riconosce di avere forse ecceduto e sbagliato; ma lo ha fatto per difendere l'insegnamento di Cristo. Ripetutogli l'invito a ritrattarsi, chiede di essere confutato in base alla Bibbia e a ragioni evidenti; ché i concilî possono sbagliare.

Fallito un tentativo dell'arcivescovo di Treviri d'indurlo a. cedere, L., il 26 aprile, ricevette l'ordine di ritornare a Wittenberg - senza parlare in pubblico - entro il 21 maggio. L'8 maggio, si conclude l'alleanza tra Carlo e Leone X contro la Francia. L'Aleandro già da una settimana era stato incaricato di preparare il decreto, che doveva mettere l'eretico al bando dell'impero. Il documento, tenuto in sospeso finché gli stati non ebbero acconsentito alle richieste imperiali, fu letto la sera del 25 in presenza di quattro elettori e altri principi. In quel giorno, Carlo aveva chiuso la dieta; l'editto non ne ottenne dunque l'approvazione e tanto meno unanime; ma fino dal 19 febbraio la dieta aveva promesso di sostenere l'imperatore nella difesa della fede tradizionale, qualora L. non avesse ritrattato i suoi errori.

Lutero alla Wartburg. - Nel partire da Worms, L. non ignorava il piano concepito dallo Spalatino lasciando l'elettore all'oscuro dei particolari. Preso il 4 maggio da una squadra di cavalieri, la sera stessa egli giungeva alla Wartburg (v. eisenach, XIII, p. 600), noto soltanto al castellano, Hans von Verlepsch e a pochi fidi. Per gli altri era il cavaliere Giorgio, Junker Georg. In tutta la Germania la commozione fu immensa: si pensò a un complotto della curia. Ma una lettera di Bucer a Zwingli, già il 23 maggio, dice Lutherum captum quidem, sed... minime ab hostibus (Corpus Reformat., XCIV, p. 455).

Durante il suo ritiro, L. è preoccupato di non apparire un disertore e di non lasciarsi sfuggire la direzione del movimento. Si sente solo, costretto a un'esasperante inattività. Disturbi addominali aggravano il suo stato di prostrazione, attraversa crisi di disperazione, lo riassalgono le sue vecchie Anfechtungen. Per consolarsi, e infondere coraggio ai suoi, espone i Salmi LXVI e XXXVI. Riceve l'opera di Ecolampadio sulla confessione e scrive sull'argomento, asserendo validi i concilî che, come quello di Nicea, si sono limitati a chiarire la Bibbia, non quelli che hanno introdotto novità, come il IV Lateranense; e che il potere delle chiavi è stato concesso da Cristo a tutta la Chiesa. Pubblica, con una sua replica, la sentenza dei teologi parigini, che l'hanno condannato il 15 aprile; s'interessa alla vita della sua università. Per far conoscere al popolo la Bibbia s'accinge a tradurre il Nuovo Testamento. Soprattutto, mantiene una voluminosa corrispondenza con i seguaci.

Sulle sue orme, alcuni combattono il celibato del clero, e non solo in teoria; il Bernhardi, l'antico discepolo, ha preso moglie. L., in una lettera, distingue tra secolari e regolari: il celibato dei primi è istituzione umana, ma i secondi sono legati da un voto, e valido, purché avessero un'idea chiara dell'impegno assunto. Ed ecco L. di fronte alla questione dei voti monastici. Una lunga serie di tesi da lui spedite a Wittenberg vi suscita profonda impressione. Poi riprende il problema, nel De votis monasticis iudicium, riaffermazione solenne delle sue dottrine più caratteristiche. La concezione della metánoia per cui l'intera vita del cristiano è penitenza si traduce nell'annullamento della distinzione tra consigli e precetti evangelici, onde la vita ascetica gli appare come un'abusiva aggiunta umana al Vangelo. Anzi, è in contrasto col Vangelo, se la giustificazione è dovuta alla fede sola: in quanto opere, i voti monastici rappresentano un ritorno al legalismo farisaico e contraddicono alla libertà cristiana. Si aggiunge a questi, già nel proemio, col ricordo dell'avversione del padre al suo ingresso in convento, un altro motivo: il monachismo, che permette ai figli di darsi alla vita ascetica senza il consenso dei genitori, è in contrasto con gli obblighi fondamentali della vita sociale. Così anche il voto di ubbidienza al superiore nelle cose previste dalla regola, mentre il Vangelo impone l'ubbidienza a ciascuno in servizio di tutti. Riappare qui - come a proposito della povertà dei monaci, che nulla hanno in proprio, ma in comune sono ricchi e oziosi; e della castità, che secondo L., Gesù e San Paolo non hanno affatto consigliato, mentre il celibato non è per sé stesso superiore al matrimonio - la nozione di ogni attività umana santificata dalla fede, che L. ricava dalla sua dottrina del sacerdozio universale. Questa fornisce la base dottrinale alla contrapposizione tra il decalogo divino e il sacerdozio cristiano e i "papistici" con cui L. chiude la De abroganda Missa privata M. L. sententia. A scriverla e a trarre anche questa conseguenza dalla sua concezione dell'eucaristia, egli è pure spinto dalle circostanze. Carlostadio e Gabriele Zwilling avevano già sostenuto, a Wittenberg, che la Messa è una semplice commemorazione e patrocinato la comunione sotto le due specie, celebrata dal secondo il 29 settembre. L. è dunque con i riformatori più audaci, non approva le tergiversazioni diplomatiche dell'elettore, benché confessi di avere esitazioni e dia anche consigli di moderazione. Ma sferra poi un attacco a fondo contro il potente Alberto di Magonza, quantunque Capitone, il suo segretario, parli delle sue propensioni segrete per la Riforma (infatti è sospetto a Roma). L., corso in segreto a Wittenberg, apprende che lo Spalatino ha trattenuto i manoscritti mandatigli per la pubblicazione, e protesta contro quel subordinare il Vangelo alla politica. Pure, già di ritorno alla Wartburg, sente la tempesta che sale e delibera di opporsi ad essa. Gli può servire, come minaccia contro i principi cattolici; ma, se non ha voluto essere meno audace di Carlostadio per non passare in seconda linea nel movimento ch'egli stesso ha iniziato, deve, come capo responsabile, guardarsi dal perdere il sostegno dell'elettore. Così si spiega che egli rediga ora un'esortazione alla calma e alla disciplina. La riforma dev'essere compiuta dal potere regolarmente costituito, non da Herr Omnes, la folla irresponsabile.

Nonostante il divieto dell'elettore, in seguito ai contrasti scoppiati a Wittenberg, Carlostadio il giorno di Natale celebra la comunione sotto le due specie e, nelle feste successive, continua. Il 19 gennaio, sposa Anna von Mochau. L. - che deve sapere della messa di Natale - se ne rallegra. Ma a turbare anche più la città, vi giungono, da Zwickau, i discepoli di Tommaso Münzer: che vantano la loro ispirazione celeste e predicano la loro dottrina apocalittica e rivoluzionaria. Melantone, dapprima colpito dalle loro pretese all'ispirazione, resta dubitoso; l'elettore, che ha ragioni di temere un intervento del governo dell'Impero non esita a reprimerli. Ma la loro presenza eccita ancora di più Carlostadio e lo Zwilling. Alla fine di gennaio, sembra raggiunto un accordo, capace di ristabilire l'ordine, assicurando il trionfo dell'evangelismo più rigido, con l'ordinanza che permette la comunione quale l'aveva celebrata Carlostadio, prevede la rimozione degli altari, secolarizza le rendite ecclesiastiehe devolvendole a un fondo di beneficenza: ché nello stesso tempo un capitolo degli agostiniani convocato dal Link lascia liberi i monaci di mantenere o no i loro voti e il monastero si vuota, a eccezione d'un solo priore. Federico, turbato, impone silenzio a Carlostadio e condanna tutte le innovazioni. Imbarazzato, Melantone il 20 febbraio invoca il ritorno di L. Tra la metà di gennaio e la fine di febbraio, questi ha molto riflettuto sulla situazione: in ultimo, Carlostadio è diventato per lui uno strumento del demonio. L. manda all'elettore la dichiarazione richiesta: ritorna nonostante l'opposizione di lui. E il 4 marzo, dopo 10 mesi esatti, lascia la Wartburg; il 6, è a Wittenberg, in casa di Giusto Giona.

La riforma in Germania. - La domenica seguente, 9, è sul pulpito, per il primo d'una serie di sette sermoni, che tutti inculcano la moderazione. Pur predicando la fede si è dimenticato, durante la sua assenza, che essa dev'essere accompagnata dall'amore. Non si deve dare scandalo, non ricorrere alla violenza: la fede stessa vuole si abbia fiducia nella Parola di Dio, che trionferà da sola come ha già trionfato "mentre dormivo e bevevo la birra di Wittenberg con Filippo [Melantone] e Amsdorf" (EW., X, 111, p. 18). Anche l'atteggiamento conservatore di L. è dunque espressione di quella sua incrollabile fiducia in Dio, che sempre gli apparirà necessaria: fuori di essa, rinato il dubbio intorno alla propria salvezza, non ci sono che le Anfechtungen, il demonio, la dannazione. Ma insieme L. vuol riaffermare che la portentosa scoperta del Vangelo è opera sua: a lui, non a Carlostadio, tocca dirigere la Riforma. L'ordinanza sul culto è modificata, facendo concessioni alle pratiche tradizionali. L'elettore è contento, e così i seguaci, Melantone, Capitone, lo stesso Zwilling. Il solo Carlostadio protesta, e comincia così la sua lotta con L., che si mostrerà implacabile. I profeti di Zwickau, dopo una discussione con lui, si allontanano.

Gli si è imposta, così, l'esigenza di regolare il culto e di trovare proseliti, che approvino anche la sua politica di moderazione e non lo tradiscano: quello che importa è seguire Cristo, da chiunque sia predicato. Ma, se uno è convinto che L. diffonde il vero Vangelo, non proclamarsi luterano è tradire Cristo. Così predica in varie città, dove trova opposizioni. Queste, e una certa resistenza dell'elettore, spingono L. di nuovo all'intransigenza. Non ha pace, finché nella chiesa sulla cui porta egli ha affisso le 95 Tesi, la Messa non viene abolita. E le riforme ch'egli introduce si riflettono in due scritti, quello sull'ordinamento del culto, mandato alla chiesa di Leisnig (Von ordenung Gottis diensts ynn der Gemeyne) e la Formula Missae et Communionis per Wittenberg. Egli fonda il culto sulla lettura della Bibbia, di cui vuole diffondere la conoscenza nel popolo, sopprime le celebrazioni speciali per i santi e, nella Messa, tutto ciò che si presta a interpretarla come sacrificio. Insieme, a introdurre nella denudata celebrazione nuovo calore di sentimento, che risponde probabilmente a un suo bisogno, e a rendere più intensa la partecipazione della massa associata al rito, L. ricorre al canto corale. In memoria delle prime due vittime della Riforma - Enrico Voes e Giovanni Nesse, bruciati vivi a Bruxelles il i° luglio 1523 - egli intona il suo primo inno.

Per l'istruzione del popolo, serve in primo luogo quella versione della Bibbia (1ª edizione del Nuovo Testamento, il 21 settembre 1522; delle varie parti dell'Antico, 1523-31; dell'intera Bibbia, 1534) che, dal soggiorno alla Wartburg in poi, occuperà tutta la vita di L., e darà così potente avviamento alla formazione della lingua letteraria tedesca (v. sotto).

Ma L. si occupa della propaganda anche con gli scritti diretti al popolo e con l'insegnamento, inviando scolari ai principi e alle città che gli chiedono dei predicatori. E continua, con la solita intemperante violenza di linguaggio, la polemica anticattolica (Wieder den falsch genannten geistlichen stand des Papsts und der Bischöfe; Contra Henricum regem Angliae, risposta all'Assertio septem sacramentorum di costui; scritti contro il Coscleo e altri). La controversia si estende, il numero degli opuscoli, da una parte e dall'altra, è infinito. Ed ecco le conseguenze pratiche: i conventi si vuotano. Nell'aprile 1523, L. deve dar rifugio a Wittenberg, nel convento agostiniano ormai vuoto, ad alcune suore fuggite dal monastero di Grimma: tra esse è Caterina von Bora. Di altre, affida la protezione al conte Alberto di Mansfeld. Si adopera per collocarle, e quindi, in trattatelli tedeschi, si occupa del matrimonio. Si comprende che egli esalti lo stato coniugale e che, identificato il peccato con la concupiscenza; presenti il matrimonio come necessità della carne e unico rimedio a mali gravissimi; molto meno certe altre crude affermazioni, che non sono neppure necessaria conseguenza dei suoi principî.

In questo stato di cose Francesco Chieregati, in nome di Adriano VI, promette alla dieta di Norimberga (1522-23) l'attuazione della riforma ecclesiastica, purché venga soppressa l'eresia. Ma la dieta dichiara impossibile l'esecuzione dell'editto di Worms e chiede invece la convocazione, in Germania, d'un concilio libero a tutti. Un anno dopo, ancora a Norimberga, Lorenzo Campeggio, inviato da Clemente VII, constata anch'egli i progressi della Riforma tra il popolo e tra i principi, ma ottiene che la dieta voti l'applicazione dell'editto "per quanto possibile" e non senza rinnovare la richiesta di un concilio a Spira. L'imperatore, nel luglio 1524, ingiunge l'esecuzione senza riserve e biasima la dieta; ma è troppo assorbito dalle sue guerre per poter fare di più. Invece, ecco i primi tentativi di accordi tra principi cattolici, tra città luterane.

La questione religiosa si univa alle altre ragioni di discordia e di lotta in Germania. Per quanto L. fosse contrario all'uso della forza, non poteva sottrarsi interamente all'influsso di Ulrico von Hutten e nel 1522 aveva dato il suo assenso all'impresa del Sickingen contro l'arcivescovo di Treviri. Quando già s'intravvede il disastro del condottiero, che tutti considerano suo alleato, L. deve mostrare ancor più la sua fedeltà ai poteri costituiti: e dedica al duca Giovanni, fratello dell'elettore, il trattato sull'obbedienza ai principi (Von welltlicher Uberkeytt, wie weyt man yhr Gehorsam schuldig sey, marzo 1523) in cui afferma la distinzione tra potere temporale e spirituale, negando allo stato il diritto d'ingerirsi in ciò che riguarda la parola di Dio. Ma nello stesso tempo afferma che il potere civile è ordinato da Dio e necessario nel mondo. Pertanto i principi vanno ubbiditi, anche se ingiusti, perché il cristiano non deve resistere al male; badino però i governanti a non spingere i sudditi all'esasperazione. Tradotto in pratica: lo stato non ha il diritto di applicare l'editto di Worms; L. predicherà l'ubbidienza ai principi e li appoggerà, in ragione della loro tolleranza verso di lui. Non è tuttavia insensibile ai fatti economici, che contribuiscono per tanta parte a formare il malcontento: proprio del 1524 è il suo scritto Von Kauffshandlung und Wucher, in cui protesta contro la borghesia commerciante e speculatrice con la quale purtroppo i principi sono d'accordo. Ma egli fa appello soltanto alle coscienze; il rimedio ai mali sociali è nel convincere tutti che conviene essere con Dio, anche poveri. L. ha messo in guardia i principi (Eyn brieff an die Fürsten zu Sachsen von dem auffrurischen Geyst, 1524) contro lo spirito rivoluzionario che anima i seguaci di Carlostadio e Tommaso Münzer. Se si deve permettere una certa libertà di predicazione, la tolleranza ha però un limite, quando, anziché limitarsi alla propaganda, i novatori passino all'azione.

Tutto questo spiega il suo atteggiamento quando scoppia la rivolta dei contadini. Questi fanno bensì appello al Vangelo e nei famosi "12 articoli" chiedono, innanzi tutto, il diritto di eleggersi un pastore. Ma L., che tra l'agosto e il settembre è andato a confutare Carlostadio a Orlamünde e ne ha ottenuta l'espulsione dalla Sassonia, L. che nel gennaio 1525 lancia la sua filippica Widder die hymelischen propheten, non ammette che il messaggio del Vangelo sia trasformato: in luogo della consolante scoperta della giustizia imputata, la distruzione delle immagini e le innovazioni nel rito! Per di più, Carlostadio s'accosta anche lui alle dottrine del Münzer: l'illuminazione mistica, un'ispirazione tutta individuale, varrebbe di più della Parola di Dio contenuta nella Scrittura! Per contro, e la sua concezione della salvezza e la sua esperienza esigono la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia. E se il battesimo è conferito agli adulti, giunti in età di ragione, non è più vero che la fede è dono esclusivo di Dio: si presuppone che sia voluta, anche il battesimo si trasforma in un'opera buona! Ora queste tesi di Carlostadio e degli estremisti cominciano a diffondersi. Non è dunque vero che i contadini insorgono in nome del Vangelo. Il Vangelo non insegna la rivolta, ma la sottomissione. Parlando ai principi (Ermanunge zum frieden auff die zwelf artikel der Bawrschafft, aprile 1525) egli dichiara che attribuire le sommosse al suo insegnamento è un confondere L. con coloro ch'egli ha sempre combattuto; la responsabilità è soprattutto dei signori, specie gli ecclesiastici, nemici del Vangelo: i contadini hanno diritto alla predicazione del Vangelo. Rivolgendosi a questi, L. riconosce che, in termini di giustizia puramente umana, hanno ragione. Ma questo che conta? Cristo ha insegnato a patire; il Vangelo e la libertà spirituale sono conciliabili con la più stretta schiavitù; la vendetta spetta a Dio, in cui possono aver fiducia. L'insurrezione è cosa puramente mondana, da risolvere con un compromesso. Questo in un primo momento, quando L. oltre tutto, vede nella rivoluzione un argomento per indurre i principi a stare con lui, pure già preoccupandosi di scindere la sua responsabilità. Poco dopo, in piena lotta e quando, nel maggio e nel giugno, le bande ribelli sono massacrate a Frankenhausen e a Lupfenstein, L. sente soprattutto la seconda esigenza. Forse intravvede il pericolo che la reazione possa abbattersi anche sull'opera sua; certo chi ha scatenato contro l'ordine terreno stabilito da Dio quella tempesta, che minaccia di travolgere la Riforma, costui - Tommaso Münzer - è il demonio incarnato. E L. è tutto coi principi, nelle lettere e nelle sanguinarie invocazioni alla ferocia del libello Widder die stürmenden bawren (Wider die räuberischen und mörderischen Rotten der Bauern). E si capisce che tra gli umili, su cui più dura pesò l'oppressione, L. perdesse popolarità.

Fra preoccupazioni così gravi, un gesto che sorprende, e dolorosamente, gli stessi amici. Fino all'ottobre del 1524, L. ha conservato l'abito monastico; quando i suoi primi seguaci si sposano, approva ma soggiunge che non affibbieranno una moglie anche a lui. Nel novembre 1524, rifiuta un'offerta matrimoniale; ancora nell'aprile 1525, esclude la possibilità d'un matrimonio, sebbene parli di sé come famosus amator e dei suoi rapporti con alcune donne in modo scherzosamente ambiguo. Ora, il 13 giugno, all'insaputa di Melantone che il 24 luglio ne scrive imbarazzato al Camerario, L. celebra le sue nozze con Caterina von Bora. Melantone pensa a un tranello, molti a una riparazione; L. dirà di aver voluto far dispetto a Satana e ai papisti, far ridere gli angeli e piangere tutti i demonî: mostrare cioè com'egli, libero da ogni coscienza di peccato, si senta tranquillo. È sempre il L. dell'esto peccator et pecca fortiter, tante volte rimproveratogli e anche frainteso; il L. che talvolta vuol bere un bicchiere di più e amerebbe magari commettere qualche grosso peccato: per violare i divieti del diavolo e mostrargli che la fede vale di più. Del resto, buon marito, se pure della moglie parli a volte con volgarità e nonostante gli urti tra i due temperamenti; e buon padre, ai sei figli - Giovanni, Elisabetta e Maddalena morte rispettivamente di otto mesi e 13 anni, Martino, Paolo e Margherita - che gli nascono fra il 1526 e il 1534. Ma le vicende che non gl'impediscono di prendere moglie ritardano invece l'inizio della sua risposta a Erasmo, che già nel settembre 1524 ha pubblicato la De libero arbitrio Diatribé.

Lutero ed Erasmo. - Non senza un certo semplicismo si è voluto vedere quasi condensato nelle relazioni tra L. ed Erasmo l'intero problema dei rapporti tra la cultura umanistica del Rinascimento e la Riforma. Ma L., se pure qualche cosa ebbe in comune con gl'ideali del Rinascimento, in particolare il motivo del "ritorno alle origini"; se, specialmente agl'inizî, coltivò l'amicizia degli umanisti e cercò di avere anche fra loro dei sostenitori, per Erasmo non provò mai simpatia vera. Già nel 1516, scrivendo allo Spalatino, deplora che l'esegesi di Erasmo sia tutta fondata su S. Girolamo, mentre la sua è tutta agostiniana. In seguito, sotto la spinta dei suoi seguaci umanisti che, senza troppo approfondire, veneravano l'uno e l'altro al pari, egli si avvicinò a Erasmo, che spese talvolta la sua influenza in favore di L., pur senza mai compromettersi apertamente. Ma a poco a poco si venne scostando da lui. L. se ne accorse e in varie lettere disse chiaro il suo pensiero. Con tutto il rispetto per il grande umanista, L. lo giudicava inferiore a sé come teologo: un Mosè, se si vuole, ma destinato a morire prima del passaggio in Terrasanta, nella regione delle più alte realtà spirituali. L'attacco di Ulrico von Hutten contro Erasmo, benché L. ne disapprovasse la violenza, aggravò la situazione; ed Erasmo si decise ad ascoltare gl'inviti a scrivere contro L. Il quale, alla fine del dicembre 1525, pubblicò il De servo arbitrio.

Erasmo ha colto veramente un punto centrale della teologia di L. I primi controversisti cattolici hanno portato la discussione sul terreno dell'ecclesiologia, scoprendo i punti nei quali il riformatore si stacca dall'ortodossia per accostarsi a Hus e alle dottrine conciliari, costringendolo così a trarre tutte le deduzioni, implicite già nelle tesi iniziali, relative alle dottrine della Chiesa, dei sacramenti, ecc.; Erasmo invece affronta in pieno la questione più squisitamente teorica, ma fondamentale. Ma, a parte ciò che nella sua posizione può destare la simpatia dei moderni, Erasmo non si mostra grande teologo: "ha discusso la questione della libertà da profano, da umanista e da uomo di mondo piuttosto che da teologo.... ed è così caduto un poco in un vero semipelagianismo" (Paquier).

E L. lo confuta. La sua difesa del dogmatismo, contro la scepsi e l'agnosticismo erasmiani; la sua definizione dell'autorità - distinta in interna, cioè il giudizio del singolo credente illuminato dallo Spirito, ed esterna, che si manifesta nel ministero della Parola; e l'affermazione che la Chiesa infallibile è costituita dal piccolo gruppo degli eletti, noti a Dio solo; non sono in fondo che argomentazioni marginali, come le discussioni intorno ai passi biblici addotti da Erasmo o intorno alla sua definizione della libertà: interessanti, ma di minor rilievo. L'essenziale è che L., questa volta, affronta anch'egli direttamente il problema fondamentale, in base a premesse metafisiche. La mancanza di libertà nell'uomo è dedotta dal carattere eterno e immutabile della volontà di Dio onnisciente. Quindi, tutto ciò che noi uomini facciamo è eternamente preconosciuto e preordinato da lui. Alla volontà divina nulla può, nonché opporsi, resistere. È vano osservare che, negato il libero arbitrio, cade ogni morale e che nessuno, udendo quella dottrina, vorrà più emendarsi o amare Dio: perché da Dio dipende e suo dono è la facoltà di emendarsi e di amarlo; vano, obiettare che ciò è un male: a siffatta difficoltà non v'è che una risposta, ed è che Dio vuole così. Con questa identificazione dell'onniscienza di Dio con la sua volontà, L. giunge a una teoria della predestinazione, appena meno rigida di quella di Calvino. Ma per L. questa dottrina - in cui si riflette pure non poco della teologia occamistica in cui è stato educato da giovine - non è pura, astratta teoria: è ancora il risultato della sua esperienza fondamentale. Sotto i colpi di questa replica, Erasmo, sgradito ai cattolici (la Diatribé fu censurata dalla facoltà parigina di teologia nel 1526) e inviso anche ai riformatori svizzeri, perde molto della sua autorità: L. può lasciar passare sotto silenzio l'Hyperaspistes, con cui l'umanista cerca di ribattere.

La chiesa. - Intanto, dopo un momento gravissimo per i luterani (ma il nuovo elettore sassone, Giovanni, è egli pure favorevole a L.; e Melantone ha attratto alla Riforma il langravio Filippo d'Assia), capovolta ancora la situazione politica, la dieta di Spira (1526) decide che, in attesa del Concilio, ogni principe sia libero di agire come crede in materia religiosa, responsabile solo verso Dio e l'imperatore. Ancora una volta, la politica: Carlo V, per dare imbarazzi al papa, non respinge l'idea del concilio. L., riluttante sulle prime, deve piegarsi alle esigenze dei principi. Intanto, l'evangelismo luterano si diffonde sempre più.

Ma questo fatto, appunto, pone di nuovo a L., e con maggiore urgenza, il problema dell'organizzazione ecclesiastica. Una chiesa luterana? Contraddizione in termini, si direbbe, ricordando le sue affermazioni sulla Chiesa invisibile, mistica. Si è detto "sempre più, davanti allo spettro d'un cristianesimo inconsistente, egli indietreggiò con terrore" (Paquier). Questo spiega le contraddizioni, innegabili, allorché si pongano l'una accanto all'altra le sue varie dichiarazioni. Ma anche qui, l'unità intima è fornita dall'esperienza religiosa di L. Egli non rinnega il suo concetto della Chiesa come "popolo dei fedeli", corpo mistico di cui Cristo è il capo, communio sanctorum aut fidelium (i due articoli del Credo sono da lui congiunti e interpretati alla luce della sua dottrina della giustificazione), e per ciò stesso invisibile. Ma accanto a questa, come un altro aspetto della medesima realtà, è la Chiesa visibile, resa tale dalla predicazione della Parola e dall'amministrazione del Sacramento, non dalla gerarchia. Sopravvive, certo, in L., un bisogno di disciplina, di ordine nel culto, sussiste ancora in lui, benché con un colorito ormai anticattolico, il nome e il concetto della "cristianità" (Christenheit). Questa è però formata dalle singole comunità, unite fra loro dalla fede, e ciascuna con il proprio pastore o "vescovo": il concetto ch'egli ha della disciplina ai tempi apostolici lo conduce a immaginare una forma d'organizzazione in cui la gerarchia non è necessaria. Ma, unite tra loro da vincoli puramente spirituali, le singole comunità dovranno essere indipendenti dallo stato; L. invece gli affida una parte importante. Argomento, questo, assai controverso. Ma, la sua dottrina del sacerdozio universale spiega abbastanza bene e l'origine delle sue idee in proposito e anche le variazioni di lui, che dipendono in gran parte dal momento e dalle condizioni politiche. Non senza una certa logica: il principe che aderisce alla Riforma è, anch'egli, credente e sacerdote; e come tale, mancando un potere ecclesiastico saldamente costituito, ha il dovere e il diritto di mantenere la disciplina.

Nel 1526, L. ripete i suoi concetti sulla Messa, da celebrarsi nella lingua del popolo Deudsche Messe und ordnung Gottis diensts; ma già nel novembre chiede all'elettore Giovanni di intervenire, per assicurare la disciplina. Con l'esercizio di questo Notepiscopat, l'elettore viene ad assomigliare moltissimo alla figura del "vescovo per gli affari esterni": Costantino. E l'elettore nomina "visitatori" due suoi consiglieri (Planitz e Haubitz) con Melantone e Schurf, dando loro istruzioni. Nella scelta delle persone possiamo già scorgere il nucleo del Konsistorium di giuristi e teologi, mediante cui il principe tedesco governa la chiesa entro i suoi dominî. La visita rivelò uno stato di cose che richiedeva pronto rimedio: onde, nel 1527, le nuove istruzioni (ordinanza ecclesiastica, Kirchenordnung) di Melantone (v.). Nella prefazione, L. ribadisce che il principe non può né insegnare, né esercitare un potere spirituale; ma ha il dovere di prevenire le divisioni fra i suoi sudditi e i disordini. Per questa via, si può andare molto lontano; e L. non è più disposto nemmeno a concedere libertà di predicare.

Il partito. - Filippo d'Assia fa di tutto per creare una coalizione che tenga l'imperatore in rispetto; ma Carlo è sempre il più forte: prima ancora che sia firmata col papa la pace di Barcellona (25 giugno 1529), preludio di quella di Cambrai, l'imperatore dichiara di ritenere nullo il Recesso di Spira. La nuova dieta, che ivi si riunisce nell'aprile, ha una maggioranza cattolica, o intimorita; per di più, tra i riformati vi sono dei dissensi. Così si stabilisce che nei principati cattolici resti in vigore l'editto di Worms; negli altri, non si faranno ulteriori innovazioni, concedendo però sempre ai cattolici la Messa tradizionale; nessuna tolleranza sarà concessa agli anabattisti e ai negatori della presenza reale; nessuno degli stati potrà violare i diritti altrui: il che significava che, non potendosi privare il clero delle rendite o dei poteri, era ristabilita ovunque la giurisdizione episcopale. Il 19 aprile, quando la dieta approva queste decisioni, viene letta la "Protesta" che darà il nome al partito, e di cui si nega anche l'inserzione negli atti. In diritto, dichiara che la decisione unanime d'una dieta non può essere annullata dalla semplice maggioranza di un'altra. Firmatarî del documento, l'elettore Giovanni di Sassonia, il margravio Giorgio di Brandeburgo, i duchi Ernesto e Francesco di Brunswick-Luneburgo, il langravio Filippo d'Assia, il principe Volfango di Anhalt inoltre, 14 città. Molte di esse erano piuttosto zwingliane e tanto più bisognose di difendersi. Ma la loro adesione è anche effetto del nuovo indirizzo dato all'azione dei riformati da Filippo d'Assia. Il langravio mira all'unione delle forze, che sola può dar loro la sicurezza, se non la vittoria. Ora, a Spira, Melantone a un certo punto ha abbandonato gli zwingliani nella vana speranza di ottenere patti più favorevoli ai luterani. Per ristabilire il "fronte unico" della Riforma, bisogna dunque in primo luogo eliminare o appianare le divergenze di carattere teologico nell'interno del movimento, risolvere la "controversia sacramentale".

Lutero e Zwingli. - L., abbiamo visto, si limita a negare, quanto all'eucaristia, la transubstanziazione, cioè quello che a lui - respinta la distinzione aristotelico-scolastica di sostanza e accidente - sembra un modo inadeguato di spiegare la presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche. Ma questa presenza reale egli afferma risolutamente. Altri la nega: Cristo è presente nell'eucaristia in maniera soltanto spirituale, il pane e il vino sono simboli del corpo e del sangue. Fino dal 1523, L. (Von anbeten des Sacraments des heyligen leychnams Christi) combatté questa tendenza; con tanto maggior vigore, quando per essa si pronunciò Carlostadio. Nel libro Contro i profeti celesti egli riprese la questione. Allorché anche Zwingli accettò la concezione simbolica, la divergenza teologica finì di spezzare il partito della Riforma in due campi, distinti anche geograficamente: contro la presenza reale erano i riformati della Germania sud-occidentale e della Svizzera. E la polemica, nella quale intervennero contro L. anche l'Ecolampadio e il Brenz, continuò. Nel campo teologico, essa si aggirò, oltre che sull'esegesi dei passi fondamentali dei Vangeli e di S. Paolo, intorno a due punti: l'ubiquità del corpo di Cristo (affermata da L., per escludere appunto la trasformazione delle sostanze del pane e del vino: il corpo di Cristo è normalmente ovunque, quindi anche nelle specie; per i suoi avversarî, invece, il corpo di Cristo, asceso al cielo, è alla destra del Padre) e, per conseguenza, il rapporto tra la natura umana e la divina. Zwingli sottolinea la distinzione, L. accentua invece l'unione perché è l'ubiquità della natura divina che si comunica all'umana. Inoltre, i riformatori democratici non perdonano a L. di avere abbandonato i contadini. Ma L. difende il suo punto di vista, con passione veemente, in una serie di scritti. Nell'ultimo dei quali (Vom abendmal Christi, Bekendnis; 1528), nella confessione di fede ch'egli pronuncia immaginandosi vicino a morte, L. raggiunge un'altezza di sentimento e di espressione, superata solo dal suo capolavoro poetico, scritto in quel torno di tempo, l'inno della vittoriosa fede in Dio, l'inno trionfale della Riforma, in cui amò prorompere, anche nelle trincee, il sentimento nazionale germanico: Ein feste Burg ist unser Gott.

Filippo d'Assia e Zwingli sentono del pari la necessità dell'unione; e L., benché abbia già dichiarato che Zwingli ed Ecolampadio sono strumenti del demonio, accede alla proposta d'una conferenza, specie di concilio, in cui realizzare l'unione. L'incontro ha luogo nell'ottobre, a Marburgo. Già il terzo giorno si constata l'impossibilità di un accordo. Se l'ubiquità non ha altre prove che il testo della Scrittura, se essa è impossibile, che importa? Dio può violare anche le matematiche. Se la natura divina di Cristo non ha sofferto al pari della sua umanità, un simile Cristo non vale a nulla. Così L.; e fallisce anche l'ultimo tentativo per metterli d'accordo su una formula di compromesso. Il langravio si deve contentare di una formula che contiene 15 punti sui quali tutti sono d'accordo, con qualche concessione da parte degli Svizzeri, e dell'impegno reciproco di astenersi dalle polemiche. Ma fin dal principio dell'anno L. ha pensato a condensare la sua dottrina in due scritti per il popolo, e che sono infatti tra i suoi più popolari: il Grande e il Piccolo catechismo (rispettivamente, Deudsch Catechismus e, con reminiscenza forse più agostiniana che erasmiana, Enchiridion).

Gli ultimi anni. - A Bologna, nel febbraio e marzo 1530, Carlo V rinnova al papa la promessa di agire contro gli eretici. Il momento è grave, e L., impedendo l'unione, ha dato un grave colpo al partito. Anche le conferenze di Schwabach e Smalcalda, nell'ottobre e dicembre 1529, tra i principi e i rappresentanti di Strasburgo e Ulma, non raggiungono l'intento, sempre per l'intransigenza dei teologi di Wittenberg. Ora, dopo la sua incoronazione, l'imperatore viene a tenere la dieta convocata in Augusta: ma, tra l'altro, desidera l'incoronazione a re dei Romani di suo fratello Ferdinando. Perciò deve mostrarsi arrendevole. Anche l'elettore di Sassonia s'è fatto accompagnare dai suoi teologi: Melantone, Giusto Giona e lo Spalatino, ché all'ultimo momento non ha osato portare a una dieta il bandito di Worms e l'ha lasciato a Coburgo. Ma subito, Carlo si trova di fronte al netto rifiuto dei luterani di seguirlo nella processione del Corpus Domini. Il 25 giugno, i luterani presentano la professione di fede, redatta da Melantone sulla base degli articoli preparati per le trattative con gli Svizzeri, ma ancora elaborati per accentuare il dissidio con quelli e spianare la via all'accordo con i cattolici. La dichiarazione è presentata dai principi firmatarî della protesta di Spira, cui si aggiungono Giovanni Federico, figlio dell'elettore sassone, e il conte Alberto di Mansfeld; ma, delle città, l'accettano solo Norimberga e Reutlingen. L., che ha approvato nel maggio un primo schema, ignora però il testo definitivo, redatto da Melantone dopo altre sei settimane di lavoro. Nello stesso maggio, L. manda la sua Esortazione (Vermanung an die Geistlichen versamlet aufb dem Reichstag zu Augsburg); ma non si preoccupa troppo. Sa bene, lui teologo, lui vissuto nel cattolicismo, che l'accordo è impossibile. Tuttavia, avverte Melantone che si è concesso anche troppo; e durante le trattative insiste su questo, con rimproveri acerbi. Ché i cattolici alla dieta hanno accettato di esaminare la Confessione melantoniana; Melantone si dichiara pronto a riconoscere anche l'autorità del papa, purché questi conceda la comunione utraquista e il matrimonio del clero, almeno fino al prossimo concilio. Il 3 agosto, è letta la confutazione cattolica, di cui Carlo ha fatto moderare il tono; ma se ne dichiara convinto e tenta imporne l'approvazione. Allora, Filippo d'Assia lascia la dieta. Per evitare la rottura si riprendono le discussioni: per i chierici coniugati, si attenderà il concilio, e si provvederà con dispense. L. intanto va sulle furie: Melantone lo tradisee. Ma continua a non credere che l'accordo si raggiunga. Carlo infatti propone, il 22 settembre, un atto per cui, riconosciuto che i luterani sono stati confutati, si dia loro tempo sino al 15 aprile 1531 per ritornare alla fede cattolica, in attesa del concilio; proibita intanto ogni controversia e propaganda. Invece i protestanti dichiarano di non essere affatto convinti e presentano, ma invano, l'Apologia della Confessione, redatta da Melantone. E l'elettore Giovanni lascia la dieta, mentre le città, a eccezione di Nordlingen ed Esslingen, resistono anch'esse. Il 19 novembre, Carlo chiude la dieta rinnovando l'editto di Worms.

Per L., respingere la confessione di Augusta era opporsi direttamente al Vangelo. Inoltre, anch'egli seguiva ormai la tendenza a rafforzare l'assolutismo dei principi. Ed eccolo esortare i "suoi cari Tedeschi" (Warnunge an seine lieben Deudschen, 1531) e, accettando i motivi addotti dai giuristi sassoni per giustificare la lega smalcaldica, cercare dapprima di conciliare il suo atteggiamento con la dottrina della resistenza passiva: i cattolici sono paragonati a Münzer. Poco dopo, fa ancora un passo avanti: "insegnando finora che non è permesso resistere all'autorità costituita, noi ignoravamo che la legge stessa permette tale resistenza". Quando Cesare combatte il Vangelo, viene meno al suo stesso diritto imperiale e resistergli è lecito. Della complicata situazione politica tedesca e internazionale, la causa della Riforma protestante si giova, quando a Norimberga, nel giugno 1532, si decide in sostanza di mantenere lo statu quo favorevole ai protestanti, in attesa del concilio promesso da Clemente VII.

La pace permette alle chiese luterane tedesche di completare la loro organizzazione: quella funzione di centro religioso e politico della Riforma, che Ginevra eserciterà più tardi, ora spetta a Wittenberg; e più ancora potrebbe, se L. fosse un Calvino. Gli scolari che accorrono a lui, sono accolti; alcuni, ammessi a frequentare la casa e a prender posto alla sua tavola, registrano accuratamente le parole del maestro, che talvolta tradiscono il pensiero, tal altra aprono invece uno spiraglio sulla sua più intima vita spirituale. Ma sono in fondo spiriti mediocri: e già in questi anni si sente che l'afflato eroico si spegne, la rivoluzione religiosa s'imborghesisce, come del resto imborghesisce, si appesantisce, ingrassa il suo capo, vecchio più d'esperienze che di anni. A tratti, divampa ancora l'antica fiamma del combattente, se pure talvolta egli appare disilluso e invoca la morte. E la pugnacità stessa si traduce in violenza verbale, acrimonia, insofferenza: psicologia di malato, di vecchio, che s'irrita per le contraddizioni o i dubbî.

Già nel 1527, L. si oppone al movimento anabattista che, riordinate le file, ridiventa minaccioso. La reazione lo fa quasi ritornare cattolico: quasi abbandona la sua concezione della fede, per asserire che essenziale nel sacramento è l'istituzione divina. Ma si tratta solo di difendere il battesimo dei bambini; e riaffiorano subito i motivi cari a L.: non è necessario che la fede sia professata e in chi la professa spesso non v'è fede vera; la fede non dipende dall'intelligenza; è data da Dio; e dunque, la possono avere anche gl'infanti. Con il somministrare il sacramento ai soli adulti, giunti all'età della ragione, gli anabattisti ne fanno un'opera. Ma ancora, non vuole persecuzioni. Quando però penetrano in Sassonia, cambia parere (lettera Von den Schleichern und Winkelpredigern, gennaio 1532). Allora, rinnega quasi anche il sacerdozio universale: i predicatori, ministri della Parola, devono essere autorizzati. A questa conclusione lo conduceva anche la necessità di stabilire una disciplina nella chiesa sassone, dove il disordine morale era sì grave, da preoccupare l'elettore Giovanni Federico vicino a morte e il successore Giovanni. Nel 1535 s'introduce una specie di ordinazione da parte della facoltà teologica di Wittenberg. L. cerca di reagire contro le ingerenze del potere civile nel campo spirituale, cercando di mantenere in vigore la scomunica, pur senza conseguenze civili; lascia pure la nomina e la revoca dei predicatori all'elettore, e, spinto dall'antico odio per il diritto canonico, fa trasferire ai "concistori" laici le attribuzioni dei tribunali ecclesiastici (1538-39).

Il Concilio diventa oggetto di trattative diplomatiche, ma anche la speranza di molti che cercano davvero la conciliazione e l'unità: Erasmo pubblica nel 1533 il De amabili Ecclesiae concordia. Gli risponde Antonio Corvino e L., nella prefazione, pur mostrandosi intransigente in fatto di principî e irriconciliabile con i cattolici, riconosce che al di sopra dei dissidî teologiei tutti possono esercitare lo spirito di carità. Melantone e Bucer vanno oltre, sono pronti a discutere e a fare importanti concessioni trattando con i cattolici francesi; il nunzio in Germania, P. P. Vergerio vescovo di Capodistria, mandato per preparare diplomaticamente il Concilio ecumenico, ha - il 6 novembre 1535 - un colloquio con L.: le discordanti versioni lasciano capire che alle diplomatiche ouvertures del nunzio, L. rispose facendo l'apologia della propria fede; che non sarà stata senza lasciar traccia nell'animo del futuro riformatore italiano. Filippo d'Assia e Giovanni Federico preferiscono ritentare l'accordo con i riformati meridionali. La corrispondenza tra Bucer e L., i rapporti amichevoli di questi col Bullinger, un incontro tra Melantone e Bucer nel 1534, per quanto inconcludente, hanno in parte spianato la via: e nel maggio 1536 la "Concordia di Wittenberg" sembra avere realizzato il "fronte unico" dei riformati di lingua tedesca. E i principi luterani respingono l'invito di Paolo III al Concilio ecumenico. L. lancia una nuova serie di scritti antipapali: nel 1537, una traduzione della Donazione di Costantino, in cui egli ravvisa una delle basi giuridiche e teologiche del potere papale (Einer aus den hohen Artikeln des päpstlichen Glaubens, genannt Donatio Constantini); il testo della bolla, con sue osservazioni (Bulla papae Pauli III, de indulgentiis contra Turcam, mit Nachwort und Randglossen) e il curioso libello, in forma di lettera del demonio, sdegnato alla notizia che il papa vuole sul serio riformare la Chiesa, ma fiducioso che si tratti solo d'un tranello per ingannare i Tedeschi (Beelzebub an die heilige päpstliche Kirche). Intanto, L., dopo altri scritti di minor conto, pubblica (1539) l'opera Von den Konziliis und kirchen. Egli non crede alla sincerità del papa nel bandire il Concilio; del resto il Concilio stesso, come dimostra anche la storia della Chiesa antica, non è infallibile. Esso non può stabilire novità nella fede o nei costumi o nelle cerimonie: può solo condannare errori fondandosi sulla Scrittura, come fecero i primi quattro sinodi ecumenici, la cui autorità L. riconosce. Infine, tratta della Chiesa, concepita sempre come assemblea dei fedeli: il popolo dei credenti in Cristo, santificati dallo Spirito. Le sue note sono: l'effettiva predicazione della parola di Dio; l'amministrazione del battesimo e dell'eucaristia; l'esercizio del potere delle chiavi da parte del pastore di ogni comunità; il ministero regolare che adempie queste funzioni; il culto pubblico, tenuto nella lingua del popolo; la Croce, emblema delle sofferenze necessarie nella lotta contro il diavolo, il mondo e la carne.

In questo scritto, L. qualifica come nestoriana la dottrina di Zwingli sull'incarnazione; ma la rinnovata polemica con gli Svizzeri si esaurisce in lettere irose. Un'altra lotta impegna L., che nel febbraio 1537 ha consegnato l'esposizione definitiva della sua fede agli "articoli di Smalcalda", dal 1536 in poi la viene chiarendo nei suoi corsi che formeranno il Commento alla Genesi, ed è fermamente deciso a mantenere ogni punto, contro tutti. Giovanni Agricola ha protestato nel 1527 contro le istruzioni ai visitatori; nel 1537, desta i sospetti anche di L. Questi aveva mantenuto alla legge dell'Antico Testamento una funzione: essa, suscitando il pentimento per il peccato, prepara al Vangelo. Agricola nega: anche il pentimento è dovuto al Vangelo, la legge antica è interamente scartata (antinomismo); messo da parte il decalogo, la vita religiosa è del tutto indipendente dalla morale. L. riconosce che da principio, adattandosi alle necessità del momento, egli ha inculcato sopra tutto il Vangelo; ma ora, soggiunge, i tempi sono mutati, gli animi non sono più oppressi dal giogo papale (Wider die Antinomer). Dopo una serie di riconciliazioni, nel 1539 la rottura tra i due è definitiva.

Dello scompiglio morale, è sintomo impressionante il famoso episodio della bigamia di Filippo d'Assia (v.). L. s'era pronunciato apertamente contro la poligamia, predicata dai profeti celesti adducendo l'esempio dei patriarchi. Ma nel 1539, Bucer ammette che, in quanto unico rimedio contro la fornicazione, la bigamia sia tollerabile e si adopera a persuadere L.: il quale il 10 dicembre firma il "consiglio di coscienza", in cui si afferma che la monogamia è e dev'essere la regola, la poligamia ammissibile solo in casi di estrema necessità. E, in considerazione del fatto che il principe non potrebbe assolutamente praticare la eontinenza, concedono la licenza per il secondo matrimonio, ma a patto che resti segreto: perché non appaia ch'essi favoriscono la poligamia come gli anabattisti; perché la legge civile non l'ammette; e perché l'esempio non sia seguito. Peggio ancora, quando il segreto viene svelato e lo scandalo dilaga: L., per sedarlo, consiglia "una buona, forte bugia" e dichiara che la divulgazione del fatto annulla la concessione. Ma l'imbarazzo e la vergogna di L. si tradirono ben presto. Nel 1541, poiché il duca Enrico di Brunswick lo ha accusato d'aver appioppato all'elettore un nomignolo scandaloso, L. lo applica al duca (Wider Hans Worst). Ma nel difendere la Riforma e ribadire l'impossibilità di scendere a compromessi, circa la bigamia di Filippo, L. dice di riconoscere una sola langravia d'Assia, Cristina, e si limita a deplorare la vita licenziosa dei principi, cominciando dal duca Enrico.

Il progetto del Concilio è stato momentaneamente messo da parte, ma Carlo V non abbandona per ora l'idea di una conciliazione. Un'intensa attività diplomatico-teologica conduce a una serie di conferenze, le quali preparano la dieta, indetta a Ratisbona, e aperta nell'aprile 1541. Sotto l'influsso del cardinale Gaspare Contarini, una commissione di tre teologi cattolici (Eck, Pflug e Gropper) e di tre luterani (Melantone, Bucer e Giovanni Pistorio) discute a lungo e finisce per concordare una formula, secondo la quale la giustificazione è conseguita mediante la "fede operante attraverso l'amore": la giustizia imputata, necessaria per il rinnovamento interiore e che si manifesta spontaneamente in opere buone, conferisce all'uomo la consapevolezza della giustizia inerente, distinta da essa e conferita mediante il battesimo. L. protesta, e d'altronde è certo anche questa volta che l'accordo non verrà raggiunto: troppe altre questioni essenziali restano da decidere. Infatti, quando si giunge all'eucaristia, i cattolici tengono ferma la transustanziazione, con altrettanta fermezza respinta da Melantone. L'elettore Gioacchino di Brandeburgo consiglia di rivolgersi a L.; e la sua risposta è conciliante, quanto ai primi articoli, che accetta, alla comunione sotto una sola specie e alla confessione auricolare. Ma dimostra abbastanza chiaramente di non aver fiducia nell'altra parte; ed esige che gli articoli convenuti non rappresentino concessioni, un atto di tolleranza, ma vengano insegnati da tutti i cattolici. L'urto appare inevitabile; ma l'Interim proposto dall'imperatore lo evita, ritornando in sostanza alle condizioni della pace di Norimberga. Il Granvelle, ancora nel novembre, non ha alcuna fiducia che il Concilio si tenga davvero e teme che les desvoyés attirino a sé anche il resto della Germania (cfr. W. Friedensburg, Aktenstücke ecc., in Archiv f. Reformationsgesch., 1932, pp. 35-66). Perciò Carlo V vuole una tregua, che almeno trattenga gli smalcaldici dall'unirsi ai suoi avversarî. Ancora nel giugno 1544, alla dieta di Spira, egli fa concessioni. L. invece pubblica, con insuperabile violenza e volgarità di linguaggio, un altro libello contro il papato (Wider das Bapstum zu Rom vom Teuffel gestift, marzo 1545). Del resto anche a Gaspare von Schwenckfeld, che gli manda i suoi scritti teologici, L. risponde con una lettera non sigillata in cui lo chiama "secondo Eutiche" (1543); Sebastiano Franck è da lui ribattezzato Beelzebub (1545); contro gli Ebrei, che nel 1523 L. non vuole perseguitati ma persuasi (Das Jesus Christus eyn geborner Jude sey), ora pare che non ci siano misure preventive e repressive abbastanza severe (Von die Juden und jren Lügen). E, poiché circola la voce che egli abbia modificato le sue dottrine sulla presenza reale, una breve professione di fede intorno all'eucaristia (Kurtz Bekentnis vom heiligen Sacrament, 1544) le ribadisce, rinnovando le critiche e gl'improperî contro la memoria dello Zwingli.

Ma poco dopo la dieta di Spira, il 18 settembre 1544, Carlo ha firmato la pace di Crespy. Una clausola tradizionale esprime il desiderio dei due sovrani di combattere il Turco e l'eresia; ma l'imperatore, che non ha più ragioni per diffidare del papa e ha sufficientemente indebolito la Lega di Smalcalda, è d'accordo con Paolo III nel volere il Concilio. Nell'estate del 1546, mentre questo discute intorno ai dogmi fondamentali che L. ha posto in dubbio, Carlo V pone Filippo d'Assia e Giovanni Federico di Sassonia al bando dell'Impero.

Ma il riformatore non vide né le decisioni del Concilio né gl'inizî della guerra. Il mal della pietra, di cui L. aveva sofferto un attacco violento già nel 1537 a Smalcalda, s'era continuamente aggravato e lo faceva soffrire violentemente; a questo s'erano aggiunti altri acciacchi. Nell'estate del 1545, più sofferente e più scoraggiato del solito, L. aveva anche pensato di abbandonare definitivamente Wittenberg. Vi ritornò invece, sempre malato, il 18 agosto. Dovette poi recarsi ad Eisleben, per risolvere una questione tra i conti Alberto e Gebardo di Mansfeld, che l'avevano designato arbitro. Gli parve non poter negare quest'opera di conciliazione ai signori della sua città natale e suoi protettori. Il 17 febbraio, l'accordo è raggiunto. Egli ha il presentimento di dover finire i suoi giorni nel luogo ove fu battezzato. E nella notte, fra le due e le tre del 18, L. muore, circondato dai familiari. Per volontà dell'elettore, il cadavere fu portato a Wittenberg, e sepolto colà, il 22.

L. e la lingua e la letteratura in Germania. - Negli ultimi decennî si è prodotta, fra gli studiosi, una reazione contro la tendenza a considerare L. come diretto creatore della lingua tedesca moderna. Ed è vero che, com'è stato osservato, già nell'epoca del "Mittelhochdeutsch" una specie di linguaggio letterario comune s'era venuto spontaneamente costituendo al disopra delle varie parlate dialettali; è vero anche che, fin dai tempi di Carlo IV, la cancelleria di Praga aveva riconosciuto la necessità di fissare unitariamente per tutto l'Impero i suoi formularî e che perciò, quando L. s'appoggiò per la sua prosa al linguaggio della cancelleria sassone, si trovò a disposizione una struttura linguistica che nel volgere degli anni, ad opera soprattutto di Federico III di Sassonia e di Massimiliano I, già si era venuta ampliando ed evolvendo verso maggiori possibilità espressive; è vero infine che, con il diffondersi degli studî umanistici, ininterrotto da Carlo IV in poi, l'affinamento del gusto aveva provocato un faticoso e lento sforzo di modellare il tedesco secondo forme di ornata eleganza latina. Ma tutti erano stati soltanto avviamenti. Il comune linguaggio "mittelhochdeutsch", rimasto sempre allo stato di inconscia esigenza, chiuso nel mondo della poesia, non era sceso mai a pieno contatto col popolo, compenetrandosi con la sua vita e sviluppandosi come soltanto dalla intera vita di un popolo un linguaggio si può sviluppare; la lingua della cancelleria, pur arricchendosi gradualmente, era rimasta tuttavia naturalmente rigida e schematica; e anche l'influenza del latino era stata irregolare e disorganica, costretta a cozzare, spesso invano, contro una materia linguistica la quale era troppo radicalmente diversa, espressione di un'altra mentalità e di un diverso modo di sentire di un altro popolo. In verità soltanto con L. la Germania ebbe veramente la "sua" lingua, viva nell'immediatezza della sua funzione sociale e al medesimo tempo letterariamente elaborata in una sua coerente organica unità formale, in cui il popolo intero si poté riconoscere.

A seguire lo sviluppo di questa lingua dai Sieben puszpsalm (I sette salmi penitenziali) del 1517 alla versione del Nuovo Testamento del 1522, alla Bibbia completa del 1534; dall'Appello An den christlichen Adel deutscher Nation del 1520 al Sendbrief vom Dolmetschen del 1530, all'opuscolo polemico Wider Hans Worst del 1541, non si può non restare stupefatti dinnanzi alla sicurezza d'intuito con cui l'equilibrio tra il fondamentale elemento linguistico attinto al dialetto sassone di Meissen e della Turingia e gli elementi varî derivati dall'"Oberdeutsch" e dal "Niederdeutsch", l'armonia fra il linguaggio popolare e le forme già divenute tradizionali nel repertorio della cancelleria o nella lingua letteraria, l'accordo fra il materiale linguistico già esistente e le esigenze dell'espressione nuova, si vennero via via perfezionando, chiarendo, precisando. Dalla grafia, in principio ancora incerta e fortemente colorita di dialetto, al patrimonio lessicale, giunto solo a poco a poco alla sua piena complessità e ricchezza; dalla sintassi, in principio ancora greggia e oscillante e partecipe della varietà informe del linguaggio parlato, alle forme grammaticali, solo a poco a poco semplificate e agguagliate e rese costanti, fu, per oltre un decennio, una lotta ostinata dello scrittore contro la materia rozza e disordinata e confusa, che riluttava d'ogni lato a lasciarsi costringere e piegare. E si comprende il lamento durante la traduzione dell'Antico Testamento; e si comprende la finale soddisfazione di artista dinanzi al pensiero della fatica superata. Ma il risultato fu grandioso. Al di là della riforma religiosa era tutta la vita morale, sentimentale, sociale che veniva investita dal nuovo spirito; la Bibbia è tutto un mondo in cui i più complessi aspetti dell'umana natura sono riassunti; ed è sorprendente con quale varietà di toni il tedesco di L. riuscì a dare a tutto ciò realtà concreta nella parola.

Nessuna scienza di filologi, nessuna sistematicità di precettisti avrebbe potuto mai svolgere entro la lingua tedesca un così vasto processo di formativa chiarificazione. Le "Sprachgesellschaften" faticheranno in seguito per quasi due secoli senza dare allo sviluppo linguistico un impulso che con questo di L. sia comparabile. Per tutta la vita il compito di dare al proprio popolo una lingua che fosse a tutti comune fu sentito da L. come un imperativo religioso e un elemento essenziale della sua missione, inscindibile dalla sua stessa opera di riformatore: e anche nell'unità del proprio carattere nazionale, la lingua da lui creata nacque così, generata da uno stesso spirito, con l'unità personale del suo stile.

E l'influenza di essa sulla storia spirituale della Germania fu immensa. Se gli orientamenti che la Riforma diede allo spirito tedesco poterono svilupparsi con tanta vastità e profondità, in parte ciò fu dovuto anche alla potenza dello strumento che la lingua le offerse. Anche la coscienza stessa del tempo ne ebbe chiara visione; e la lotta che le correnti antiprotestanti, a più riprese, condussero contro la diffusione del tedesco nelle scuole, ebbe in realtà questa ragione profonda. Al Los von Rom, attuato dalla Riforma nel campo religioso, la lingua creata da L. aggiunse un nuovo e più vasto Los von Rom che ne portò lo spirito entro la totalità della vita. Come per i contemporanei di L. quella era stata la lingua in cui avevano vissuto la loro passione e la dura lotta per il trionfo della propria idea, così per le generazioni seguenti quella fu non soltanto la lingua della dottrina, della predicazione, della preghiera, ma la lingua stessa della saggezza della vita, di cui la Bibbia era la prima e inesauribile fonte.

Accadde di conseguenza che non soltanto si determinò in Germania una corrente di poesia mistico-profetica che, rinnovandosi continuamente giù fino al Hölderlin degl'Inni, fino al Nietzsche e fino a S. George, sempre riconduce in vario modo allo stile di L. e costituisce, nella letteratura tedesca, uno degli aspetti più caratteristici. Ma, per lungo tempo, tutta la letteratura ne fu più o meno indirettamente dominata. Nel corso di questi ultimi anni si è compiuta una giusta rivalutazione delle correnti spirituali cattoliche nell'età del Barocco. Ma è un fatto che, per la letteratura, fino agli scrittori dell'età classica nella seconda metà del Settecento, e, per la filosofia, fino al Kant e al Fichte, quasi tutte le maggiori personalità della vita culturale tedesca provennero dal mondo in cui la Bibbia nella traduzione di L. era per tutti la prima e originaria esperienza spirituale. Soltanto dopoché il Goethe e gli scrittori dell'epoca sua, dal Klopstock e dal Lessing allo Schiller e al Humboldt, ebbero rinnovato la lingua nel più vasto e comprensivo spirito della classicità, soltanto allora, dal Platen in poi, la Baviera divenne nella letteratura tedesca una delle forze veramente vive e feconde. Soltanto dopoché la robusta ma dura ossatura dello stile luterano, già superata nell'armonia classica, si fu come disciolta nella musicale fluidità della lingua romantica, soltanto allora l'Austria, dal Grillparzer e dallo Stifter in poi fino al Hofmannsthal, trovò espressione alla morbida e sensitiva e fantasiosa umanità, che la sua poesia ha per lo più alle origini della sua ispirazione.

E anche al di là del puro fenomeno letterario formale, quando si esaminano le tendenze che col loro prevalere dànno alla storia spirituale della Germania una propria fisionomia, l'impronta dello stile di L. si rivela lunga e durevole. Mentre molti elementi della dottrina luterana sono caduti con l'andare del tempo o si sono rinnovati e mentre chi, come il Troeltsch, si è dato a indagare quale fra gli aspetti della vita moderna possa farsi risalire a L., ha dovuto concludere con giudizî di cauta e circospetta relatività; nel campo invece della sensibilità, in quello che è per così dire il modo di esistenza spirituale, l'impronta della personalità di L. ha continuato ad agire sempre come forza plasmatrice. Tendenza verso l'assoluto, posizione aggressiva verso la realtà, intolleranza di limite e di misura, sentimento della vita come forza elementare di natura, individualismo e assoluta negazione di esso entro la disciplina dello stato, inappagamento dinnanzi a tutte le forme raggiunte e concezione della vita come di un continuo divenire, religione risolta in interiorità spirituale, libertà critica e coscienza dell'autonomia del pensiero, accentuazione del problema educativo; tendenza alla costruzione speculativa; sensibilità musicale prevalente sulla sensibilità figurativa: tutti questi e altri atteggiamenti dello spirito germanico trovarono nell'opera e nella personalità di L. un perenne, sempre nuovo alimento. Anche se L. non fu colui che primo li innestò nello spirito germanico, ne fu però, certo, una delle più potenti espressioni.

Edizioni: La prima ed. delle opere complete fu pubblicata a Wittenberg, in 19 volumi (12 delle opere tedesche, 7 delle latine) tra il 1539 e il 1559; seguirono le edizioni di Jena 1535-1558, voll. 12; Altenburg 1661-64, voll. 10 (in tedesco); Lipsia 1729-40, voll. 23; Halle, curata da J. G. Walch, 1740-53, voll. 24: tutte più o meno riprodotte, e alcune riproduzioni esse stesse delle precedenti. Più importante, la cosiddetta "edizione di Erlangen", pubblicata in varie serie, a Erlangen e Francoforte sul M., tra il 1826 e il 1886 (varî volumi in 2ª edizione). Unita a essa è l'edizione della corrispondenza, Dr. M. Luthers Briefwechsel, a cura di E. L. Enders, C. Kawerau, P. Flemming, O. Albrecht, 1884-1923, voll. 18. L'edizione che si considera definitiva (benché i primi volumi siano alquanto difettosi), è però quella "di Weimar": Dr. Martin Luthers Werke, Weimar 1883 segg. (qui indicata con la sigla: EW.). La traduzione della Bibbia (Die deutsche Bibel, voll. 7), i Discorsi conviviali (Tischreden; qui indicati con la sigla TR., voll. 6) e l'epistolario (Briefwechsel, in corso) sono numerati a parte.

Importanti opere singole, non ancora comprese nell'ed. precedente: P. Drews, Disputationen Dr. M. L. in den Jahren 1535-1545 an der Universität Wittenberg gehalten, Gottinga 1895; J. Ficker, L.s Vorlesung über den Römerbrief, 4ª ed., Lipsia 1930, voll. 2; id., L.s Vorlesung über den Hebräerbrief, ivi 1929, voll. 2 (la stessa, ed. Hirsch-Ruckert, sul solo manoscritto vaticano, Berlino 1929); H. von Schubert, L.s Vorlesung über den Galaterbrief, Heidelberg 1918. Collezioni di opere scelte: Ausgewîhlte Werke, a cura di H. Borcherdt e H. Barge, Monaco 1917-1925, voll. 8; Werke in Auswahl, a cura di O. Clemen e A. Leitzmann, Bonn 1925 segg.; Werke f. d. christl. Haus, a cura di G. Buchwald, G. Kawerau, J. Köstlin e altri, nuova ed., Lipsia 1924 segg. Utile la raccolta di O. Scheel, Dokumente zu L.s Entwicklung bis 1519, 2ª ed., Tubinga 1929; inoltre il Luther Jahrbuch (già Jahrb. d. Luther-Gesellschaft) e le Mitteilungen della stessa società, Wittenberg 1918 segg. Delle poesie, trad. it. di G. Necco, Roma 1927. Per l'iconografia, v. R. Günther, art. Lutherbilder, in Die Religion in Gesch. u. Gegenwart, 2ª ed., III (Tubinga 1929).

Bibl.: J. Küstlein e G. Kaweray, M. L., sein Werk und seine Schriften, 4ª ed., Berlino 1903; H. Denifle, Luther und Luthertum, Magonza 1904 segg. (3 parti); trad. fr. di J. Paquier, Parigi 1910-13, vol. 4 (dei primi 3, 2ª ed., 1913-1916), trad. ital. di A. Mercati, Roma 1905; O. Scheel, M. L., I, 3ª ed., Tubinga 1921; II, 4ª ed., ivi 1930; H. Grisar, Luther, 2ª ed., Friburgo in B. 1924-1925, voll. 3; id., M. L., sein Leben und s. Werk, ivi 1927; trad. italiana, Roma 1933; G. Ritter, L., Monaco 1925; E. Buonaiuti, L. e la riforma in Germania, Bologna 1926; J. Mackinnon, L. and the reformation, Londra 1925-30, voll. 4; L. Febvre, Un destin: M. L., Parigi 1928; J. Paquier, art. Luther, in Dictionnaire de théol. cathol., IX, 1, coll. 1146-1335, Parigi 1926.

Opere particolari: H. Boehmer, L. im Lichte der neueren Forschung, 5ª ed., Lipsia 1918; id., L. Romfahrt, Lipsia 1914; id., L. erste Vorlesung, Lipsia 1924; id., Der junge L., Gotha 1925; P. Kalkoff, Forschungen zu L. römisch. Process, Roma 1905; id., Aleander gegen L., Lipsia 1908; id., L. und die Entscheidungsjahre der Reformation, Monaco 1917; id., Erasmus, L. und Friedrich der Weise, Lipsia 1919; id., Der Wormser Reichstag von 1521, Monaco 1922; A. V. Müller, L. theologische Quellen, Giessen 1912; id., L. und Tauler, Berna 1918; id., L. Werdegang bis zum Turmerlebnis, Gotha 1920; H. Strohl, L'évolution religieuse de L. jusqu'en 1515, Strasburgo 1922; id., L'épanouissement de la pensée rel. de L., ivi 1924; E. Wolf, Staupitz und L., Lipsia 1927; K. Bauer, Die Wittenberger Universitätstheologie und die Anfänger der deutschen Reformation, Tubinga 1928; W. Braun, Die Bedeutung der Konkupiszen für L. Leben und Lehre, 1908; H. Thomas, Zur Wurdigung der Psalmenvorlesung L. 1513-15, Weimar 1920; J, Ficker, L. 1517, Lipsia 1918; H. M. Müller, Erfährung und Glaube bei L., Lipsia 1929; W. Koehler, Zwingli u. L., I, Lipsia 1924; K. Holl, Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, I e III, Tubinga 1925-28; C. Stange, Studien zur Theologie L., I, Gütersloh 1928; H. Thieme, Christi Bedeutung f. L. Glauben, Gütersloh 1933; A. E. Berger, L. in Kulturgeschichtlichen Darstellung, 3ª ed., Berlino 1895-1921, voll. 3; E. Franke, Grundzüge der Schriftsprache L., 2ª ed., Lipsia 1913-14, voll. 2; H. Thode, L. und die deutsche Kultur, Monaco 1915; G. Boethe, M. L. Bedeutung in der Geschichte d. deutschen Literatur, Berlino 1917; F. Kluge, Von L. bis Lessing, Lipsia 1918; C. Burdach, Vorspiel, Berlino 1924; E. Hirsch, L. deutsche Bibel, Monaco 1928. V. anche: luteranesimo; germani: Storia; e, per le riviste principali e le opere di carattere generale: riforma.

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