GINETTI, Marzio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GINETTI, Marzio

Stefano Tabacchi

Nacque a Velletri, presso Roma, il 6 apr. 1585 da Giovambattista e Olimpia Ponzianelli. Sebbene numerose fonti lo descrivano di umili origini, in realtà il G. apparteneva a una famiglia di origine bergamasca ben inserita nel patriziato veliterno e dedita al mestiere delle armi.

Dopo avere studiato al Seminario romano, il G. si laureò in utroque iure, ricevette gli ordini e, intorno al 1605, entrò in prelatura. Durante i pontificati di Paolo V e Gregorio XV ricoprì cariche minori, come quella di referendario, cameriere d'onore, e votante di Segnatura. In seguito, con l'elezione di Urbano VIII Barberini, che da cardinale era stato suo buon amico, il G. poté ottenere la carica di uditore del camerlengo e, nel 1626, quella di maggiordomo del pontefice.

Già dal 1623 era inoltre succeduto a G.B. Agucchi nell'importante ufficio di segretario di Consulta, che implicava una stretta collaborazione con il cardinal nipote, Francesco Barberini, e che gli dava un ruolo rilevante nel controllo dell'amministrazione temporale dello Stato. La fedeltà ai Barberini e l'efficienza dimostrata nelle diverse cariche valsero al G. il cardinalato. In pectore sin dal 29 genn. 1626, fu creato cardinale il 30 ag. 1627; al momento della nomina il titolo - che in seguito avrebbe più volte cambiato - fu quello di S. Maria Nuova.

Per celebrare la nomina i Veliterni, probabilmente ispirati dallo stesso G., incaricarono Gian Lorenzo Bernini di realizzare una statua bronzea di Urbano VIII, che costò 12.000 scudi e rimase a Velletri fino al 1798, quando fu distrutta dalle truppe francesi.

Dopo la nomina cardinalizia, il G. fu vicario di Roma (1629), funzione che esercitò fino alla morte senza autentici slanci pastorali, anche per la sistematica usurpazione dei suoi poteri a opera dei vicegerenti impostigli dai pontefici. In quanto vicario il G. fece parte anche della congregazione del S. Uffizio, segnalandosi per una rigida visione delle questioni politico-religiose e della difesa delle prerogative della Sede apostolica, ma sostanzialmente alieno da fanatismi. Forse proprio per questo nel 1631 Tommaso Campanella gli presentò un memoriale, andato perduto, per scongiurare censure al suo Atheismus triumphatus.

Il G. si occupò anche della vicenda di Galileo (1632-34), senza esercitare un ruolo veramente autonomo e aderendo pienamente alle posizioni del papa. Se inizialmente l'emissario mediceo F. Niccolini si era rivolto a lui perché fosse concesso a Galileo di ritardare la comparizione a Roma, in seguito lo stesso Niccolini doveva ammettere che l'assessore del S. Uffizio e il G. "sentono e non rispondono" e che era necessario trattare direttamente con il papa (Le opere di Galileo Galilei, XIV, p. 427).

Negli anni Trenta il G. partecipò attivamente all'elaborazione della politica pontificia nel conflitto europeo, con il fine di rafforzare il ruolo arbitrale del Papato e le posizioni del cattolicesimo in Germania, ponendo termine alla guerra dei Trent'anni e stabilendo una pace duratura tra Francia e Spagna. A questo scopo, Urbano VIII aveva progettato sin dal 1632 un congresso di pace - che si sarebbe tenuto a Colonia con la presidenza di un legato pontificio -, al quale le potenze cattoliche accettarono di partecipare solo dopo lunghe schermaglie diplomatiche e dopo la dichiarazione di guerra della Francia alla Spagna (1635).

Gli stretti legami con i Barberini e la relativa indipendenza del G. dalle due Corone spinsero Urbano VIII a sceglierlo per il difficile compito diplomatico già nell'aprile 1635. La partenza della delegazione pontificia - della quale facevano parte, oltre a numerosi parenti del G., personaggi come Francesco Albizzi, futuro cardinale, e Pietro Benessa, membro assai in vista della segreteria di Stato - fu però rimandata sino al giugno 1636, a causa di nuove tensioni. Dopo un lungo viaggio il G. giunse a Colonia nell'ottobre 1636 e iniziò subito un fitto carteggio con i nunzi a Madrid, Vienna e Parigi e con i sovrani europei, ma i risultati della sua intensa attività furono assai deludenti.

Già nella primavera del 1637 l'imperatore Ferdinando III e Filippo IV di Spagna inviarono i loro plenipotenziari, ma la Francia subordinò l'invio dei propri rappresentanti alla partecipazione dei principi protestanti tedeschi, della Svezia e delle Province Unite. La questione dei passaporti per gli Stati protestanti assunse così un'importanza centrale e il G., che ufficialmente non poteva trattare di questioni relative agli eretici, si adoperò, attraverso l'ambasciatore veneto, affinché l'imperatore e la Spagna li concedessero, ma già all'inizio del 1638 le continue discussioni sulle formule da utilizzare finirono per bloccare i negoziati. Anche il tentativo papale di accelerare l'apertura del congresso con l'invio di nunzi straordinari presso le potenze europee (1639) finì per rivelarsi fallimentare, in quanto i diversi contendenti non intendevano aprire trattative prima di avere raggiunto posizioni politico-militari favorevoli e tendevano ormai a rifiutare la mediazione papale. Il soggiorno del G. a Colonia si prolungò inutilmente fino all'ottobre 1640, allorquando Urbano VIII lo richiamò.

Il fallimento di questa importante missione dipese sicuramente anche dalla scarsa esperienza diplomatica del G., che era stato scelto come legato soprattutto in quanto creatura del papa e personaggio non sospetto. Egli si dimostrò inadeguato al compito di mediatore e incapace di dirigere efficacemente la delegazione pontificia, divisa da rivalità interne e unita solo nel considerarlo avaro e incapace. Tuttavia altre furono le motivazioni decisive del fallimento: la diffidenza delle potenze europee verso la mediazione pontificia, il sostanziale equilibrio della situazione politico-militare e, soprattutto, le istruzioni consegnate al G., che, da un lato, gli raccomandavano di non esercitare una funzione arbitrale e di limitarsi a favorire le trattative tra le diplomazie e, dall'altro, gli ingiungevano di impegnarsi per rafforzare le posizioni del cattolicesimo in Germania e del Papato in Italia. Queste erronee direttive non saranno estranee, nel 1648, all'umiliazione dei trattati di Vestfalia.

Al ritorno dalla Germania il G. ebbe la Legazione di Ferrara - ove giunse il 1° dic. 1640 -, pur mantenendo il compito di trattare per il congresso di Colonia. Il suo governo ferrarese si segnalò inizialmente per una grande attenzione ai problemi annonari, per il tentativo di risolvere alcune vecchie e complicate questioni di regolamentazione dei fiumi e per l'esercizio di un oculato mecenatismo. Questa situazione di relativa tranquillità terminò con la guerra di Castro (1642), nel corso della quale il G. rivelò le sue capacità organizzative, riuscendo a sventare un attacco delle truppe modenesi alleate dei Farnese, anche grazie alle informazioni inviategli dalla duchessa reggente di Mantova, Maria Gonzaga. Nel 1643 la Legazione fu assegnata ad Antonio Barberini e il G. fu richiamato. Sebbene ancora si ipotizzasse un suo prossimo ritorno in Germania, in realtà il G. era ben deciso a restare a Roma, in quanto la cattiva salute di Urbano VIII lasciava presagire un prossimo conclave.

Fu forse il desiderio di porre la propria candidatura a spingere il G. verso un'intensa attività edilizia e verso il collezionismo, che sancì l'ingresso della sua famiglia nei ranghi della nobiltà romana. Sin dal 1642 aveva cominciato a ristrutturare il palazzo di Velletri e nel 1644 affidò a Martino Longhi la realizzazione di uno scalone d'onore, simile a quello di palazzo Ruspoli; in seguito l'edificio fu abbellito da una galleria, opera di Paolo Naldini, e di un'imponente quadreria, e fu iniziata la costruzione di un giardino all'italiana. L'ascesa sociale dei Ginetti continuò con l'acquisto del feudo di Roccagorga, ottenuto grazie ai buoni uffici di Francesco Barberini.

L'aspirazione del G. al pontificato non riuscì mai a concretizzarsi: era considerato troppo legato ad Antonio Barberini, oltre che privo di reali capacità politiche ed estremamente avido. Dopo la morte di Urbano VIII il G. rimase perciò in una posizione piuttosto defilata e fu guardato con ostilità da Innocenzo X e da Alessandro VII, con il quale si era urtato nel periodo della legazione a Colonia.

La quasi completa estromissione del G. dai circuiti decisionali della corte pontificia non gli impedì però di esplicare ancora una notevole influenza in alcune importanti questioni politico-religiose. Vicino a Carlo da Sezze e all'Holstenio (L. Holste), amico di Giuseppe Calasanzio, il G. perseguì sempre una linea di decisa affermazione del ruolo del magistero papale rispetto agli Stati e agli episcopati nazionali, ma non fu sordo alle nuove forme di religiosità provenienti da alcuni ordini religiosi, manifestando una maggiore duttilità rispetto alle tendenze prevalenti nel S. Uffizio.

Nel corso del pontificato di Innocenzo X il G. partecipò ai lavori della congregazione dei Vescovi e regolari e alla soppressione dei "conventini", ma soprattutto usò la sua influenza per difendere gli scolopi, che sin dalla fine degli anni Trenta erano visti con sospetto dal S. Uffizio ed erano divisi da gravi fratture interne. Membro di una congregazione cardinalizia creata nel 1643 per riformare l'Ordine, il G. non poté opporsi a Innocenzo X che, ignorando il parere della congregazione, ridusse gli scolopi a congregazione senza voti, in modo da provocarne la progressiva estinzione (1646). Ma in seguito il G. riuscì a conseguire importanti successi, avviando il processo di beatificazione di Calasanzio e ottenendo la ricostituzione dell'Ordine, prima con voti semplici (1656) e poi con voti solenni (1669). Importante fu anche la sua azione nella congregazione cardinalizia che risolse in maniera sostanzialmente avversa alla Compagnia di Gesù il conflitto, incentrato sulla questione della nomina dei conservatori, che nel 1647 esplose tra il vescovo di La Puebla de los Angeles (Messico), Giovanni Palafox y Mendoza, e i gesuiti.

Fu soprattutto sulla questione giansenista che il G. svolse un ruolo di primo piano. Tra il 1651 e il 1653 il G. fece parte della commissione speciale del S. Uffizio che redasse la bolla Cum occasione e condannò le cinque proposizioni dell'Augustinus di Giansenio, ma il suo atteggiamento relativamente conciliante non riuscì a imporsi sulla linea intransigente, perseguita da Innocenzo X e da F. Albizzi, e a risparmiare l'umiliazione di una condanna ai filogiansenisti vescovi di Malines e Gand (Jacob Boonen e Anton Triest). Anche nel corso degli anni Sessanta, quando esplose il caso dei quattro vescovi francesi che rifiutavano il formulario antigiansenista imposto da Alessandro VII, il G. esercitò ben poca influenza su un S. Uffizio ormai dominato dall'Albizzi e del tutto sordo alle istanze della cultura augustiniana e tomista. In seguito, dopo le gravi sconfitte politico-diplomatiche subite da Alessandro VII, in Curia prevalse una volontà di dialogo e il G. poté contribuire efficacemente alla "pace clementina" (1669), che sancì l'accordo con i vescovi ribelli e segnò un'importante, anche se provvisoria, svolta nella posizione curiale sul problema giansenista.

Nell'incerto conclave del 1669-70 il G. poté presentarsi come un possibile candidato, a causa dei mutati equilibri e soprattutto della sua tarda età, che lasciava presagire un pontificato breve, ma già nel marzo 1670 la sua candidatura fu lasciata cadere.

Il G. morì a Roma il 1° marzo 1671.

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