MASO di Banco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MASO di Banco

Enrica Neri Lusanna

MASO di Banco. – Figlio di Banco, nacque probabilmente agli inizi del Trecento in territorio fiorentino, dove operò durante il secondo quarto del secolo XIV, come certificano le varie matricole dell’arte dei medici e speziali, contenute in due codici conservati nell’Archivio di Stato di Firenze (Arte dei medici e speziali, 8, cc. 38r, 74r, 75v; 7, cc. 110, 111), il secondo dei quali (matricole dal 1297 al 1444) risulta essere parzialmente una copia quattrocentesca del primo (matricole dal 1320 al 1346).

Le registrazioni di M. (Frey) si possono fissare sicuramente dal gennaio all’aprile 1346 e, secondo ipotetiche ricostruzioni, prima del 1341 (Hueck) o dopo il 1343 (Wilkins, pp. 114 s.). Hueck (p. 116) ritiene comunque probabile che il 1328 possa essere il terminus post quem per il primo atto di immatricolazione del pittore. Il termine è desunto dalla differenza di grafia dei notai ufficiali dell’arte: infatti la registrazione di M. avvenne a opera di un successore di ser Salvi Dini, in carica fino al 1328.

Offre un ulteriore appiglio cronologico per l’attività di M. un documento del 1341 (Arch. di Stato di Firenze, Atti della Mercanzia, 4163, cc. 130, 133, 141), che registra un contenzioso sorto tra la compagnia dei Bardi e M., delle cui suppellettili, comprendenti anche dipinti su tavola, si chiede il sequestro senza tuttavia indicarne il motivo (Poggi).

Nella penuria di punti di riferimento archivistici, alcune ipotesi sulla biografia di M. sono state articolate proprio grazie all’assenza di sue notizie in documenti di rilievo: per esempio, la mancata menzione di M. nella lista dei maggiori pittori toscani, stilata dal provveditore di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia dopo il 1348 (Chiappelli), ha autorizzato a credere che la sua morte fosse già avvenuta intorno a quella data. Così che anche la sua iscrizione nel 1350 nei registri della compagnia dei pittori (Arch. di Stato di Firenze, Compagnia di S. Luca, Arti del disegno, 1) è stata considerata una trascrizione successiva alla morte (Colnaghi).

Per M. non si hanno dunque sussidi cronologici che aiutino a precisarne il percorso, specialmente negli anni di formazione, anche per la mancanza di opere datate e firmate. Ma, a dispetto della carenza di dati biografici e del numero non copioso delle opere pervenute, M. è personalità di fondamentale importanza nel panorama artistico della prima metà del Trecento e non solo fiorentino. La sua pittura è sorretta da una consapevole e calibrata resa impaginativa, che disciplina composizioni spaziose e figure dal modellato conciso e dal volume espanso, sottolineato dall’effetto avvolgente e stondante della cromia e della luce. Egli coglie e reinterpreta in maniera originale la più intellettuale tra le tendenze avviate da Giotto nelle varie fasi del suo percorso: quella che mira a restituire illusivamente lo spazio pittorico, articolato con gravità classica da architetture e figure monumentali. La sua è però una statura che gli estimatori del passato esaltano in modo per lo più accademico, lodandola soprattutto quale riverbero della fama del magistero giottesco, già a partire da Filippo Villani. Il protoumanista, riassorbendo M. nella suggestiva metafora di uno dei fiumi che sgorgano dalla fonte del maestro (e in questa forza inondante egli include anche Stefano Fiorentino e Taddeo Gaddi), formula un giudizio altamente laudativo delle sue qualità stilistiche, da cui tuttavia non emergono gli aspetti pregnanti, affidati alla definizione «omnium delicatissimus, pinxit mirabile et incredibile venustate». Cristoforo Landino si limita a ricordarlo allievo di Giotto; in questa tradizione si inserisce anche la lode, se è a lui diretta, di Benedetto di Banco Albizzi che, disponendo di far racconciare a Niccolò di Pietro Gerini una Deposizione dipinta sulla lunetta della porta del cimitero di S. Pier Maggiore a Firenze, ricorda nel 1392 come autore «Maso dipintore, grande maestro» (Firenze, Arch. Guicciardini, Fondo Albizi, 288, A, in Wilkins).

Un inquadramento più complesso e peculiare di M. appare quello dato da Ghiberti, – «abbreviò molto l’arte della pictura» – che tuttavia elabora questo apprezzamento appropriandosi, consuetudine invalsa tra gli umanisti, del topos letterario con cui Plinio (Naturalis historia, XXXV, 110) aveva definito la pittura di Filosseno di Eretria. Tra le proposte tese, di conseguenza, a dare sostanza interpretativa contingente a questo giudizio, più convincente appare quella di Volpe (1983), secondo il quale, nella visione di Ghiberti, M. si inseriva a buon diritto in quella linea di sviluppo mirata a sancire il ruolo fondante della pittura fiorentina; sviluppo che, iniziato da Giotto, avrebbe teso a un livello sempre maggiore di compiutezza, raggiunta infine, secondo Vasari, nel primo Cinquecento con l’affermarsi del primato fiorentino del disegno. Nella biografia ghibertiana vengono dispensati a M. i riconoscimenti di perfezione, eccellenza, e, soprattutto, capacità di essere «dotto nell’una arte e nell’altra», scolpendo «meravigliosamente di marmo». Attività menzionata anche da Vasari (1568, p. 626), che, persa l’identità storica di M., la fonde in una figura chimerica di sua creazione, Maso di Stefano, detto Giottino, in cui assomma le linee guida di mezzo secolo di pittura fiorentina, riassunte nel riconoscimento di un «dipingere dolcissimo e tanto unito» che, prerogativa di Stefano Fiorentino, passerà in eredità a Giottino.

Proprio partendo dalle notizie riferite da Ghiberti, e dopo che già si era tentato di scindere il binomio M. - Giottino (Venturi; Sirén), Offner (1929) ha ricostruito la fisionomia di M., aggregando intorno al ciclo della cappella di S. Silvestro in S. Croce le seguenti opere: una lunetta staccata da una porta laterale della chiesa (ora nel Museo dell’Opera di S. Croce) con l’Incoronazione della Vergine; il polittico smembrato, di cui restano oggi soltanto due scomparti (il pannello centrale con la Madonna e il Bambino della Gemäldegalerie di Berlino e il S. Antonio da Padova del Metropolitan Museum of art di New York), dopo che sono andati perduti nel secondo conflitto mondiale i due laterali con S. Giovanni Battista e S. Antonio Abate (già Berlino, Kaiser Friedrich Museum), provenienti dalla collezione Solly; il pentittico della cappella Vettori in S. Spirito a Firenze, sopravvissuto nella cuspide superiore centrale e nei maggiori scomparti. Spetta a Berenson (1932) l’estensione del catalogo con tre tavolette di diverse proporzioni raffiguranti la Madonna della Cintola (Berlino, Gemäldegalerie), l’Incoronazione della Vergine (Budapest, Museo di belle arti) e la Dormitio (Chantilly, Musée Condé), associate tra loro da Brandi e legate da Ragghianti alla cappella del Sacro Cingolo di Prato, di cui avrebbero potuto costituire il tabernacolo (Longhi, 1959), ma più verosimilmente ricondotte da Boskovits (1988) a una rara tipologia di trittico, attestata anche in altri esempi (Firenze, Depositi del Polo museale). A queste Berenson (1932) aggiunse anche il trittichetto portatile già collezione Babbot, ora nel Brooklyn Museum di New York, che Longhi (1959), apprezzandone la chiarezza impaginativa e la perspicuità spaziosa, ipotizzava come esemplare più vicino al prototipo di questa nuova tipologia plausibilmente creata da Giotto, premettendolo ai trittici portatili realizzati a ruota dallo stretto entourage del maestro: da Bernardo Daddi nel 1333 (Firenze, Museo del Bigallo) e da Taddeo Gaddi nel 1334 (Berlino, Gemäldegalerie). La loro sequenza cronologica e le loro affinità stilistiche e illustrative sono una delle tante testimonianze del vivo fermento artistico presente a Firenze nel quarto decennio, grazie ai proficui scambi, intessuti quasi in una gara ideale, tra gli allievi diretti e i fiancheggiatori di Giotto, primo tra tutti lo stesso Daddi. Il nodo dei rapporti tra i due pittori è centrale per spiegare il percorso di Maso. I molteplici contatti tra le loro botteghe sono confermati dai dati tecnici, quali l’uso dei punzoni comuni a varie tavole (Skaug), ma ancor meglio attestati dalle opere più masesche dell’uno, Daddi, come il S. Paolo della National Gallery di Washington, o dalle tavole maggiormente venate di daddismo dell’altro, M., in special modo il pannello centrale del polittico smembrato fra Berlino e New York, soprattutto nell’impostazione della Vergine.

Proprio in virtù di questa loro stretta relazione, è stata proposta (Volpe, 1983) e accolta (Boskovits, 1988; Tartuferi) l’attribuzione a M. della grande tavola con la Maestà della chiesa di S. Giorgio a Ruballa, borgo nelle terre dei Bardi, datata 1336 o 1337 (Procacci; Neri Lusanna, 1998, p. 49 n. 113), che ne potrebbe ribadire la frequentazione, ma non per questo legittimare l’apprendistato o la formazione presso Daddi.

La recente assegnazione della Madonna in trono di Ruballa ad Andrea di Cione Arcagnuolo detto l’Orcagna (Bellosi, 1995; Bartalini, 1995) meglio spiega, tuttavia, gli aspetti compositivi più iconici e ripetitivi: l’impaginazione dalla prospettiva erta e l’iterazione speculare di un modello, come nelle coppie di angeli ai lati del trono. Pur ammettendo l’ampia partecipazione dell’Orcagna alla sua esecuzione, non si può tuttavia prescindere dal riscontrarvi legami di ordine stilistico con M., come documenta il confronto tra i volti delle Madonne di Ruballa e di Berlino, di cui si ribadisce l’influsso daddesco.

Questo contatto tra la pala del 1337 e M. sembra essere suffragato anche da riscontri documentari. Essa, infatti, fu verosimilmente commissionata dall’allora rettore della stessa chiesa, come suggerisce la figura di donatore in ginocchio ai piedi del trono: un prelato, questi, da identificare con prete Bartolomeo, personaggio che risulta tra l’altro presente, in qualità di rappresentante del vicario del vescovo fiorentino, all’attuazione delle volontà testamentarie di Gualtieri dei Bardi nel 1336, volontà da cui (Neri Lusanna, 1998; Carrara Screti) discese la realizzazione del ciclo silvestrino in S. Croce (Firenze, Arch. arcivescovile, Libro di contratti di ser Benedetto di Maestro Martino 1335-1337, A.IV.10, ora segnato Mensa arcivescovile, Bullettoni, 7, cc. 36, 121r), in linea con quanto una corrente di studi, che si snoda da Vasari a Offner, aveva già supposto.

I dipinti murali con Storie di Silvestro e Costantino costituiscono l’impresa più grande di M., interprete, per qualità di raggiungimenti stilistici ed efficace traduzione figurativa del tema iconografico, delle maggiori opere di Giotto (cappelle Peruzzi e Bardi). Per essere stati dipinti nella cappella di una chiesa francescana, appartenente a una delle più importanti famiglie di banchieri del momento, tesi a procacciarsi patronati all’interno dei nuovi edifici degli ordini mendicanti, essi sono anche specchio del clima storico, sociale e spirituale di Firenze all’epoca. La cappella di S. Silvestro, o dei Confessori, era in ordine di tempo la terza cappella della famiglia Bardi, quella pertinente al ramo di Mangona, preceduta dalla cappella di S. Francesco, dipinta da Giotto, e da quella di S. Ludovico, commissionata nel 1335 da Gualtierotto del ramo Bardi di Vernio.

Il ciclo celebra s. Silvestro attraverso le scene della sua vita descritta nella Legenda aurea di Iacopo da Varagine (Iacopo da Varazze), intrecciata con quella di Costantino: Costantino frenato dalle madri rinuncia al bagno di sangue; ha la visione di Pietro e Paolo; terrorizzato manda a riprendere il papa rifugiatosi sul monte Soratte; riconosce nell’icona che Silvestro gli mostra i santi Pietro e Paolo; quindi si fa battezzare dal papa, che in seguito compie il miracolo di far risorgere un toro, debellando così i dubbi teologici sorti nell’imperatrice Elena, e infine libera Roma dagli effluvi mefitici di un drago.

Sfruttando sapientemente le proporzioni di una cappella alta, stretta e lunga, M. ha organizzato, con strategie compositive sensibili alla resa in profondità dello spazio illusivo, calibrato con correzioni ottiche (White), sequenze narrative di grande efficacia iconica e scioltezza illustrativa (si veda la scena in cui, in successione entro la stessa architettura, avviene la conversione di Costantino, suggellata a fianco dal battesimo): caratteri che improntano anche i personaggi, di forte carica scenica, sia nella pregnanza dei gesti sia nel dialogo con lo spazio, grazie alla suggestione tridimensionale ottenuta in virtù di un modellato sintetico che procede per larghe stesure, campite da colori vivi che perseguono effetti materici. Questo risultato cromatico è frutto anche di una tecnica di preparazione dei colori che introduce nell’impasto lo stannato di piombo, rilevato negli ultimi restauri (1998), nella composizione del così detto giallorino, descritto anche da Cennino Cennini (Il libro dell’arte, LXXIX). Proprio per l’importanza del loro valore formale, la cronologia ne è stata ampiamente dibattuta tra chi, partendo dal presupposto di una tangenza giovanile di M. con Daddi (Volpe, 1983; Tartuferi), ha teso a collocarli ormai negli anni Quaranta, traendo legittimazione dal documento del 1341, ovvero il contenzioso tra i Bardi e M., e chi ha preferito anticiparli fino alla metà degli anni Trenta del Trecento (Bartalini, 1995), per fissare con Longhi la tempestiva presenza di M. nel panorama fiorentino già a partire dal terzo decennio, e renderne così il ruolo più determinante, anche sugli esiti estremi di Giotto. Utili a questo proposito si sono rivelate le argomentazioni araldiche sulle varianti presentate dall’arme dei Bardi nella cappella, che soltanto nella tomba appare brisata con l’effigie del castello, in questo caso simbolo del possesso di Mangona, acquisito dai Bardi nel 1335 (Ferretti). Il documento dell’archivio arcivescovile fiorentino sopra citato, conosciuto in precedenza (Trexler; Long), ma soltanto recentemente vagliato (Neri Lusanna, 1998, p. 45), ha consentito di trarre precisazioni cronologiche in un intreccio di dati che coinvolgono il pittore, i committenti, i francescani, la Curia fiorentina. Il documento (9 apr. 1336) e il suo completamento (14 novembre) riportano l’iter seguito dagli esecutori testamentari per dar corso alle volontà del defunto, Gualtieri dei Bardi, che aveva lasciato 1000 fiorini da destinare a opere di bene e «in constructionem unius cappelle». Locuzione, questa, che non inficia l’identificazione della cappella di Gualtieri con quella di S. Silvestro (negata da Bartalini, 2000), dal momento che il verbo construere può essere inteso anche nel senso di allestire e approntare. E infatti i poco più che 900 fiorini (tanti furono quelli riservati nell’esecuzione testamentaria alla cappella) potevano essere sufficienti all’ornamento e alla dotazione di essa, ma non a un’edificazione ex novo.

Degli affreschi non è casuale il tema prescelto. Giustificata la titolazione a papa Silvestro dal suo ruolo di protettore di Firenze (G. Villani, Nuova cronica, I, 2, 23, 9), la scelta delle scene, che oppongono Costantino e Silvestro in un contrasto tra prima e dopo la conversione dell’imperatore, sembra rivestire un significato anche politico (Neri Lusanna, 1998; Giurescu; Thompson), teso ad affermare il primato spirituale della Chiesa, come enfatizzano i soggetti della vetrata della cappella: quattro sovrani (Costantino, Traiano, Teodosio, Graziano) abbinati a tre dottori della Chiesa e a Silvestro che, con la loro funzione apostolica, riscattarono i regnanti o ne diressero le azioni temporali. Secondo questa lettura anche il tema del Giudizio, affrescato nella parete di fondo del monumento funebre di Gualtieri, entrerebbe nel dibattito, se interpretato non come Giudizio universale, di cui mantiene parzialmente la risoluzione iconografica, ma come giudizio particolare impartito al singolo subito dopo la morte (Végh: contro, Bartalini, 2000, che opta per l’iconografia del Giudizio universale). Problema, questo, di sostanza teologica altamente dibattuta nei secoli, che trovò risoluzione dogmatica solo con Benedetto XII, nel 1336, attraverso la bolla Benedictus Deus, che pose fine a un contendere in cui si erano trovati i sovrani di Francia di fronte all’imperatore Ludovico IV il Bavaro e questi al papa, in uno scenario che aveva coinvolto anche personalità di spicco degli Ordini mendicanti. In questo contesto anche il ricordato documento della lite tra M. e i Bardi del 1341 assume maggior significato. Tra le opere sequestrate a M. vi erano, infatti, due pannelli: uno con la Madonna e il Bambino, l’altro con S. Giovanni Battista e s. Francesco che, per la concomitanza dei soggetti, non è da escludere siano stati pertinenti al polittico di Berlino e New York, ovvero la possibile tavola della cappella di S. Silvestro (Neri Lusanna, 1998). La presenza, poi, tra i creditori di M. sia di Rodolfo dei Bardi, amministratore del banco di tutta la famiglia, sia di Tessa (Brunetti), ovverosia di una donna che aveva stesso nome della vedova di Gualtieri, rilancia l’ipotesi di un nesso tra la committenza degli affreschi e il contenzioso (negato da Ferretti). Questo quadro di riferimento permette, tra l’altro, di acquisire una conferma in più che il «Maso» senza patronimico di Ghiberti sia proprio M., escludendo così altri pittori contemporanei dallo stesso nome, quali per esempio Maso di Ciacco.

Se il ciclo della cappella di S. Silvestro occupa gli anni della maturità di M. (1336-38), aprendo anche sulla questione dei rapporti con l’arte senese, specialmente negli imprestiti che può averne tratto Ambrogio Lorenzetti (Volpe, 1951), resta da precisarne l’avvio, che Salmi ha proposto di identificare in alcune delle teste (contro, Volpe, 1983) dipinte da Giotto e dai collaboratori nelle imbotti delle finestre della cappella palatina di Castelnuovo a Napoli, durante il soggiorno napoletano (1329-31): punto di fondamentale importanza per avallare le ipotesi di un inserimento di M., agli esordi, nella bottega giottesca, attestato secondo Bologna (1969, Novità su Giotto) anche da alcuni brani delle scene mediane e inferiori degli affreschi della cappella Bardi di S. Francesco, eseguite probabilmente prima del 1328, o immediatamente dopo il ritorno da Napoli.

Chi rifiuta questa attribuzione (Wilkins) adduce la motivazione del carattere uniformemente giottesco delle opere ricordate, che sovrasta ogni connotazione individuale presente nella bottega del maestro; al punto che, oltre a quella di M., la presenza di altri collaboratori, già orientativamente riconosciuti nel Parente di Giotto o in Stefano Fiorentino (Leone de Castris, 1986), è oggi per lo più riassorbita sotto la definizione di Giotto e bottega anche per gli affreschi napoletani (Id., 2006). A M. sono state attribuite (Kreytenberg, 1994-95) altre teste sopravvissute alla demolizione degli affreschi dell’Orcagna nella cappella maggiore di S. Maria Novella (ora nei chiostri monumentali), risalenti a circa il 1348, di impronta già fortemente orcagnesca. Problematici, anche per motivi di conservazione, sono gli accoglimenti sia di uno scomparto con S. Antonio Abate del castello di Konopište, ritenuto con probabilità pertinente al soggiorno napoletano (Leone de Castris, 1995), ma che, anche per le soluzioni della carpenteria, sarà da avanzare almeno al quinto decennio, sia della tavola di timbro masesco, ma molto ridipinta, in collezione Chiaromonte Bordonaro a Palermo; mentre la parte centrale di un altarolo di Berlino (Gemäldegalerie), riassegnato a M. da Conti (1994) e Bartalini (1995), non ha l’intuizione spaziosa e la sintesi dei dipinti di M. e meglio con Boskovits (1988, pp. 124-127) si colloca nel corpus delle opere attribuite al Maestro di San Lucchese, il seguace di M. di maggior spessore.

Altri dipinti di M. sono stati citati nelle fonti e risultano ora perduti. Sempre Ghiberti ricorda la Pentecoste, affrescata sopra la porta della chiesa agostiniana di S. Spirito, e un tabernacolo con la Madonna e santi nella stessa piazza, scomparso o da identificarsi con quello oggi considerato di mano di Giottino (Firenze, Galleria dell’Accademia). Se così fosse, è possibile che questo precoce contatto tra i due corpus dei pittori sia stato all’origine dell’equivoco in cui cadrà Vasari, unendo criticamente in un solo artista M. e Giottino. Il Libro di Antonio Billi ricorda di M. una scena con «il Duca d’Atene e i suoi seguaci nella faccia della torre del Podestà di Firenze», dipinto murale che può rientrare nella pittura infamante di scopo altamente etico, se come precisa poi Vasari testimonia la cacciata del tiranno da Firenze nel 1343 (Antal).

La data di morte di M. non è nota; nessuna prova documentaria si ha su M. scultore.

Vista la posizione preminente a lui conferita attraverso l’omaggio di una biografia, c’è da chiedersi se Ghiberti volesse affiancare agli attributi di «perfetto», «eccellentissimo», «nobilissimo» un’altra peculiarità che riconosce solo a Giotto e all’Orcagna: quella di essere «docto» in pittura e in scultura. Partendo dall’indicazione di Ghiberti, che gli riferiva «una figura di quattro braccia» posizionata nel campanile della cattedrale, Valentiner ha creduto di identificarla nel Profeta dell’Opera del duomo più lontano dallo stile di Andrea Pisano, ai cui modi si avvicina invece il Mosè riconosciuto a M. da Kreytenberg (1979). Le opinioni di questo studioso collimano con quelle di Valentiner a proposito del Monumento del vescovo Tedice Aliotti, morto nel 1336, in S. Maria Novella; e accrescono la figura di M. scultore attribuendogli i rilievi romboidali con i Sacramenti inseriti nel basamento del campanile di S. Maria del Fiore. Sculture, tutte, che uniscono alla monumentalità e alla misura giottesca, che rende gravi e intense anche le espressioni, quella sintesi tra volume e modellato che definisce la figura nella sua essenza plastica, quasi trasferendo nel marmo il senso materico delle stoffe e delle partiture cromatiche delle figure di Maso. Simile concezione ha rinvenuto Negri Arnoldi nel Monumento Pepoli in S. Domenico a Bologna, che come gli altri attribuiti a M. mostra in sostanza il trasferimento in scultura della tendenza giottesca più volumetrica. Ha pensato poi la storiografia artistica a portare M. nella dimensione di artista universale, prerogativa che Vasari attribuisce all’Orcagna, versato nelle tre arti, rivendicandogli anche l’ideazione architettonica di Orsanmichele (Kreytenberg, 1983).

Dei moltissimi discepoli di M., «tutti peritissimi maestri», come dice ancora Ghiberti, hanno preso rilevante fisionomia Bonaccorso di Cino e Alesso d’Andrea, attivi in Firenze (cappella di S. Caterina in S. Trinita), ma soprattutto messaggeri nei comuni vicini (Prato, ospedale della Misericordia e Dolce, e cripta del duomo; Pistoia, duomo, e S. Francesco) dell’opera del maestro, in una declinazione più accostante e narrativa, determinata dall’impiego di larghe partiture cromaticamente intense, di significativo apporto alla pittura tardogotica, fase in cui M. sembra godere di rinnovata attenzione (Volpe, 1979). Un immediato riverbero del suo stile appare anche nell’affresco con Bruto giudice, dipinto forse da Francesco Cennamella nel 1337 nel «palagio» dell’arte della lana.

Se si eccettuano questi allievi più stretti, la dimensione intellettuale dell’opera di M. non ebbe fortuna nell’immediato; seguendo la metafora di Villani, dei fiumi discendenti dalla fonte di Giotto, prevalse la tendenza più narrativa di Taddeo Gaddi, un novello Dinocrate per le sapienti architetture; o l’altra finemente mimetica di Stefano Fiorentino, scimmia della natura. La classica e pur naturale sostenutezza di M., sempre più declinata nel corso del Trecento in una rigidità iconica, specialmente dall’Orcagna, divenne invece la tappa intermedia del passaggio dal giottismo all’opera di Masaccio (Volpe, 1983); ne sono prova i frequenti ricorsi longhiani ai maggiori artisti del Quattrocento, primo fra tutti il prospettico Piero della Francesca – ma anche il Beato Angelico (Guido di Pietro) –, per spiegare le precoci aperture di M. alla pittura del Rinascimento.

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