DELLA SCALA, Mastino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA SCALA, Mastino

Gian Maria Varanini

Secondo figlio di Alboino, signore di Verona e Vicenza, e di Beatrice da Correggio, nacque nel 1308. Come il fratello maggiore Alberto (II), compare citato per la prima volta nella documentazione nota sotto il 1312, un anno dopo la morte del padre, quando i procuratori suoi e del fratello rinnovarono un feudo loro spettante; all'incirca in quel medesimo periodo venne progettato il suo matrimonio - poi sfumato - con una figlia di Guecellone (VII) da Camino.

Della sua adolescenza, vissuta all'ombra dello zio paterno Cangrande (I) non si sa nulla, se non che forse già nel 1318 fu per lui ventilato un altro matrimonio politico, con Taddea da Carrara figlia di Giacomo e nipote di Marsilio. Il D. cominciò a svolgere un ruolo politicamente attivo nel 1325, quando, insieme con il fratello Alberto, entrò in contrasto con Federico Della Scala riguardo all'eventualità di una successione a Cangrande (I). Certo per volontà di quest'ultimo, il braccio di ferro col prestigioso miles, sin'allora fra i più stretti collaboratori dello stesso Cangrande, fu vinto dal D. e dal fratello: Federico fu esiliato e i figli di Alboino (unici discendenti legittimi dei tre figli di Alberto [I], dopo la morte di Francesco detto Chichino di Bartolomeo pure avvenuta, sembra, nel 1326) furono di fatto designati alla successione.

Nel quadro delle trattative fra Cangrande e Marsilio da Carrara per l'acquisizione del dominio su Padova, il D. sposò il 1º sett. 1328, a Venezia, Taddea da Carrara (la cui tutela spettava a Marsilio); il 7 settembre egli entrò in Padova, e il 10 Cangrande ne ricevette la signoria. Poco più tardi (novembre 1328), il D. fu fatto cavaliere, nella fastosa curia che celebrò l'importante conquista.

Assunto il potere il 23 luglio 1329, il giorno dopo la morte di Cangrande (I), il D. compì una rapida visita nelle città soggette agli Scaligeri (in pratica, l'intera Marca veronese) allo scopo di assicurarne meglio il reggimento. Provvide poi tempestivamente a sgombrare il campo - nell'ambito della sua stessa corte - dalla possibile opposizione dei due figli illegittimi del predecessore: "diffamati et accusati" (così il continuatore del Chronicon Veronense),Bartolomeo e Ziliberto furono imprigionati a vita (dicembre 1329). Da allora in poi, per il D. e Alberto non vi fu alcun avversario potenziale all'interno della famiglia scaligera per l'intero ventennio che durò il loro governo: un fattore non trascurabile - si può presumere - della tranquillità del reggimento di Verona fra il 1330 e il 1351-52.

In politica estera il D. - al quale, nella diarchia con Alberto. certamente spettò la maggiore responsabilità decisionale, pur con la collaborazione non del tutto insignificante del fratello - non poté non adeguarsi, almeno inizialmente, alle scelte operate negli anni precedenti da Cangrande (I): fu così confermata (17 ag. 1329) la tradizionale amicizia di Verona con Mantova, ove poco prima gli Scaligeri avevano "sostituito" i Bonacolsi coi Gonzaga. Questo accordo, e quello dell'aprile del 1330 con Ferrara, furono la necessaria premessa della politica aggressiva che il D. - dopo aver superato anche, nel primi mesi del 1330, un occasionale contrasto con il duca di Carinzia, sin dagli anni di Cangrande (I) implicato nelle vicende padovane (ma ora in questa città la convergenza di interessi e la collaborazione con Marsilio da Carrara forniva ampie garanzie) - iniziò a svolgere in Lombardia. Le campagne del giugno e del settembre del 1330 sulla riviera gardesana e in Val Sabbia furono coronate da successo, con la conquista di numerosi castelli: peraltro, esse provocarono, indirettamente, l'intervento in Italia settentrionale di Giovanni di Boemia, presente a Trento dall'ottobre del 1330. Al sovrano si rivolsero infatti gli intrinseci bresciani. Il D. non si oppose frontalmente al re: inviata anzi un'ambasceria a Trento, restituì i castelli conquistati ma ottenne in cambio la riammissione in città dei ghibellini bresciani.

I rapidi progressi del re boemo nella pianura padana non toccarono direttamente gli interessi del D., che - solo fra i signori di Lombardia - non gli si sottomise formalmente, e fu anzi il primo ad assumere un atteggiamento a lui non favorevole informando Ludovico IV il Bavaro della avviata costruzione del castello di Brescia. Con la costante collaborazione mantovana (lega del 16 apr. 1331), il D. promosse (agosto del 1331) la lega difensiva segreta di Castelbaldo, cui aderirono, oltre ai Gonzaga, gli Estensi e più tardi Firenze. Nell'aprile del 1332 si accostarono al D. anche Azzone Visconti, il Rusca e i Tornielli, vicari regi in Como e Novara. Si profilavacosì lo schieramento antiboemo ed antipapale, poi sancito dalla Lega di Ferrara (16 sett. 1332). In esso i partners più forti erano certo il D. e il Visconti, fatto che giustifica le notizie su un accordo, che essi avrebbero stretto sin da allora per la spartizione della Lombardia al confine dell'Oglio. Quando fu costituita la lega di Ferrara, comunque, il D. aveva già conquistato Brescia (giugno-luglio 1332), previo accordo coi guelfi bresciani (Brusati, Bucchi) combinato da Marsilio da Carrara al quale la città restò per qualche tempo affidata. Il D. realizzava così un'aspirazione che era stata di Cangrande (I) e, prima, dello stesso Ezzelino (III).

Il disfacimento, del dominio di Giovanni di Boemia progredì rapidamente: l'esercito scaligero, del quale facevano parte prestigiosi milites della Marca, come il trevigiano Guecellone Tempesta e alcuni dei Caminesi, cooperò poi alla conquista viscontea di Bergamo e partecipò alle operazioni militari nel Modenese (settembre 1332) che videro attriti fra il D. e il fratello Alberto circa la conduzione della campagna. I primi mesi dell'anno successivo furono invece dominati dal tentativo di riscossa delle forze papali e dall'assedio di Ferrara: il D. partecipò personalmente al convegno di Palazzolo e in seguito alla decisiva battaglia, svoltasi presso quella città, alla guida del contingente più cospicuo di tutto l'esercito collegato (aprile 1332). In territorio veronese, a Castelnuovo di Peschiera, fu stipulata poi la tregua (13 luglio 1333). La spedizione italiana di Giovanni di Boemia si concluse di lì a poco: alla metà di agosto il D. ospitò "honorifice" in Verona il figlio del sovrano, Carlo, che tornava in Tirolo e di lì in patria. L'8 o il 18 ottobre fu la volta del re stesso, che fu pure ricevuto con tutti gli onori, secondo uno stile di comportamento "cavalleresco", da vari cronisti sottolineato, e che cominciò ad accreditare quell'aura di magnanimità (o, se si vuole, di magnificenza e di sfarzosa larghezza), che - pur nella generale deprecazione del suo agire "tirannico" - doveva accompagnare il giudizio dei contemporanei sul Della Scala.

Nel gennaio del 1334 il D. partecipò al convegno di Lerici, ove sollecitò (insieme con i rappresentanti fiorentini) la ripresa della guerra. Fu allora confermata la spartizione delle città italiane già soggette al re di Boemia, e Parma restò nel biennio 1334-35 l'obiettivo designato della politica scaligera (che il D. manifestasse aspirazioni su Bologna, è probabilmente solo un'illazione del Villani). Immediatamente dopo tale incontro, nel gennaio-febbraio il D. iniziò in appoggio ai da Correggio un impegnativo assedio a Brescello: la direzione delle operazioni fu affidata a Rizzardo (VI) da Camino ed a Spinetta Malaspina, in un primo momento, e successivamente a Marsilio da Carrara. Nell'aprile le forze veronesi presero parte all'assedio di Cremona, insieme con gli altri eserciti della lega, occupando Piadena e Casalmaggiore. Le operazioni proseguirono nei mesi successivi, nonostante i tentativi del legato pontificio di disgregare con il denaro l'esercito scaligero. Nel giugno vi furono vari attacchi contro Parma. Il D. partecipò personalmente alle operazioni nell'ottobre: Colorno, che aveva sostenuto un assedio di vari mesi fu presa il 25, e Parma (per l'adesione di varie famiglie, fra cui i Della Palude, i Pallavicino e altri, oltre che per l'azione diplomatica svolta ad Avignone da Spinetta Malaspina e da Azzo da Correggio) rimase pressoché isolata, con buona parte del contado in mano degli estrinseci e degli eserciti scaligeri.

Secondo alcune fonti, il D. in questi mesi avrebbe avuto parte anche nelle vicende di Como, dove avrebbe appoggiato Franchino Rusca, un parente del suo stretto collaboratore Bailardino Nogarola. Si cominciarono a profilare così quei motivi di contrasto con Azzone Visconti, che emergeranno al convegno di Soncino del 1335 ove i legati fiorentini appoggiarono le richieste scaligere per Parma presentate da Pietro Rossi ad Azzone Visconti, come ultima spes in funzione anticorreggesca.

Dopo altri reiterati attacchi alla città, e al termine di una trattativa condotta da Spinetta Malaspina e da Marsilio da Carrara, fu stipulato l'accordo con Pietro, Marsilio e Rolando Rossi: il 21 giugno 1335 Alberto Della Scala entrò in Parma e ricevette il vessillo del Comune. La città fu retta, in nome dei due Scaligeri, dai da Correggio "absque alia ... reformatione", come afferma il Chronicon Parmense. Poco più tardi anche Reggio fu conquistata dagli Scaligeri, e venne ceduta ai Gonzaga. Nel novembre, ancora la mediazione di Spinetta Malaspina indusse Pietro Rossi a cedere al D. Lucca, che fu occupata dal "collateralis" del D., Ziliberto, e governata da Guglielmo Scannabecchi. Per la sua cessione il D. iniziò nell'inverno 1335-36 una lunga trattativa con Firenze, cui fu prima chiesta la forte somma di 360.000 fiorini, e poi - a quanto sembra - un prezzo politicamente inaccettabile: l'appoggio per la conquista di Bologna. Il rifiuto fiorentino portò nel febbraio 1336 all'inizio di una guerriglia fra Fiorentini e Scaligeri in Valdinievole, nonché al tentativo veronese di prestare aiuto ai Tarlati, signori di Arezzo; nel frattempo il D. ottenne anche Massa e Pontremoli. Fu, questo di Lucca e, in genere, dell'inserimento nelle questioni toscane, un tornante decisivo della parabola politica del D.: come ha mostrato il Simeoni, le pressioni fiorentine ebbero nei primi mesi del 1336 un ruolo importante nel vincere le resistenze veneziane ad aprire la guerra nella Marca sfruttando la precarietà e le difficoltà - di per sé non insuperabili - dei rapporti fra Treviso e Padova scaligere, e la Repubblica di S. Marco.

Sino ad allora, comunque, il D. aveva tratto il massimo vantaggio possibile, sul piano del prestigio e su quello dell'espansione territoriale, dalla lotta contro Giovanni di Boemia iniziata nel 1331. Tuttavia, il ruolo decisivo giocato in più di una occasione, sul piano diplomatico e militare, dai potenti collaboratori del D. - ciascuno dei quali aveva un "suo" piano e "sue" aspirazioni, non sempre coincidenti con quelle del D. svela ad un tempo le possibilità e i limiti dell'azione politica avviata dal D., tutta giocata sul collegamento abile e fortunato con famiglie prestigiose e potenti delle città o dei territori soggetti, e sullo sfruttamento dei contrasti interni ai ceti dirigenti di questo o quel Comune. piuttosto che sul consolidamento di stabili strutture di governo e di controllo. Raramente il D., conseguito il potere in una città grazie alle forze o alle armi altrui, poté "metterci le barbe", per dirla col Machiavelli., Esemplificativo al riguardo - anche perché è discretamente studiato, grazie alla informata monografia del Dorini - è il caso del coinvolgimento del D. nell'area parmigiano-lucchese: coinvolgimento nel quale sono non di rado difficilmente distinguibili le esigenze di governo del D. dalle aspirazioni di Spinetta Malaspina, uno dei suoi principalissimi collaboratori. Il Malaspina non fu peraltro estraneo anche all'attività amministrativa interna: fu infatti "instante d. marchione Spineta" che nella dura estate del 1337 venne raccolto un mutuo in Vicenza; e fu al Malaspina che i legati padovani G. Cortusi e D. Aggrappati si rivolsero nel 1336, chiedendo a nome del loro Comune un allentamento della pressione fiscale. Anche in Parma l'autorità del D. riposò di fatto sulla convergenza di interessi con i da Correggio, legati ai domini scaligeri da parentela e assai influenti in Verona nel terzo e nel quarto decennio del secolo (Azzo, com'è noto, non fu lontano dal divenire vescovo di Verona). È inoltre superfluo ricordare come in Padova avesse avuto un ruolo preponderante Marsilio da Carrara, la cui efficace attività diplomatica e militare abbiamo ripetutamente citato; allo stesso modo, anche in città minori della Marca, come a Belluno, sopravvisse di fatto l'autorità del miles Endrighetto da Bongaio.

Ciò non significa, naturalmente, che mancassero al D. validissimi collaboratori nel governo delle numerose città conquistate: basterà, ricordare qui, dei più fedeli ed abili, Bailardino Nogarola, Pietro Dal Verme, Federico Cavalli, Guglielmo e Francesco Bevilacqua; ma anche Ziliberto del fu Zaoliveto, Bonetto da Malavicina, lo sfortunato difensore di Brescia nel 1337 e di Parma nel 1341. Dei più fedeli ed abili la maggior parte fu di origine veronese, come è ovvio, e meriterebbe ulteriori ricerche; tuttavia per una comprensione più approfondita della politica del D., sarebbe necessario soprattutto compiere indagini ulteriori sui rapporti che legarono la famiglia Della Scala ad altre famiglie e che non fruttarono alla signoria veronese espansioni territoriali: si pensi, ad esempio, ai da Fogliano, ovvero anche alle famiglie bolognesi così presenti ed influenti al fianco del D. (i Principi, gli Scannabecchi, gli stessi Carbonesi). Di costoro, e in generale di tutti i milites che affollarono, soprattutto nel quarto decennio del secolo, l'ospitale corte del D., "prigioniero del ghibellinismo italiano" (Simeoni), sarebbe importante vagliare la "produttività" in termini di prestazione di servigi amministrativi o militari. Guglielmo Cortusi, il giudice-cronista padovano che fu legato della sua città a Verona nel febbraio 1336, ne dà -come si sa - una attendibile lista: fra i molti da lui ricordati figurano ad esempio il siciliano conte di Chiaramonte, che fu "capitaneus forensis militiae", i figli di Castruccio, Ribaldone Tornielli, Lodrisio Visconti.

Si può certo parlare, come ha fatto di recente il Manselli sulla base dell'evidenza dei fatti politici e diplomatici, di un progetto "italiano" del D. volto a dare "un respiro e uno sviluppo interregionale" a Verona ed allo Stato scaligero: ma appunto in quest'ottica si sente la necessità di approfondire la ricerca storica nel concreto del complesso dell'attività amministrativa e di governo svolta da Mastino (II) Della Scala. Pertanto, riguardo all'assetto dello Stato scaligero nel decennio dell'espansione, è opportuno - allo stato attuale delle nostre conoscenze - usare molta prudenza, giacché non disponiamo del necessario presupposto costituito dagli studi monografici relativi ad ogni singola esperienza cittadina. Così, ad esempio, se sono attestate interessanti iniziative di coordinamento sovracittadino volute dal D. - come la magistratura di revisori fiscali creata nel 1335 -, va d'altro canto sottolineato che le singole città soggette mantennero margini abbastanza ampi di autonomia (Brescia e Padova nel 1333 e nel 1334 stipularono autonomamente convenzioni commerciali con Venezia), e che in pochi casi - a quel che sembra - si intervenne a livello di statuti cittadini (Vicenza, forse Treviso).

Il Simeoni ha opportunamente collocato "in una luce diversa da quella tradizionale" la guerra scaligero-fiorentino-veneziana scoppiata nell'estate del 1336, sottolineando quanto parziale e inesatta fosse l'interpretazione fornita da cronisti coevi come Iacopo Piacentino o il Villani, secondo cui l'apertura delle ostilità era dovuta esclusivamente alla provocazione scaligera. In realtà i rapporti tra il D. e Venezia non erano stati, negli anni precedenti, particolarmente cattivi. Nel 1330 Bailardino Nogarola, podestà scaligero di Padova aveva stipulato col doge Francesco Dandolo un accordo che dava sostanzialmente ragione alla Repubblica di S. Marco in merito alle principali questioni pendenti tra le due potenze (possesso dei castelli di Camino e di Motta nel Trevigiano; ventilata imposizione di un pedaggio ad Ostiglia); e le controversie degli anni successivi, anche se provocarono una riduzione delle forniture di sale per le terre di dominio scaligero, non appaiono essere state gravi. Solo quando nel giugno del 1335, dopo la presa di Parma, il D. impose dazi in Ostiglia anche sulle merci in transito, si ebbe, da parte veneziana, una reazione: sproporzionata all'episodio in sé, ma giustificata dalla preoccupazione per il fatto che il D. od i suoi alleati controllavano ormai integralmente il corso del Po. Nei mesi successivi Venezia mantenne nei confronti del D. una programmatica rigidezza di atteggiamento, che condusse infine alla guerra: "una guerra offensiva terrestre che era in contrasto con tutte le sue [di Venezia] tradizioni militari", osserva il Simeoni. Nonostante l'atteggiamento relativamente conciliante dimostrato dai rappresentanti scaligeri nel corso delle trattative svoltesi nel primi mesi del 1336, prima ancora che il D. avesse fatto costruire il castello delle Saline (maggio 1336) era stata sostanzialmente decisa l'alleanza tra Venezia e Firenze in funzione antiveronese.

La guerra iniziò nel luglio del 1336 con l'occupazione di Oderzo da parte delle truppe di Venezia e dei collegati di quest'ultima. La città venne immediatamente riconquistata dagli Scaligeri, e le operazioni continuarono quindi in modo scarsamente conclusivo. La condotta prudente del D. - che più volte si mostrò propenso a trattare: nell'agosto, ad esempio, quando Marsilio da Carrara fu inviato a Venezia - evitò rischiose battaglie campali, ma non poté impedire agli eserciti nemici comandati da Pietro Rossi di attestarsi a Bovolenta, presso Padova. Nei primi mesi del 1337, quando i castelli del Trevigiano (Camposampiero, Conegliano, Asolo, Serravalle) caddero l'uno dopo l'altro nelle mani dei suoi avversari, il D. si trovò sempre più isolato sul piano diplomatico, nonostante i suoi contatti con Azzone Visconti, avvenuti a Cremona: nel marzo fu costituita una lega generale antiscaligera cui aderirono, tra gli altri, anche gli Estensi e le Comunità della riviera bresciana. Un esercito dei collegati sotto il comando di Luchino Visconti giunse fin sotto le mura di Verona, ma non raggiunse risultati più concreti anche per il denaro che il D. poté elargire ai capi avversari grazie ai prestiti coatti da lui imposti in quei mesi a Verona e a Vicenza. La svolta decisiva della guerra fu costituita dall'accordo segreto stretto nel luglio fra Marsilio da Carrara ed il governo veneziano: in base ad esso il Carrarese si impegnava a far defezionare dal campo scaligero Padova, di cui sarebbe divenuto signore con l'appoggio della Serenissima.

Il 3 agosto Alberto (II) Della Scala fu arrestato e imprigionato: Pietro Rossi poté così entrare in Padova alla testa di un esercito dei collegati. Grave errore del D., rileva giustamente il Simeoni, fu quello di aver voluto continuare il conflitto anche dopo questo rilevante avvenimento.

In effetti il D. si piegò ad avviare trattative in vista di un accordo di pace soltanto nell'ottobre-dicembre, dopo che Carlo di Lussemburgo gli aveva strappato Feltre (agosto) e i Veneziani Ceneda; ma soprattutto dopo che Brescia, ribellatasi a lui nel settembre, era stata occupata da Azzone Visconti (8 ottobre). Nessun frutto sortirono gli aiuti promessi da Ludovico il Bavaro, al cui rappresentante il D. dette in ostaggio il figlio Cangrande (II) e diversi esponenti della nobiltà di Verona. Nonostante la scarsa affidabilità dei mercenari, di cui si avvalevano i collegati, nella primavera-estate del 1338 le operazioni militari furono portate nel territorio veronese e in quello vicentino (Montecchio, Arzignano). Nell'agosto i collegati espugnarono la rocca di Monselice; nel settembre Spinetta Malaspina e i da Fogliano, condottieri scaligeri, fallirono nel tentativo di riconquistare Montagnana; nell'ottobre anche Vicenza, che era stata cinta d'assedio ed i cui sobborghi erano stati sottoposti a saccheggio, corse seriamente il rischio di cadere nelle mani del nemico anche per l'aumentata attività delle opposizioni interne, tanto che il D. si vide costretto a far deportare a Verona un consistente nucleo di maggiorenti di quella città. Del resto, significativi segni di malcontento e di irrequietezza si ebbero anche nella stessa Verona, sebbene non si abbiano per ora elementi per poter confermare o confutare la fondatezza dell'accusa di intesa col nemico - "cum Venetis conspirasse" - mossa perfino al vescovo di quella città, Bartolomeo Della Scala, che era cugino del D. e che il D. uccise di sua mano il 27 agosto, con l'aiuto di Alboino Della Scala, uno dei figli di Cangrande (I). Le attività militari proseguirono anche mentre erano in corso i negoziati di pace tra il D. ed i collegati, che si svolsero a Venezia nel novembre-dicembre di quello stesso anno: appunto nel mese di dicembre, infatti, pure Treviso cadde in potere dei Veneziani. Il 24 genn. 1339 fu firmata la pace, che riconobbe al D. il possesso di Vicenza, di Parma e di Lucca, oltre - come è ovvio - a quello di Verona.

È significativo che pure in quel momento, nel quale era stata sanzionata la sua sconfitta sul piano militare e diplomatico, il dominus generalis di Verona e di Vicenza non avesse rinunziato alla politica della tensione e non avesse mancato di dare il via ad iniziative di riscossa, come quando tentò di far ribellare Brescia contro il dominio milanese, o come quando inviò i mercenari della Compagnia di S. Giorgio e Lodrisio Visconti (che dal 1335-36 si trovava esule a Verona) contro Luchino e Azzone Visconti: i quali riuscirono assai faticosamente a prevalere nella battaglia di Parabiago del 15 febbr. 1339. Nell'aprile il D. si recò in visita ufficiale a Lucca, città nella quale - significativamente - "numquam fuerat", come fa rilevare uno dei cronisti coevi. Nei mesi che seguirono il D. vide migliorare notevolmente i suoi rapporti con Venezia e con Firenze e, in conseguenza di questo fatto, poté ricondurre sotto il suo dominio l'intero territorio vicentino, ove Marostica era stata occupata da Sicco da Caldonazzo. Tuttavia, quanto mutate fossero le condizioni dello Stato scaligero sia all'interno sia all'esterno nei confronti con le altre potenze, è dimostrato dalla decisione presa dal D. di chiedere al papa Benedetto XII che lo investisse, "vacante Imperio", del vicariato apostolico nelle città di Verona, di Vicenza e di Parma.

Fatto senza precedenti nella storia dei Della Scala, famiglia "ghibellina" per eccellenza, tale scelta è da interpretare come una forma di tutela preventiva contro le minacce di un futuro possibile isolamento politico e diplomatico. Già nel febbraio del 1339 - cioè subito dopo la stipulazione della pace con Venezia e con Firenze - il D. aveva fatto procure a suo nome per Azzo da Correggio e per Guglielmo da Pastrengo, i legati cui aveva affidato il compito di portare la sua richiesta dinnanzi al sommo pontefice. Le trattative durarono qualche mese. In settembre, dopo aver assolto il D. dalla scomunica che era stata lanciata contro di lui in seguito all'assassinio del vescovo Bartolomeo Della Scala, Benedetto XII gli concesse il richiesto vicariato apostolico, anche se a condizioni abbastanza gravose: pagamento di 9.000 fiorini e impegno a mantenere truppe al servizio della Chiesa. Nel 1344 il successore di Benedetto XII, Clemente VI, confermò il D. vicario apostolico in Verona e Vicenza. Pur non senza ripetute oscillazioni, l'intesa con la Sede apostolica influenzò in varie occasioni, nel corso del quinto decennio del secolo, le scelte politiche del dominus generalis veronese.

Non mancarono per il D., nell'intenso lavorio diplomatico che caratterizzò i primi mesi del 1340, ulteriori preoccupazioni, come quelle suscitate dall'accordo in funzione antiscaligera stipulato a Lendinara, nell'aprile, tra i Pepoli, gli Estensi ed Ubertino da Carrara, il signore di Padova che aspirava alla conquista di Vicenza; o come le altre provocate da manifesti segnali di ostilità che gli provenivano dalla parte dei Gonzaga e dei Visconti. Contro costoro, per il tramite di suoi rappresentanti, il D. prese contatti nel Monferrato, in Germania, con Ludovico il Bavaro, ed a Pavia, con i Beccaria. In questo clima di nuove tensioni si sviluppò l'iniziativa avviata da Azzo da Correggio il quale, con l'appoggio di Roberto d'Angiò, del Visconti e del Comune di Firenze, fece insorgere contro il D. Parma, scacciando dopo una battaglia urbana il presidio scaligero (maggio 1341). Anche il Gonzaga passò alla lotta aperta attaccando il territorio veronese e sconfiggendo il D. a Nogarola. Immediate conseguenze della perdita di Parma furono la costituzione di una nuova lega antiscaligera (17 giugno 1341) e la cessione di Lucca al Comune di Firenze, stipulata nell'agosto successivo con la mediazione di Obizzo (III) d'Este, signore di Ferrara e di Modena.

Per l'acquisto della città di Lucca il Comune di Firenze si era impegnato a pagare 250.000 fiorini. Tuttavia, quando eventi imprevisti - quali l'intervento militare di Pisa, che inviò il suo esercito ad assediare la stessa Lucca quand'era ancora presidiata dalla guarnigione scaligera; il conflitto che ne seguì; l'occupazione pisana della città - ebbero impedito il regolare trapasso dei poteri e sembrarono pregiudicare l'intero affare, il prezzo di quella che il Villani definisce "matta compera" fu ridotto a 180.000 fiorini. Al pagamento di tale somma si procedette, dall'una parte, con molta circospezione, quasi a malincuore, provocando, dall'altra, una serie di contestazioni e di polemiche, che terminarono nel 1345, quando Firenze consegnò pronta cassa al D. 65.000 fiorini.

La definitiva riduzione dello Stato scaligero alle sole Verona e Vicenza ed ai loro territori non modificò nella sostanza gli atteggiamenti successivi del D., sempre incline ad una politica "irrequieta e vendicativa", come scrive il Simeoni. Costante fu, prima e dopo la tregua imposta dal legato pontificio Guglielmo de Curti nel 1343, l'ostilità nei confronti dei Visconti e di Mantova, sul cui confine avviò a partire dal 1345 la costruzione dell'imponente apparato fortificato che fu detto "il Serraglio di Villafranca" (ma già prima lavori erano in corso nella zona, a Custoza). Altrettanto costante fu il collegamento con gli Estensi, a fianco dei quali il D. intervenne a Reggio nell'Emilia e a Parma nel 1345, e nuovamente a Parma nel 1346, quando la città fu ceduta da Obizzo (III) ai Visconti. In seguito, il peggioramento dei rapporti tra i signori di Milano e Mantova portò alla guerra del 1348 contro i Gonzaga e ad un riavvicinamento dello Scaligero ai Visconti, suggellato dal matrimonio di una figlia del D., Beatrice Regina, con Bernabò Visconti (1350). E forse in funzione antimantovana, piuttosto che come effettivo di Bologna, va letta anche l'impegnata adesione del D. all'impresa condotta dal rettore pontificio in Romagna, Astorgio di Durfort, contro i ribelli Manfredi, signori di Faenza, e poi contro Bologna (1349-1350). Tuttavia, la successiva vendita di Bologna ai Visconti costrinse il D., legato ai Visconti dai recenti vincoli di parentela, a defilarsi rispetto alla lega che i nunzi papali organizzarono allora contro i signori di Milano. Nel suo complesso l'azione politica svolta dal D. in questo campo della politica estera durante il decennio 1341-1351 si riassunse dunque in un insistito impegno militare, che non portò in ogni caso ad alcun risultato.

Assai più tranquilli furono in quel medesimo arco di tempo i suoi rapporti sia con la Repubblica di S. Marco (il D. aveva ricevuto la cittadinanza veneziana nel 1339), sia - ma a partire dall'accordo del 1343 con Ubertino da Carrara - con Padova, in quegli anni sostanzialmente subalterna a Venezia. Si trovò invece più volte in posizione difficile nei suoi rapporti diplomatici con le potenze dello scacchiere trentino, stretto come era, da un lato, dalla necessità di mantenere con esse quei buoni rapporti che erano necessari al commercio veronese, e sottoposto d'altro canto alle ripetute ingiunzioni pontificie di aiutare militarmente il vescovo di Trento contro i signori locali e contro gli Imperiali; richieste alle quali, nella sua qualità di vicario apostolico in Verona e in Vicenza, non poteva rifiutarsi di ottemperare. Così fu nel 1344, quando ricevette una richiesta di soccorso contro i da Caldonazzo e i d'Arco; e poi di nuovo nel 1346, allorché, in opposizione a Luchino Visconti, il D. appoggiò dapprima i Castelbarco e Sicco da Caldonazzo, favorevoli al Bavaro, e solo in un secondo tempo il vescovo di Trento. Tuttavia, proprio in questo settore conseguì qualche successo: nel 1349 ottenne dal vescovo di Trento, come pegno per un prestito, le cittadine di Riva e di Arco, nonché le terre ad esse limitrofe; si fece quindi confermare dall'imperatore la sovranità sull'intero lago di Garda, come testimonia un diploma del 1351. Buoni rapporti mantenne coi Wittelsbach, sugellati nel 1350 dal matrimonio di una figlia di Ludovico il Bavaro, Elisabetta, col primogenito del D., Cangrande (II).

Allo stato attuale degli studi, poco si può dire circa l'attività di governo del D. sotto profili diversi da quello stricto sensu politico diplomatico. Anche su altri aspetti con questo intimamente connessi, come ad esempio quello della organizzazione militare, siamo male informati, al di là dell'accertata presenza degli stipendiarii tedeschi. Nulla si sa, sempre per rimanere nel campo militare, dell'evoluzione, dell'esercito cittadino, che conservò, sembra, un ruolo importante, come all'epoca di Cangrande (I). Riguardo al complesso dell'attività di governo, in sede di future ricerche occorrerà probabilmente distinguere tra il caso, rappresentato dalle città emiliane, lombarde e toscane che furono per pochi anni sotto il dominio scaligero e vennero governate o per interposta persona (ad es., Parma) o lasciandovi sopravvivere sostanzialmente il precedente assetto istituzionale (Brescia, Lucca), da quello costituito da almeno alcune città della Marca, nelle quali alla ovunque forte pressione fiscale ed al costante controllo delle Camere dei vari Comuni soggetti esercitato attraverso i camerlenghi si accompagnarono in gradi diversi la penetrazione ed il controllo delle istituzioni urbane (Vicenza, Treviso).

Per quanto riguarda la pressione fiscale, è vulgatissima la notizia fornita dal Villani, secondo cui gli Scaligeri introitarono nel 1335 dalle città soggette 700.000 fiorini, secondi in questo, tra i sovrani d'Europa, al solo re di Francia; ma le caratteristiche dell'apparato fiscale scaligero restano ancora da approfondire.

Per quanto riguarda la condizione delle città della Marca, bisogna innanzitutto menzionare Vicenza. Soggetta a Verona fin dal 1312, Sotto il governo del D. vide una riforma degli statuti (1339), interventi in materia di estimo, la comparsa di castellani e di vicari direttamente dipendenti dai domini generales, la progressiva penetrazione - nonostante la forte resistenza della Chiesa locale - nei benefici ecclesiastici, l'inizio della cooptazione di famiglie locali nell'élite di governo (tipico è il caso dei Thiene). Per il caso di Parma fornisce diversi spunti interessanti il Chronicon Parmense (1335-1338): accanto ad uno stretto controllo sulle finanze municipali e all'imposizione di una forte guarnigione scaligera, il cui acquartieramento ferì per il modo in cui avvenne il sentimento dei cittadini, si ebbe un qualche controllo sugli statuti, una libera disponibilità del patrimonio del Comune, la concessione di immunità dalle factiones a famiglie autorevoli, la distruzione di numerosi castelli del distretto, l'imposizione di nuove gabelle sulle carni e sul commercio in genere, il godimento del patrimonio dell'episcopio, l'imposizione - a ricchi e ad ecclesiastici - di "colte" e di mutui coatti, organizzazione militare per "decine" della città. Al di là del campo strettamente fiscale, Parma scaligera vide dunque un insieme di provvedimenti notevolmente articolato.

Poco conosciute, ed anche non facilmente suscettibili di approfondimento a causa della mancanza di documentazione attualmente disponibile, sono pure le vicende del reggimento interno di Verona. Sotto il profilo istituzionale va comunque ricordata, l'affermazione - in ossequio ad una tendenza allora diffusa - di una magistratura comunale ristretta, i "sapientes ad utilia".

Del settore manifatturiero il D. sembra essersi scarsamente interessato, come proverebbe la quasi totale assenza, per il ventennio del suo governo, di riformagioni agli statuti delle arti. Meglio documentato è, per converso, il comprensibile interesse del D. per il campo fiscale che segue le linee di concentrazione dell'autorità effettiva e di drasticità di intervento, usuali in questi casi. I dazi, ad esempio, vennero più volte appaltati in blocco a fiorentini (Nerli, da Lisca); nel 1337, "durante bello", e nel 1339 da migliaia di cives si rastrellarono mutui garantiti dal patrimonio del Comune, del quale il dominus generalis aveva la piena disponibilità. Gli elenchi dei cives sottoscrittori di tali mutui fornirebbero certamente, se studiati con attenzione, importanti informazioni sull'appoggio dato alla politica del D. dal ceto dirigente veronese. Altri mutui furono imposti nel 1342: ma l'elenco di tali prestiti forzati è ben lungi dalla completezza.

Quanto alla "fattoria signorile", essa mantenne sotto il D. caratteristiche prevalenti di ente amministratore di un patrimonio privato, incrementato - pure nel quarto decennio del secolo - da ulteriori investiture di beni ecclesiastici, ma senza avviarsi in modo esplicito all'acquisizione di più late competenze finanziarie semipubbliche, che emersero poi con una certa evidenza nei decenni successivi.

Secondo il Fainelli, pur restando complessivamente prevalente la comunione dei beni tra i due fratelli, vi fu nel quinto decennio del secolo una qualche tendenza alla separazione,lo si evince dalla presenza di distinti "factores".

Per tutti questi aspetti, si tratta comunque - ribadiamo - di semplici accenni da sviluppare sulla base di una documentazione che solo per alcuni contesti locali (Treviso, Lucca) è abbondante e significativa.

Il D. morì a Verona il 3 giugno 1351.

Il suo corpo venne inumato nell'arca marmorea che egli stesso si era fatto costruire presso la chiesa di S. Maria Antica, entro un'area che per sua iniziativa - vi aveva infatti fatto erigere l'arca, in cui riposava il corpo di Cangrande (I) - divenne il cimitero familiare dei Della Scala.

Il ritratto a forti tinte del D. delineato da un testimone in un certo senso spassionato, come l'Anonimo romano, che fece del dominus generalis una sorta di prototipo del tiranno italiano del Trecento, animato da insaziabile volontà di dominio, ambizioso ed eccessivo in tutto, epperò non solo "mastro de guerra", ma anche "omo assai savio de testa e iusto signore", bene riassume l'impressione che la figura dello Scaligero fece sui contemporanei. Non a caso anche l'Anonimo romano raccoglie - come i cronisti padovani Gatari, e Iacopo Piacentino - la diffusa diceria relativa alla corona di re d'Italia, che il D. si sarebbe fatto fabbricare. Mancano invece una cronistica ed una pubblicistica di tendenza scaligera o filoscaligera; letterati e cronisti coevi - fiorentini, padovani, veneziani - si dimostrano nei loro scritti in genere ostili al D., e danno un connotato negativo perfino a quella magnificenza fastosa, che pure ammirano e riconoscono come sua caratteristica.

Da Taddea da Carrara il D. ebbe tre figli maschi - Cangrande (II), Cansignorio e Paolo Alboino -, che gli succedettero nel governo dello Stato scaligero; ed almeno due figlie, che fecero matrimoni di grande rilievo politico: Beatrice Regina, andata sposa - come si è detto - a Bernabò Visconti, nel 1350, e Verde, divenuta nel 1362 la consorte di Niccolò (II) d'Este. Il D. ebbe diversi figli illegittimi, alcuni dei quali raggiunsero, vivente ancora il padre, posizioni di rilievo sia presso la corte scaligera - come il miles Fregnano -, sia nella carriera ecclesiastica, come quel Pietro che fu vescovo di Verona dal 1350 (all'epoca i rapporti tra il dominus generalis e la Curia romana erano ottimi) sino alla caduta della signoria, nel 1387.

Fonti e Bibl.: Negli archivi di città che furono soggette alla dominazione scaligera nel quarto decennio del sec. XV è conservato, inedito, un ricco materiale utile all'approfondimento degli studi sull'attività di governo del D.: ne sottolineano l'importanza sondaggi effettuati a Treviso, a Vicenza, a Lucca, centri in cui gli antichi archivi comunali sono sopravvissuti in misura più o meno completa. Qualche utile apporto possono fornire, probabilmente, anche le fonti inedite conservate presso gli archivi di Padova e di minori centri della Venezia Euganea. Dagli archivi veronesi si potranno trarre ulteriori notizie sulle vicende patrimoniali del D. e sui rapporti fra società locale e signoria scaligera nella prima metà del secolo. Per quanto attiene alle fonti edite, è superfluo sottolineare come in tutte le cronache coeve venga in genere fatta menzione del D., anche se - è ovvio - non in tutte con la stessa ampiezza e puntualità. Le indicazioni, che si danno qui di seguito, riguardano pertanto le fonti che parlano più a lungo e con maggior autorevolezza del D. o che forniscono comunque notizie per qualche verso significative circa la sua biografia. Parisii de Cereta Chronicon Veronense...,in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., VIII,Mediolani 1726, coll. 646-53; A. Mussati De gestis Italicorum..., ibid., X, ibid. 1727, coll.746, 750 s., 755;Bonifacii de Morano Chronicon Mutinense, ibid., XI, ibid. 1727, col. 126,Iohannis de Cornazanis Historiae Parmensis fragmenta, ibid.,XII, ibid. 1728, coll. 739-745, 748;Bonincontri Morigia Chron. Modoetiense, ibid.,coll. 1162, 1165-71, 1174; I. Malvezzi Chronicon Brixianum, ibid., XIV, ibid. 1729, coll. 1000 s., 1003; Monum. Pisana..., ibid.,XV,ibid. 1729, coll. 1004 s., 1007; S. et P. de Gazata Chronicon Regiense, ibid., XVIII,ibid. 1731, coll. 47, 50 s., 54 s., 57, 67-79; Annales Patavini, in Rer. Ital. Script., 2 ed., VIII, 1, a cura di A. Bonardi, pp. 211, 213 ss.; Liber regiminum Padue, ibid., pp. 360-63, 369; Chronicon Parmense…, ibid., IX, 9,a cura di G. Bonazzi, pp. 230, 232 s., 239, 247 s., 250 ss., 256; Storie pistoresi, ibid., XI, 5,a cura di S. Adrasto Barbi, ad Indicem; G. de Flamma Opusculum de rebus gestis ab Azone..., ibid., XII, 4, a cura di C. Castiglioni, pp. 14, 23, 28, 36, 42; G. de Cortusiis Chronica de novitatibus Padue et Lombardie, ibid., XII, 5,a cura di P. Pagnin, ad Indicem; J. de Bazano Chronicon Mutinense, ibid., XIV, 4, a cura di, T. Casini, ad Indicem; P.Azarii Liber gestorum in Lombardia, ibid., XVI, 4,a cura di F. Cognasso, pp. 32, 34,41, 141, 167-70; Gesta Domus Carrariensis, a cura di R. Cessi, ibid., XVII, 1, Appendice, v. II, ad Indicem; B. Aliprandi, "Aliprandina" o Cronica de Mantua, ibid.,XXIV, 13,a cura di O. Begani, pp. 124, 126 s., 131-133;M. di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, ibid., XXX, 1,a cura di N. Rodolico, pp. 172, 178,180, 185, 218, 224; P. Pagliarini, Cronache veronesi, Vicenza 1663, pp. 102, 104, 114; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra...,V,Venetiis 1720, coll. 873 s.; P. Zagata, Cronica della città di Verona, a cura di G. B. Biancolini, I, Verona 1746, pp. 69-81;G. B. Verci, Storia della marca trivigiana e veronese, VII,Venezia 1787, pp. 150 s., 156 s. dei Documenti; Cronaca inedita de' tempi degli Scaligeri, a cura di G. Orti Manara, Verona 1842, pp. 13-17; G. Villani, Croniche, Trieste 1857, pp. 346, 353, 364 s., 385,390, 393-400, 402 s., 405 s., 410-14, 416 ss., 420 ss., 430-38, 449,462, 465, 473, 503; Bandi lucchesi del secolo decimoquarto, a cura di S. Bongi, Bologna 1863, pp. 27-80; Urkunden zur Geschichte des Römerzuges Kaiser Ludwigs des Baiern und der italienischenVerhältnisse seiner Zeit, a cura di J. Ficker, Innsbruck 1865, pp. 153-157, 161 s., 164-66; "Liber marchiane ruine", poema storico del secolo XIV, a cura di C. 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