Matteo Maria Boiardo: L'inamoramento De Orlando, Parte I - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1999)

Matteo Maria Boiardo: L'inamoramento De Orlando, Parte I  - Introduzione

Antonia Tissoni Benvenuti

L'Inamoramento de Orlando

Se questa edizione restituisce un testo più arcaico e quindi di più difficile lettura, permette d'altra parte di intravvedere alcune caratteristiche dell'originale. Eliminato lo strato tardo e uniformante del manoscritto Trivulziano, si fa evidente la disomogeneità della scrittura, riconducibile ad una diacronia nella composizione certo più ampia di quella tradizionalmente assegnata ai primi due libri.

Il carattere di opus crescens costituito da segmenti successivi retti da una diversa intentio e di conseguenza con modelli diversi è stato del resto sempre riconosciuto all'Inamoramento dagli studiosi (si vedano da ultimo gli importanti contributi di Praloran e Donnarumma). Ma non si è arrivati mai a discutere i tempi di composizione dei primi due libri, unanimemente ricondotti agli anni 1476-79 solo perché in quel periodo il conte di Scandiano figura nei registri degli stipendiati della corte Estense. In realtà, né questi né altri documenti ci forniscono notizie sulla composizione dell'Inamoramento; gli unici finora noti riguardano piuttosto la diffusione dei primi due libri, e sono concentrati negli anni 1479-83 (si veda la Nota al testo, II 8).

Un altro argomento tradizionalmente utilizzato per datare il poema boiardesco è costituito dalla presunta derivazione del personaggio di Brunello da Margutte, che è assunta a prova di una dipendenza dell' Inamoramento dal Morgante, almeno a partire dal canto in cui Brunello compare (II iii). Il che, nel migliore dei casi, porta a considerare quasi tutto il secondo libro successivo all'II novembre 1478, data della lettera con la quale Ercole d'Este chiedeva al Gondi, suo uomo di fiducia fiorentino, di procurargli una copia del poema pulciano. Non sappiamo se la richiesta riguardasse una stampa non sopravvissuta o un manoscritto; il Morgante non compare comunque mai negli inventari della corte Estense. Secondo Harris ii 20 lo si troverebbe nell'inventario del 5 gennaio 1474, nel quale in realtà si legge «Monzantor n. 27» (si può non essere certi solo della parte finale della parola, forse -er o -a con svolazzo); nell'inventario del 1488, sempre fra i Libri Gallici, si legge: «38. liber Dictus Monzanter In papirio N° 27, cartarum 128». Rajna 1873, 56, riproducendo quest'ultimo inventario, leggeva Monzanta e non proponeva alcuna identificazione.

Ma, come scriveva lo stesso Rajna 1884, 431-2, Brunello non deriva da Margutte: Brunello non è altro che un discendente di quei tipici personaggi cavallereschi di piccola statura, bruni, velocissimi e dotati di un'abilità quasi magica nel rubare oggetti determinanti per lo svolgersi dell'azione, come Picolet, Galopin, Maubrun e simili. Il più somigliante a Brunello risulta essere Taupino del Fierabraccia (come già notava Franceschetti 1975, 255-60; ora Donnarumma 1996, 254 ricorda il Fierabras), poema la cui arcaicità e contiguità con altre fonti boiardesche come la Spagna F e il Rinaldo è stata segnalata da Dionisotti 1959, 232 (si veda anche Mandach v 185-6). L'influenza esercitata dal Morgante sull'Inamoramento risulta certo evidente negli ultimi canti del secondo libro e nel terzo, dove il poema pulciano sembra talvolta diventare un modello di scrittura (si veda in proposito Praloran 1995), ma non prima; per la parte precedente non si possono indicare rapporti diretti ed esclusivi, che cioè non risalgano per entrambi a topoi o dizioni formulari della narrativa cavalleresca in ottave, a frasi proverbiali, oppure ad autori noti, come Dante, Boccaccio o Fazio degli Uberti.

Se si accetta la datazione tradizionale dei due primi libri agli ultimi anni '70, risultano anche piuttosto imbarazzanti i rapporti con gli Amorum Libri III, assegnati con certezza a una data anteriore al gennaio 1477 dall'explicit di uno dei testimoni manoscritti. Pur potendo imputare l'enorme distanza stilistica tra le due opere al diverso genere letterario e alla camaleontica abilità di Boiardo nell'assumere e potenziare le caratteristiche dei singoli generi, risulta diffìcile credere che l'esperto facitore di versi ligiadri e tersi (AL 120) abbia negli stessi anni o qualche anno dopo potuto accogliere, nel primo libro dell’Inamoramento. forti arcaismi e irregolarità nella versificazione - rime imperfette, come a I ii 64, iv 64, viii 18, xii 32 e 54; rime all'occhio del tipo di Cataio:maio ('maggio'):coraio («coraggio», 'cuore') a x 14; altri arcaismi, come sostantivi con desinenza in -ieri, di cui abbiamo 23 casi su 27 in rima nei primi canti; e soprattutto quei tipici versi ricchi di dialefi e variamente 'vuoti' nella zona centrale - anche se questi erano fenomeni largamente presenti nei testi cavallereschi a stampa contemporanei.

In effetti il primo libro dell'Inamoramento, soprattutto nella sua parte iniziale, è molto distante dagli AL-, mentre una vera e propria contiguità culturale, e sembrerebbe anche una reciprocità di influssi, si avverte tra gli AL e il secondo libro (soprattutto i primi ventun canti). Ancora diverso è il rapporto col terzo libro, dove alcune riprese puntuali non sono altro che compiaciute citazioni della precedente esperienza lirica. Nel secondo libro dell’Inamoramento agiscono i medesimi modelli importanti per gli AL: Lucrezio (sulla cui vicinanza anche ideologica ha richiamato di recente l'attenzione Zanato nel suo acuto e ricco commento) ispira l'esordio di II iv, influisce sulla creazione di Rodamonte, suggerisce talvolta massime epicuree (come a II iii 22 o viii 26); un epigramma di Ausonio (per la cui presenza negli AL si veda AL 85) fornisce la trama di una parte dell'avventura nel regno di Morgana-Occasio; la Praefatio del De raptu Proserpinae di Claudiano, uno degli autori più congeniali a Boiardo, offre lo spunto per un vero e proprio certamen nell'esordio di 11 xvii. Si tratta di autori la cui presenza nell'Inamoramento non è dovuta né a ragioni di genere, come nel caso degli epici latini, né a memorizzazioni scolastiche, come nel caso di Virgilio e Ovidio, ma alla diversa intenzione della scrittura del secondo libro; e sono infatti del tutto assenti nel primo. Per quanto fossero ampiamente noti a Ferrara anche in precedenza, una lettura, o rilettura, da parte di Boiardo potrebbe anche esser stata favorita dalle editiones principes dei primi anni '70. E, d'altra parte, alcuni aspetti degli AL potrebbero anche trovare una giustificazione nella precedente consuetudine narrativa: testi come le canzoni 82 e 179 potevano essere scritti solo da chi avesse già individuato nel Roman de la Rose il modello della propria scrittura allegorico-moraleggiante; e così la presenza di un pubblico interno, le donne gentili, più che risalire alla Vita Nuova, sembra essere una trasposizione lirica di atteggiamenti canterini; e, infine, il notevole arcaismo non solo linguistico del canzoniere può avere una delle sue origini anche nei testi cavallereschi.

Le date interne scelte da Boiardo per delimitare la vicenda amorosa narrata negli AL - dalla primavera del 1469 al viaggio a Roma con Borso d'Este nella primavera del '71, pochi mesi prima della morte del duca - sono significative: sia dal punto di vista personale, in quanto Boiardo compiva nel '71 i trent'anni e voleva secondo tradizione legare la sua poesia amorosa al periodo giovanile; sia dal punto di vista politico, perché in quell'anno si concludeva appunto l'età di Borso e aveva inizio l'auspicata signoria di Ercole. È abbastanza verisimile che a questo cambiamento politico si riferisca anche l'esordio del secondo libro dell’Inamoramento: il topos della letificazione della natura o del ritorno dell'età aurea, qui riscritto alla cavalleresca, è utilizzato spesso in ambito encomiastico dagli scrittori di corte, e anche da Boiardo nei Carmina e nei Pastoralia, per esaltare gli effetti benefici della signoria degli Este o più in particolare di quella di Ercole.

Merita una particolare attenzione il fatto che Rugiero compaia in un poema dedicato all'innamoramento di Orlando e non a lui espressamente intitolato, come sarebbe stato ovvio, considerata la sua importanza dinastica. Non solo, ma dell'esistenza di Rugiero non si fa parola fino alle ultime ottave del primo libro, dove lo si annuncia come se si trattasse di un personaggio noto e il suo nome soltanto bastasse a creare specifiche attese nel pubblico. Si aggiunga che il capostipite di casa d'Este entra nell'azione solo nel canto xvi del secondo libro, e da lì in avanti, verisimilmente per dargli più spazio, vengono scorciate le vicende di altri personaggi: non sono narrati i fatti che hanno portato Astolfo nelle Isole Lontane (cfr. II x 52-4) e lui stesso scompare definitivamente a partire dal canto xiv; non sappiamo come Brandimarte sia finito nel Regno di Morgana (cfr. viii 36) ; di Marfìsa non si parla più dopo il canto xix; non siamo informati di quanto accade a Lucina dopo il suo ingresso a II xx, quando la ritroviamo prigioniera dell'orco a III iii; altri personaggi, come Prasildo e Iroldo, scompaiono tacitamente; e si potrebbe continuare.

La leggenda di Rugiero è sicuramente preesistente al suo ingresso nell’Inamoramento: la sua nascita, la sua infanzia e il suo destino di progenitore degli Estensi sono infatti già narrati per sommi capi nella Borsias di Tito Strozzi, e forse non per la prima volta. Non possiamo invece essere certi che il primitivo disegno dell' Inamoramento ne contemplasse l'inserimento.

Nella Borsias, che lo Strozzi stava già componendo nel 1460 e che continuò poi fino alla morte (1505) introducendo Ercole e i suoi figli con anticipazioni profetiche, l'unico Estense al quale è riferito l'epiteto di Rugerius è Borso (Rugerius heros), e a lui è attribuito l'esplicito patrocinio della leggenda dinastica (II 503-6). All'età di Borso ci riconduce anche l'aspetto dello stemma Estense descritto dallo Strozzi alla fine dell'excursus genealogico connesso a Rugiero nella profezia di Atlante (vi 240-550). Si tratta dello stemma che i signori di Ferrara portarono dal 1452 alla primavera del 1471, prima cioè che Borso insieme al titolo di duca di Ferrara ottenesse dal Papa il privilegio di porre in capo allo stemma Estense le chiavi pontificie. L'excursus genealogico dello Strozzi, con poche varianti successive, è contenuto anche in un manoscritto di dedica ad Ercole (Est. Lat. 679): ma lo stemma descritto resta identico, e anche la dedica ad divum Erculem fa verisimilmente pensare che egli non fosse ancora duca. Del resto, anche prescindendo da questi dati, il duca Borso, lettore e collezionista appassionato di romanzi cavallereschi, la cui ambizione di presentarsi come imparentato con i re di Francia era riconosciuta anche da Pio II, è l'unico Estense che nel Quattrocento potesse sentirsi lusingato da una simile appartenenza cavalleresca.

È d'altra parte difficile attribuire allo Strozzi, che altrove non mostra mai interesse per la letteratura cavalleresca, l'invenzione della leggenda di Rugiero, la cui presenza nella Borsias può essere solo un omaggio ai gusti del signore dedicatario e protagonista. Anche se non sono sopravvissuti documenti in proposito, non possiamo escludere che già esistesse il personaggio, e forse anche una sua connessione con gli Estensi, in qualche narrazione della guerra di Aspramonte; un figlio di Galaciella di nome Rugiero, è citato più volte anche ne'Aquilon, con allusioni - come si trattasse di cosa vulgata - al suo futuro destino di straordinario cavaliere. La nuova genealogia era certo nata dal desiderio di far dimenticare quanto si diceva sulle origini maganzesi degli Este: un relitto, questo, dei tempi in cui le narrazioni francesi consideravano traditore soltanto Gano, mentre la sua famiglia restava una delle più nobili (come ancora si evince dal commento del Capello al Dittamondo, dedicato a Niccolò III), ma certo non più accettabile dopo che i Maganzesi erano divenuti in Italia i traditori per antonomasia (Rajna 1875).

Non sembra dunque affatto inverisimile l'ipotesi che non solo il primo progetto di Boiardo, guidato dall'intenzione di riportare il poema cavalleresco in ottave - un genere molto amato a corte ma ormai troppo degradato - a un livello letterario dignitoso, sia nato durante la signoria di Borso d'Este; ma che anche il desiderio (forse conseguente al successo incontrato) di farne un poema dinastico introducendovi Rugiero sia legato a chi era già stato proclamato Rugerius heros: Borso d'Este appunto. Boiardo non avrebbe potuto certo pensare di proporre ad Ercole un capostipite come Rugiero e di scrivere per lui un poema come l’Inamoramento, dato che conosceva bene i gusti del suo signore e li aveva assecondati con i volgarizzamenti di Cornelio Nepote e della Ciropedia, e avrebbe continuato poi ad assecondarli con l'Erodoto, con l'adattamento teatrale di Luciano e di altri volgarizzamenti plautini, e soprattutto con il Ricobaldo; e l'aveva inoltre già cantato nelle poesie latine come nuovo Alcide, utilizzando secondo la moda cortigiana le valenze mitologiche del nome.

Vero è che l’Inamoramento nei testimoni a stampa è dedicato ad Ercole d'Este. Ma non dobbiamo attribuire eccessiva importanza alla dedica, che non significa necessariamente committenza, ma ineludibile omaggio, come Boiardo stesso lascia intendere in altre occasioni, per esempio nella lettera dedicatoria del Cornelio Nepote: «Et a te, Inclyto mio signore, ho dedicato tutto quello (se ciò è qualche cossa) che dal mio picholo ingegno è provenuto», oppure in quella del Ricobaldo, con un'elegante praeteritio di sapore feudale: «Imperò che, oltra che io con tute le cose mie sia per obbligo di Quella, fu Ricobaldo [. . .] di Vostra cittade». Il poema era del resto ormai noto e apprezzato dal pubblico della corte, e l'autore poteva sperare, innalzandone il livello letterario nel secondo libro e citando dove possibile gli storici antichi, di incontrare anche il gradimento di Ercole d'Este. Intento che deve esser stato raggiunto - come molti esordi euforici e in totale sintonia con il pubblico mostrano - fino al canto xxi del secondo libro.

Indizi di vario genere sembrano segnalare una frattura nella composizione del secondo libro, fra il canto xxi e i seguenti. Il fatto testuale più interessante emerso dalla collazione dei testimoni è il diverso stato dell'archetipo - per qualità e quantità di errori - negli ultimi canti di questo libro, a partire proprio dal canto xxii. La differenza sembra essere sottolineata dalla didascalia, certo non d'autore, riportata esclusivamente dalle stampe che contengono soltanto i primi due libri: una didascalia che in questo punto indica l'inizio di un terzo libro. Si può pensare che una scrittura più affrettata in questa ultima parte, unita a qualche disomogeneità dell'esemplare, oltre a creare problemi nella trascrizione abbia indotto chi stava riunendo il testo in bella copia o, più verisimilmente, chi curava la princeps, a credere di trovarsi di fronte a una divisione del poema, e quindi a un terzo libro. E l'importante esordio del canto xxii doveva avvalorare questa convinzione. Una pausa nella diffusione del poema risulta del resto anche dai documenti riguardanti la ricopiatura dell' Inamoramento a corte (cfr. Nota al testo, Il 8), e potrebbe riferirsi appunto a quest'ultima parte del secondo libro.

Subito prima e pochi canti dopo la falsa divisione (nei canti xxi e xxv) troviamo due excursus genealogici, cioè due esaltazioni della dinastia Estense connesse con l'intenzione encomiastica che informa il secondo libro. La loro vicinanza e la loro profonda diversità è sconcertante. Nel canto xxi Atalante predice il futuro di Rugiero (come nella Borsias), arrivando a parlare degli Este, suoi discendenti: e si noti che questo è l'unico luogo del poema in cui la parentela sia esplicitamente dichiarata, pur col rispetto dovuto che impedisce di scrivere il nome della famiglia. Ma l'excursus contiene parecchi errori sia nei nomi dei personaggi sia nelle gesta loro attribuite: errori clamorosi non solo per gli storici odierni, ma anche rispetto a quanto si poteva conoscere allora e leggere in altre opere encomiastiche di quell'età. Ad esempio, il nome di Ugo Alberto che Boiardo attribuisce al capostipite della famiglia, non è altrimenti attestato e nasce da un errore presente solo in alcuni testimoni del commento al Dittamondo del Capello; Ezzelino da Romano non può per evidenti ragioni cronologiche essere sconfitto e ucciso da Azzo I; non esiste nessun riscontro storico per le gesta attribuite ad Aldrovandino III. Ranaldo invece, la cui presenza nel Ricobaldo boiardesco scandalizzava Muratori (RIS ix 282-3, e cfr. anche Delle Antichità Estensi, cap. XXXVI), pur essendo un personaggio per noi leggendario, è accettato da altri storici estensi dell'epoca, tra i quali l'attento Prisciani. Nelle ultime ottave dell'excursus scarni accenni sono dedicati alle gesta di Nicolò III e dello stesso Ercole.

L'unica correzione apportabile a un'opera già nota, in quanto diffusa a puntate successive, poteva essere soltanto la ripresa variata, la riscrittura del medesimo argomento. E infatti l'excursus genealogico del canto xxv è completamente diverso. Non si tratta più di una profezia: i signori di cui si parla non vengono in alcun modo collegati a Rugiero, e non viene detto il loro nome, ma sono misteriosamente e solennemente raffigurati sulle pareti di una loggia; Brandimarte, che li osserva con indifferenza, non sa chi sono, ma l'aquila bianca più volte citata e le gesta descritte dovevano certo renderli facilmente riconoscibili a corte. Il fatto che non compaia nessun nome permette all'autore una correzione tacita, avvertibile solo da chi avesse già notato gli errori precedenti. La rassegna è aperta da un personaggio identificabile con Ranaldo d'Este, le cui imprese narrate in modo più dettagliato trovano riscontro nel Ricobaldo boiardesco; viene ripresa poi con ampi particolari la lotta di un signore Estense contro Ezzelino e, non essendo indicato il nome, la vicenda può essere correttamente attribuita ad Azzo II; uno spazio maggiore è lasciato a Nicolò III, e un più ampio encomio è riservato ad Ercole. Le gesta degli Estensi sono questa volta narrate in modo molto accurato e minuzioso, sulla base delle fonti storiche dell'epoca; alcune parti hanno un riscontro preciso nel Ricobaldo boiardesco.

Sembra quindi di poter concludere che Boiardo abbia scritto il nuovo excursus genealogico del canto xxv soltanto dopo essersi informato meglio sulla storia patria (forse per essere stato esortato a farlo?). E, per converso, che quando aveva scritto l'excursus del canto XXI non fosse a conoscenza delle notizie presenti nel suo Ricobaldo, e quindi non avesse ancora iniziato quel lavoro (sia l'opera una traduzione fedele di un originale scomparso o una compilazione boiardesca arricchita da altre fonti, qui non importa). Non abbiamo documenti per datare il Ricobaldo boiardesco. L'unico manoscritto, mutilo, che lo contiene porta le armi di Ercole già duca, con le chiavi di San Pietro al palo: il terminus post quem è dunque l'estate del 1471. Muratori in un primo tempo aveva pensato che Boiardo se ne fosse occupato intorno al 1475 (RIS IX 101), anche se in seguito (ibid. 282) dovette riconoscere la mancanza di prove al riguardo. Ora, se a quanto abbiamo fin qui osservato si aggiunge l'assenza nelle due genealogie dell'erede Alfonso d'Este, nato il 21 luglio 1476, e dedicatario, come vedremo più avanti, dell'excursus aragonese nel canto xxvii, diventa per il Ricobaldo molto verisimile una data comunque non oltre il '76. Se si accetta che quest'ultima opera sia un atto riparatorio, di ossequio alla volontà del signore, si comprende anche meglio la lettera con cui è dedicata ad Ercole, nella quale è espresso l'auspicio che l'Estense, tanto interessato alla storia antica, si occupi anche dei lunghi secoli dell'età di mezzo, così poco noti, che hanno visto le gesta della sua famiglia. L'opera presentata vuole illuminare appunto questi tempi ed «è ripiena de' magnanimi gesti e prudentissimi governi» della casa d'Este.

Dopo queste considerazioni diventa comprensibile anche l'amarezza dell'esordio del canto xxii, che non può non sorprendere i lettori se paragonata alla solare fiducia nell'assunto e nella ricezione della propria opera manifestata negli esordi dei primi ventun canti del secondo libro. Qui Boiardo sembra riconoscere che al suo poema non è lecito innalzarsi a un livello epico-dinastico: la Fama, un tempo compagna dei grandi condottieri, depositaria e dispensatrice en dolci versi di immortalità, ora deve occuparsi di antichi amori e di bataglie di giganti; la storia narrata deve trattare di temi cavallereschi soltanto, evitando di unire l'encomio dinastico a quelle leggende. Questo era molto probabilmente il desiderio di Ercole d'Este, il signore che collezionava volgarizzamenti di storici antichi oltre che di testi teatrali latini, e che in quegli anni affidava al Prisciani l'incarico di scrivere una documentata storia di Ferrara e della sua famiglia. Ercole del resto non aveva mai mostrato per la letteratura cavalleresca quell'interesse che era invece tipico di Borso; e non doveva risultargli gradito vedere la sua famiglia, suo padre e lui stesso mescolati a quelle favole. Un analogo distacco sarà poi assunto - come è ben noto - da suo figlio Ippolito nei confronti del Furioso.

Ulteriori elementi per datare i canti che seguono si possono desumere dalla citazione nel canto xxvii di alcuni personaggi contemporanei. Come s'è anticipato, nelle ottave 52-9 si trova una breve digressione in gloria degli Alfonsi Aragonesi, che ha l'evidente scopo di celebrare con loro l'erede Estense dal medesimo nome non menzionato nei due excursus dinastici dei canti xxi e xxv. Ma Alfonso d'Este è qui rappresentato come un fanciullo di pochi anni, «Di etade puerile e in facia quale/ Sarìa depinto un Phebo picolino» (57). Piacerebbe poter connettere questa unica celebrazione di Alfonso nel poema alla sua prima uscita ufficiale a Ferrara, a cavallo, durante la festa di San Giorgio, il 24 aprile 1479, mentre il padre Ercole era capitano generale della Lega (come ricorda lo Zambotti nel suo Diario). L'occasionalità dell'elogio diventa più verisimile se si tiene presente ancora una volta che l’Inamoramento ha la struttura e il carattere di un'opera diffusa 'a puntate'.

A una data vicina al '79 ci conduce del resto anche l'ottava 56, dove Alfonso duca di Calabria, nato nel 1448, è detto Alfonso gioveneto: un epiteto che non può certo convenire a una persona che abbia superato di molto i trent'anni (le successive imprese di Alfonso citate nell'ottava 57 della vulgata - qui 56bis - non possono essere utilizzate per la datazione, in quanto l'ottava non si trova nelle prime stampe, ma solo nei testimoni più tardi che portano l'opera completa; si veda in proposito la Nota al testo, II 8).

Se Alfonso d'Este fosse già stato al mondo quando Boiardo scriveva i canti xxi e xxv, sarebbe stato possibile non ricordarlo insieme a suo padre? E d'altra parte, come si spiegherebbe che a celebrarlo Boiardo abbia atteso qualche anno, senza supporre che la composizione del poema avesse subito una battuta d'arresto, o almeno fosse andata molto a rilento?

A questi segnali cronologici interni vanno aggiunte le note allusioni alla guerra veneta in corso, presenti alla fine del secondo libro, a ridosso della prima edizione in due libri (1482).

Secondo le considerazioni fin qui esposte la composizione del secondo libro dell' Inamoramento viene ad occupare, con larghi intervalli, tutto il decennio '70 e i primissimi anni '80; ma uno stacco maggiore si ha tra i primi ventun canti e i successivi, mentre la data di nascita di Alfonso, il 21 luglio 1476, costituirebbe in ogni caso un terminus ante quem per la composizione dei primi venticinque canti. Il primitivo progetto dell'opera invece, e il successivo, riguardante l'inserzione di Rugiero, con la stesura dell'intero primo libro verisimilmente risalgono all'ultimo quinquennio dell'età di Borso, l'unico signore di Ferrara che abbia manifestato nel Quattrocento vivo interesse per le narrazioni cavalleresche.

Che la distanza cronologica fra il primo e il secondo libro, e anche fra le varie parti di questo, sia maggiore di quanto si sia fin qui creduto, è del resto confermato dalla diversità dei contesti culturali di riferimento e dei modi con cui l'autore vi si rapporta.

L'ingresso di Rugiero nell'Inamoramento. oltre a dichiarare l'intenzione dinastico-encomiastica del poema da lì in avanti, comporta da parte di Boiardo un'attenta considerazione della cronologia delle storie carolinge, basata sulla biografia di Orlando, nella quale la nuova storia si deve inserire. Al tempo della guerra di Aspramonte (quando cioè Rugiero è stato concepito), il paladino, pur essendo l'uccisore di Almonte, era poco più di un fanciullo. Per salvaguardare la congruenza della sua storia in questo contesto, all'inizio del secondo libro (II i 14-6), quando con Rugiero entra nell'Inamoramento tutta la nuova generazione dei figli dei re pagani morti in quella guerra, Boiardo ci informa che Agramante, il nuovo re dei re africani, aveva sette anni quando suo padre Troiano era stato ucciso da Orlando; e che da quella data ne sono trascorsi altri quindici. Se si aggiungono all'età di Orlando fanciullo in Aspramonte il breve periodo trascorso prima dell'uccisione di Troiano (cfr. Aspramonte A 111 c-cxvii) e questi quindici anni, ne risulta un paladino non ancora trentenne che, dopo i pochi mesi dedicati alle vicende dell'Inamoramento, può sostenere i sette anni della guerra di Spagna senza morire decrepito a Roncisvalle (quando, secondo Turpino, aveva trentotto anni). E Rugiero può essere un forte sedicenne.

Nelle compilazioni carolinge tarde si è molto attenti a questa cronologia relativa anche per autenticare le nuove storie. Un'analoga precisione e una collocazione temporale simile si trovano ad esempio nell' Aquilon, dove si legge che il protagonista, concepito al ritorno di Namo di Baviera dalla guerra appunto di Aspramonte, è ormai quindicenne, e che i primi sette di quei quindici anni sono stati occupati dalla guerra di Carlo contro Girard de Fraite, e i successivi otto da quella contro Girard de Viene, zio di Olivieri e Alda, conclusa con il matrimonio di quest'ultima con Orlando.

Le precisazioni cronologiche dell'inizio del secondo libro dichiarano che anche le vicende narrate nell 'Inamoramento hanno come antefatto la guerra di Aspramonte e come seguito la guerra di Spagna. Come già aveva indicato Dionisotti 1959 e come poi rilevò anche Franceschetti 1975, i testi che più importano nella costruzione della storia narrata da Boiardo sono quelli che riguardano queste due vicende, nelle versioni che circolavano in quegli anni alla corte Estense. La conoscenza diffusa di questi testi permette a Boiardo frequenti citazioni o allusioni, con effetti di grande coinvolgimento del pubblico.

Se nella maggioranza dei casi è difficile individuare con certezza quale fosse la versione delle singole storie utilizzata da Boiardo (anche perché ce ne è pervenuta solo una piccola parte), talvolta questo è possibile o sulla base della presenza di alcuni personaggi che sembrano introdotti apposta dall'autore per segnalare il rapporto (come Sobrino per l'Aspramonte di Andrea da Barberino e Grandonio per la Spagna F), oppure di particolari secondari. Nel caso, per esempio, della guerra di Spagna e della successiva rotta di Roncisvalle, possiamo identificare il testo di esplicito riferimento nella versione che chiamiamo Spagna F, con la finale Rotta, contenuta nel manoscritto dell'Ariostea di Ferrara, appartenuto a Borso e ornato con i suoi emblemi, databile al 1453.

Tutto il primo libro è anche dal punto di vista stilistico molto vicino alle narrazioni cavalleresche contemporanee in ottave: oltre alla Spagna F, il Rinaldo, l'Inamoramento di Carlo, l’Altobello, e altre ancora. E, come è giusto per una continuation à rebours, le prime riprese e le più dirette si hanno dalla Spagna F e si trovano nei canti iniziali dell'Inamoramento. Il primo pagano di Spagna nominato (I i 10) è infatti re Grandonio, facia di serpente; una posizione di tale rilievo gli è attribuita perché nella parte finale della Spagna F, la Rotta, Grandonio è il pagano che uccide il maggior numero di cristiani, compreso Astolfo, prima che Orlando con un solo fendente tagli in due parti lui e il suo cavallo. Che il testo di riferimento sia qui proprio la Spagna F è confermato da un'esplicita citazione in apertura dell' Inamoramento, nell'episodio del torneo indetto da Carlo Magno, quando Astolfo, inconsapevole possessore della lancia incantata di Argalìa, disarciona appunto Grandonio. La vittoria sul pagano è descritta da Boiardo a tinte più forti di quanto importasse un normale torneo (I iii 6), come si trattasse di una vendetta preventiva, a soddisfazione del pubblico. E così viene commentata nell'ottava seguente: «Fo via portato in pena dolorosa / Il re Grandonio, il qual (sì comm'io odo) / Occise Astolpho al fin per tal ferita, / Ben che anchor lui quel dì lasciò la vita». Il forte legame instaurato in questo modo con un testo notissimo a corte veniva a conferire una sorta di consacrazione alla nuova opera, rassicurando il pubblico sulla sua autenticità cavalleresca.

Per i medesimi stretti rapporti con quel testo, e ancora una volta nei primi canti, Gano e i Maganzesi - che nel prosieguo quasi scompaiono - sono presentati in modo molto negativo, sia nei loro tradizionali scontri con Ranaldo (I i 15-8) sia per l'attacco proditorio ad Astolfo alla fine della giostra (e si veda anche poco prima, I iii 13). L'insistenza sulla malvagia falsità di Gano e di tutta la sua famiglia, pur tradizionale nei testi italiani, non può non essere ricondotta alla volontà di smentire la leggenda genealogica maganzese riferita agli Estensi. E si aggiunga (come già è stato più volte notato) che il duello di Orlando e Feraguto nella versione della Spagna F fornisce più di un particolare a quello tra Orlando e Agricane (I xviii-xix). La Spagna F doveva essere un testo notissimo a Boiardo, quasi memorizzato, perché numerosi sono i riscontri testuali di interi versi o emistichi, con alcuni calchi veri e propri di ottave intere (si veda l'indice dei luoghi citati nel commento, e in particolare I xxv 13, 11 vii 30).

I primi sette canti del primo libro costituiscono una sorta di apprentissage cavalleresco, un nucleo narrativo concluso, la cui trama principale - l'arrivo del re pagano Gradasso che combatte vittoriosamente con i cristiani fino ad espugnare Parigi e a far prigioniero Carlo e i paladini, con il finale capovolgimento delle sorti grazie al duello tra Astolfo e il pagano - riproduce l'intreccio fondamentale dei poemi quattrocenteschi, e anche dello stesso Inamoramento, fin dove è stato scritto. Sembra guidare questa prima invenzione una giocosa poetica del capovolgimento dei topoi narrativi del genere: la spedizione di Gradasso non è mossa da motivi religiosi o politici, ma semplicemente dal capriccio di possedere Durindana e Baiardo; il casto Orlando non solo si innamora perdutamente, ma l'amore lo rende ancor più valoroso e invincibile; Ranaldo è creato dall'imperatore capitano generale dell'esercito cristiano e, invece di essere - come di solito nei poemi italiani contemporanei - occupato nella conquista di tutte le donzelle che incontra, fugge la bellissima Angelica innamorata di lui; Astolfo, che fin dall'Entrée era un allegro ed elegante buffone sprovvisto di qualità militari, è il vincitore del forte Gradasso nel duello finale (anche se il merito va alla lancia incantata, il suo onore e soprattutto il suo coraggio non risultano compromessi, perché egli non sa di possederla). I primi sette canti si concludono così con l'apoteosi di Astolfo, che libera l'imperatore e tutti gli altri cavalieri prigionieri, salvando la cristianità. Allo stesso modo il lunghissimo canto xii (che è pure un nucleo concluso, ma di tipo novellistico e di ascendenza boccacciana) contiene l'avventura dell'Orto di Medusa che sembra essere - anche per la valenza allegorica - un abbozzo della meravigliosa quéte di Orlando nel Giardino di Falerina.

L'invenzione si fa nel prosieguo sempre più imprevedibile e complessa, ma conserva forti somiglianze con i testi cavallereschi coevi (per es. lo spostarsi della vicenda nei paesi orientali o africani, come nella Spagna, nell'Inamoramento di Carlo, nell'Altobello e in altri ancora; oppure l'invenzione di Marfìsa, sorella della Regina An- croia e di altre donne guerriere). Anche il finale duello tra Orlando e Ranaldo, un luogo narrativo presente in quasi tutti i poemi contemporanei, dà modo all'autore di rinsaldare i rapporti della sua opera con il contesto cavalleresco, facendo citare agli stessi contendenti, che se li rinfacciano come disonorevoli, episodi desunti da testi ben noti, suscitando in questo modo certamente l'appassionata partecipazione dei loro sostenitori presenti fra il pubblico. E si potrebbe continuare, anche sulla traccia degli studi di Montanari e Villoresi, elencando puntuali coincidenze con altri poemi cavallereschi: ma basti qui rimandare all'indice dei luoghi citati nel commento. Va però aggiunto che talvolta una citazione, pur esplicita, può non portare ad alcun riscontro sicuro: è il caso per esempio della versione della storia di Aquilante e Grifone qui utilizzata, diversa da quelle a noi note per la paternità dei due cavalieri e per alcune vicende ; una versione che doveva essere molto diffusa e che fu poi ripresa anche da Ariosto. Il caso del libro citato a I xiv 41, che narrerebbe distesamente le vicende di Oberto dal Leone, cercato inutilmente già da Rajna, potrebbe essere diverso: non si può escludere che si tratti di un gioco dell'autore con l'onniscienza cavalleresca del pubblico, che sicuramente gli creava continui problemi di documentazione.

Anche se nel primo libro la vicinanza con i testi cavallereschi coevi è molto stretta e simili sono la qualità della scrittura e della versificazione, fin dall'inizio risulta chiaro il progetto di Boiardo di portare quella narrativa in ottave a un livello letterario più decoroso. Esisteva un unico modello nella letteratura alta: il Boccaccio, appunto nei poemi in ottave. È questo infatti, come ha esaurientemente mostrato Donnarumma, il maestro e l'autore scelto. Se ne ha un'ulteriore prova nei modi di utilizzo, a I xxix 102, di parte della canzone di Dante, La dispietata mente, che pur mira, Rime 7 (l), adattata all'ottava sull'esempio del riuso di testi di Petrarca e di Cino da Pistoia in Filostrato v 54 e 62-5: un unicum nell'Inamoramento (si veda Donnarumma 1996).

Ma fin dall'inizio Boiardo individua anche chiaramente quali siano le caratteristiche retoriche del genere per lui irrinunciabili. Dai cantari e dai poemi cavallereschi, contro il modello del Boccaccio in ottave, assume la finzione di una performance canterina, che incornicia ogni canto e struttura la narrazione stessa, stabilendo, con i modi di quella particolare retorica, vari meccanismi di coinvolgimento fra narratore e pubblico. E nel prosieguo il narratore - che secondo il topos cavalleresco è inizialmente soltanto il divulgatore di una storia preesistente, scritta da Turpino - si fa diretto cronista dei fatti, rappresentati spesso, più che narrati, davanti agli occhi del pubblico. E molto si potrebbe scrivere sull'abilità evocativa della narrazione boiardesca, sul suo aspetto visivo.

Dal romanzo francese, come ha ben mostrato Praloran 1990, Boiardo riprende la tecnica dell'entrelacement, che ne è il carattere più specifico; e la utilizza magistralmente per ottenere effetti di suspense ma anche di dilatazione in senso sincronico, in orizzontale, necessari in una storia destinata a occupare solo pochi mesi della vita di Orlando. Sono due scelte di ambito rigorosamente romanzo, che colgono, fondendoli, gli aspetti più caratteristici delle due tradizioni narrative medievali egualmente presenti e amate alla corte Estense. Ma la cura con cui lo statuto retorico dell'opera è stabilito fin dal principio, e poi osservato con sempre maggiore attenzione sino alla fine, è rigorosamente umanistica.

Per non snaturare la specificità cavalleresca del poema, Boiardo è molto vigile nel dosare la presenza degli autori classici (un apporto comunque notevole, come ha mostrato la Zampese) e nel sorvegliarne i modi. Ma anche in questo ambito le differenze tra le varie parti dell'opera sono significative e appaiono connesse ai mutamenti di intentio, al diverso livello letterario che in quel momento l'autore vuole raggiungere.

Nell'ambito della sfida giocosa con il pubblico offerta dai primi sette canti troviamo per esempio la riscrittura di un intero episodio dell'Eneide (Aen, x 633-88: In. I v 38-54); la trama virgiliana viene riutilizzata puntualmente, messa in scena nel nuovo contesto e recitata dai personaggi cavallereschi con il minimo adeguamento indispensabile. In questo caso Virgilio non è il modello classico che nobilita la scrittura: è piuttosto chiamato a far parte di un gioco di rimandi e allusioni riconoscibili solo da pochi. Sempre nel primo libro, più che a modelli classici si riferiscono a narrazioni cavalleresche del ciclo antico le avventure che Orlando affronta durante il viaggio verso Albracà dove incontra il mostro simile alla Sfinge di Edipo, il gigante simile al ciclope Polifemo, e così via; più avanti si incontrerà anche un centauro, rapitore di Fiordelisa.

In tutto il poema i temi antichi - Ulisse e Circe a I iv 49 ; le storie di Alessandro Magno dipinte sulle pareti della reggia di Agramante a II i; il minotauro e il labirinto a II viii 15-17; il mito di Narciso a II xvii; la storia di Ettore a III i 26-9 - vengono rappresentati alla medievale, spesso con il ricorso diretto a testi medievali. Ma questo non esclude che a partire dal secondo libro, quando il livello della scrittura lo richiede, la presenza dei classici diventi più consistente e si incontrino alcune citazioni esplicite, che avranno avuto anche lo scopo di assecondare i gusti di Ercole d'Este.

L'intenzione che regge il secondo libro, fino al canto xxi, è alta: quindi la storia di Alessandro Magno nel canto i, pur rappresentata alla medievale, è nobilitata da alcuni particolari desunti da Plutarco e da Curzio Rufo, particolari che Ercole d'Este sicuramente conosceva attraverso il volgarizzamento di Pier Candido Decembrio. Così il concilio di Serse, da Erodoto vii, offre un supporto alla solennità del concilio di Agramante (II i-iii) ; il medesimo Erodoto, con Plinio (oltre che con l'onnipresente Dittamondo), soccorre per le descrizioni dei regni e dei popoli africani. Ma il vero certame con i modelli classici si ha con la creazione del personaggio di Rodamonte e la descrizione della tempesta che lo coinvolge (II iv, in cui vari luoghi di Virgilio e di Lucano sono abilmente contaminati). Rodamonte è insieme un nuovo Mezenzio e un nuovo Capaneo; durante la tempesta assume anche il comportamento di Cesare nell'analoga situazione del v libro della Farsalia; e in aggiunta presenta alcuni caratteri dell'areligiosità lucreziana (cfr. per esempio II iii 22, vi 4, ecc.). Lucrezio fornisce del resto, come già s'è visto nel confronto con gli AL, un supporto ideologico all'iniziale motivo di Amore irresistibile forza vincitrice, in una concezione esistenziale certo più espansiva e felice della lucreziana. E si sono già ricordati i raffinati recuperi del secondo libro, come l'epigramma sull'Occasione di Ausonio, o Claudiano per l'esordio del canto xvii. Un altro certame con modelli classici coinvolge i canti xi-xii, sempre del secondo libro, che contengono un rifacimento - direi una messa in scena - alla cavalleresca dei Captivi di Plauto: ancora un omaggio ai gusti di Ercole. La commedia non solo è magistralmente inserita nel contesto cavalleresco, ma è portata, in gara col modello, ad assumere la funzione di exemplum di amicizia e cortesia. Con l'alto esercizio retorico di Ovidio Boiardo si cimenta soprattutto nell'episodio di Narciso (II xvii): ma questo è possibile appunto perché il mito è narrato seguendo il Roman de la Rose e non le Metamorfosi.

L'inversione di tendenza, conseguente al dichiarato abbassamento del livello della storia a partire dal canto xxii di questo stesso libro, sembra trovare immediato riscontro nella grottesca rassegna dei re africani: uno sberleffo ad un solenne luogo narrativo epico. Nel terzo libro poi, a una maggiore presenza di leggende classiche connesse all'origine troiana di Rugiero corrisponde il totale utilizzo di modelli medievali, come il Troiano in ottave. Così, pur seguendo l'indirizzo della politica culturale di Ercole e il nuovo gusto della corte per l'antico, Boiardo continua, anche nel terzo libro, a mantenersi rigorosamente fedele al suo assunto romanzo.

I testi fin qui citati stabiliscono una fitta rete di rapporti con l’Inamoramento: le storie cavalleresche, oltre a rappresentare il modello di base del genere, forniscono i riferimenti necessari a creare lo spazio per la nuova storia; il Dìttamondo con il commento del Capello è una sorta di enciclopedia utilizzabile nei modi più svariati; Dante, Petrarca, Boccaccio costituiscono soprattutto una miniera stilistica da cui estrarre, quasi sempre decontestualizzandoli, lacerti destinati ad innalzare letterariamente la scrittura cavalleresca; i classici, presenti come s'è visto in modi accuratamente sorvegliati, entrano con funzioni diverse nelle successive parti dell'opera. Tutti questi apporti condizionano sezioni più o meno ampie del testo, non lo investono mai nella sua interezza. Nel secolo dell'imitazione non si può disconoscere l'originalità dell'invenzione boiardesca rispetto ai modelli presenti.

Ma nell'Inamoramento c'è anche un significato secondo, morale, più evidente in alcuni episodi. Per trasmettere questo significato Boiardo si serve delle seducenti immagini del Roman de la Rose. Tra le due opere s'instaura un rapporto particolare, del tutto simile a quello che si ha con i modelli di diretto e predominante confronto nelle altre opere boiardesche. Come l'insegnamento penitenziale del canzoniere petrarchesco viene contestato nel sonetto proemiale degli AL - appunto nel momento in cui l'assunzione del modello sembra totale - dall'incoercibile «Ma certo chi nel fior de' soi primi anni / sanza caldo de amor e il tempo passa, / se in vista è vivo, vivo è sanza core», che in sostanza lo nega; e come l'amara, misantropica conclusione di Luciano è corretta nel Timone boiardesco dall'invenzione di un secondo personaggio che, partendo dalle medesime premesse di Timone, trova invece nella solidarietà umana il suo premio; così anche nel caso del Roman de la Rose. in una sorta di dialogo a distanza, utilizzando le immagini di Guillaume de Lorris, Boiardo contrappone la sua morale a quella che ne aveva voluto ricavare Jean de Meun.

Quelle immagini - la rosa, il giardino fiorito, il pericolo nascosto tra i fiori, la fontana di Narciso - compaiono anche, come s'è già detto, in alcuni testi degli AL (si veda soprattutto 82 e 179). Negli AL però, dopo l'iniziale esaltazione della gioia e dei piaceri terreni offerti dai sensi, forse anche per il determinante influsso del modello petrarchesco, esse diventano figura delle sofferenze e dei pericoli connessi alla vicenda d'amore, con un significato apparentemente simile (ma in realtà più elegiaco che ascetico) a quello che viene loro attribuito da Jean de Meun. La morale della seconda parte del Roman de la Rose. pur presentando a volte, attraverso i vari personaggi (si pensi agli ammaestramenti della Vietile) posizioni e considerazioni che non dovevano dispiacere a Boiardo, è infatti nelle conclusioni dichiaratamente ascetica: i beni mondani sono fuggevoli e deludenti; quanto si vede nella fontana di Narciso porta dolore e danno; solo i beni ultraterreni sono stabili e offrono la salvezza, come le acque della Fontaine de vie, che appagano finalmente la sete dell'uomo.

L'insegnamento morale - o se vogliamo la visione del mondo - che Boiardo ci trasmette trova invece le sue radici in quel particolare edonismo del primo umanesimo padano, connesso con una rivalutazione dell'epicureismo, che ha la sua migliore espressione, nei primi anni '30, nel De voluptate del Valla (ma si tenga presente anche la difesa di Epicuro di Cosma Raimondi, la premessa del De honesta voluptate et valetudine del Platina, e altro ancora): un testo, quello del Valla, in cui l'esplicita esaltazione dei piaceri dei sensi viene polemicamente contrapposta alla visione stoico-ascetica della vita, quasi questi piaceri fossero prefigurazione del gaudium ultraterreno (differenziato, parrebbe, in modo quantitativo più che qualitativo).

Nel mondo dell' Inamoramento i beni mondani, la bellezza, la forza, l'amore anche nel suo aspetto fisico, hanno un valore in sé positivo, e devono essere ricercati perché rendono il vivere più piacevole; ma devono anche essere governati con misura, senza diventare lo scopo ossessivo della vita, rendendo l'uomo schiavo. La salvezza, tutta terrena, si consegue con un'oraziana temperanza: qualsiasi diletto deve essere tanto che basta, e non fuor di misura (II iv 86).

Le immagini del Roman de la Rose sono presenti nell'Inamoramento fin dai primi canti. Le due acque dell'amore e del disamore, che possono sembrare soltanto un meccanico espediente per mutare il tradizionale comportamento di Ranaldo e di una maga come Angelica, denunciano il loro riferimento alla Fontana di Narciso - detta anche Fontaine d'Amors da Guillaume de Lorris - e alla Fontaine de vie dalle acque salvifiche, contrapposta alla prima da Jean de Meun (vv. 20335 sgg.); ma ad una somiglianza esteriore corrisponde un significato capovolto. La Fontana di Narciso del Roman è di marmo e fa pericolosamente innamorare di quanto si vede rispecchiato nel suo fondo di cristallo: come di marmo, artefatta, è nell'Inamoramento la Fontana di Merlino, al contrario destinata a spegnere o impedire l'amore; i caratteri di sorgente naturale benefica della Fontaine de vie, che sgorga «par desouz l'olive foillie» (v. 20521) vengono assunti invece dalla Riviera delo Amore, le cui acque non sono magiche ma naturali, come è naturale innamorarsi. L'episodio della punizione di Ranaldo da parte di Amore (II xv) toglie qualsiasi dubbio su questa voluta contrapposizione di significati. Ranaldo è crudelmente battuto con steli di fiori dal dio e dalle Grazie sue compagne, perché ha continuato a rifiutare l'amore di Angelica; per riprendersi dalle percosse che l'hanno sfinito dovrà bere l'acqua della Riviera delo Amore, che scorre sotto un pino e un olivo, dalle cui radici sgorga (II xv 58; cfr. RdR 20497-500 «l'olivete petite / Sent la fontaine que j'ai dite, / Qui li atrempe ses racines / Par ses eves douces e fines»). L'acqua salvifica, fonte della vera salvezza, è dunque per Ranaldo - come per Boiardo - l'acqua che fa innamorare, e cioè l'Amore.

Secondo l'assunto iniziale, l'amore è per Boiardo una forza positiva, perché migliora gli uomini e rende anche più valorosi i cavalieri; ma come tutti gli altri piaceri della vita non deve diventare follia, dismisura. Il mito di Narciso (II xvii) costituisce per Boiardo l’exemplum più adatto ad indicare l'eccessivo, il soperchio amore; e, come si è detto, viene narrato seguendo il Roman de la Rose. non Ovidio (Narciso non finisce mutato in fiore, muore ed è sepolto). Nella prima parte del Roman la storia di Narciso ha una funzione altrettanto se non più importante, sia per l'estensione (vv. 1425-1602) che per il significato che le è attribuito. Ora, per indicare chiaramente proprio quel modello e togliere ogni dubbio in proposito, Boiardo mantiene la ripetizione del nome del protagonista nella medesima posizione iniziale che occupa nel Roman, citando anche l'iscrizione e l'epiteto di damoisiaus/damigiello (II xvii 49-50): «E sopra, a letre d'or, una scriptura / La qual dicea: "[…] / Quivi è sopolto il giovene Narcyso». // Narcyso fo in quel tempo un damigiello». Nel Roman infatti si legge: «Si ot dedenz la pierre escrites, / Ou bort amont, letres petites, / Qui disoient qu'iluec desus / Se mori li biaus Narcisus. / Narcisus fu uns damoisiaus» (vv. 1435-9). La mortale punizione di Narciso e di quanti poi guarderanno nella fontana è presentata, secondo lo statuto dell'Inamoramento. come frutto di incantesimo; ma è indubbio che essa simboleggi il castigo per la mancanza di misura, che rende negativo anche l'amore; solo l'altruismo e la generosità di Calidora possono impedire che vi siano altre vittime.

Anche l'amore di Orlando - all'inizio tanto esaltato - arriva a questa dismisura. Già a I xxvii 50 il paladino cede all'impulso irresistibile di abbracciare Angelica (E venne impaciente al'appetito, come è commentato a xxviii 3); ma poi succede di peggio. Il soperchio amore porta Orlando a combattere a torto contro Ranaldo (come il conte stesso riconoscerà a II vii 51); così per soperchio amore Orlando rifiuta di tornare in Francia a difendere Carlo Magno (II ix 47 e xiii 51). Il suo amore per Angelica assumerà poi una valenza negativa, ossessiva, tanto da portarlo a pregare Dio per la sconfitta dei cristiani, perché riscattandoli potrà poi avere Angelica in premio (II xxx 61). A causa di questi eccessi il paladino sarà punito con la prigionia nel Fonte del Riso: che è un'altra e più esplicita riscrittura del Fonte di Narciso, con in aggiunta il ricordo delle acque della Buona Fortuna del Roman de la Rose. nelle quali tutti quelli che ne conoscono la dolcezza «Volentiers si parfont iraient / Que tuit dedenz se plongeraient » (vv. 6013-4). Orlando infatti vi si getta perché affascinato dalle Naiadi che vede nel palazzo di cristallo sul fondo; ma nella ripresa dell'episodio (III vii) le modalità di seduzione si fanno più complesse, allargandosi dall'amore a tutti i piaceri terreni. Nella foresta che circonda il Fonte del Riso si presentano infatti ai cavalieri le cose più desiderabili e, in particolare, più da loro desiderate; ed essi, dimenticando per inseguirle lo scopo della missione, finiscono per essere sommersi in quelle acque.

Nell'episodio del Fonte del Riso viene anche offerta, consegnata in un'iscrizione, la morale della vicenda, che è poi quella dell'intero poema: un'esplicita esortazione alla misura, a non farsi travolgere dall'avidità. Chi si avvicina al Fonte legge in un cartiglio un giudizio positivo sulle passioni umane, in quanto necessarie motrici di azione: « Disio di chiara fama, isdegno e amore / Trovano aperta a sua voglia la via». Solo chi è già entrato leggerà, sul verso del cartiglio, a quali effetti negativi andrà incontro se non saprà dominarle: «Amore, isdegno e il disiar honore / Quando hano preso l'animo in balìa / Lo sospingono avanti a tal fracasso / Che poi non trova a ritornar el passo» (III vii 13).

Boiardo poteva trovare un atteggiamento analogo nel primo dei libri De voluptate del Valla (cfr. per es. I xiv, xviii, xix, ecc.), oltre che nell'esordio del secondo libro del De rerum natura, dove è esposta l'etica dell'epicureismo. L'esplicita condanna dell'avidità di ricchezza, che spicca nel passo lucreziano, è però in Boiardo temperata dagli insegnamenti morali di Seneca (per es. De vita beata xxm, oppure De tranquillitate animi VIII-IX): anche la ricchezza è un bene della vita se è usata con misura.

Il tema del rapporto uomo-ricchezza è uno dei più costantemente presenti nell'Inamoramento. molti episodi assumono la funzione di exemplum, con una spiccata valenza didascalica, della misura necessaria all'uomo in questo ambito. Il desiderio di accumulare ricchezza è contrario alla cortesia e all'amore, agli ideali cavallereschi, come dice orgogliosamente Orlando rifiutando il Cervo dalle corna d'oro (I xxv 13-7); l'avidità dei pomi d'oro fa infatti dimenticare l'amore a Leodilla-Atalanta (I xxi 48 sgg.); il vano inseguimento del Cervo dalle corna d'oro toglie dalla mente di Brandimarte la rapita Fiordelisa; Ranaldo non potrebbe mai più uscire dal Regno di Morgana se non abbandonasse il progetto di portare con sé un trono d'oro. Esiste anche un luogo specificamente legato a questo tema: il Regno di Manodante nelle Isole Lontane, dove tutto il tesoro del mondo si raduna. Il nome parlante del re sembra alludere alla possibilità per i potenti di un riscatto dalla ricchezza attraverso la larghezza; la figlia del re, Leodilla appunto, rinuncerà alla ricchezza per amore; il figlio Brandimarte, che in origine aveva il nome parlante di Bramadoro, si riscatterà con il valore delle armi, come il suo nuovo nome testimonia; il terzo figlio, Ziliante, è il giovane bellissimo amato dalla Fata del Tesoro, Morgana, e suo prigioniero finché non sarà liberato da Orlando nella seconda discesa in quel Regno. Il conseguimento della ricchezza nel mondo cortese e feudale di Boiardo non deve essere lo scopo delle azioni umane (e nella condanna dei vizi ad essa connessi, avarizia, prodigalità, avidità, e dell'ipocrisia che li copre, c'è concordanza a volte puntuale con parti del Roman de la Rose), ma i beni di fortuna posseduti sono positivi in sé: a patto che l'uomo li sappia usare senza rendersene schiavo.

Anche se l'Inamoramento non è stato condotto a termine, il suo significato morale è delineato chiaramente. Può restare nel lettore il dubbio che nel seguito non fosse contemplato il pentimento di Orlando, dopo che la patologia del suo amore si fosse ulteriormente manifestata. Questo sviluppo, inevitabile del resto dati i caratteri tradizionali di Orlando e la sua biografia già nota, e che troverà la sua realizzazione nel Furioso. comincia infatti a delinearsi nel terzo libro: Orlando, dopo la punizione del Fonte del Riso - dalla quale è salvato da Brandimarte in veste di amis -, rifiuta una nuova avventura di tipo arturiano (vii 37-9) e alla vista del campo di Carlo dopo la sconfitta pronuncia un ascetico lamento sulla vanità delle cose mondane (vii 59).

Il terzo libro è quasi un'opera a sé stante, con gli stessi caratteri delle altre gionte cavalleresche in circolazione: e cioè una ripresa di maniera della trama, con l'ingresso di un nuovo personaggio pagano, Mandricardo. In ossequio alla volontà di Ercole e in appoggio alla tesi delle origini troiane degli Estensi proposta anche dal Prisciani, Rugiero diventa un anello intermedio della dinastia, che risale ad Ettore attraverso il figlio Astianatte, sopravvissuto. Sembra che in questi canti l'interesse dell'autore sia rivolto, più che all'invenzione, alla scrittura, con giochi verbali di tipo pulciano, anche se non mancano episodi di grande originalità creativa.

Il distacco dall'opera si fa via via maggiore: nell'ultimo decennio della vita Boiardo scrive solo otto canti e mezzo del terzo libro. Gli ultimi versi, dedicati alla discesa di Carlo VIII in Italia, sembrano testimoniare la volontà di un definitivo abbandono, forse in vista di una stampa dall'autore stesso progettata. Ma in questo ultimo decennio si era fatto più volte sentire l'interessamento dei giovani Estensi, Isabella e Alfonso, e anche di Federico Gonzaga; alla loro curiosità e alle loro richieste dobbiamo di certo questi ultimi canti, e quegli sprazzi di felice consonanza col pubblico che anche nel terzo libro, sia pur raramente, si presentano. Sono giovani lettori entusiasti, non accettano che la bella storia resti interrotta: sono gli stessi che di lì a poco chiederanno all'Ariosto di scriverne la gionta.

Questo lavoro non sarebbe forse mai nato se Neil Harris, con sicura rapidità, non avesse identificato e catalogato le stampe dell 'Inamoramento, permettendo di dirigere subito l'attenzione a quanto veramente importava. La lunga e impegnativa collazione, la discussione dell'assetto prosodico e di lezioni spesso stemmaticamente indifferenti, e l'allestimento del testo sono stati condivisi con Cristina Montagnani: di certo, senza questa generosa condivisione, l'impresa non sarebbe giunta in porto. Condivisione che non esclude una inevitabile ripartizione di compiti : Cristina Montagnani si è specificatamente occupata del i libro e dei canti i-iii del II, chi scrive dei canti iv-xxxi del II libro, e del III. Preziosa è stata anche la lettura del commento offertami dalla medesima studiosa. Importanza fondamentale hanno poi avuto le concordanze gentilmente approntate da Amedeo Quondam sul nostro testo. Particolare gratitudine va a Domizia Trolli per l'assidua consulenza linguistica (con la speranza che il suo glossario boiardesco possa essere presto pubblicato); e ad Anna Montanari, alla cui competenza sui poemi cavallereschi del Quattrocento risale più di un riscontro, e che si è assunta l'ingrata fatica della compilazione degli Indici.

Ma la riconoscenza più viva spetta a tutta la gloriosa Ricciardi e in particolare a chi ha continuato, nei nuovi assetti editoriali, a curarne la tradizione: Gianni Antonini e Lucia Mattioli. A Lucia Mattioli in particolare, che con grande partecipazione ha accompagnato la lunga vicenda redazionale accollandosene tutto l'onere; a Marta Ardenghi per il suo contributo nell'attenta lettura della prime bozze; e ad Alessandra Peviani, che con vivo coinvolgimento ha seguito l'opera nella fase finale, suggerendo spesso utili correzioni non solo di errori di stampa.

Con affetto e rimpianto ricordo Carlo Dionisotti e Cesare Bozzetti, anche per i lunghi colloqui sulle vicende dell 'Inamoramento che hanno accompagnato quest'ultimo decennio.

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