MONTECCHI, Mattia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTECCHI, Mattia

Elvira Grantaliano

MONTECCHI, Mattia. – Nacque a Roma il 1° giugno 1816 dall’avvocato Nicola, discendente – secondo alcune tradizioni suffragate da ricerche genealogiche – dall’antica casata dei conti Montecchi, e da Rosa Colangeli.

Nel corso dei secoli, estintosi il ramo principale della famiglia, il cognome Montecchi fu spesso modificato in Montecchia sino al 1844, quando proprio grazie a Mattia riprese definitivamente la forma originaria.

Il padre, funzionario del governo pontificio, era stato nominato governatore di Marino e Castel Gandolfo nel 1814, appena restaurato il governo papale; in seguito lo fu di Monte Marciano, Poggio Mirteto e Sezze, dopo aver trascorso un breve periodo a Bologna, come vicedirettore della neoistituita polizia pontificia.

Vissuta la prima infanzia a Monte Marciano, a otto anni Montecchi entrò nel seminario di Ancona, tenuto dai gesuiti. Insofferente però della disciplina ferrea e forse dell’ambiente ecclesiastico, lo abbandonò e ritornò alla casa paterna, ottenendo, dopo aspri dissapori, di poter proseguire gli studi a Roma, sotto la sorveglianza del cugino Pio Pancaldi, sostituto governatore di Castel Gandolfo. La morte del padre, che seguì di poco quella della madre avvenuta nel 1837, lo pose appena diciottenne a capo della famiglia, cui, non risultando sufficiente la pensione del padre, dovette provvedere trovandosi un lavoro.

Impegnandosi duramente e studiando di notte riuscì nel 1840 a laurearsi in giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Suoi compagni di studi furono Giovanni Battista De Rossi, Michelangelo Pinto e Carlo Armellini, poi con lui partecipi nel 1849 dell’esperienza della Repubblica Romana. Risale agli anni di duro lavoro e di intenso studio il consolidarsi del rapporto familiare e affettivo con la sorella Elena, terzogenita, donna di grande cultura e sensibilità, che per aiutarlo dava lezioni di italiano, inglese e francese presso le famiglie aristocratiche di Roma.

Molti elementi sulla personalità di Montecchi si ricavano dal suo epistolario pubblicato postumo, anche se in forma parziale, dal figlio Ettore. Fu in corrispondenza con alcuni importanti uomini di cultura del Risorgimento, con letterati e artisti come l’incisore Luigi Calamatta e il celebre tenore Mario De Candia. Dalle lettere emerge il forte attaccamento alle sorelle, tra cui Maria Luisa, la maggiore, Angelica, Giulia e soprattutto Elena, eccellente poetessa ammessa in Arcadia con il nome di Fillide Idalia, e poi socia dell’Accademia Tiberina, autrice tra l’altro di un sonetto Alle donne italiane dai toni fortemente patriottici; più limitati sono invece gli accenni al più giovane fratello Ettore e alla moglie Marion, sposata durante la permanenza in Inghilterra.

Nel 1841 Montecchi intraprese la professione legale, esercitando il praticantato negli studi di noti avvocati, fra cui Nicola Carcani, liberale, del quale divenne intimo amico. Già vicino alla carboneria nel 1834, e in seguito sempre più legato alle idee mazziniane, dal 1837 il suo nome cominciò a comparire nei rapporti della polizia pontificia, che lo segnalavano per le sue amicizie con esponenti del pensiero progressista e liberale, soliti ritrovarsi in alcuni caffè e locali romani, come il caffè Nuovo e il caffè delle Arti. Stabiliti numerosi contatti con patrioti romani, fiorentini e bolognesi, appartenenti a diversi ceti sociali, Montecchi fu tra i principali organizzatori di quel movimento progressista che partendo da Roma avrebbe dovuto portare all’unificazione delle forze liberali italiane in vista di un’insurrezione nell’Italia centrale.

Nelle lettere scambiate con amici e corrispondenti, come Artidoro Maccolini, Giuseppe Galletti e Giuseppe Camillo Mattioli, capi del versante bolognese del progetto, si coglie il tentativo di eludere la sorveglianza della polizia attraverso l’uso di nomi fittizi e di frasi in codice piuttosto ingenue. Spesso anche la sorella Elena fece da tramite nei contatti tra i cospiratori, esponendosi di persona malgrado la polizia non ignorasse le sue simpatie liberali.

Nel 1841, in seguito a indagini, delazioni ed errori degli stessi liberali, la cospirazione fu scoperta dalla polizia; a Roma avvennero i primi arresti, tra cui quello dei fratelli Adolfo e Alberico Spada e poi dello stesso Montecchi nella notte tra il 27 e il 28 aprile, mentre Galletti e Angelo Rizzoli erano già stati presi a Bologna. Anche Elena subì un interrogatorio, in cui cercò in ogni modo di scagionare il fratello. Per Montecchi seguirono anni di dura carcerazione, prima nelle carceri Capitoline, poi nelle carceri Nuove, infine nel forte di Castel Sant’ Angelo. Processato dal tribunale della S. Consulta, negò a lungo la partecipazione alla cospirazione, prima di cadere infine in contraddizione ed essere condannato il 21 agosto1845 alla galera a vita, da scontare nel forte di Civita Castellana.

Con l’elezione di Pio IX e la concessione dell’amnistia ai detenuti politici, Montecchi uscì di prigione. Tornato a Roma, riprese immediatamente a impegnarsi nel movimento liberale, viaggiando per l’Italia e alternando frequentazioni diverse, dalla principessa Cristina di Belgioioso, al conte Pietro Ferretti, fratello del cardinale segretario di Stato, ad Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, cui lo legò un forte rapporto, a Terenzio Mamiani, a Vincenzo Gioberti.

Collaboratore de Il contemporaneo, che aveva iniziato le pubblicazioni nel 1847, Montecchi visse in pieno il clima delle illusorie aperture papali al movimento nazionale, svolgendo apertamente attività politica e prendendo parte alle dimostrazioni popolari contro l’Austria, identificata come il nemico storico delle rivendicazioni all’indipendenza. Si iscrisse alla Guardia civica (poi Guardia nazionale) per il rione Colonna, e durante la guerra del 1848, inserito nel contingente romano con il grado di maggiore, fu al fianco del generale Andrea Ferrari che difese dai detrattori dopo l’infelice esito dell’impresa militare, conclusasi con la sconfitta di Cornuda, pubblicando l’opuscolo Fatti e documenti riguardanti la divisione civica volontari sotto gli ordini del generale Ferrari, dalla partenza di Roma fino alla capitolazione di Vicenza (Roma 1848; nel 1850 apparve di nuovo a Losanna nella collana dei Documenti della guerra santa edita dalla Tipografia Elvetica).

Al ritorno a Roma, prima della fuga di Pio IX a Gaeta, si adoperò per mediare tra il papa e le richieste crescenti dei democratici più estremisti; con l’assassinio di Pellegrino Rossi tuttavia la situazione precipitò. Falliti i tentativi di riconciliazione con il papa e proclamata la creazione dell’Assemblea costituente, il 21 gennaio 1849 Montecchi fu eletto rappresentante del popolo nei collegi di Civitavecchia, con 2369 voti, e di Macerata, con 2669. Scelse Civitavecchia.

Profondamente vicino alle idee di Mazzini, il 9 febbraio votò per la proclamazione della Repubblica, senza le incertezze di altri protagonisti come Livio Mariani e lo stesso Mamiani, e fu designato insieme a Armellini e ad Aurelio Saliceti come componente del Comitato esecutivo; in tale veste firmò i primi atti della neonata Repubblica. Rimase in carica per circa due mesi, avviando con i colleghi del triumvirato una riorganizzazione amministrativa, con l’abolizione dei privilegi ecclesiastici e un alleggerimento del peso fiscale sulle classi meno abbienti. Incaricato l’8 marzo dell’interim dei ministeri del Commercio e Belle Arti e dei Lavori pubblici, dopo le dimissioni dei titolari Pietro Sterbini e Ignazio Guiccioli dette impulso a una serie di opere pubbliche, dagli scavi al foro Romano, alla riedificazione della basilica di S. Paolo, alla ricostituzione degli acquedotti, all’assetto delle vie urbane.

A fine marzo, dopo la sconfitta inflitta dagli austriaci a Carlo Alberto di Sardegna e mentre si acuiva la pressione politica e militare sulla Repubblica, l’esecutivo fu sciolto in favore di un governo dotato di maggiori poteri e dominato dalla figura di Mazzini. Confermato nella carica di ministro dei Lavori pubblici e del Commercio (e più tardi designato anche come sostituto al ministero della Guerra), Montecchi, dopo avere svolto con successo una missione a Civitavecchia per ottenere il rilascio del battaglione Manara, si adoperò per la difesa della città, provvedendo al rifornimento sia di armi sia di vettovaglie, all’organizzazione igienico-sanitaria e, per quanto possibile sotto il fuoco degli assedianti, alla tutela dei monumenti storici e delle opere d’arte.

Nelle fasi più drammatiche della difesa di Roma, anche la sorella Elena fece la sua parte occupandosi dell’assistenza ai feriti e distribuendo negli ospedali della città ogni genere di soccorsi, come risulta da numerosi rapporti riservati negli archivi di polizia.

Mentre si avvicinava la fine della Repubblica, il Municipio romano, per limitare i danni alla città stremata, condusse un negoziato con i vincitori e stipulò un accordo i cui articoli furono stesi in parte da Montecchi, che subito dopo si dimise da tutte le cariche. Il 4 luglio, mentre i francesi prendevano possesso di Roma, Mazzini, Aurelio Saffi e Montecchi avviavano immediatamente la formazione di un comitato nazionale, soprattutto per tener viva in Italia e all’estero l’idea dell’indipendenza italiana. Al comitato aderirono 60 deputati dell’ex Assemblea costituente romana. Due giorni dopo, munito di un passaporto inglese, Montecchi s’imbarcò a Civitavecchia sul piroscafo «Il Lombardo» diretto a Genova, proseguendo poi per la Svizzera, dove giunse dopo aver superato una serie di ostacoli frapposti dalle autorità del regno sardo. Cominciava così un esilio ventennale.

Dopo una breve sosta a Ginevra, per circa un anno visse a Losanna in una villetta in località Montallegro, dove soggiornarono anche Mazzini e Saffi e dove, nel tentativo di riprendere le fila dell’azione, passarono altri protagonisti della Repubblica Romana e del movimento liberale, come Carlo Pisacane e Maurizio Quadrio. A Losanna si trovava una stamperia italiana, intorno alla quale Montecchi e altri rilanciarono l’attività giornalistica, scrivendo specialmente per L’Italia del Popolo, il giornale fondato da Mazzini e della cui società editrice Montecchi fu amministratore. Egli stesso vi pubblicò diversi articoli sul tema della libertà italiana, ricordando spesso l’entusiasmo che aveva accompagnato i giorni della Repubblica Romana. Fino a quando le pressioni esercitate dall’Austria sul governo svizzero non costrinsero i profughi ad abbandonare il rifugio di Montallegro, il gruppo mantenne una fitta corrispondenza con la patria e con i paesi europei, svolgendo continua opera di propaganda patriottica e repubblicana. Mazzini tornò quindi a Londra, dove lo raggiunsero Montecchi e Saliceti, seguiti da Saffi e Giuseppe Sirtori e poi anche da altri. Nella capitale inglese, l’8 settembre 1850 venne annunziata con un manifesto Agli Italiani la creazione del comitato nazionale italiano, organismo che nelle intenzioni di Mazzini, suo fondatore, doveva realizzare la «più larga unità possibile» (Della Peruta, 1958, p. 182) delle correnti democratiche in vista di una ripresa dell’attività rivoluzionaria: l’ideale rapporto di continuità con l’esperienza della Repubblica Romana era attestato dalla presenza nella direzione, a fianco di Mazzini, di Montecchi, di Saffi e di Saliceti. Le polemiche e le defezioni che accompagnarono i primi mesi di vita del comitato coinvolsero solo in minima parte Montecchi che fu anche collaboratore de L’Italia del Popolo, il giornale che ne riportava in forma ufficiale gli atti. Il distacco da Mazzini avvenne dopo il fallimento del moto milanese del 6 febbraio1853 e la sua svolta politica in senso possibilista provocò aspri risentimenti e polemiche tra i mazziniani romani, alcuni dei quali giunsero ad attribuire a lui l’origine delle misure poliziesche e poi degli arresto di cui erano stati vittime.

Intanto l’esilio londinese di Montecchi proseguiva in condizioni di austera povertà appena temperata dalle amicizie (importante quella con la coppia formata da De Candia e Giulia Grisi, che lo accolsero nella loro casa e a cui fece da segretario) e dall’apertura di uno studio fotografico in società con i fratelli Vincenzo e Leonida Caldesi. Parte dei proventi della ditta furono destinati alla causa nazionale.

Rientrato infine in Italia dopo la guerra del 1859 e la liberazione della Lombardia, Montecchi tentò di riprendere i contatti con gli ambienti della democrazia confluiti nella Società nazionale italiana, ma a Livorno, dove si era recato per rivedere le sorelle, fu arrestato improvvisamente per ordine di Bettino Ricasoli e passò alcuni giorni nelle carceri livornesi e poi fiorentine senza che all’inizio gli fosse notificato il motivo del provvedimento. Seppe poi che era stato accusato di complicità nell’organizzazione di un presunto movimento insurrezionale ispirato da Mazzini. Uscito dal carcere e invitato a lasciare la Toscana, tornò a Londra. Rientrato definitivamente in Italia, nel periodo in cui si preparava l’impresa dei Mille si avvicinò a Luigi Carlo Farini e cercò vanamente di favorire la conciliazione tra Giuseppe La Farina, segretario della Società nazionale, e l’ala estrema del partito garibaldino. Dopo l’annessione delle Marche e dell’Umbria al nuovo Regno d’Italia, ricevette da Farini l’incarico di ispettore delle carceri, e più tardi anche quello di segretario generale delle ferrovie sarde, in cui utilizzò le numerose conoscenze in campo commerciale che si era costruite a Londra. La sua corretta gestione favorì l’acquisto di azioni delle stesse ferrovie da parte di alcuni capitalisti inglesi.

Pur impegnato in questi compiti di amministratore, non smise di occuparsi di politica; dopo aver vissuto per qualche tempo a Cagliari ritornò a Torino per dedicare l’ultima fase della sua vita alla questione che più gli stava a cuore, l’annessione di Roma allo Stato italiano.

Contribuì a fondare il moderato comitato nazionale romano e appoggiò la costituzione di altri comitati nelle diverse città d’Italia, per costituire gruppi di pressione che, oltre a sostenere la causa di Roma capitale, la aiutassero anche economicamente. Tuttavia nel tempo l’attività di Montecchi e la sua tendenza a cercare accordi anche con il papato, in una fase che sembrava favorire la candidatura di Firenze a definitiva capitale d’Italia, provocarono più di una critica. Vi furono dissapori anche con il comitato romano: Montecchi, del quale non erano stati dimenticati i trascorsi mazziniani e che «aveva cominciato, senza caratterizzazione precisa, ad altalenare» tra Destra e Sinistra (Bartoccini, 1971, p. 175), ne giudicò spesso in modo negativo l’azione, e ne fu ricambiato con una forte ostilità perché parve ambigua quella sua volontà di mediare a tutti i costi, mantenendo contatti sia con il governo (con Minghetti, in particolare) sia con le forze più radicali. A metà anni Sessanta restava comunque assai forte la sua centralità in seno all’emigrazione romana stabilita a Firenze.

Schierato politicamente a sinistra, ma su posizioni moderate, nel 1862 Montecchi riuscì eletto alla Camera (VIII legislatura) in rappresentanza del collegio di Poggio Mirteto (nella X legislatura fu eletto a Terni), e si distinse nel 1864 per il voto a favore – con qualche riserva – della Convenzione di settembre. Nella cospirazione per Roma la sua strategia si mantenne costantemente a cavallo tra il metodo legalitario dell’agitazione e quello dell’insurrezione, il primo d’intesa con Filippo Antonio Gualterio e perfino con Vittorio Emanuele II, il secondo in appoggio a Luigi Pianciani, a Garibaldi e ai vari centri dell’emigrazione. Solo Mazzini non volle più avere a che fare con lui. Fu appunto d’accordo con Garibaldi che Montecchi entrò nel Centro d’emigrazione romana fondato a Firenze in vista del tentativo del 1867 concluso con la sconfitta di Mentana. Alla delusione politica si aggiunse per Montecchi nel 1868 il dolore per la perdita dell’amata sorella Elena, che si spense senza che egli avesse avuto la possibilità di rivederla.

Dopo la presa di Porta Pia e l’ingresso delle truppe italiane nella città, Montecchi fu tra i promotori del comizio popolare al Colosseo con il quale il 22 settembre 1870 si tentò di proclamare una Giunta di governo provvisoria, di cui dovevano far parte alcuni tra i repubblicani più accesi. Il generale Raffaele Cadorna sventò l’operazione e creò a sua volta una Giunta di governo presieduta da Michelangelo Caetani. Rimastone fuori, Montecchi dedicò a questa vicenda un breve scritto, La giunta romana e il Comizio popolare del 22 settembre nell’Anfiteatro Flavio (Venezia 1870).

Fu eletto il 13 novembre 1870 al primo consiglio comunale di Roma italiana, ma poco dopo, recatosi a Londra per affari, morì improvvisamente, il 28 febbraio 1871. Riportata in patria, la salma prima di essere tumulata nel cimitero del Verano a Roma ricevette tributi d’onore da parte del governo e della cittadinanza.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Direzione generale di polizia, Archivio segreto, b. 308; Miscellanea di carte politiche e riservate, bb. 124, 133; Luogotenenza generale del re per Roma e le province romane, b. 1; E. Montecchi, M. M. nel Risorgimento italiano, Roma 1932; F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Milano 1958, ad ind.; F. Bartoccini, La «Roma dei Romani», Roma 1971, ad ind.; Dizionario del Risorgimento nazionale, II, s.v. (A.M. Ghisalberti).

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