MAZZEO di Ricco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAZZEO di Ricco

Fortunata Latella

MAZZEO di Ricco. – Nacque nella prima metà del XIII secolo. L’indicazione del suo nome e della provenienza, Messina, proviene dai codici contenenti le sue liriche, ma è rimasta a lungo priva di riscontri documentari; parimenti mancanti gli appigli cronologici al di fuori dell’indizio indirettamente fornito da una canzone di Guittone d’Arezzo, Amor, tant’altamente, inviata a «Mazzeo di Rico» (vv. 89-90), tanto che le proposte di identificazione e di datazione avanzate dagli studiosi a partire dalla fine dell’Ottocento hanno indicato direzioni molto diverse.

Torraca (1894) individuò, seppur tra dubbi, il rimatore nella persona di Matteo de Riso, capitano della flotta messinese al tempo della spedizione di Corradino di Svevia; Zenatti prima (1894) prospettò una possibile connessione con il vecchio Mazzeo, farmacista del re Federico III d’Aragona (II di Sicilia), raffigurato in una novella del Sacchetti, poi (1895) confermò l’esattezza onomastica del casato sulla base dell’attestata esistenza di un altro di Ricco, Filippo; Scandone (1900) suggerì la rettifica del cognome in di Riccio o di Rizzo, documentato nella Sicilia del Duecento; Torraca (1902) riconobbe la precisione della forma tramandata dai codici in quanto garantita dalla rima nel componimento di Guittone; infine Scandone (1903) comprovò con supporti documentari la diffusione del nome di famiglia de Rico o de Ricco nel XIII secolo. Ancora nel 1951 Bertoni riconobbe però l’insussistenza di informazioni dirette sul rimatore. A fare luce sull’identità del poeta intervenne nel 1984 Ciccarelli, che attribuì il giusto valore a due documenti già pubblicati, senza coglierne le implicazioni, da Cagliola nel 1644 e da lui stesso nel 1973-74: si tratta di due atti notarili contenuti nel tabulario di S. Maria di Malfinò e custoditi nell’Archivio di Stato di Palermo. In entrambe le scritture, redatte a Messina il 27 maggio 1252 e nel giugno dello stesso anno, appare la sottoscrizione autografa di M. in qualità di teste («Ego Matheus de Ricco rogatus testor»): il nome è accompagnato dal monogramma rappresentante il pronome Ego e dal signum tabellionatus (cfr. Cannizzaro, p. 49; Ciccarelli, 1986, pp. 47-49, 53-55; La vita culturale, pp. 314 s.); a convalida del ruolo pubblico svolto da M. si pongono altri due documenti, il primo (edito in Ciccarelli, 1986, pp. 121-123), rogato a Messina il 12 nov. 1259, dove tra quelle dei testimoni compare la firma di M. con la qualifica «notarius», il secondo, conservato nell’Archivio arcivescovile di Pisa, stipulato a Messina il 14 apr. 1260 e sottoscritto da M. «regius puplicus Messane notarius» (Virgili, pp. 602 s.; rettifiche in Ciccarelli, 1984, p. 103).

L’attività di M. può situarsi dunque a Messina, dove la sua presenza è continuativamente attestata (ancora nel Trecento la famiglia di M. risulta presente in quella città, dove ricopriva cariche giuridiche) all’inizio della seconda metà del XIII secolo, in pieno accordo con l’indicazione implicita fornita dall’unica fonte letteraria disponibile, ma anche in armonia con la collocazione del rimatore nel canzoniere Vat. lat., 3793 della Bibl. apost. Vaticana, che ne suggerisce l’appartenenza a un circolo poetico tardivo: ad apertura del quinto quaderno, a dimostrazione di una statura di rilievo, e contornato da una serie di autori centro-settentrionali. I suoi contatti con Guittone ne confermano la posizione di ponte tra la tradizione fridericiana e quella continentale e lasciano supporre un ruolo attivo di M. nella trasmissione della poesia siciliana in terra toscana.

La fioritura dell’attività letteraria di M. coincide con il periodo successivo alla morte dell’imperatore Federico II, in Sicilia caratterizzato dalla controversa e turbolenta reggenza per conto di Corrado IV, poi di Corradino e, dal 1258, dal regno di Manfredi.

Messina emergeva come un centro politicamente e culturalmente assai vivace, tanto nell’era fridericiana, che aveva notoriamente saldato in un unico corpo burocrati e intellettuali, sia in quella manfrediana, in cui l’apparato amministrativo era stato rafforzato; l’esistenza di un «laboratorio messinese» all’interno della scuola siciliana, ipotizzata nel 1960 da G. Contini, è stata confermata da indagini più recenti, che hanno anzi decisamente individuato un «nucleo centrale gravitante principalmente intorno a Messina» (Di Girolamo).

M., notaio e quindi esponente di un nucleo sociale in piena ascesa nel Duecento, era in possesso di una conoscenza sia letteraria sia giuridica che aveva reso gli appartenenti all’istituto «i protagonisti della cultura scritta urbana» (Bartoli Langeli, p. 15) e beneficiaria in particolare a Messina, curia di spicco tra quelle siciliane, di un enorme prestigio incrementato ai tempi e per volontà di Federico II.

Il corpus sopravanzato di M., di sei canzoni (Amore, avendo interamente voglia; Lo core inamorato; La benaventurosa inamoranza; Madonna, de lo meo ’namoramento; Sei anni ò travagliato; Lo gran valore e lo pregio amoroso) e un sonetto (Chi conoscesse sì la sua falanza), è tradito, con l’eccezione del sonetto, dal codice Vat. lat. 3793 (generalmente siglato V oppure A), maggior collettore medievale della poesia prestilnovistica, che conserva due unica, Sei anni e Madonna, de lo meo; il manoscritto Rediano 9 (L o B) conservato presso la Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze riporta due liriche, il Banco Rari 217 della Bibl. nazionale di Firenze (P o C) cinque, il Chigiano L.VIII.305 (Ch o D) e il Vat. lat. 3214 (V2 o F) entrambi nella Bibl. apostolica Vaticana, tre; solo una il Magl. VII 1208 (M) della Bibl. nazionale di Firenze e il manoscritto conservato nella Biblioteca universitaria di Valladolid 332 (Vall.), dove il componimento è copiato due volte; un frammento della canzone (i vv. 1-3) Lo gran valore è trasmesso dal manoscritto 14389 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (w).

La tradizione manoscritta non si mostra concorde nell’attribuzione di paternità a M. in tre casi: il primo, rappresentato dalla canzone Gioiosamente canto, assegnata a M. dai canzonieri P, Ch, V2 e a Guido Delle Colonne da V, L e dal cosiddetto Libro siciliano di Barbieri, non ha in realtà sollevato problemi presso gli studiosi, che compattamente indicano l’autore in Delle Colonne per questioni sia ecdotiche sia formali e contenutistiche. Le due restanti canzoni sono accomunate dall’ascrizione anche a due individui senz’altra produzione nota: Amore, avendo a un Ranieri da Palermo (codice P e Poetica di Trissino, mentre V e L la accreditano a M.), Lo gran valore a un Rosso da Messina (P; invece V designa M.). A parte l’inesistenza di riscontri biografici sui due presunti verseggiatori, l’analisi dei due testi non autorizza la sottrazione al corpus di M., in cui anzi entrambi mostrano sotto più rispetti di appartenere: Amore, avendo per motivi stemmatici anzitutto, ma anche per tema, ideologia sottesa e peculiarità formali; Lo gran valore per la presenza di corrispondenze metriche, retoriche ed espressive con la complessiva produzione di Mazzeo.

Nel canzoniere di M. si rivela subito evidente la centralità dell’eros: ben cinque dei suoi componimenti contengono già nell’incipit il termine amore e i suoi derivati, con l’unica eccezione di Sei anni che pone il verbo amare al secondo verso, ma tale uniformità nel soggetto (interrotta soltanto dal tema etico del sonetto, che discetta del vizio di sparlare degli altri senza curarsi dei propri difetti) si declina in una varietà di generi e sottogeneri lirici: alla forma canonica della canzone si affianca il modulo dialogato del contrasto (Lo core inamorato), ove il sentimento si sfaccetta e trova alternativamente espressione nelle voci della donna e dell’uomo; un genere particolare (di probabile mutuazione dalla lirica occitanica) è quello del congedo amoroso su cui M. imbastisce ben due canzoni, Amore, avendo e Sei anni, con le quali si inserisce con contributo consistente in un filone non molto praticato prima di lui. Sebbene quella di ordire commiati poetici dalla donna amata si configurasse, per quanto ci è dato sapere, come una scelta poco praticata, le idee di M. sull’amore sono coerenti col canone etico duecentesco e disegnano un tracciato che, con le cautele d’obbligo, si può definire coerente e teso a organizzarsi in sistema.

Altrettanto compatto risulta il lessico, di cui è segno caratteristico «l’insopprimibile tendenza alla variatio e alla interscambiabilità sinonimica» (Ciccuto, p. 19): l’impiego di costellazioni terminologiche ricorrenti, disseminate facendo ricorso alle diverse forme di ripetizione, risulta essere tratto abbastanza diffuso nel dettato dei Siciliani, ma in M. assume un rilievo particolare per l’insistenza delle accumulazioni; peraltro la propensione alla replicatio si manifesta anche sul versante più tecnico delle testure rimiche, giacché M. attua il richiamo di una stessa terminazione tanto in una o più strofe all’interno del singolo componimento quanto tra le diverse unità del suo canzoniere, che così risulta intessuto di rime – ma anche di rimanti – che continuamente ritornano.

Costante è l’attenzione rivolta alla tradizione lirica provenzale. Oltre ad aver recuperato il sottogenere del comjat, M. fa parte di quel nucleo di poeti siciliani cimentatisi in esercizi traduttori da componimenti trobadorici: Sei anni è infatti trasposizione di Sitot me soi a tart aperceubutz di Folchetto da Marsiglia, Lo core inamorato trapianta ampi spezzoni dal salut Domna, genser que no sai dir di Arnaut de Marueil; le traslazioni sono condotte sul filo del ri-facimento e giustappongono – con una tecnica contaminatoria che alla luce delle più recenti indagini emerge come una prassi corrente nelle metafrasi liriche romanze – segmenti-civetta puntualmente convertiti dai testi modello a rielaborazioni e apporti personali, ad accatti da altre fonti non solo occitaniche ma anche siciliane. Ai due testi rimasti con vistosi debiti rispetto agli esemplari in lingua d’oc va aggiunta una rete di rimandi individuabili in filigrana nel corpus di M. che confermano le conoscenze e le competenze specifiche del rimatore in questo campo. Anche il vocabolario si avvale di una fitta compagine di termini occitanici, oitanici o comunque di conio gallicizzante italianizzati tra cui si registra un numero non trascurabile di parole rare o di attestazione unica nel repertorio lirico siciliano, che testimoniano l’inesausta tensione verso una cifra stilistica individuale e, nei limiti imposti dalle convenzioni, originale.

Quanto alla tradizione siciliana, essa è nel canzoniere di M. rinvenibile in allusioni, parafrasi e citazioni da componimenti dei maggiori poeti della Magna Curia, Giacomo da Lentini in testa, rifusi con l’usuale tecnica combinatoria.

I moduli sillabici delle poesie sono del tipo più diffuso presso i verseggiatori siciliani, una combinazione di endecasillabi e settenari; alcune scelte di M. si rivelano però rare e non sempre facili da realizzare. Ricerca di varietà emerge nella costruzione verticale delle canzoni: il numero di strofe varia da tre a cinque, quello dei versi da 10 a 18, con una propensione per le stanze di 12 versi. Per quanto concerne i collegamenti rimico-strofici, M. si inscrive in quel ristretto gruppo di versificatori adoperanti il modulo delle coblas unissonans (seguito in Sei anni); gli schemi sillabico-rimici sono sempre unici, mentre le formule rimiche fanno registrare in qualche caso delle coincidenze con altri testi. Uno sguardo agli schemi delle sirme conferma l’ipotesi di una ricerca di variazione: nell’ambito di una prevalente polimetria le opzioni vanno dalla sirma tetrastica (Lo gran valore), a quella pentastica (Amore, avendo), a un gruppo più nutrito di sirme esastiche (Lo core; La benaventurosa; Madonna), a quella di otto versi di Sei anni. La successione sillabica invece si rivela abbastanza comune, solo in un caso poco frequentata (Amore, avendo) e in un altro unica (Sei anni, che si profila così interamente inedito sotto il versante formale).

M. godette di largo credito presso i rappresentanti della scuola siculo-toscana, nei cui componimenti sono numerose le citazioni da suoi testi e nei quali in due casi almeno si può osservare un uso estensivo delle riprese: il sonetto di Bonagiunta Orbicciani Chi va cherendo guerra e lassa pace e la canzone Amor, tant’altamente di Guittone, che intrattiene con alcune liriche di M. un indubbio rapporto, da più parti indagato, che emerge a livello di idee e di scelte espressive. Al di là dell’ampiezza dello scambio delineato (e ancora delineabile) dalla rete di agganci intertestuali, innegabile si profila lo statuto di auctoritas del M. nella considerazione di un rappresentante eccellente della cerchia poetica toscana.

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