MAZZONIS

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MAZZONIS

Fabio Levi

– Famiglia di imprenditori tessili attivi nell’area piemontese.

Fondatore dell’impresa fu Paolo (Torino, 1817-27 apr. 1885), figlio di Giovanni Battista, sarto originario di Asti, e Maria Cavallazzi; nel 1845 si associò con i due proprietari del negozio di prodotti tessili in cui aveva lavorato fino ad allora, fondando la società in nome collettivo Gio. Frisetti e comp. Sposata nel 1852 Teresa Bancalari, figlia di un medico di Chiavari (con la quale avrebbe avuto sei figli), nel 1858, con un apporto personale di 160.000 lire e con altre 100.000 del fratello Federico, assunse di fatto il controllo della ditta mutandone la ragione sociale in Fratelli Mazzonis e comp.; dopo due anni decise di acquistare a San Germano Chisone, località a pochi chilometri da Torino, una manifattura di cotone che con i suoi 13.000 fusi dava lavoro a 200 operai.

Gli anni successivi non furono facili per un’industria che operava in un contesto ancora molto arretrato e che si trovò inoltre a dover fronteggiare la grave crisi dell’importazione dei cotoni, prodotta dalla guerra civile americana. Paolo decise a quel punto di impegnarsi con altri imprenditori nella creazione del Comitato industriale torinese, il cui obiettivo era di imporre la revisione del trattato di commercio liberoscambista con la Francia; fu il primo passo sulla via di un’azione che, nel 1877, sarebbe sfociata nella fondazione, insieme con altri imprenditori quali Cantoni e Rossi, dell’Associazione cotoniera italiana e, un anno dopo, nella prima tariffa doganale intesa a proteggere in particolare l’industria dei filati di cotone.

Questo impegno si accompagnò a un forte rilancio dell’azienda attraverso l’acquisto, nel 1875, dello stabilimento di filatura e tessitura di Pralafera, sito lungo il torrente Pellice e attivo sin dal 1833 grazie all’impegno di due banchieri svizzeri – Greinicher e Trog – e di un banchiere locale, Giuseppe Malan: le turbine da 175 cv muovevano in tutto 9500 fusi, 164 telai semplici e 54 doppi. Nel 1880 fu la volta della stamperia di tessuti di Torre Pellice acquisita da Federico Mylius; in tal modo Paolo poteva vantare il possesso di una struttura produttiva a ciclo completo che lo pose ai vertici dell’industria cotoniera piemontese.

Gli impianti di Pralafera e di Torre Pellice, situati in una zona fortemente influenzata dalla cultura valdese, a poca distanza l’uno dall’altro e, dal 1882, collegati a Torino tramite una efficiente linea ferroviaria, divennero ben presto l’asse portante dell’economia dell’area immediatamente circostante e procurarono a Paolo, malgrado egli non fosse originario di quei luoghi, una posizione di assoluta preminenza nella società locale: una società rivelatasi peraltro già da tempo assai favorevole all’insediamento di nuove iniziative economiche grazie all’apertura verso l’Europa del Nord dell’universo valdese e che, su un diverso versante, poteva offrire all’industria il fattivo contributo di una manodopera strettamente legata alla campagna, assai disciplinata e facilmente controllabile. Tanto più che Paolo, insieme con gli stabilimenti, aveva acquisito vasti appezzamenti di terra e soprattutto il pieno controllo delle acque utili, a un tempo, per il funzionamento delle fabbriche e per l’irrigazione dei campi.

Il modus operandi di Paolo si fondava su una sapiente integrazione fra modernità e tradizione: questo sia nelle aziende della Val Pellice sia più in generale nei rapporti con la società torinese, laddove egli, dopo aver comperato per la famiglia, già nel 1870, un palazzo aristocratico del Settecento nella centrale via S. Domenico, si adoperò per ottenere il titolo nobiliare di barone di Pralafera, riuscendovi finalmente nel 1880.

Nel 1885, alla morte di Paolo, le redini dell’azienda e della famiglia passarono nelle mani del figlio Ettore (Torino, 1853 - 15 marzo 1932), sposato dal 1878 con Vittoria Krumm, figlia di un banchiere svizzero trasferitosi in Lombardia. Fra gli eredi del fondatore venne costituita una società in nome collettivo, la Paolo Mazzonis fu G.B.; si ritenne, quindi, di ammodernare la struttura produttiva, cedendo lo stabilimento di San Germano Chisone, distrutto in seguito a un incendio nel 1892, e costruendone uno nuovo, la Bianchina, appena oltre la cinta daziaria del Comune di Torino. In quegli stessi anni vari membri della famiglia M. decisero di investire ingenti somme nell’acquisto di importanti proprietà immobiliari per lo più nelle zone di maggiore espansione edilizia torinese; furono, quindi, stabilite solide alleanze con altre famiglie del mondo imprenditoriale piemontese, in particolare con i Leumann, il cui erede, Ermanno, sposò, nel 1900, Teresa Mazzonis, figlia di Ettore.

L’espansione dei mercati in Italia e all’estero consentiva, intanto, all’azienda di accrescere produzione e profitti, utili, oltre che a garantire un costante flusso di autofinanziamento, come era nella tradizione della ditta, a sviluppare redditizi intrecci azionari con i Leumann e con altri imprenditori del settore tessile, nell’intento di creare un gruppo in grado di fronteggiare quello concorrente degli Abegg e dei Wild. L’apertura al mercato dei capitali portò, inoltre, nel 1905, alla trasformazione della ditta in società per azioni.

L’evoluzione dell’impresa non seguì, comunque, uno sviluppo lineare; nel corso degli anni si dovette fare fronte, tra l’altro, alle vaste agitazioni operaie verificatesi tra il 1905 e il 1907, cui Ettore reagì con durezza, mantenendo la gestione tipicamente paternalistica già pienamente consolidata nelle fabbriche della Val Pellice. Le conseguenze della grave crisi bancaria, e più in generale economica, del 1907 – per i cotonieri un vero «anno della follia» –, furono aggravate per i M. da un vasto incendio nella stamperia di Torre Pellice; pesò duramente nell’ambito più strettamente familiare anche il procedimento di interdizione avviato nel 1915 a carico di Ermanno Leumann, che aveva sperperato ingenti somme del patrimonio comune.

Negli anni fra guerra e dopoguerra l’azienda continuò a produrre, seguendo l’andamento oscillante dei mercati e sfruttando, per quanto possibile, le occasioni offerte dalle differenti linee politiche dei vari governi, senza, però, rinnovare significativamente gli impianti e dovendo subire i contraccolpi esterni, nonché quelli nati da varie iniziative prese nell’ambito di un gruppo familiare ormai troppo numeroso.

Nel gennaio 1920 la Mazzonis fu la prima fabbrica italiana a essere occupata e gestita direttamente dagli operai in seguito a una grave vertenza sindacale. Nel 1922 Cesare, fratello di Ettore, decise di recedere dalla società provocando una grave emorragia di capitali. Nel 1929 Paolo, figlio di Ettore, impegnato da tempo in politica, fu espulso dal Partito nazionale fascista (PNF) per non aver voluto riconoscere i sindacati fascisti nella sua azienda, mettendo così in crisi le relazioni del gruppo Mazzonis con il potere locale. Nel 1933, a un anno dalla morte del padre, lo stesso Paolo lasciò l’azienda già duramente provata dalla crisi economica, tanto che, nel 1939, a conferma di un drastico ridimensionamento delle aspettative per il futuro, si decise di rinunciare alla società per azioni e di tornare alla forma della società in nome collettivo.

Raccolse la successione alla guida dell’impresa Giovanni (Torino, 29 giugno 1888 - 26 giugno 1969), figlio di Ernesto – un fratello di Ettore – e di Amalia Ajello, sposato dal 1919 con una cugina prima, Paola, figlia di Cesare.

Giovanni riuscì a fronteggiare le difficoltà causate dalla guerra e, soprattutto, seppe cogliere le occasioni che la riapertura dei mercati, dopo il 1945, offrì in particolare all’industria tessile italiana, uscita dal conflitto in condizioni tali da potersi rimettere subito al lavoro. Vicino alle idee del Partito liberale italiano (PLI), egli seppe anche conquistare una posizione di rilievo nell’ambito del mondo imprenditoriale nazionale, contribuendo alla rinascita dell’Associazione cotoniera italiana, di cui divenne, e rimase per molti anni, vicepresidente, e partecipando attivamente alla vita della Confederazione generale dell’industria italiana (Confindustria); inoltre accettò, per la prima volta nella storia della sua azienda, di riconoscere come legittima la controparte sindacale, senza peraltro rinunciare a posizioni di estrema fermezza, per esempio in occasione degli scioperi del 1947.

Il rinnovamento, tuttavia, non aveva investito direttamente la gestione del cotonificio, i cui macchinari non erano stati rinnovati da decenni e dunque risultavano sempre più inadeguati a reggere la concorrenza delle produzioni estere, mentre il rapporto con la manodopera rimaneva improntato a un paternalismo tradizionalista. Di fatto una lenta erosione, frutto di una mentalità imprenditoriale incapace di adeguarsi all’evolversi dei tempi, stava scalzando progressivamente i vecchi equilibri, diventando il più grave fattore di crisi per l’azienda Mazzonis. Anche lo stretto legame fra ditta e famiglia finì per tradursi in un ulteriore motivo di difficoltà, quando nel 1954 Luigi, fratello di Giovanni, decise di lasciare la società sottraendo risorse che avrebbero, forse, consentito alcune ristrutturazioni necessarie per tentare un rilancio.

Nei primi anni Sessanta, quando i bilanci cominciarono a mostrare crepe sempre più consistenti, la situazione era oramai definitivamente compromessa e, nel 1965, si giunse alla liquidazione e alla chiusura degli impianti.

Sviluppatesi lungo l’arco di più di un secolo, le vicende dell’azienda avevano percorso l’intera parabola dell’industria cotoniera piemontese e nazionale: dalla metà del XIX secolo, periodo in cui questa si propose come uno dei fattori propulsivi del processo di trasformazione dell’economia, fino agli anni Sessanta del Novecento, quando il «miracolo economico» decretò la definitiva obsolescenza degli impianti di filatura, tessitura e stampa del cotone in Italia, per l’incapacità dimostrata nell’innovare metodi di gestione e obiettivi imprenditoriali. Nello specifico ambito dell’impresa dei M. analoghi effetti ebbe anche lo strettissimo legame dell’azienda e dei suoi proprietari con le vicende della Val Pellice: mentre in una prima fase il controllo quasi assoluto dell’economia locale rappresentò un indiscutibile punto di forza dell’azienda, con il passare degli anni questo si tramutò in un ulteriore fattore di chiusura e di isolamento destinato a bloccare ogni istanza di cambiamento.

Fonti e Bibl.: Si vedano in particolare: F. Levi, L’idea del buon padre. Il lento declino di un’industria famigliare, Torino 1984 e W. Careglio, Quando il telaio scricchiola, Pinerolo 1999 che offrono un quadro esauriente delle fonti disponibili sull’argomento, al centro delle quali si pone l’Archivio Mazzonis, conservato presso l’Arch. di Stato di Torino.