MEDIOEVO

Enciclopedia Italiana (1934)

MEDIOEVO

Giorgio FALCO
Angelo MONTEVERDI

. Il concetto di Medioevo, cioè di un periodo storico compreso fra l'antichità e l'età contemporanea, nasce tra il Quattro e il Cinquecento nelle grandi crisi dell'età conciliare, del Rinascimento, della Riforma, ed esprime la coscienza di un rinnovamento politico, religioso, culturale. Il primo scritto, per quanto si sa, nel quale s'incontra l'espressione media tempestas in questo significato è per l'appunto l'elogio di Niccolò da Cusa, composto nel 1469 da Giovanni dei Bussi, vescovo d'Aleria, e dopo d'allora espressioni analoghe: media aetas, media antiqu̇itas, sempre ancora senza un contenuto storico e limiti cronologici determinati, vengono usate ripetutamente. Si deve al Rinascimento artistico e letterario d'aver caratterizzato l'età di mezzo in maniera generica come negazione della bellezza e del sapere; al protestantesimo di aver aggravato la condanna, di averla accentrata nel fatto religioso e concepito, tra la fine della Chiesa primitiva e le tesi di Lutero circa un millennio di progressiva corruzione ecclesiastica; al fecondo moto di cultura dei secoli XVIe XVII di aver approfondito il significato del trapasso dal Medioevo all'età moderna. Frutto di queste lunghe e molteplici esperienze è la Historia medii aevi, pubblicata nel 1688 da Cristoforo Cellario, la prima vera e propria storia medievale, nella quale il principio del periodo è segnato a un tempo dalle invasioni, dalla rovina delle lettere, delle arti, della vita civile, della retta dottrina, la sua fine dalla caduta di Costantinopoli, dall'Umanesimo e dal Rinascimento, dalla restaurazione della fede, dalle grandi scoperte e invenzioni.

Erede, in base ai principî di ragione e di natura, della condanna pronunciata dal protestantesimo, l'illuminismo tende, per le sue propensioni cosmopolitiche, a dissolvere lo schema periodico nella storia universale o mediterranea, per la sua incomprensione religiosa, a svuotare il Medioevo dal suo specifico significato; ma è spinto contemporaneamente dai suoi potenti interessi a indagare usi, costumi, istituzioni, a scoprire tutto il processo di dissoluzione dell'universalismo medievale, cioè la formazione dello stato, della società, dell'economia moderna. Attraverso la crisi illuministica, che manifesta a più segni l'insoddisfazione della concezione tradizionale, e l'esigenza di un'interpretazione nuova, il pensiero storiografico giunge infine col romanticismo cattolico a scoprire l'unità europea e il positivo valore politico-religioso del Medioevo.

Per quanto preziosa sia stata l'opera svolta nel secolo scorso e nei primi del Novecento dall'erudizione filologica del positivismo e dalla storiografia d'indirizzo economico-giuridico per la conoscenza e la valutazione del nostro periodo, alla fondamentale visione dello storicismo cattolico dobbiamo tuttavia rifarci oggi se vogliamo discernere quali siano l'organicità e il fondamentale significato del Medioevo. Sotto l'aspetto dello svolgimento futuro, i primi tre secoli dell'impero e le persecuzioni sono sostanzialmente il conflitto fra due principî inconciliabili: da un lato l'assolutismo imperiale e il paganesimo politico, dall'altro il cristianesimo, che rispetta l'ordine costituito, ma ne sovverte le basi in virtù di una verità trascendente e dell'impero sulla coscienza, ne svaluta il contenuto e l'azione trasferendo di là dalla vita il significato della vita. Quando Costantino proclama la libertà del culto cristiano, quando Teodosio riconosce il cristianesimo come religione di stato e perseguita il paganesimo, per essi l'impero dichiara il suo fallimento, cioè il trionfo dell'energia rivoluzionaria su una tradizione ormai scossa, priva di fede, stremata di forze. Quel trionfo imposta un problema politico e religioso unico nella storia del mondo, il problema nel quale consiste il Medioevo, cioè la coesistenza di due universalità, che vantano ciascuna un proprio e diverso titolo al governo del mondo: il sacerdozio, depositario di una verità trascendente, che è condotto di necessità a imprimere la sua disciplina e il suo magistero su tutta la vita terrena; l'impero terreno, che in tanto è legittimo, in tanto risponde alla coscienza contemporanea, in quanto ne rappresenta le più profonde esigenze; la Chiesa che opera nel mondo e sul mondo, e si fa mondana, lo Stato a cui è affidata una missione religiosa.

Il problema viene risolto in modo diverso in Occidente e in Oriente, nei due mondi dei quali l'uno ha trasfuso in Roma la sua civiltà, l'altro e stato incivilito da Roma. La fondazione di Costantinopoli, quali ne siano i motivi, e la divisione amministrativa dell'impero dopo la morte di Teodosio accennano a una differenza sostanziale di cultura, a esigenze diverse, a un distacco, sia pure lentissimo, che le successive vicende renderanno sempre più profondo e decisivo. La fede nell'impero ultimo e universale potrà sopravvivere, potranno continuare per secoli relazioni commerciali e diplomatiche, risorgere d'ora in ora, dall'una o dall'altra parte, pretese di riconquista e di restaurazione, ma l'unità del mondo mediterraneo sarà di fatto spezzata. Bisanzio, fedele in certa maniera al modello classico, crea la sua chiesa e l'incorpora stabilmente nello stato, ha i suoi nemici - Persiani, Arabi, Turchi, Latini - esercita la sua missione culturale sugli Slavi, custodisce il patrimonio dell'antica civiltà, vigorosa propaggine di romanità e di ellenismo, ne porta innanzi per dieci secoli la tradizione, finché, mutilata ed esausta, è alla fine travolta dalla potenza ottomana. L'Occidente, in virtù dell'impronta civile di Roma, del primato ecclesiastico romano, degli stanziamenti e delle conversioni di Germani, Normanni,Ungari e Slavi, cioè del loro assorbimento nella romanità, dà origine ad una storia profondamente diversa per vivacità, originalità, continuità di sviluppi. Vaghe analogie di problemi politico-religiosi presenta l'impero arabo, che entra terzo nella competizione per il dominio del Mediterraneo e minaccia di sommergere i due antagonisti. Ma si tratta di un elemento estraneo in origine alla romanità e all'ellenismo, di una religione a base giudaico-cristiana e tuttavia priva di principî sacramentali, di una conquista armata nazionale e religiosa, la cui formazione e dissoluzione non può né per i suoi modi, né per i termini cronologici, né per l'ambito territoriale, unificarsi o comporsi organicamente con la storia degli altri due imperi, latino e bizantino.

La tentazione, così forte ancor oggi, di abbracciare in un unico quadro le vicende dei tre imperi, riposa su una lunghissima tradizione storiografica fondata sulle loro effettive relazioni, e, più, sull'universalismo imperiale romano da un lato, cristiano dall'altro. Ma una siffatta storia globale - universale di nome, in realtà essenzialmente mediterranea - risulta dalla giustapposizione e dall'intreccio di fatti privi di organica unità e non ha titolo per essere chiamata Medioevo. In tanto è legittimo parlare di Medioevo, non nel senso di un vuoto, di una lacerazione nel tessuto storico, ma di una vera età intermedia fra l'antica e la moderna, erede dell'una, madre dell'altra, distinta da esse per propri limiti e caratteri, accentrata per il proprio, sostanziale significato, in una determinata coscienza di Stato e di Chiesa, in quanto s'intenda per essa la storia della fondazione d'Europa su base cristiana e romana, della formazione e della dissociazione del cattolicismo europeo.

Il mondo classico lascia in eredità all'Occidente, oltre al patrimonio degli ordinamenti civili, cioè delle leggi e delle armi, delle città, dei monumenti pubblici, delle grandi vie di comunicazione, dei processi di produzione e di scambio - patrimonio destinato a subire profonde alterazioni, ma a sopravvivere e a rivivere - l'erudizione, la tecnica della lingua e dello stile, i modelli della letteratura e dell'arte, la speculazione platonica e neoplatonica che alimenterà il pensiero di Sant'Agostino e di Boezio, e, per essi, insieme con le dottrine aristoteliche, il pensiero dell'intero Medioevo, infine un senso d'impero e di avilitas, d'universalità politica, civile, e umana che durerà trasfuso e trasfigurato nella nuova coscienza politica e religiosa. La tradizione romana è accolta, conservata, rinnovata essenzialmente dalla Chiesa, che ne afferma su diversi principî l'universalità, esprime l'esigenza del governo cristiano del mondo, opera con le arti e le armi di Roma la sua conquista spirituale.

La Rivelazione, la coscienza sacramentale, cristiana e romana, sono il carattere unico, la sostanza del Medioevo. Col che s'intende naturalmente esprimere il significato del periodo, non pronunciare su di esso un giudizio di pubblica o privata moralità in confronto dell'evo antico e dell'evo moderno. A questo credo vanno riferiti tutti i grandi momenti della storia medievale: l'espansione e la formazione d'Europa su nuove basi, le lotte delle potestà universali, le guerre di conquista e di difesa contro Arabi, Turchi, Bizantini, il processo finale di differenziazione e dissociazione della repubblica cristiana. A questo fondamento religioso vanno ricondotti tutti i grandi caratteri del periodo: la filosofia che è una teologia, il mondo sensibile considerato come specchio della Verità trascendente, le lettere e le arti destinate ad esaltare la fede, l'incessante richiamo all'ordine e alla purezza in mezzo all'anarchia e alla corruzione, il germogliare perenne delle profezie escatologiche e apocalittiche, la sorte degli uomini e dei popoli sulla terra concepita come un dramma umano e divino, che trae luce e valore dalla Provvidenza, dal peccato, dalla Redenzione, dal Giudizio.

Argomenti di varia natura possono essere opposti a questa individuazione positiva, storicistica del Medioevo: l'analogia con altri assetti politico-religiosi - come il sacerdozio e la monarchia ebraica, l'Atene di Socrate, il califfato - in cui la classe sacerdotale esercita un impero sulle coscienze e un potere politico, in nome di Dio o degli dei patrî; la mancanza di una vera politica e di una vera cultura; il carattere di staticità e di uniformità che viene al periodo dagl'incessanti conflitti fra potestà laica e potestà ecclesiastica, dalle ripetute affermazioni di primato e di supremazia fatte in ogni tempo dalla Chiesa con uguale fermezza e con diversa fortuna. Ma le obiezioni sono più apparenti che reali. Le vaghe analogie nulla dicono contro l'individualità del Medioevo, dato che essa e i problemi che le sono propri risiedono non in un regime e in una fede qual si voglia, ma concretamente nel cattolicismo e nella repubblica cristiana, nel loro carattere universale, nelle speranze e nelle promesse su cui è fondato tutto l'edificio religioso. Se l'età di mezzo è stata ed è spesso anche oggi considerata come un iato, una negazione politica e culturale, ciò dipende unicamente dal fatto ch'essa non corrisponde al concetto moderno di stato e di cultura, ed equivale in certo modo a riconoscere indirettamente la sua impronta unitaria, soprastatale e soprannazionale, trascendente, cristiana e cattolica. Effettivamente difficile riesce rintracciare nelle affermazioni teocratiche uno svolgimento storico, assegnar loro il valore di un programma che sarà alla fine compiuto, ma ciò appunto perché esse trascendono più che non precorrano i tempi, com'è trascendente il principio che anima la Chiesa e la coscienza contemporanea. Per ciò che riguarda infine l'uniformità antagonistica delle relazioni fra il potere temporale e lo spirituale, converrà non prendere in blocco, ma vedere quale significato abbiano di volta in volta i conflitti, quale sia l'individualità dei singoli momenti in cui si suole tradizionalmente dividere la storia medievale.

Il primo grande momento è la progressiva fusione di vincitori e vinti nell'orbita della romanità e del cattolicismo, la formazione di un'Europa cattolica e la sua espansione di là dalla Manica e dal Reno. Contribuiscono potentemente a questo processo religioso unitario il prestigio, la saggezza civile, l'apostolato della Chiesa, il suo spirito d'indipendenza contro Bizantini e Longobardi, la forza e la fede dei Franchi, la minaccia islamica. L'incoronazione di Carlomagno, comunque l'atto vada giudicato nelle sue contingenze, è il segno che nella coscienza contemporanea l'unità è compitita; la consacrazione per mano del pontefice, che l'impero è investito di una missione religiosa. Propagatori del Vangelo sono ì missionarî di Roma o i soldati di Carlo; lo splendore letterario della sua corte è per gran parte un germoglio di cultu̇ra monastica irlandese; vescovati e monasteri diventano i centri più cospicui di attività politica, culturale ed economica. Ma l'unità ha un che di superficiale e di occasionale, è più una consapevolezza religiosa, un'aspirazione della società colta, una pratica di governo, che non una profonda realtà di tutta l'Europa carolingia. La quale appare sotto altro aspetto come un assetto un po' provvisorio di vincitori e di vinti, un aggregato di popoli con proprie leggi sotto un regime personale, una società elementare di milizia feudale, di cultura ecclesiastica, di lavoro servile.

Si continua a credere o a sperare nel governo cristiano del mondo anche quando l'impero è irrimediabilmente caduto; illusione tanto più vivamente secondata dalla Chiesa in quanto essa non può concepire legittimamente altro regime e vede in quello la condizione necessaria per il compimento del suo ministero. In realtà il tessuto sociale si viene rinnovando dal profondo con un lento processo organico. Protagoniste della nuova età sono le aristocrazie militari promosse dalle guerre dei Pipinidi, che si radicano alla terra e distendono su tutta l'Europa l'immensa, intricatissima rete feudale. Fatte pure le dovute riserve sulla persistente vitalità economica e culturale delle antiche città romane, sulle navi venete, pugliesi, campane che battono le vie dell'Oriente, dominano in ogni dove il particolarismo, la commistione di pubblico e di privato, di laico e di ecclesiastico. Possono servire di simbolo a questa età il giudizio di Dio e la guerra privata, la chiesa privata, la nomina e l'investitura laica, la cellula economica della curtis. Di comune nell'universale frazionamento non rimane che la pratica del culto, la fede nell'istituto carismatico della Chiesa; le sole voci elevate sul tumulto degl'interessi individuali e territoriali sono le dottrine politiche di Agobardo di Lione, di Wala di Corbie, di Floro di Lione, di Valafrido Strabone, di Amalario, di Incmaro, che, comunque risolvano il problema delle relazioni fra i due poteri, tengono fermo al compito unitario del reggimento cristiano; sono le affermazioni teocratiche del Costituto di Costantino e delle decretali pseudo-isidoriane, del papato stesso che, nel disfacimento della monarchia carolingia, è chiamato con Niccolò I a farsi giudice ed arbitro supremo fra i potentati dell'Occidente.

Nel torbido travaglio dei secoli IX e X un duplice processo si viene svolgendo nella società europea: da un lato di gerarchia feudale che mette capo alle monarchie di Francia e di Germania, dall'altro di gerarchia ecclesiastica che mira sempre più decisamente a Roma. I due moti, animati dall'ideale cristiano, rispondenti all'esigenza comune di superare il disordine civile e la corruzione morale del feudalesimo, sono destinati ad incontrarsi. I Sassoni liberano il papato dalle fazioni locali e riassumono con Ottone III la missione religiosa dell'impero.

Si tratta, dalla restaurazione alla metà del sec. XI, di creazione nuova in un'Europa ben diversa da quella di Carlomagno. Non più i vecchi confini né la minaccia delle invasioni: Arabi e Bizantini cominciano ad arretrare in Spagna e in Italia; Inghilterra, Boemia, Polonia, Ungheria sono ormai incluse nell'orbita europea. Non più capitolari, ma leggi; non più conti, vescovi, abati, missi dominici, ufficiali personali del principe, ma feudalità laica ereditaria, chiesa nazionale di vescovi-conti, corpo e fondamento dello stato. Se l'impero mirava ancora al governo cristiano del mondo o almeno dell'Occidente, in realtà non abbracciava che le corone d'Italía, di Germania, di Borgogna. Fuori del nucleo e del nesso italo-germanico, s'erano formati stabili organismi politici, fra i quali incominciava a primeggiare il reame di Francia. Classi nuove, germogliate dalla formazione gerarchica dello stato feudale, scosse da un torbido fermento di odî, di ambizioni, di energie, si affacciavano alla scena della storia: i cavalieri francesi, i ministeriali tedeschi, i valvassori italiani, le cittadinanze dell'immunità vescovile, gli agricoltori svincolati dalla servitù.

A volgersi indietro, fatte pure le debite riserve ed eccezioni, nel mondo della cultura tutto pare uniforme, gli animi sembrano presi da un unico grande problema, la salvezza e la dannazione, come una è la lingua degli scrittori, quella della Chiesa. Trivio e quadrivio, destinati a scopi devoti, sono un patrimonio morto, che cresce di volume, non di valore, una tradizione scolastica e libraria, piuttosto che una tradizione di pensiero. La natura è un riposto simbolismo della fede, che s'interpreta sull'autorità della Bibbia e dei Padri. La poesia parla di terrori e di trionfi religiosi, la storia, del dramma del mondo, umano e divino ad un tempo, in cui Dio interviene direttamente, attore e giudice fra gli uomini. Essi operano, giudicano, godono, soffrono, ma l'azione e la passione individuale si arrestano davanti alla maestà della sapienza e della fede. La stessa immagine umana tende nella figurazione artistica a perdere importanza, ad essere subordinata ai motivi di ornamentazione floreale. I disordini interni e i pericoli esterni tagliano i nervi, restringono l'ambito delle intraprese economiche. Ora a guardarsi intorno, fra il sec. X e l'XI, si sente che c'è qualcosa di nuovo, una vita che germina e rompe la scorza: c'è la curiosità scientifica del mago Gerberto e la bassa vivace umanità del vescovo Liutprando, c'è la polemica razionalistica di Berengario e di Lanfranco, qualche nitido ricordo classico di eroica vita civile, il primo balbettio dei volgari che affiorano nelle scritture, vi sono le architetture romaniche e le rappresentazioni cavalleresche del duomo di Modena, e v'è infine l'ampio respiro della riscossa e della conquista dacché gli Arabi sono stati snidati dal Garigliano e da Frassineto.

L'istanza di riforma, di tregua di Dio, soprattutto di libertà ecclesiastica contro la chiesa territoriale e privata, ch'era stata posta dai teorici dell'età carolingia, poi da Raterio di Liegi, da Attone di Vercelli, da Odone di Cluny, dagli eremiti come San Romualdo e San Nilo, dagli stessi maggiori potentati laici nell'interesse dello stato nascente, ch'era stata soddisfatta con la mutua restaurazione di papato e d'impero, viene ora riaffermata, contro l'impero stesso, dal papato rifatto ormai conscio della sua missione universale.

E scoppia la lotta delle investiture, ch'è la crisi del Medioevo, cioè del governo cristiano, unitario dell'Occidente. Si trovano di fronte libertà e gerarchia ecclesiastica da una parte, feudalesimo e chiesa territoriale dall'altra. L'impero, lo stato medievale in genere, forte di una tradizione di secoli, tien fermo al suo diritto storico e all'unità; la Chiesa, dopo aver cristianizzato e romanizzato tutta Europa, dopo aver penetrato tutta la società ed esserne stata in certo modo assorbita, solleva contro la potestà laica l'esigenza tremendamente rivoluzionaria della libertà e della teocrazia, e può nel tempo stesso affermare in buona fede per bocca di Gregorio VII che non intende innovare, ma semplicemente restaurare l'antica norma.

L'unità è spezzata, la coscienza etico-politica è divisa: clero e laicato, districatì l'uno dall'altro, tendono a costituire due mondi distinti, ciascuno con proprie ragioni, con interessi e scopi particolari.

Le due vie delle potestà universali divergono. La Chiesa prosegue attraverso lotte angosciose la sua parabola ascendente fino alla sommità teocratica d'Innocenzo III, maestra di leggi, modello sempre più perfetto di costituzione gerarchica e di organizzazione finanziaria, moderatrice nei momenti migliori della politica europea, alta signora feudale, di nome o di fatto, di gran parte della più recente Europa periferica, animatrice e condottiera delle cittadinanze italiane nella lotta per la riforma, della cavalleria francese alla conquista dell'Oriente. Il vecchio tronco rigermoglia prodigiosamente, secondo le esigenze dei tempi, negli ordini religioso-militari per la difesa e l'evangelizzazione armata, negli ordini mendicanti per l'estirpazione dell'eresia, la predicazione fra le classi nuove del popolo, le missioni. Ma v'è in questa grandezza e vivacità qualcosa d'illusorio e di contraddittorio. Se l'edificio politico - teocratico e feudale - della Chiesa appare per il momento una possente realtà, le sue fondamenta sono a poco a poco distrutte da una nuova coscienza di Stato e di Chiesa.

Roma aveva trionfato a capo dei crociati, ma aveva aiutato con ciò stesso i suoi antagonisti, i re, a consolidare contro il feudalesimo la monarchia; s'era valsa delle cittadinanze per combattere vescovi e imperatori ribelli, e aveva promosso energie destinate alla fine a sfruttare più che a servire la Chiesa, a sovvertirne più che a rafforzarne le basi terrene.

Dopo la chiesa feudale e la gerarchica, di fronte al saldo organismo del clero secolare e regolare, la nuova milizia degli ordini minori, uscita dal popolo e destinata ad operare tra il popolo, esprime la religiosità un po' torbida, il fermento della società onde son nati. A prescindere dall'eresia, arnaldista o valdese, lo stesso rifiorire di speranze apocalittiche nella profezia di Gioacchino da Fiore, l'imitazione di Cristo di San Francesco sono un'elevazione sopra le lotte politiche, un germe che, attraverso l'interpretazione gioachimitica della leggenda francescana e la controversia minoritica della povertà, metterà capo alle dottrine politiche di Marsilio da Padova, di Guglielmo Occam, di Giovanni Wycliffe.

L'impero dall'altro lato combatte e si difende, ma ormai non lavora più per sé. Privato, per così dire, della sua sostanza religiosa, esso riscopre l'altro suo titolo al dominio universale, il diritto romano, e ripara, sotto la sua egida, in un'assoluta sovranità, non derivata da Dio, non vincolata alla Chiesa, ma fondata su titoli giuridici, sorta dalla terra e dall'uomo. Questa la ragione essenziale per cui potevano i nemici ravvisare in Federico II l'anticristo, in quanto cioè vedevano in lui il primo esempio del sovrano moderno, laico e anti-ecclesiastico, che tradiva la coscienza religiosa medievale e derivava da sé stesso la propria autorità. Se non che le ragioni storiche donde era sorto l'assolutismo di Roma, non trovano ormai più alcuna rispondenza nel mondo contemporaneo e il principio nuovo di sovranità assoluta enunciato dal diritto imperiale, anziché legittimare l'impero, viene incontro alle esigenze politiche dei potentati territoriali in lotta contro i due poteri supremi. L'universalismo d'impero potrà continuare a vivere in una vana tradizione nostalgica; in realtà nel sec. XIII, non solo è finito l'assetto unitario del governo cristiano d'Europa, ma entro i confini, ormai ristretti, dell'impero, nuovi organismi politici, i comuni, acquistano l'autonomia e tendono, di fatto, all'indipendenza e alla sovranità; di là dai confini gli stati particolari affermano più nettamente una propria vita, difendono i proprî interessi, stringono alleanze, manifestano tendenze e antagonismi, che segnano i primi lineamenti del futuro sistema politico europeo: Inghilterra contro Francia, Aragona verso Italia. La Germania stessa, guelfa o ghibellina, entra alla pari nelle competizioni francesi e inglesi. Se l'impero è ancora il protagonista di un'Europa che muore, il primato della nuova Europa è ormai della Francia, che ha consolidato la monarchia, preso decisamente il sopravvento sull'Inghilterra, stretto alleanza con Roma, e al servizio di Roma illuminato l'Occidente con le scuole di Chartres e l'università di Parigi. La guerra che si combatte di qua e di là dalla Manica, il comune d'Italia che grandeggia con la sua politica e la sua economia, la monarchia livellatrice che fonda la giustizia regia, chiama il terzo stato a parte della costituzione, si crea i suoi ministri, la sua burocrazia, l'esercito, la finanza, - sono altrettanti aspetti e momenti dell'edificio feudale che cede al nascente stato moderno.

L'intera vita europea dalla lotta delle investiture al sec. XIII riflette in qualche modo questa progressiva dissociazione della coscienza politica e della coscienza religiosa; in tutte le grandi manifestazioni della cultura si avverte sempre più chiaro un procedimento analogo dal trascendente all'immanente, dal divino all'umano, dall'universale al particolare. All'agostinismo platonizzante sottentra l'aristotelismo; la natura, non più allegoria dell'eterna Verità, diventa oggetto d'indagine scientifica; ragione e fede, fuse e confuse per secoli, si distinguono l'una dall'altra, prima alleate e poi nemiche. Le stilizzate figurazioni bizantine si animano di realismo, mentre corti, fiere, ritrovi cittadini, si allietano di canti d'amore, di novelle, d'avventure cavalleresche nei nuovi idiomi latini di Provenza, d'Italia, di Francia. La borghesia mercantile, soprattutto italiana, batte per terra e per mare le vie d'Europa, d'Africa e d'Asia; l'agricoltura rifiorente, l'economia nuova del denaro e degli scambî, l'attività edilizia, le complesse relazioni personali, ritrovano nella legge di Roma la norma giuridica del vivere civile.

Il conflitto di Bonifacio VIII con Francia e Inghilterra, la lotta di Ludovico il Bavaro contro la Chiesa, lo scisma e l'età conciliare sono i grandi momenti attraverso i quali si compie il processo della dissoluzione del Medioevo e si forma, con la nuova coscienza politica e religiosa, la nuova configurazione dell'Europa moderna. La Santa Sede con Innocenzo IV, Gregorio X, Niccolò III, Bonifacio VIII, ha ormai domato l'impero e appare al mondo contemporaneo, talvolta ai suoi stessi fautori, più che il grande istituto carismatico, come istituto temporale di chiese e di monasteri, come il più formidabile organismo giuridico, politico e fiscale, che esercita, di fatto, un potere supremo su tutti gli stati. La bolla Unam Sanctam raccoglie una tradizione ormai plurisecolare, che viene riecheggiata da Egidio Romano, da Giacomo da Viterbo, da Agostino Trionfo, da Egidio Spirituale di Perugia, da Alvaro Pelagio. Ma la teocrazia, impoverita della sua anima religiosa, abbassata a strumento di fiscalità e di governo temporale, era ormai un anacronismo, un edificio privato delle fondamenta, in quanto rappresentava la temporalità di un ideale di universalità e di trascendenza che non aveva più radice nella coscienza contemporanea. Il grande trionfo sull'impero era stato, in certo modo, il principio della rovina, il venir meno della base materiale su cui poggiava quella supremazia spirituale, il frantumarsi della concezione unitaria, divina e umana, della cristiana repubblica.

Anche sulle sorti e sulla gloria dell'impero v'è in Germania chì s'illude e si esalta: Guglielmo di Osnabrück, Alessandro di Roes; ma non sfugge l'irrimediabile rovina a Lupoldo di Bebenburg, a Corrado di Megenberg. Accanto al concetto d'impero si viene delineando sempre più nettamente quello di regno, di stato territoriale, nazionale, germanico; cagioni e risultati della lotta contro la Santa Sede o della devozione verso di essa, sono, per l'imperatore come per i principi elettori, l'ingrandimento dinastico, l'indipendenza, più che non la supremazia.

In Italia, mentre sulla base del comune s'instaura la signoria regionale con tendenza livellatrice di assolutismo e di democrazia, Chiesa e Impero sopravvivono nei poeti, nei veggenti, nei teorici al servizio imperiale; ma qui pure con novità di motivi, di problemi, di soluzioni. La Chiesa è quella di cui si condannano la troppa esperienza giuridica, l'avarizia, le ambizioni mondane, di cui, dietro lo spiritualismo gioachimitico, s'invoca quasi disperatamente la provvidenziale purificazione. L'impero indipendente, superiore nel temporale alla Chiesa, è garanzia terrena di pace, di giustizia, di libertà; suo fondamento, la sovranità popolare che si esprime nell'antica sede per suffragio dei Romani. Al governo ideale del mondo presiede quindi un sentimento moderno, nazionale, italiano e latino; la romanità stessa incomincia ad apparire come un modello che dev'essere tradotto nella pratica della vita civile, nella politica nell'arte, nella filosofia.

Vero è che la battaglia decisiva per la fondazione dello stato e dell'Europa moderna non si combatte né in Germania, né in Italia. Come si è visto, assai prima che Colombo salpasse alla scoperta del Nuovo Mondo, il centro della politica europea si era venuto trasferendo verso Occidente, cioè sia verso l'Inghilterra, sia, soprattutto, verso la Francia. Nei due regni per l'appunto si elaborano con la maggiore energia e libertà la dottrina e la pratica dello stato moderno. Il comune, irreconciliabile nemico è la Chiesa. In nessun altro paese poteva destare più violenta ostilità la sua ingerenza fiscale e politica, che in Francia e in Inghilterra, dove l'autorità papale veniva ormai a urtare contro una coscienza di stato e di nazione, formatasi attraverso la tradizione dinastica, l'accentramento monarchico, e guerre e sacrifici senza tregua. Quali si siano i fondamenti della speculazione dottrinale e della polemica pubblicistica, il principato temporale non è più divino ministero, vincolo di fedeltà fra gli uomini, ma dominio, giurisdizione da un lato, sudditanza, servitù dall'altra; lo stato non nasce dall'alto, dall'esigenza religiosa di mettere in pratica fra gli uomini la legge di Dio, ma dagli uomini stessi, volontaristicamente, per il bisogno di assicurare a ciascuno il suo e di garantire la pacifica convivenza. A fronte di Chiesa e d'Impero si costruisce lo stato sovrano, che nelle cose temporali non riconosce alcun potere superiore a sé stesso. Negl'intralci politici, nelle sempre rinascenti necessità finanziarie, si lavora con energia all'abolizione del privilegio ecclesiastico, alla costituzione di una chiesa nazionale, gallicana, anglicana, subordinata, meglio, incorporata nello stato. Il popolo delle città, la borghesia, si affianca alla nobiltà e al clero nella lotta, per la monarchia nazionale e nella tutela dei proprî interessi economici di fronte alla monarchia stessa; il parlamento nei suoi tre ordini esprime a un tempo l'affermazione della sovranità popolare e la formazione dell'unità nazionale intorno alla dinastia. Dalla nuova coscienza politica s'affaccia anche a pensatori più o meno utopistici la visione di una nuova costituzione europea, di una respublica Christicolarum, confederazione di stati sovrani, ove l'impero non è più, e l'unico pontefice potrebbe forse, senza danno, essere sostituito da altrettanti pontefici quante sono le chiese nazionali.

L'argomento più scottante, posto innanzi dalla potestà laica con tanto maggiore insistenza, quanto più s'inaspriva la lotta contro la Santa Sede e la condanna delle sue pretese temporali, era il problema se e a chi spettasse procedere contro il papa eretico; l'arma più insidiosa foggiata dalla polemica era l'invocazione al concilio, istituto anch'esso parlamentare, manifestazione di sovranità popolare, che avrebbe dovuto sanare i mali ond'era afflitta la Chiesa. Per uno dei suoi grandi aspetti, lo scisma nasce dall'ambizione delusa di una Francia egemone in Europa, dal conflitto tra cattolicismo e chiesa nazionale; i concilî ove la questione fu agitata, furono le assise della nuova Europa di nazioni e di stati nazionali, la rassegna dell'aristocrazia intellettuale laica ed ecclesiastica, che, alleata dei re o loro nemica, era stata la protagonista nel promuovere, interpretare, illuminare il travaglio della coscienza contemporanea. Il risultato fu, per il momento, una restaurazione del cattolicismo monarchico, limitata dalla dichiarazione della superiorità del concilio, dall'obbligo della riforma e della cooperazione conciliare, dalla soluzione di compromesso dei concordati nazionali. In realtà la Chiesa usciva più profondamente ferita dalla lunga crisi dei secoli XIV e XV; non solo perché la reformatio insistentemente richiesta era un'esigenza ormai ineluttabile e nel tempo stesso un compito di quasi insuperabile difficoltà; ma perché da più parti, Marsilio, Occam, Vycliffe, Hus, su diversi principî, era stato mosso l'attacco contro il primato, la gerarchia, l'istituto stesso sacramentale della Chiesa, era stata affermata una religiosità personale che si richiamava direttamente alla parola delle Scritture, alla Grazia e alla Predestinazione senza mediazione ecclesiastica.

Il Medioevo era così tramontato. L'universalismo, triplice e uno, religioso politico culturale, dopo aver mitigato l'impeto delle invasioni, allargato i confini dell'Occidente, contenuto e avviato a più civili ordinamenti l'anarchico particolarismo feudale, era andato perduto nel mondo stesso ch'esso aveva creato, e dal fondo comune di un'Europa ormai cristiana e romana, erano emerse, sempre meglio differenziate, le individualità nazionali di stato, di fede, di cultura.

Nel disfarsi dell'unità, nuovi problemi, diversi di natura e di luogo, erano posti dall'istanza di una religione individuale e dalla pregiudiziale teologica contro la Chiesa di Roma, dalla formazione di un sistema di grandi monarchie accentrate e sovrane, dal concentramento e dall'organizzazione delle attività economiche, dalla rivalutazione dell'uomo e della natura nella cultura accademica nella letteratura, nell'arte, nella politica, dalla riscoperta del mondo classico, come modello di vita e di bellezza.

Bibl.: Sulla storia del concetto di Medioevo vedi G. Falco, La polemica sul Medioevo, Torino 1933; id., Medioevo e periodo storico, in La Nuova Italia, III (1932), p. 249 segg.; A. Monteverdi, Medioevo, in La Cultura, VI (1927), p. 385 segg.; L. Sorrento, Medioevo, il termine e il concetto, Milano 1931. Sulla coscienza politica e religiosa: H. Eicken, Geschichte und System der mittelalterlichen Weltanschauung, Stoccarda e Berlino 1923; A. Dempf, Die Hauptform der mittelalterlichen Weltanschauung, Monaco 1925; id., Die Ethik des Mittelalters, Monaco 1927; id., Sacrum imperium, Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Monaco 1929, con bibliografia delle fonti; R. W. e A. J. Carlyle, A history of medieval political theory in the West, Edimburgo e Londra 1923. Sulla pubblicistica medievale: A. Solmi, Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlomagno fino al concordato di Worms, Modena 1901; K. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregor VII., Lipsia 1894; F. Scaduto, Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della Lotta delle Investiture alla morte di Ludovico il Bavaro, Firenze 1882; R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philips des Schönen und Bonifaz VIII., in Kirchenrechtliche Abhandlungen dello Stutz, fasc. 5-8, Stoccarda 1903; A. C. Flick, The decline of the medieval Church, Londra 1930; F. Ercole, Dal Comune al Principato, Firenze 1929; id., Da Bartolo all'Althusio, ivi 1932. Sulla tradizione romana nel Medioevo: D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Firenze 1896; A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino 1882; F. Schneider, Rom und Romgedanke im Mittelalter, Monaco 1926; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Lipsia e Berlino 1929. Sulle relazioni fra Chiesa e cultura: G. Schnürer, Kirche und Kultur im Mittelalter, Paderborn 1927-1929. Sulla filosofia medievale: E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze 1932, con larghi rimandi bibliografici. Sui moti ereticali, specie sul gioachimismo: A. Dempf, Sacrum imperium cit.; G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Firenze 1922; E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore, Roma 1931; K. Burdach e P. Piur, Briefwechsel des Cola di Rienzo, Berlino 1912-1929. Sul problema dell'umanesimo: I. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1927; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933; Monnier, Le "Quattrocento", Parigi 1912; L. Venturi, Il gusto dei primitivi, Bologna 1926; G. Toffanin, Che cosa fu l'Umanesimo, Firenze 1929. Sull'economia: Dopsch, Verfassung- und Wirtshacftsgeschichte des Mittelalters und der Neuzeit, I, Monaco-Berlino 1928; A. Segre, Manuale di storia del commercio, I, Torino 1913. Sulla cultura medievale in genere (società, usi, costumi, mezzi e modi di vita): G. Grupp, Kulturgeschichte des Mittelalters, Paderborn 1908-1925; J. Bühler, Die Kultur d. Mittelalters, Lipsia 1931; Dresdner, Sitten- und Kulturgeschichte der italienischen Geistlichkeit im 10, und 11. Jahrhundert, Breslavia 1890. Sulla storia del Medioevo in genere si veda la bibliografia alla voce europa, XIV, p. 645.

Cultura.

La cultura greco-romana, nell'ora in cui i barbari si apprestavano a rovesciarsi sul mondo civile, era oramai ben lontana dalla grandezza antica. Indebolita dalla lunga e grave crisi politica economica e morale che l'impero aveva attraversato nel secolo III, impoverita dalla rivoluzione libraria che, sostituendo il codice al "volume" proprio in quei tempi di diminuito interesse storico, artistico e scientifico, aveva trascurato la trascrizione e procurato quindi la perdita di un gran numero di opere spesso importanti, era una cultura ormai stanca, che alle indagini e alle meditazioni originali preferiva le compilazioni erudite, e plaudiva a libri che, come quello famoso di Marziano Capella, si studiavano di compendiare entro classificazioni semplificatrici il sapere antico. Era tuttavia una cultura rispettabile, consapevole delle sue nobili tradizioni, degna di sopravvivere all'urto d'ogni forza nemica.

Nemici non le furono tutti, e sempre e di deliberato proposito, i barbari. I Goti per esempio, che i lunghi rapporti con l'impero avevano reso più sensibili all'influsso dei costumi e delle idee che vi dominavano, favorirono in Italia con re Teodorico le arti e le lettere. E per lunghi anni il romano Cassiodoro, ministro dei primi re goti, poté sperar di salvare l'antica civiltà mediante una purtroppo utopistica conciliazione e collaborazione dei due popoli. Ma anche i Longobardi che, cresciuti affatto in disparte dal mondo civile, portarono in Italia tante rovine, e tanti mali inflissero ai Romani, smisero con l'andare del tempo la loro ferocia, s'accostarono alla nostra cultura; e fu dal loro seno che uscì alla fine un Paolo Diacono. Se non che, anche quando si mostrarono meglio disposti, i barbari produssero a ogni modo un abbassamento generale della cultura, poiché, mentre nulla vi apportarono di originale, vennero a occupare, essi incolti e incuriosi per lo più di scienza, i posti di direzione e di responsabilità politica e sociale, e respinsero i Romani verso uno stato di soggezione e di povertà, dove la vita intellettuale era destinata a intristire. Così, poco dopo la calata dei barbari, nelle diverse provincie dell'impero le scuole pubbliche si chiusero e l'istruzione del laicato rovinò.

Depositario della cultura rimase il clero. Ma tra i più auiorevoli rappresentanti del pensiero cristiano non mancarono, né prima né poi, opposte tendenze. La conquista delle classi intellettuali era stata possibile al cristianesimo grazie all'assimilazione della cultura greco-romana. La letteratura cristiana dei primi secoli s'era modellata sulla letteratura pagana, ne aveva assunto le forme, ne aveva usato i procedimenti, vi aveva adattato il nuovo suo spirito. Nello stesso tempo il cristianesimo non aveva perduto di vista le classi umili, quelle che avevano costituito la prima irresistibile sua forza; ed è caratteristico di molti autori cristiani il tentativo di adattare concetto ed espressione alla capacità del popolo incolto, ciò che costituì un abbassamento non involontario del livello intellettuale. D'altra parte le esigenze stesse della lotta contro la relígione avversa spingevano i cristiani, in nome del loro Dio, imperscrutabile verità e infallibile bontà, a proclamare e condannare la vanità della scienza profana, l'indegnità dell'arte pagana. Ma quando l'imperatore Giuliano, appunto per questa loro opinione, li aveva esclusi dall'insegnamento, essi avevano levato le più fiere proteste, sentendo tutta l'utilità, per un illuminato sviluppo dell'idea cristiana, d'un'avveduta educazione classica. Il divieto di Giuliano ebbe breve durata; ma persistette in seno al cristianesimo un grave contrasto di tendenze: chi mirava a conservare gelosamente e chi lasciava disperdere senza rimpianti l'eredità della cultura antica; gli uni temevano l'avanzare dell'ignoranza, gli altri l'insidia dell'errore pagano. E quando, con l'avvento dei barbari, con l'immiserimento del laicato romano, con la scomparsa delle scuole pubbliche, il superstite patrimonio intellettuale non restò più affidato che al clero, fu chiaro che il prevalere della tendenza antintellettualistica avrebbe inflitto alla cultura irreparabili danni. Fu allora che intervenne in modo decisivo un uomo, che aveva già cercato, senza riuscirvi, di volgere a profitto della civiltà l'elemento barbarico: Cassiodoro. Con la fondazione del monastero del Vivario, e con la regola che v'impose a sé stesso e agli altri, egli diede un esempio che, fortunatamente raccolto dalla maggior parte delle comunità religiose dell'Occidente, fu fecondo di gran bene. Alla regola benedettina, che imponeva con la preghiera il lavoro, Cassiodoro nulla aggiunse, ma specificò che nel lavoro dovesse essere compreso anche lo studio; e quale dovesse essere lo studio mostrò nelle sue Institutiones, che sono nello stesso tempo una specie di manuale enciclopedico e di guida bibliografica. La posterità vi trovò le nozioni essenziali di tutte le scienze sacre e profane (queste ultime classificate secondo il canone settenario divulgato da Marziano Capella), e per ciascuna scienza l'indicazione delle fonti di studio, autori e opere, a cui si doveva ricorrere direttamente. Grazie a questi suggerimenti, e grazie soprattutto al fatto che tra i compiti manuali da lui prescritti ai monaci ci fu quello della trascrizione dei libri, Cassiodoro riuscì a salvare una parte cospicua dell'antica letteratura latina. Certo avvenne che, nel corso dei secoli, quando vi fu penuria di pergamena, i monaci addetti all'opera di trascrizione raschiassero scritti classici e vi sostituissero scritti religiosi di assai minore importanza (e si ebbero così i palinsesti, sacri alla gioia e alla gloria degli scopritori moderni); ma se i maggiori e migliori autori profani, non esclusi i più spregiudicati pagani, non andarono perduti, è merito principale di Cassiodoro e di coloro che vollero e seppero seguire il suo insegnamento. Non per questo la tendenza antintellettualistica cedette le armi, anzi durò a lungo; e parve talora in questo o in quel luogo prendere il sopravvento. Essa si poteva far forte di certe gravi parole pronunziate da un uomo per altri lati altamente benemerito della civiltà latina: Gregorio Magno.

Quel che nessuno riuscì a salvare in Occidente fu il tesoro dell'esperienza greca, consegnato in quella mirabile letteratura, che per tanti secoli aveva illuminato la via agli autori romani. Ma la conoscenza del greco s'era fatta poi rara, s'andò anzi via via perdendo, onde sarebbe stata necessaria un'intelligente e sistematica opera di traduzione, che venne invece a mancare. Vi pensò Boezio che aveva concepito, tra l'altro, il piano grandioso di tradurre in latino, con appropriati commenti, tutte le opere di Aristotele e di Platone; ma il suo tragico destino non gli permise di attuare che una piccola parte di quel programma. Ma a quel poco che Boezio ebbe il tempo di tradurre l'Occidente fu debitore di tutto, o di quasi tutto quel che conobbe, sino al secolo XII, della scienza e della filosofia greca. Di tutta l'altra letteratura greca, massime della poesia, non seppe presso che nulla.

Strumento unico della cultura in Occidente rimase la lingua latina. Ma il latino letterario, così come l'avevano costituito i grandi poeti e prosatori, sino a Cicerone e Virgilio, così come l'avevano mantenuto i loro successori, pagani e cristiani, per cinque altri secoli, era una lingua a cui mal corrispondeva oramai il latino parlato nelle diverse regioni del distrutto impero: era una lingua che, per essere letta e scritta, doveva essere metodicamente imparata. Si comprende perciò come, proprio sulla soglia del Medioevo, si trovasse qualcuno a fornire come una codificazione: Prisciano. Le sue Institutiones rimasero, insieme con le più antiche e anche più fortunate Artes di Donato, il fondamento, non sempre e non da tutti convenientemente usato, della latinità medievale. Ma quel che è notevole è che, bene o male, e ad onta dello svilupparsi e dell'affinarsi delle diverse lingue volgari (non tutte derivate dal latino, alcune anzi straniere), alla latinità per lunghi secoli concordemente si tenesse fede. Ed è questo il primo e più appariscente segno di quell'unità e di quella universalità che sono caratteristiche della cultura occidentale del Medioevo.

Eredità dell'impero; ma, venuto meno l'impero, fu la Chiesa romana che seppe assicurare quell'unità, sostanziare quell'universalità. Provvidenziale, a tal fine, l'opera di Gregorio Magno. Per la sua illuminata volontà si riaffermò in tutta la cristianità occidentale la preminenza del pontefice romano, e Roma poté divenire la sede di un nuovo impero spirituale. E fu impero di mirabile coesione: unica la fede, unica la dottrina, unica l'autorità. E poiché lo strumento di quell'autorità, il clero, era rimasto, come s'è detto, il solo depositario della cultura ed era destinato a essere per lunghi secoli il solo produttore della nuova letteratura, era naturale che vi imprimesse fortemente il suggello della sua fede e della sua dottrina. Così la teologia viene a collocarsi al centro della cultura e della letteratura medievale: l'esposizione dei dogmi, l'interpretazione e il commento dei libri sacri, l'apologia della fede, la predicazione, l'istituzione dei sacerdoti, l'edificazione dei fedeli, la narrazione dei miracoli, degli esempî, delle vite dei santi attirano il principale interesse ed esercitano la maggiore attività dei dotti medievali. Ma anche quando si occupano d'altre materie si lasciano dirigere da criterî teologici. E se trattano di storia, volgono volentieri lo sguardo alla storia ecclesiastica, amano spesso inquadrare gli avvenimenti in cronache universali che si rifanno dalle origini del mondo, trascurano in genere l'elemento personale, accettano facilmente l'elemento soprannaturale, quasi rinunciano a ogni critica, onde leggende e perfino romanzi passano presso di loro come storia. E se s'applicano allo studio dei testi classici, si sforzano di trarne un'interpretazione allegorica, che li avvicini alle concezioni cristiane. E se tentano le scienze, è solo, o quasi solo, in quanto esse possano servire a intenti religiogi. Ma ogni vera curiosità scientifica s'affievolisce, e le arti del quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia, musica), come pure la medicina e il diritto, devono aspettare lunghi secoli prima di ritrovare cultori e indagatori originali. Maggior interesse destano le arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica), come quelle che insegnano a intendere i testi sacri e profani, a comporre ogni genere di scrittura, a ragionare dei problemi che occupano tutte le menti. Certo i dotti del Medioevo non disdegnano la poesia; e verrà tempo che ardiranno anche coltivarla liberi da preoccupazioni estranee; ma in genere la piegano a scopi didattici, e mettono in versi grammatica e medicina, scienze umane e scienze divine, storia sacra e storia profana, quando non preferiscono la satira morale e l'invettiva politica, l'enimma istruttivo, l'epigramma concettoso, l'elogio o il compianto edificante. La liturgia li invita a spiegare le loro facoltà poetiche nella composizione degl'inni; e l'innografia arricchisce la versificazione latina di nuove forme, si scioglie dalle regole della metrica per abbracciare i principî della ritmica, accoglie l'ornamento della rima; e alletta a ricalcar le sue orme la lirica profana, che, fievole dapprincipio, avrà solo più tardi un forte e pieno sviluppo.

Tale, nel suo complesso, la cultura medievale. Cultura latina: anche perché il latino per forza di cose era diventato, ed era destinato a rimanere in perpetuo, la lingua ufficiale della Chiesa romana, la lingua sacra dei suoi riti. Cultura cattolica: e apparve con comuni caratteri, superiore a ogni differenza nazionale, presso tutti i popoli cattolici, si propagò uniforme sino ai limiti estremi a cui giunse, di conquista in conquista, il cattolicismo. Il quale, infatti, non rimase la fede dei soli Romani. Come aveva conquistato i Franchi in Gallia, così sotto gli auspici di S. Gregorio compì la conquista dei Visigoti in Spagna e iniziò quella dei Longobardi in Italia, degli Anglosassoni in Britannia. Gli Scoti d'Irlanda s'erano già prima convertiti. Si convertiranno più tardi, grazie alla parola di Bonifazio e alla spada di Carlomagno, i Sassoni della Germania. Poi sarà la volta degli Slavi d'occidente, degli Ungari, degli Scandinavi. Ogni conquista del cattolicismo è una conquista della latinità. La cultura latina, sia pure impoverita e trasformata per le cause che sono state accennate, si estende in vaste e lontane regioni, oltre i confini a cui l'aveva arrestata la capacità militare e amministrativa dell'antico impero. Vero è ch'ebbe pure a subire qualche perdita: Bisanzio le sottrasse tutto l'Oriente latino e per un certo tempo anche alcune parti d'Italia; gli Arabi vennero poi a toglierle l'Africa e temporaneamente anche la Spagna. Ma ciò nonostante il suo territorio fu e rimase in ogni tempo immenso.

Età barbarica. - Certo i focolari vivi della cultura latina si trovarono diversamente distribuiti, né furono sempre, in tanti secoli, gli stessi. Il più vivo fu dapprincipio l'Italia. Ivi operarono nella prima metà del sec. VI Boezio e Cassiodoro. Il primo, oltre all'opera di volgarizzazione del pensiero greco, legò ai posteri, morendo, l'alta testimonianza morale che si racchiude nella sua Consolatio philosophiae. Il secondo, oltre che al suo famoso manuale enciclopedico e a qualche altro trattato, raccomandò la sua memoria alla raccolta delle sue preziose ed esemplari epistole. Scrisse anche un'importante Historia gothica, ma non ne resta che il compendio compilato con fedeltà di pensiero dal goto Giordane. Intorno a loro retori e poeti, che attestano una certa varietà e intensità di vita letteraria: Ennodio, Massimiano, Aratore. Invece, verso la fine del secolo, una sola personalità: S. Gregorio. Il grande pontefice fu nello stesso tempo un grande scrittore, anche se ostentò talora di spregiare l'esercizio delle lettere. Certo egli impresse a tutti i suoi scritti (alle omelie come alle epistole, al suo grande commento morale del libro di Giobbe come alla sua grande raccolta dialogica d'esempî e di miracoli) un carattere austero e severo, che li impose per lunghi secoli alla meditazione e all'imitazione dei devoti. Dopo la sua morte l'Italia parve colta da sterilità. Roma, certo, rimase il maggior mercato di libri di tutto l'Occidente, e vi si lavorava a rifar le riserve, a cui attingevano clienti dalle terre più lontane; intanto vi duravano in onore le scuole fondate da Gregorio Magno; ma la vita letteraria vi fu per due secoli poco meno che nulla. E nulla fu nelle terre dominate dai Bizantini. In quelle invase dai Longobardi, dopo i primi tempi di terrore, par di notare, di sui pochi documenti che sopravvissero dei secoli VII e VIII (leggi, cronache, ritmi), insieme con la gravità dei danni sofferti dalla cultura latina, una crescente volontà di ripararli. Centri di studî furono i monasteri: quelli che i Longobardi lasciarono fondare a missionarî stranieri (Bobbio), o che più tardi fondarono essi stessi (Civate, Nonantola), o che, distrutti nel primo furore dell'invasione, fecero poi risorgere e protessero (Farfa, Montecassino). Ma una scuola sorse infine nella stessa reggia di Pavia; e vi crebbe Paolo Diacono. Così si preparò nell'Italia longobarda quel risveglio intellettuale di cui ebbe a suo tempo a giovarsi Carlomagno.

Altra fu la sorte d'una provincia, che parve a principio del sec. VI gareggiare con l'Italia in attività letteraria, l'Africa. Vi fiorì tutta una schiera d'abili verseggiatori (e sia ricordato Draconzio), vi operò il mitografo Fulgenzio, vi si educò il grammatico Prisciano. Ma il dominio bizantino, succeduto al vandalico, e celebrato epicamente al suo inizio dal poeta Corippo, non fu propizio alle lettere latine. Presto esse tacquero; e il silenzio durava oramai da un secolo, quando sopravvenne l'invasione araba.

Non fu la stessa situazione che gli Arabi trovarono in Spagna, quando a sua volta l'invasero al principio del sec. VIII. Il dominio visigotico, sfavorevole dapprima allo sviluppo della cultura latina, l'aveva rimessa in onore dal giorno in cui i Visigoti s'erano convertiti al cattolicismo. Si vide allora anche un re letterato, Sisebuto. Ma la cultura rimase in genere monopolio del clero; e il clero spagnolo, divenuto potente, seppe degnamente raccogliere l'insegnamento di Cassiodoro. Nessuno l'intese meglio d'Isidoro di Siviglia, che nella sua molteplice attività letteraria cercò di coordinare e di divulgare il maggior numero di cognizioni ch'era ancor possibile estrarre dai libri superstiti dell'antichità. Notevoli i suoi trattati scientifici e i suoi compendî storici; ma l'opera sua maggiore, la vasta e ricca enciclopedia fallacemente intitolata Etymologiae, ebbe per la cultura medievale un'importanza immensa. Né Isidoro fu solo. Né sola fu Siviglia a ospitare in Spagna gli studi; rivaleggiarono con lei Saragozza e Toledo; e fra i molti dotti che vi fiorirono meritano almeno d'essere ricordati i toledani Eugenio e Giuliano, abile poeta il primo, eccellente storico e insigne grammatico il secondo. Di tali uomini s'illustrò nel sec. VII la Spagna; ma la sopraggiunta occupazione araba vi fece declinare la cultura latina. Questa anzi parve dapprima totalmente distrutta: in realtà sopravvisse, e se ne videro segni sul finire del sec. VIII e sin nel sec. IX. Poi più nulla, e bisognò che la dominazione araba, splendida ai suoi bei tempi d'una diversa civiltà, si ritirasse, perché i cristiani spagnoli si rieducassero alla civiltà degli antichi loro padri.

Baluardo dell'Occidente contro l'espansione araba fu il regno franco. Ma i Franchi, che pure furono i primi tra i barbari ad accettare il cattolicismo, e tanto sentirono la forza della tradizione romana da immaginare la favola delle loro origini troiane, lasciarono cadere la Gallia, ricca un tempo di floride scuole e di celebri autori, in una pietosa miseria intellettuale. Se il sec. VI vide ancora fiorire al suo inizio, ma in terra di Burgundî, il teologo e poeta Alcimo Avito, e se pur vide fiorire alla fine, tra gli stessi Franchi, ma venuto d'Italia, il poeta Venanzio Fortunato, fu tuttavia assai scarso d'ingegni paesani. E il più insigne, Gregorio di Tours, notò appunto intorno a sé il decadere degli studî, il mancare degli scrittori. E lamentò, non senza ragione, anche la propria imperizia, quantunque la sua Historia Francorum sia opera d'indiscusso pregio. Ma dopo di lui le cose precipitano, ad onta di tutte le vanterie di quel bizzarro grammatico tolosano che si volle celare sotto l'ambizioso pseudonimo di Virgilio Marone. Le cronache, le leggende, le epistole, i ritmi che la Francia dei secoli VII e VIII ci ha lasciato, attestano nello sconnesso balbettar del linguaggio lo stato miserando della cultura latina. Degna letteratura d'un clero, che non sapeva più ripetere correttamente, testimone S. Bonifazio, neanche le più comuni formule sacramentali.

Miglior rifugio trovò la cultura latina nelle Isole Britanniche. L'Irlanda, estranea all'impero, imparò l'idioma di Roma solo con l'evangelo di Cristo. La nuova fede vi suscitò gran fervore. Sorsero in breve e crebbero dappertutto i monasteri: massimo fra tutti quello di Bangor, centro intenso e fecondo di vita religiosa e nello stesso tempo di vita intellettuale. Se non che l'Irlanda parve presto troppo ristretto campo allo zelo dei suoi figli. Missionarî irlandesi si sparsero in quei secoli per tutto l'Occidente. E il più illustre fu quel Colombano che, uscito da Bangor verso la fine del sec. VI, andò a fondare in Francia Luxeuil, poi, più tardi, lasciato un socio nelle Alpi a fondare San Gallo, scese in Italia e vi fece sorgere Bobbio. Tre monasteri: tre monumenti della pietà irlandese, che furono, in terre e in tempi infelici, tre mirabili baluardi della cultura latina. Ivi l'insegnamento di Colombano, che, dotto autore di versi e di prose, mirava a unire allo studio delle lettere sacre lo studio delle lettere profane, diede eccellenti frutti. E così fu nelle altre fondazioni irlandesi sparse sul continente.

La Britannia, nei secoli in cui aveva appartenuto all'impero, era rimasta presso che estranea alla sua vita intellettuale. Il primo autore latino vi sorse nel sec. VI, quand'era già da tempo cessato il dominio imperiale; e fu il monaco bretone Gilda, che visse per vedere e per narrare la rovina del suo popolo. Gli Angli e i Sassoni, che occuparono allora la maggior parte dell'isola, erano pagani e barbari. Bisognò che a gara missionarî irlandesi e romani lavorassero a diffondere tra loro il cristianesimo, perché l'Inghilterra ricevesse il beneficio della cultura latina. L'impresa fu condotta a termine dagl'inviati papali Adriano e Teodoro, apostoli a un tempo e maestri. Fu loro discepolo, a Canterbury, il primo insigne scrittore anglosassone, Aldelmo, teologo e grammatico, autore di versi e di prose attestanti vaste letture. Alla scuola di questo principe abate imparò l'esercizio delle lettere un re, Etelvaldo. Ma la cultura latina, più che delle regge, si compiacque, anche in Inghilterra, delle chiese e dei chiostri. Di lì partivano gl'infaticati pellegrini che andavano a Roma a cercare, non pur reliquie, ma libri; e tanti ne accumulò in ripetuti viaggi Benedetto Biscopo, il fondatore dei monasteri gemelli di Wearmouth e Jarrow, che la sua biblioteca valse ad alimentare il sapere di Beda. Fu questi uno degli uomini più benemeriti della cultura medievale: un altro Isidoro, di conoscenze forse meno vaste, ma forse più profonde. Dotato di raro senso storico, le sue storie, e specialmente quella generale della Chiesa e dei regni anglosassoni, sono ancor oggi preziose; ma i suoi molti trattati letterarî e scientifici ebbero allora una importanza anche più grande, e rimasero per lunghi secoli fondamentali. Diversa fu l'attività di un altro dotto anglosassone, Bonifazio. Scrittore pregevole, in prosa e in verso, egli fu soprattutto un impareggiabile maestro ed apostolo. È da lui che comincia la storia nuova della Germania, iniziata da lui al cristianesimo, preparata da lui ai benefici della cultura latina. Vi andò a predicare e ad insegnare egli stesso, si trasse dietro gran numero di collaboratori, fondò con loro vescovati e abbazie che furono insieme anche scuole (esempio illustre il chiostro di Fulda). Quel ch'egli seminò non fiorì che più tardi; e passò tempo prima che la Germania partecipasse alla vita intellettuale dell'Occidente; ma intanto la mirabile attività di Bonifazio provò la forza espansiva della cultura anglosassone. Nuova prova ne diede poco dopo l'alunno della chiesa di York, Alcuino, uno dei personaggi più rappresentativi di quel grande movimento intellettuale, che caratterizza un nuovo periodo storico: il periodo del risorgimento carolino.

Età imperiale cattolica. - Carlomagno, restauratore dell'impero, volle anche e seppe attuare una restaurazione della cultura latina. E poiché il suo regno ereditario era incapace di fornirgli gli strumenti necessarî alla grande impresa, egli s'affrettò a procurarseli altrove. L'Italia, strappata ai Longobardi, gli offrì prima adatti maestri. E furono Pietro da Pisa, diligente grammatico, Paolino d'Aquileia, dotto teologo e geniale poeta, più tardi Paolo Diacono, grave storiografo ed esperto filologo, oltre che eletto artefice di versi. Uomini cresciuti in quel rinnovamento di vita intellettuale che caratterizza il periodo estremo del dominio longobardo, essi portarono nel regno franco una miglior conoscenza della lingua e delle lettere latine, una maggior coscienza dei problemi storici e religiosi. Paolo con le sue storie di Romani, di Franchi, di Longobardi, con le sue edizioni, i suoi florilegi, i suoi commenti, i suoi compendi d'opere antiche e recenti, sacre e profane, fornì un esempio fecondo, anche se poco egli si trȧttenne alla corte di Aquisgrana, preferendole il ritiro studioso di Montecassino. Più direttamente operarono entro l'ambiente franco Pietro e Paolino, ma anch'essi ritornarono a finir la loro vita in Italia, e ad Aquileia Paolino compì il più e il meglio della sua opera letteraria.

Un altro paese, l'Inghilterra, aveva intanto offerto a Carlomagno l'uomo che meglio poteva servire i suoi intenti: Alcuino. Erede della bella tradizione culturale anglosassone, già maturo d'anni e ricco di dottrina e di esperienza, all'appello di Carlomagno egli trasportò la sua azione dal breve cerchio della scuola di York nel campo immensamente più vasto della rinnovata monarchia franca. Vi trovò già un'opera iniziata: la volontà del re, le cure dei dotti italiani stavano dirozzando la corte, sollecitando le energie del clero; ma i risultati sarebbero stati scarsi ed effimeri senza l'intervento di Alcuino. Con la sua mirabile capacità organizzatrice, in vent'anni d'indefesso lavoro, egli seppe convertire in realtà le aspirazioni di Carlomagno. Diresse la scuola regia, e ne fece un insuperato focolare di cultura, intorno al quale nacque e crebbe una specie di accademia letteraria, fiduciosa di rinnovare le glorie dei tempi classici. Studiò tutte le questioni religiose e culturali del regno, suggerì al re le leggi destinate a riformare l'istruzione del clero e gli uomini, vescovi e abati, adatti ad applicarle, vegliò a che costoro, nelle loro chiese e nei loro monasteri, aprissero scuole, raccogliessero libri, facessero emendare e trascrivere testi, favorissero l'attività letteraria e scientifica dei chierici e dei monaci, curassero perfino il dirozzamento dei laici. A tutti questi collaboratori, sparsi per le terre dell'impero, fu largo d'aiuto e di consiglio; e si tenne costantemente in rapporto con le più alte autorità politiche ed ecclesiastiche di tutto il mondo latino. La sua produzione letteraria, scrivesse egli in prosa o in verso, s'occupasse di teologia o di morale, commentasse la Sacra Scrittura o narrasse vite di santi, trattasse di lettere o di scienze, non fu molto originale; ma rivela vaste conoscenze e ottime attitudini didattiche. Alcuino infatti fu anzitutto un maestro; e fu sul suo insegnamento, consacrato nei suoi manuali, che si fondò, direttamente o indirettamente, in tutto l'Occidente, l'insegnamento delle sette arti, allora primamente distinte nel "trivio" e nel "quadrivio".

Altri Anglosassoni parteciparono con Alcuino, in Francia, a quel poderoso rinnovamento degli studî e delle lettere; e vi parteciparono con loro, e con gl'Italiani, anche parecchi Irlandesi, Dungalo e altri, nonché alcuni Spagnoli, fra cui il miglior poeta forse della corte carolina, Teodolfo. Agl'insigni maestri venuti d'oltremonte e d'oltremare non potevano mancare di far onore gli scolari franchi. Sorsero infatti presto fra loro scrittori valenti; e sono degni di ricordo i poeti Modoino e Angilberto, e quell'Eginardo che parve, nella sua celebre vita di Carlomagno, restaurare le forme della storiografia classica. Laici i due ultimi, anche se ebbero a governare, per volere sovrano, importanti abbazie. Una comunanza d'interessi intellettuali fra clero e laicato s'era per un momento attuata alla corte carolina. Ma non doveva lungamente sopravvivere al grande imperatore.

Certo Ludovico il Pio e Carlo il Calvo, principi colti, non cessarono di adunare intorno a sé uomini dotti; ma le infelici vicende politiche del secolo che tenne dietro alla restaurazione dell'impero tolsero via via alla corte imperiale la sua grande funzione di direttrice e unificatrice della cultura, attenuarono a poco a poco nei principi il gusto delle lettere, distrassero ancora una volta il laicato dagli studî. Non valsero però ad arrestare né a rallentare un moto intellettuale divenuto oramai irresistibile: ma lo ricondussero nel dominio sempre più esclusivo del clero. Questo spiega perché la letteratura del sec. IX, tra i suoi più insigni rappresentanti, conti pochi scrittori unicamente dediti alla poesia, come Ermoldo Nigello, o alla storiografia, come Nitardo; e ne conti invece molti che s'occuparono, se non unicamente, principalmente di teologia. Il più illustre allievo di Alcuino, Rabano Mauro di Fulda, si divertì anche ai più vani artifizî di versificazione; ma la sua più seria attività consacrò tutta ad opere teologiche, o alla moralizzazione dell'enciclopedia d'Isidoro. Il suo allievo Valafrido Strabone di Reichenau fu alle sue ore vivace ed elegante poeta; ma affidò soprattutto la sua fama a quel commento integrale della Bibbia che portò meritamente per cinque secoli il titolo di "glossa ordinaria" un altro allievo di Rabano, il sassone Gotescalco, diede prova nei suoi versi di eletto ingegno e di rara abilità metrica e ritmica (ed è forse di sua fattura quell'allegorica Ecloga Theoduli che deliziò tanto a lungo le scuole medievali), ma spese la sua infelice vita ad agitare una fiera disputa teologica intorno alla predestinazione. Altre grandi dispute divisero i teologi in quel secolo: e va ricordata almeno quella sulla transustanziazione, che mise alle prese i due monaci di Corbie Radberto e Ratramno. Ma nessuna assunse le proporzioni della disputa sulla predestinazione, che affaticò gl'ingegni più acuti del clero latino; onde si videro Incmaro di Reims e Floro di Lione avversare, Lupo di Ferrières e Ratramno di Corbie difendere le audaci idee di Gotescalco, e fra tutti e contro tutti intervenire l'indipendente autorità di Giovanni Scoto. Tutti teologi, noti per opere di vario argomento, ma Incmaro fu anche scrittore politico, annalista, agiografo; e improntò della sua forte personalità la vita della Francia coeva; e Floro fu anche poeta; e Lupo fu anche e soprattutto filologo. Quanto a Giovanni Scoto, per vastità di dottrina e vigoria d'intelletto si levò sopra tutti i contemporanei, ed è il solo che meriti nell'alto Medioevo il nome di filosofo: incompreso del resto, anche se ammirato, ai suoi tempi. Conosceva, dote allora singolarissima, il greco; e tradusse il preteso Dionigi Areopagita, e si appropriò idee neoplatoniche, svolgendole originalmente nel suo sorprendente libro De divisione naturae. L'opera sua, come quella, certo minore, di Sedulio Scoto, mostra quanto si fosse mantenuto alto il livello della cultura nella loro comune patria d'origine. Ma se l'Irlanda aveva compiuto la loro formazione intellettuale, fu il continente che offrì il campo adatto al pieno sviluppo della loro attività.

Oramai erano la Francia e la Germania che nelle loro grandi sedi vescovili e abbaziali custodivano i focolari più vivi della cultura latina. L'Italia vide, sì, riordinare le sue scuole per opera di Lotario e di Eugenio II; ma vide anche rovinare le sue chiese e i suoi migliori monasteri sotto la furia dei Saraceni e più tardi degli Ungari. Certo non vi mancarono scrittori di qualche pregio: e il più importante fu, a Roma, Anastasio Bibliotecario, altro raro conoscitore di greco (cosa in Italia meno miracolosa che altrove), il quale valse a diffondere in Occidente, con le sue traduzioni, notevoli opere, storiche e soprattutto agiografiche, bizantine. Del resto si possono ricordare alcuni storiografi, come il ravennate Agnello, il beneventano Erchemperto, il romano Giovanni Imonide. Questi si esercitò anche nell'arte del verso, e ci lasciò un curioso mimo conviviale. Alle prose polemiche alternò liriche d'artificiosa fattura il napoletano Eugenio Vulgario. Se non che, fra i poeti, i più interessanti sono forse certi sconosciuti autori di ritmi sacri e profani, sui quali si leva per nobiltà di sentimento e vivacità di rappresentazione il canto delle scolte modenesi.

Ben più forte la vita intellettuale pulsava in Germania. Dopo Rabano, Valafrido, Gotescalco, ecco tra gli altri il filologo Ermenrico di Ellwangen, il "poeta sassone" (Agio?), lo storico Regino di Prüm, ecco, tra valenti discepoli, l'insigne maestro e scrittore Notkero il Balbo, il Monaco di S. Gallo, a cui dobbiamo una curiosa biografia aneddotica di Carlomagno, e, con tante altre cose in prosa e in verso, quelle famose sequenze che, diffuse e imitate in tutte le chiese latine, aprirono alla poesia lirica vie imprevedute e fecero addirittura rinascere la drammatica. Coi Tedeschi gareggiavano i Francesi. Dopo Incmaro e Lupo la Francia ebbe altri illustri letterati, come Enrico d'Auxerre e il suo discepolo e continuatore Remigio, riordinatore delle scuole di Reims e di Parigi, autore di commenti grammaticali, letterarî, teologici. Ebbe poeti come Ubaldo di S. Amando e Abbone di S. Germano, che tentò di celebrare epicamente la difesa di Parigi contro i Normanni.

Tristi tempi: la monarchia declinante, l'anarchia feudale dilagante, la Francia aperta alle incursioni degl'infedeli del settentrione e del mezzogiorno. Il clero secolare impigliato nelle lotte feudali, quello regolare, rovinato dalla devastazione di tante illustri abbazie, lasciavano immiserire le loro migliori tradizioni intellettuali e morali. Fu allora che s'iniziò in Francia, nella prima metà del sec. X, con la fondazione del monastero di Cluny e con l'apostolato del suo abate Odone, quel generoso movimento che rinnovò profondamente la vita monastica, la organizzò saldamente in vaste e potenti congregazioni, e finì per operare in modo deciso sui costumi del clero secolare e sulle disposizioni dell'autorità suprema della Chiesa, non senza profonde ripercussioni nella vita politica e sociale di tutto l'Occidente. La riforma cluniacense, con le sue tendenze ascetiche, non fu senza pericoli per la cultura, gettando discredito sugli studî profani, e ostentando dispregio per la letteratura classica. Ma lo stesso Odone, che pur si compiaceva di ripetere certi atteggiamenti di Gregorio Magno, mostrò, meditando in un grave trattato e in un solenne poema sul problema del male, di continuare praticamente le tradizioni liberali dell'età carolina. E la cultura ebbe insomma dalla riforma cluniacense almeno un indiretto ma grande giovamento col ritorno delle comunità monastiche alla severità della vita, alla disciplina, al lavoro, alla meditazione, allo studio.

I rappresentanti più illustri della cultura francese escono allora quasi tutti dai chiostri. E se lo storico della chiesa di Reims, Flodoardo, non è che un chierico, monaci sono il dotto agiografo Azzone di Montier, e il fiero difensore con gli scritti non meno che coi fatti, dei diritti del clero regolare, Abbone di Fleury, infine il geniale alunno d'Aurillac e sapiente maestro di Reims, Gerberto. Del suo insegnamento ci ha lasciato interessanti ragguagli il suo discepolo e valoroso storiografo Richero; onde sappiamo come egli curasse la lettura dei classici, e ravvivasse lo studio della dialettica e della retorica, e rinnovasse addirittura, con procedimenti ed esperimenti inusitati, lo studio dell'aritmetica e della geometria, dell'astronomia, della musica. A ciò lo preparò senza dubbio la conoscenza che Gerberto si poté procurare della scienza araba e dei suoi metodi durante il suo soggiorno giovanile in Catalogna: primo fugace contatto con una civiltà, dalla quale l'Occidente aveva tanto da imparare. Ma solo una mente quale era quella di Gerberto poteva allora capire e sfruttare i vantaggi d'un simile contatto: mente variamente curiosa e largamente comprensiva, che ben si riconosce nei pochi suoi scritti filosofici e matematici e nelle sue lettere, ma meglio si rivela nel complesso della sua attività non solo intellettuale, bensì anche politica. Quest'attività si ricollega strettamente con la grande opera degli Ottoni e soprattutto del terzo, con cui Gerberto, dal trono papale ove salì col nome di Silvestro II, collaborò nell'utopistico disegno d'una Roma cattolicamente imperiale, dominatrice suprema del mondo.

Ma già Ottone I, dato assetto alla Germania e sottomessa l'Italia, aveva rinnovato l'impero; e nel suo impero aveva voluto, erede anche in ciò del pensiero di Carlomagno, un intenso riattivamento della vita intellettuale. La corte sassone mirò, anche se in tutto non riuscì, a modellarsi sull'esempio della corte carolina: dotti famosi vi accorsero, i principi crebbero nel rispetto e nel culto del sapere. I monasteri della Sassonia divennero focolari vivi di Cultura; e gareggiavano con loro i monasteri della Franconia, della Baviera, della Svevia, della Lotaringia. Poco partecipò dapprima a quel gran moto il clero secolare; ma il clero regolare v'impiegò fervidi e fertili ingegni. Erano teologi, storici come Widukindo di Corvei, poeti come Eccheardo di S. Gallo, Rosvita di Gandersheim, Fromondo di Tegernsee. La poesia specialmente fu coltivata con ardore; e i poeti ebbero tutti gli ardimenti. La monaca Rosvita, non paga di versificare curiose e romanzesche leggende di santi, tentò la grande epopea storica, tentò (caso senza precedenti) il dramma di forme antiche e di spirito nuovo, traendo con candida imperizia la commedia di Terenzio a sceneggiare esempî di casti martirî o di sante conversioni. Eccheardo usò il verso e i modi di Virgilio a cantare le lgggende eroiche dei popoli nuovi; e ne nacque il Waltharius. Del resto, secondo la tradizione del suo monastero, egli attese a comporre inni e sequenze. La lirica sacra aveva allora in S. Gallo la sua fucina piu attiva e più ingegnosa, benché Limoges in Francia e Verona in Italia le facessero poderosa concorrenza. Intanto sulla lirica sacra si andava modellando una vivace lirica profana, che usciva dalle stesse fucine: la celebre raccolta di Cambridge ce ne conserva esempî notevolissimi, per la maggior parte d'origine tedesca. Tutta questa letteratura si fondava sopra un'istruzione accurata, su cui Gualtiero di Spira in un suo poema lasciò interessanti notizie. Più tardi, alla corte di Enrico III, Wippone lamentava che il laicato tedesco, anche aristocratico, disdegnasse la cultura; ma è certo che anche sotto i successori degli Ottoni, monaci e chierici tennero in onore gli studî. Wippone ne è un buon esempio, come mostrano le sue opere in verso e in prosa, storiche e didattiche. Altro nobile esempio è Ermanno di Reichenau, dotto autore di cronache, di trattati scientifici, di poesie metriche e ritmiche. Accanto a loro si distinsero altri valenti scrittori, storici, teologi, poeti; e, tra i poeti, autori di epopee sacre, di leggende, di satire, di romanzi, come Eupolemio, o Embrico, o Amarcio, o il cantore di Ruodlieb.

In Italia, a detta di Wippone, anche il laicato andava a scuola. Tuttavia, se l'aristocrazia italiana era in quei tempi forse un po' meno incolta di quella transalpina, l'indifferenza per la cultura era in compenso più diffusa che altrove nel clero. Se ne legge l'amara constatazione negli scritti di Raterio. La corruttela della curia papale, la decadenza della vita monastica, non tocca ancora dalla propaganda cluniacense, la mondanità della politica episcopale, tutta liti e intrighi intorno ai Berengarî e agli Ottoni, spiegano lo stato certo poco lieto della cultura italiana. Le mancava soprattutto un ideale a cui tendere. Ed è per ciò che ci furono se mai letterati pedanti, tutti persi dietro una dottrina puramente formale, capaci di travestire i personaggi contemporanei in fantocci pseudo-classici, come l'anonimo cantore di Berengario, o di tessere vanagloriose apologie della propria sapienza a proposito di una insignificante disputa di parole, come Gonzone di Novara, o di costruire elaborate controversie sopra cose e fatti inesistenti come Anselmo da Besate. Ma ci furono d'altra parte troppi scrittori sprovvisti d'ogni gusto classico, sordi a ogni eco di latinità, come Benedetto del Soratte, e altri cronisti, annotatori grossolani degli avvenimenti esteriori. I migliori furono quelli agitati dal demone politico, uomini colti senza dubbio, ma inclini a far servire la loro dottrina alla loro passione: i vescovi Attone e Leone di Vercelli, Liutprando di Cremona, Raterio di Verona. Raterio non era italiano, e portò dalla Lotaringia un'educazione certo più elevata; ma furono le lotte italiane che temprarono la sua forte personalità di prelato e di scrittore. Tutto italiano fu Liutprando, storico tendenzioso ma vigoroso, esperto, grazie alle sue ripetute missioni diplomatiche, non pur del mondo latino, ma del greco. Della cultura greca egli seppe anzi giovarsi, e seppe anche attingere, di là dagli autori bizantini, a qualche autore classico. Ma le sue conoscenze non recarono grande profitto alla cultura italiana. Altri conoscitori di greco (Leone di Napoli, Giovanni d'Amalfi) si contentavano di tradurre romanzi e sacre leggende. Un certo risveglio d'interesse scientifico si verificò in Italia nella prima metà del sec. XI; e si lascia sentire nel lessico di Papia, nei trattati musicali di Guido d'Arezzo, e in quel confuso lavorio retorico e giuridico tra cui cresceranno Lanfranco e Pier Damiani. Tenui segni, per ora.

Migliori speranze s'aprivano in quegli stessi tempi in Francia, dove la scuola di Fulberto a Chartres rinnovava i fasti di quella di Gerberto a Reims, e ne superava i successi, attirando scolari dalle terre più lontane. Uomo di illuminata pietà e di sagace equilibrio, come ci attestano le sue lettere e i suoi versi, Fulberto seppe dare alla sua scuola un indirizzo felice, sviluppandovi liberamente con gli studî sacri gli studî profani, coordinandovi armonicamente, per quanto allora si poteva, le lettere e le scienze. E seppe anche organizzarla solidamente, assicurandole una durevole fortuna. La scuola episcopale di Chartres divenne così, grazie a lui, la prima grande scuola dell'Occidente; e sul suo esempio si formarono, almeno in Francia, le altre. Ma la mirabile attività scolastica che seguì caratterizza un nuovo periodo nella storia della cultura medievale.

Età scolastica. - L'età che va dalla metà del sec. XI alla fine del XII è per la Francia un'età gloriosa: non priva certo d'errori e di sventure, ma ricca di fortune e di trionfi. Aristocrazia e clero, uniti spesso a scopi e sforzi comuni, come nella grandiosa epopea delle crociate, raggiungono, nel loro ambito rispettivo, il massimo sviluppo, prodigando nell'opera indefessa una stupenda potenza creativa. Alla cultura l'aristocrazia s'accosta con sempre maggior desiderio e profitto; ma la direzione ne è ancor tutta nelle mani del clero. Meritamente. Il clero non si considera più come semplice custode d'un patrimonio intellettuale ereditario: vuole con la sua propria indipendente attività lavorare ad accrescerlo e a rinnovarlo. Ond'è che le scuole monastiche e le episcopali (e queste ben presto assai più di quelle, per la maggiore libertà che il clero secolare non teme di concedersi) allargano la loro curiosità, approfondiscono il loro studio, intensificano il loro lavoro. L'insegnamento della grammatica e della retorica si rinsangua con la lettura di un sempre maggior numero d'autori (classici in genere, ma non senza qualche scrittore più recente). L'insegnamento della dialettica si affina, sviscerando per ogni verso la logica aristotelica: la "vecchia", cioè i libri tramandati dalle traduzioni di Boezio, e la "nuova", cioè i libri rivelati all'Occidente nella prima metà del sec. XII da altri traduttori. L'insegnamento del quadrivio si arricchisce passo passo di nuove cognizioni, dovute ai primi esploratori della scienza orientale. S'insegnano, accanto alle sette arti, e sia pur rudimentalmente, la medicina e il diritto canonico. La teologia rinnova interamente i suoi metodi didattici: allo studio dei padri della chiesa associa l'esercizio della dialettica, affronta e persegue problemi filosofici, si muta talora in pura filosofia. Chi abbracci in uno sguardo i metodi e i programmi (per fortuna abbastanza ben noti) della scuola di Chartres a un secolo di distanza da Fulberto, quando v'insegnavano i due fratelli. Bernardo e Teodorico, misura tutta la finezza e l'ampiezza, la complessità e l'armonicità dell'insegnamento che v'era impartito.

In altre scuole si delineava una specializzazione. Prevalse in alcune lo studio della dialettica. L'avevano riacceso le ardenti dispute teologiche e filosofiche che inaugurarono in Francia la nuova età: e prima di tutte quella della transustanziazione, suscitata dall'audace parola e dagli scritti di quel libero spirito che fu Berengario di Tours, a cui si contrappose, dotto e acuto difensore dell'ortodossia, Lanfranco di Pavia. Seguì la disputa intorno alla S. Trinità, che coinvolse l'altra, ancora più grave, intorno al problema degli universali, per cui si batterono senza fine tanti nominalisti e realisti, e primi Roscellino di Compiègne e Anselmo d'Aosta. Nobile pensatore e originale scrittore, Anselmo pare riassumere in se l'antica tradizione patristica e aprire la via alla nuova filosofia "scolastica", la quale ad ogni modo nacque nelle scuole proprio da quelle dispute. Il rappresentante più caratteristico ne fu, nella prima metà del sec. XII, Pietro Abelardo, l'uomo che passò dall'una all'altra scuola (e improvvisò scuole egli stesso), rinnovando dappertutto l'insegnamento con la libertà e con la forza della sua critica, disputando di tutti i problemi, attirando a sé moltitudini di discepoli. Varî e importanti i suoi scritti teologici, filosofici, anche poetici, che riflettono tutti (e l'uno anzi apertamente ritrae) la sua originale personalità: ricchi d'idee, anche se poveri di forza sintetica, ma soprattutto nuovi di metodo. Con essi, e più con la sua infaticata attività didattica, Abelardo dominò, anche se combattuto da implacabili avversarî (e dal più formidabile, che fu S. Bernardo di Chiaravalle) tutta la vita intellettuale dei suoi tempi. Le scuole di Parigi gli debbono a ogni modo il loro successo e la loro fama, e quella loro specializzazione decisa per la dialettica e per la teologia che le distinse da ogni altra scuola. Vi pass'arono quasi tutti i maggiori rappresentanti delle diverse correnti di pensiero: ricordiamo Guglielmo di Conches, Gilberto Porretano, Ugo di S. Vittore, Pietro Lombardo, Adamo di Petit-Pont. Le opere che ci restano di costoro, alcune delle quali esercitarono un duraturo influsso, sono d'alto interesse. Ma l'autore che nei suoi scritti seppe riassumere tutto il movimento filosofico francese e trarne il miglior frutto fu Giovanni di Salisbury. Al filosofo maturato nelle scuole di Parigi si univa in lui tuttavia, per quell'equilibrio ch'egli teneva dalla miglior tradizione di Chartres, il fine letterato; ond'egli tenacemente combatté nei suoi scritti, prosastici e poetici, non solo contro gli utilitaristi spregiatori d'ogni sapere disinteressato, non solo contro i rigoristi avversi a ogni scienza profana (e tali erano i seguaci di quell'ardente moralista e predicatore che fu S. Bernardo), ma pur contro i sofisti, adoratori esclusivi della dialettica, derisori d'ogni educazione letteraria (e tali erano i seguaci di Adamo di Petit-Pont).

Alle lettere, alquanto trascurate a Parigi, restavano più favorevoli altre scuole: e presto divenne famosa Orléans per lo studio che vi si dedicava, con decisa preferenza, agli "autori". Il culto degli autori classici, e specialmente dei poeti, s'era diffuso allora potentemente in Francia; e sorsero in gran numero imitatori più o meno abili, emuli più o meno arditi. Si leggono ancora con interesse, e talora non senza diletto, le poesie che ci lasciarono Marbodo d'Angers, Serlone di Bayeux, Baldrico di Bourgueil, Ildeberto di Lavardin, Ugo Primate d'Orléans, Vitale di Blois, Alano di Lilla, Gualtiero di Chatillon, Adamo di S. Vittore e altri ancora. Ci sono tra costoro spiriti profondamente originali come il Primate, impareggiabile umorista, padre e maestro della poesia goliardica. E ci sono personalità importanti e complesse: come lldeberto, conciliatore elegante di atteggiamenti classici e di sentimenti cristiani, di forme antiche e di espedienti nuovi; o come Alano, il "dottore universale", che nel suo grandioso poema allegorico, l'Anticlaudiano, versò la sua ricca esperienza teologica e filosofica, attestata da tanti altri suoi scritti in verso e in prosa; o come Gualtiero, infine, ch'ebbe l'ardire di ritentare l'antica epopea con la sua Alessandreide, ma meglio seppe esprimere la sua anima pensosa e sdegnosa in concitati ritmi. Altri s'impongono per una loro modesta specialità, come Baldrico coi suoi, or tristi or lieti, ma sempre graziosi distici d'occasione; altri per qualche loro trovata geniale, come Vitale con quella sua non rappresentabile ma recitabile commedia elegiaca, mezzo narrativa e mezzo dialogica. Non tutti però gl'innumerevoli verseggiatori di questa età son degni di considerazione: molti sono senz'altro cattivi. Molti si studiarono di celare sotto sterili artifizî verbali la loro povertà d'ispirazione. Maestro di costoro fu Matteo di Vendôme, e della sua vana maestria diede prova in molte e varie esercitazioni poetiche, e in un trattato d'arte versificatoria che godette di grande autorità. A ogni modo ciò che più si ammira in tutta quella poesia è, nell'abbondanza, la varietà sostanziale e formale. Vi sono elegie, epistole, epigrammi, satire, contrasti, favole, canti bacchici ed erotici, inni sacri e sequenze; poemi epici d'argomento antico e recente, storico e leggendario, sacro e profano, epopee allegoriche, drammi liturgici, commedie elegiache. V'è di tutto, e in tutte le forme: nelle vecchie forme metriche, rammodernate talora dalla rima, e nelle hrme ritmiche, affinate, variate, perfezionate con ogni più sottile accorgimento. L'arte ritmica, inseparata e inseparabile dall'arte melodica, ebbe allora un meraviglioso sviluppo: Abelardo l'addestrò ai tentativi più arditi, il Primate la condusse ai successi più certi, Ilario la mise a servizio del dramma, Adamo la usò a rinnovare la sequenza.

La prosa intanto non era meno curata della poesia: specialmente se doveva servire a comporre epistole. L'epistolografia divenne in quei secoli un potente strumento politico e sociale; ed ebbe in Francia maestri e cultori famosi, tra gli altri Pietro di Blois. La storiografia aveva sin da tempi lontani buone tradizioni, e le continuava con onesti e modesti cronisti; ma le crociate sopravvennero a suscitare narratori ben altrimenti portati a sentire e rappresentare gli avvenimenti storici; e la storiografia ne fu rinnovata negli spiriti e nelle forme, come si vede, per esempio, nei Gesta Dei per Francos di Guiberto di Vogent e nella grande storia oltremarina di Guglielmo di Tiro, ma poi anche in opere estranee alle crociate, quale la ricca storia-normanna di Orderico Vitale. Tra gli storiografi s'insinuavano tuttavia, a mostrare come il senso critico fosse ancora mal fermo, fantasiosi falsificatori di storie e rielaboratori di leggende, come quello che usurpò il nome di Turpino.

Alla intensa vita intellettuale che si svolgeva in Francia parteciparono coi Francesi anche non pochi stranieri. Inglesi erano Adamo di Petit-Pont e Giovanni di Salisbury, tedesco Ugo di S. Vittore, italiani Lanfranco di Pavia, Anselmo d'Aosta, Pietro Lombardo: nomi tutti di grande importanza nella storia del pensiero medievale. L'Inghilterra, dopo i tempi di Alcuino, aveva cessato di partecipare attivamente alla cultura occidentale. Solo sotto il regno di Alfredo il Grande c'era stato, per l'intelligente iniziativa del re, un vivo, ma breve, risveglio intellettuale; se non che, nei tristi tempi che seguirono, tutto era andato perduto. E fu la conquista normanna che, assoggettando l'Inghilterra all'influsso francese, l'avviò a riprendere la sua parte nella vita della cultura. E vi rinnovò le scuole. E fece sorgere scrittori come Giovanni di Salisbury, Guglielmo di Malmesbury, Alessandro Neckam, Nigello Wireker, Giuseppe d'Exeter, e, perché non mancassero con gli Anglosassoni i Celti, Goffredo di Monmouth, Gualtiero Map, Giraldo Cambrense: autori d'opere teologiche e morali, filosofiche e scientifiche, politiche e storiche, o magari anche fantastiche, di poesie epiche didattiche, liriche, satiriche. In questa ricca e complessa letteratura si ritrova lo stesso spirito che in Francia, con gli stessi motivi, gli stessi metodi, le stesse forme. E non è a dire che mancassero scrittori originali: per non citare ancora una volta il nome di Giovanni di Salisbury, valga l'esempio del novellista e moralista mondano, nonché brillante poeta satirico, Gualtiero Map.

Quanto alla Germania, le nuove correnti di pensiero che movevano dalla Francia incontrarono sì l'opposizione intransigente dei teologi che continuavano le tendenze di Otloh di S. Emmerano, quali Ruperto di Deutz, Gerhoh di Reichersberg, Onorio Augustodunense (e neppur tutti rimasero insensibili ai deprecati influssi francesi), ma esse trovarono facile accesso tra gli spiriti più vigili, e guadagnarono collaboratori geniali come Ugo di S. Vittore, suscitarono interpreti originali come Ottone di Frisinga. Delle idee e dei metodi appresi alla scuola di Abelardo e di Gilberto, Ottone fu autorevole propagatore in Germania, e materiò di pensiero filosofico, inusitatamente, le sue cronache. Certo le scuole tedesche poco si sollevarono dalla mediocrità, a cui pian piano s'erano accomodate; ma, specialmente dopo Ottone, cercarono di mettersi al corrente di tutte le novità filosofiche e scientifiche. Ai modelli francesi guardavano intanto con profitto anche i poeti, anche i più originali, anche i più penetrati, nella gran ventata d'orgoglio suscitata dal Barbarossa, di sentimento patriottico tedesco: gli autori innominati del grande poema epico sulle guerre lombarde (Ligurinus) e del dramma liturgico sull'Anticristo, e il grande lirico goliardico soprannominato l'Archipoeta.

In Italia l'innegabile risorgimento della cultura assunse tutt'altro aspetto che in Francia. Le grandi lotte politiche e sociali che si combatterono nella penisola tra la metà del sec. XI e la fine del XII, mettendo alla prova i diritti della Chiesa e dello Stato, delle comunità cittadine e delle autorità feudali e sovrane, diedero una particolare impronta alla vita intellettuale. Le riforme ecclesiastiche ispirate e volute da quel coerente discepolo di Cluny che fu Ildebrando (Gregorio VII), e da lui perseguite con indomita fede contro il clero ribelle e contro l'impero offeso dalla rivendicazione papale delle investiture, suscitarono una ricca letteratura polemica, che richiese approfondimento di conoscenze giuridiche e affinamento di espedienti retorici. Vi parteciparono anche gli stranieri, ma gl'Italiani per numero e per valore prevalsero. E basterà nominare tra i fautori delle riforme Pier Damimi, l'asceta ardente che in tanti opuscoli espresse il disprezzo delle scienze profane, eppure in tutti sfruttò per santi scopi la sua profonda preparazione letteraria e giuridica; e fu nei suoi pii ritmi poeta ingenuo e sincero. Tra gli avversarî: Benzone d'Alba, in sonori versi e in bizzarre prose polemista appassionato e veemente.

Fra tali dispute senza dubbio la cultura del clero italiano si rinnovò e ravvivò. E se ne ebbe il più bell'esempio a Montecassino, quando l'abate Desiderio vi protesse gli studî, e si raccolsero intorno a lui Alfano a coltivare classicamente la poesia, Amato e Leone a scrivere storie, altri a compilare raccolte giuridiche, Alberico a insegnare le arti e a sviluppare primo dalla retorica una teoria dell'ars dictandi, Costantino Africano a tradurre dall'arabo (come Alfano dal greco) importanti e ignorati trattati medici, che contribuirono decisamente ai progressi della celebre scuola salernitana. Montecassino, alla fine del sec. XI, fu in un certo senso il preannunzio di quello che stava per essere nel sec. XII la cultura italiana.

Le grandi scuole, che fiorirono allora anche in Italia, seguirono prevalentemente indirizzi pratici: agli studî filosofici, letterarî, scientifici preferirono gli studî medici, giuridici, retorici. Anzi, anche in Italia, si specializzarono. Salerno era già la grande scuola di medicina, sin da quando Garioponto aveva dato al tradizionale insegnamento empirico un certo fondamento dottrinale, e più da quando Costantino vi aveva recato i frutti dell'esperienza araba: ora la scuola dettava in versi al mondo i suoi aurei precetti; e una serie ininterrotta di dotti e valenti medici ne assicurava la fama. Bologna intanto diveniva la grande scuola del diritto. Un po' di diritto s'era sempre insegnato in Italia, specialmente a Roma, a Ravenna, a Pavia; ma fu Irnerio che diede a quell'insegnamento, nel momento opportuno, il più ampio sviluppo, quando s'insediò a Bologna a leggere e ad illustrare i testi del diritto romano. Maestro eccellente, egli attirò subito gran numero di discepoli; e assicurò così le fortune di quella scuola, che già al tempo dei "quattro dottori" assumeva l'aspetto di una università e otteneva dal Barbarossa il primo privilegio. Tutti i maggiori giuristi concorsero o si successero a insegnare a Bologna: né solo i romanisti, ma anche i canonisti. Fu infatti a Bologna che Graziano compose il suo famoso Decretum, e fornì con esso il fondamento primo allo studio scientifico del diritto canonico. E fu a Bologna che i più insigni continuatori di Graziano esercitarono il loro insegnamento. Tra loro fu quell'Uguccione da Pisa, che alla fama di canonista volle aggiungere quella di lessicografo, rifacendo e ampliando il lessico di Papia: Un'altra specialità delle scuole di Bologna divenne presto l'ars dictandi, grazie all'insegnamento di Alberto Samaritano e degli abili dettatori che dopo di lui si susseguirono.

Questo fervore di studî giuridici e retorici, attestato anche da altre scuole minori, si spiega facilmente in un paese, dove continuava acerrima la lotta tra le due maggiori autorità dell'Occidente, il papato e l'impero, e dove, nel naturale logorio delle loro forze, una nuova forza si affermava; gettandosi nella mischia, il comune; e portava in sé fatalità d'altre lotte (comuni contro comuni, fazioni contro fazioni); onde a tanto combattere non bastavano le armi, occorrevano la sapienza delle leggi, la sagacia della parola. Lo sviluppo dei comuni significava inoltre ascensione della borghesia. La borghesia si volgeva all'esercizio della cultura, che le era sempre più necessaria; e la cultura si piegava ai bisogni della borghesia, ch'era sempre più preminente. L'istruzione del laicato, sia pur elementare, era una vecchia tradizione italiana, attestata già da Wippone; ma che si estendesse nel sec. XII, almeno nei comuni lombardi, a qualunque classe del popolo, affermava ammirando Ottone di Frisinga. Né i laici si contentarono di figurare tra i discepoli: s'aprirono la via tra i maestri, specie tra i giuristi e tra i medici, ma anche tra i dettatori. E non fu più un caso strano che un laico riuscisse scrittore latino: specie se giudice o notaio.

Ma, uscita da penna laica o da penna clericale, la letteratura latina corrispose pienamente ai caratteri della cultura italiana: pratici, realistici, "borghesi". E fu così che la poesia, ben lontana in Italia dalla multiforme varietà ch'ebbe oltralpe, si restrinse tutta o quasi tutta a narrare fatti storici, generalmente contemporanei, con prevalente intento politico. Ci fu, è vero, alla fine del secolo, sulla soglia di nuovi tempi, il celebre sfogo lirico-retorico di Arrigo da Settimello contro la Fortuna; ma tutti gli altri poeti più notevoli, dall'anonimo pisano che compose l'ardente ritmo del 1088, all'elegante e immaginoso Pietro d'Eboli, sono dominati dall'interesse storico-politico: così Guglielmo di Puglia, Donizone di Canossa, Enrico Pievano, l'anonimo bergamasco cantore del Barbarossa, Monaco di Firenze e varî altri. Tutto sommato però, la storiografia in versi fu inferiore alla storiografia in prosa, la quale si onorò nel Settentrione di scrittori come Caffaro, come Ottone e Acerbo Morena, nel Mezzogiorno di Ugo Falcando e Romualdo di Salerno.

Il Mezzogiorno si avviava a prendere una parte più attiva alla vita intellettuale italiana. I Normanni, spazzando dalle Puglie e dalle Calabrie la dominazione greca, dalla Sicilia quella araba, avevano risospinto tutte quelle regioni, unite in un solido stato, nell'ambito della civiltà occidentale, della cultura latina. Se non che le tradizioni della cultura greca e dell'araba non vi si spensero tutte subito; e il reame siciliano parve chiamato a una preziosa funzione d'intermediario tra l'Oriente e l'Occidente. Gioacchino da Fiore nutrì di pensiero bizantino i suoi scritti mistici e profetici, destinati a sommuovere la coscienza cattolica. Enrico Aristippo risalì alle fonti dell'antico sapere ellenico, traducendo in latino libri ignorati di Platone e di Aristotele. Si poteva formare in Sicilia una scuola di traduttori; ma non si formò. Traduttori notevoli si ebbero anche in altre parti d'Italia: Iacopo da Venezia rivelò all'Occidente la "logica nova" d'Aristotele; Burgundio da Pisa fece conoscere il Damascemo e il Crisostomo, e giovò con altre versioni agli studî medici e ai giuridici. Frutti di viaggi e di lunghi soggiorni a Bisanzio. Ma è curioso che, in Italia, coi tanti rapporti che le repubbliche marinare mantenevano con l'impero bizantino, chi volle più metodicamente penetrare l'antica scienza dei Greci andasse a cercarne notizia tra gli Arabi. Dall'arabo, in Sicilia, Eugenio di Palermo aveva già tradotto un opuscolo di Tolomeo. Ma Gherardo da Cremona si recò addirittura in Spagna, e dalle versioni arabe, che trovò a Toledo, tradusse un gran numero di opere greche, tra l'altro tutte le parti della fisica d'Aristotele, e l'Almagesto di Tolomeo.

La Spagna esercitò allora quella funzione di mediatrice tra Oriente e Occidente, in cui l'Italia non seppe o non poté perseverare. Il primo grande centro di cultura araba che passò sotto il dominio cristiano, Toledo, diventò, grazie alla virtù organizzatrice di un vescovo francese, Raimondo, grazie all'attività scientifica e didattica d'un maestro italiano, Gherardo, oltre che una laboriosa fucina di traduzioni, una feconda scuola d'astronomia, di fisica, di matematica, di tutte le scienze insomma in cui gli Arabi, conservatori ed elaboratori dell'antico sapere greco, superavano allora di gran lunga i Latini. Certo la conoscenza del pensiero greco giunse falsata ai Latini dall'interpretazione araba; ma essi ebbero, in compenso, la ventura di conoscere, in quel che pur possedeva di originale, il pensiero arabo. La scuola di Toledo ebbe così per tutto l'Occidente un'importanza capitale; e vi convennero da ogni parte gli studiosi, molti dei quali vi si distinsero. Non mancò la collaborazione degli Spagnoli, benché la grande opera della "riconquista" sembrasse allora assorbire tutte le loro energie. Lo spagnolo Gundisalvi (Gundissalino), traduttore di Avicenna e d'altri filosofi arabi, ebbe anzi ingegno bastante per dare alle idee dei suoi maestri, in pregevoli trattati, uno sviluppo originale. Altri minori centri di studî arabi e fucine di traduzione si formarono qua e là nella Spagna cristiana; e non si tradussero solo libri scientifici, ma anche immaginosi racconti, come fece l'ebreo convertito Pietro Alfonso, aprendo all'Occidente i tesori della novellistica orientale.

Fine del Medioevo. - Il Duecento svolse riccamente le premesse ch'erano state poste con tanto slancio dall'età precedente. Le grandi scuole, nate all'ombra delle cattedrali, si organizzarono in università, si liberarono dalla tutela dei vescovi, lottarono contro l'invadenza dei nuovi ordini religiosi (domenicani e francescani) e contro l'intromissione dell'autorità papale, realizzarono più o meno perfettamente la loro autonomia. Delle vecchie scuole, alcune, come Parigi e Bologna, presero la direzione del movimento, altre restarono indietro; ma nuove scuole entrarono in gara con le prime: Oxford, Padova, Montpellier, ecc. E a queste università, che s'erano formate naturalmente, per virtù di maestri e favore di scolari, s'aggiunsero quelle create da iniziative sovrane: quella regia di Napoli, quella papale di Tolosa. Gli studî si distribuivano in quattro facoltà (arti, diritto, medicina, teologia), non sempre tutte coesistenti nella stessa università; ma, anche quando c'erano tutte, l'una o l'altra prevaleva. La specializzazione continuava: filosofico-teologico era il carattere di Parigi e di Oxford, retorico-giuridico quello di Bologna e di Padova, medico quello di Salerno e di Montpellier. In queste scuole si agitarono le questioni più vitali della cultura dugentesca.

Il fatto fondamentale fu la scoperta del "nuovo Aristotele", cioè della fisica e della metafisica aristotelica, sino allora ignorate in Occidente. Rivelate dai traduttori di Toledo sul finire del sec. XII, esse sconvolsero a poco a poco nel campo scientifico, filosofico e teologico, tutte le idee tradizionali. Tanto che, apparendo pericolose per la stessa fede, le autorità ecclesiastiche ne tentarono prima la condanna, poi, essendo questa rimasta vana, ne ordinarono una non meno vana revisione ed espurgazione. Il nuovo Aristotele, imperturbato, continuava la sua strada. Anzi, per avvicinar meglio il suo pensiero genuino, senza la sospetta mediazione degli Arabi, gli studiosi latini promossero nuove traduzioni, fatte direttamente sul testo greco; e in questo lavoro ebbe parte onorevole anche qualche traduttore italiano. Nei primi tempi le idee aristoteliche erano penetrate un po' alla spicciolata nelle opere dei filosofi occidentali, come Guglielmo d'Auxerre o Guglielmo d'Alvernia. Ma poi il nuovo Aristotele li obbligò a prender nettamente posizione, donde una diversità di atteggiamenti che portò alla costituzione di discordanti sistemi. Vi fu chi accettò di peso, quali ne fossero le conseguenze rispetto alla fede, l'interpretazione araba del pensiero aristotelico, così com'era stata condotta a perfezione dal maggiore e più recente commentatore, Averroè; e si ebbe l'averroismo: rappresentante principale Sigieri di Brabante. Vi fu chi tentò invece, con uno studio indipendente e con una interpretazione originale del pensiero aristotelico, di conciliarlo integralmente con la fede cristiana; e si ebbe il tomismo: iniziatore geniale Alberto Magno, sistematore possente Tommaso d'Aquino. E vi fu chi, persuaso della irriducibilità di certe idee aristoteliche, accettò solo quelle che potevano, senza alcun danno per l'ortodossia, arricchire il pensiero tradizionale, che si richiamava volentieri a S. Agostino; e si ebbe l'agostinianismo di Alessandro di Hales, di Bonaventura, di Roberto Anglico. Vi fu infine chi arditamente volle controllare le osservazioni aristoteliche con la diretta esperienza dei fatti, di tanto avvicinandosi allo spirito di Aristotele, di quanto si allontanava dalla lettera; e si ebbe lo sperimentalismo: iniziatore Roberto Grossatesta, banditore Ruggero Bacone. Tali furono le principali correnti filosofiche, che si disputarono il campo nel Duecento. Parigi e Oxford furono i centri del movimento; ma vi parteciparono in modo decisivo, coi Francesi e con gl'Inglesi, i Tedeschi e gl'Italiani, e fu anzi italiano il maggior filosofo del tempo, S. Tommaso. Di lontano seguì il movimento, in un suo atteggiamento particolare, lo spagnolo Raimondo Lullo.

Fra tanta attività filosofica tutte le scienze sacre e le profane si svilupparono grandemente. E se ne può avere un'idea complessiva nella monumentale enciclopedia di Vincenzo di Beauvais, originalmente distribuita in tre "specchi": naturale, istoriale e dottrinale.

Al progresso delle scienze l'Italia prese nel Duecento una parte capitale. Mantenne il primato nelle scienze giuridiche, ch'ebbero a Bologna in Accursio il loro più autorevole rappresentante. Lo mantenne anche nelle scienze retoriche, di cui il Boncompagno da Signa fu il cultore più originale; e invano con lui e con gli altri dettatori di Bologna tentò rivaleggiare l'ars dictandi d'Orléans; mentre nelle dottrine grammaticali, e in quelle metriche e ritmiche, prevalevano i Francesi e gl'Inglesi (ricordiamo Alessandro di Villedieu e Giovanni di Garlandia). L'Italia continuò degnamente le sue nobili tradizioni anche nelle scienze mediche con i maestri salernitani e con qualche altro celebre patologo, come Guglielmo Salicetti; quantunque dalla sua cattedra di Montpellier lo spagnolo Arnaldo di Villanova s'acquistasse fama più duratura. Infine la nostra superò ogni altra nazione d'Occidente nelle scienze matematiche con Leonardo Fibonacci, e si distinse nelle astronomiche con Guido Bonatti.

Ma la letteratura latina non si onorò soltanto di opere filosofiche e scientifiche: le opere storiche furono pur numerose e importanti. Ricordiamo tra gli storiografi in Francia Alberico delle Tre Fontane e Guglielmo di Nangis, oltre a Giacomo di Vitry, che fu anche predicatore esemplare; in Spagna Rodrigo di Toledo; in Inghilterra Matteo Paris; in Germania Burcardo d'Ursperg; in Polonia Martino Polono. Ma i più interessanti s'incontrano forse in Italia: Rolandino di Padova, Riccardo di S. Germano, Saba Malaspina, Giacomo Doria, Riccobaldo di Ferrara, e il più personale, il più vivo di tutti: fra Salimbene di Parma.

Ricco di scrittori notevoli (tra i quali non vanno dimenticati certi moralisti, come Albertano da Brescia, e certi agiografi, come l'autore della Legenda aurea, Iacopo da Varazze, o il raccoglitore di miracoli eesario di Heisterbach), il Duecento scarseggiò di poeti. La poesia latina dugentesca non regge al paragone con quella dell'età precedente. Vero è che in Francia, da principio, le buone tradizioni parevano ancora salde, e lo spirito di Gualtiero di Châtillon sembrava in certo modo rivivere coi suoi atteggiamenti epici in Guglielmo il Bretone, coi suoi atteggiamenti lirici in Filippo di Grève; ma poi, col procedere del tempo, l'esercizio della poesia latina venne sempre più trascurato; sennonché se ne servì per comporre satire o per lanciare invettive qualche moralista, come il gran nemico delle donne Matteolo. E anche in Inghilterra e in Germania, dopo qualche saggio non disprezzabile, che uscì al principio del secolo, la poesia latina perdette ogni valore. Una raccolta come quella dei Carmina Burana non ha che un significato retrospettivo: i canti goliardici che vi si leggono appartengono tutti, o almeno tutti i migliori, al sec. XII e al principio del XIII.

Diversa è la storia della poesia latina in Italia. Qui la tradizione della poesia epico-storica o lirico-storica si continuò con i poemi di Stefanardo da Vimercate e di Orso genovese, con i carmi trionfali parmigiani del 1248 e con altri ritmi. Ma ci fu anche chi celebrò le gesta di eroi antichi come Quilichino di Spoleto, chi trasse da giocose novelle commedie elegiache come Riccardo di Venosa, chi dettò in versi precetti morali come Bonvesin da la Riva, o regole di buona educazione come l'autore del Facetus, o consigli di retto governo come Orfino di Lodi; e ci fu chi lanciò satire politiche come, forse, Pier della Vigna, e chi sparse canzoni goliardiche come Boncompagno e Morando, e chi levò cantici sacri come, forse, Tommaso da Celano e Iacopone da Todi. Varietà sconosciuta all'Italia dei secoli precedenti. Che se la qualità di tale poesia non è meravigliosa, essa attesta tuttavia fra i dotti italiani, non tutti chierici, anzi in gran parte laici (giudici e notai), un persistente interesse poetico, destinato a dar presto più succosi frutti. Dalla scuola padovana, ricondotta da Lovato de' Lovati al culto intelligente dei classici uscì infatti sul finire del Duecento, e continuò ad operare nei primi decennî del Trecento, l'annunziatore dell'umanesimo Albertino Mussato. Nobile poeta; ma fu anche insigne prosatore, e le sue storie, probe, sagaci, vive, eloquenti, tutte penetrate dalla coscienza della logica concatenazione dei fatti, prepararono una nuova storiografia, non indegna di ricongiungersi all'antica. Anche più significative sono le sue poesie: epistole e soliloquî, dove le sue meditazioni religiose, le sue considerazioni politiche, le sue esperienze umane si esprimono vigorosamente; e una tragedia, ov'egli tentò risuscitare l'arte, pur allora dissotterrata, del Seneca tragico per rappresentare uomini e fatti di un passato ancor sanguinante. Senza il prosatore e poeta Albertino Mussato, tutto preso dal gusto della classicità, tutto animato dal senso della personalità, mal si comprenderebbe indi a poco Francesco Petrarca. Ma il Petrarca appartiene senz'altro alla storia della cultura e della letteratura umanistica. Intanto fra i suoi contemporanei il Mussato faceva discepoli: ché tali si possono più o men legittimamente considerare gli storiografi Ferreto de' Ferreti e Giovanni da Cermenate, il poeta Giovanni del Virgilio. Costui cercò convertire Dante alla poesia latina, e Dante si lasciò indurre a provarvisi. Egli aveva del resto già scritto in latino importanti opere prosastiche, ricche di pensiero, sia che trattassero di problemi politici o letterarî, sia che si riferissero a casi contingenti, nazionali o personali. E v'è fra tali opere quella che ben può chiudere la storia della letteratura latina medievale: l'originale saggio che celebra latinamente le virtù della lingua volgare (De vulgari eloquentia): strumento nuovo di una nuova cultura.

L'uso letterario delle lingue volgari nell'Occidente cristiano, relativamente recente fra i popoli romanzi, cominciò presto fra i celtici e i germanici. Era infatti naturale che il latino, non offrendo coi loro idiomi nativi alcun sensibile punto di contatto, fosse per questi popoli assai meno accessibile, e che quindi la cultura, per diffondersi fra loro in un cerchio meno ristretto di persone, avesse bisogno di uno strumento sussidiario, semplice e facile. Nacquero così le letterature volgari celtiche e germaniche; ed è veramente significativo ch'esse nascessero tutte quando, nei rispettivi paesi, la cultura latina era in fiore, e dipendessero tutte, quasi unicamente, per lungo tempo dalla letteratura latina. Si veda l'esempio della letteratura anglosassone. Sorta ai tempi di Aldelmo e di Beda, decaduta dopo i tempi di Alcuino, risorta infine fuggevolmente sotto il regno di Alfredo il Grande, essa seguì punto per punto le sorti ch'ebbe in Inghilterra la cultura latina; e ne fu tutta sostanziata, sì che nel cumulo delle traduzioni e delle imitazioni, in prosa e in verso, d'opere religiose e didattiche, perfino i poemi eroici nazionali ne rivelano a ogni passo l'impronta. Simile il caso della letteratura irlandese nel sec. VII, della tedesca nel sec. IX e nel X.

Presso i popoli romanzi il latino da principio non fu sentito come una lingua nettamente diversa da quella parlata; e se si pensa qual era il latino scritto nella Francia merovingia e nell'Italia longobarda, la cosa non può far meraviglia. Ma quando, ai tempi di Carlomagno, col risorgere degli studî, il latino barbarico fu ripudiato, e gli si sostituì negli scritti un latino classicheggiante, allora si sentì quanta differenza separasse questa restaurata lingua letteraria dallo schietto idioma dei volghi. E allora si capì che ad istruire i volghi occorreva adoperare il loro proprio linguaggio; e il concilio di Tours dell'813 stabilì che le prediche si traducessero "in rusticam romanam linguam". Prediche, preghiere, formule di pubblici giuramenti e di testimonianze processuali: questo è il genere dei rari documenti in lingua volgare che il sec. IX e il X ci tramandarono nei varî paesi romanzi. Un indovinello in Italia, un cantico sacro in Francia (capricci isolati di chierici) presentano soli qualche carattere letterario. Non è che nel sec. XI e nel XII che si ha un'improvvisa mirabile fioritura letteraria nell due lingue volgari della Francia; ed è contemporanea alla gran fioritura letteraria latina che sboccia anch'essa su dal suolo francese. La coincidenza è significativa; e tanto più quando si consideri come la varia e complessa produzione volgare, epica, romanzesca, lirica, drammatica, satirica, didattica, storica, di carattere sacro e di carattere profano, in verso e in prosa, affondi le sue radici in gran parte nella tradizione latina, cresca e maturi in accordo con la contemporanea produzione letteraria latina. Il latino è ancora ben vivo. Anzi proprio in quei secoli ha la forza di rinnovarsi, di modernizzarsi, di adattarsi spregiudicatamente ai bisogni nuovi della cultura. È il latino scolastico, che si sostituisce al latino più o meno felicemente classicheggiante dell'età carolina e ottoniana. Lingua viva; ma se altre lingue accanto ad essa osano levarsi a una funzione letteraria, è perché il laicato (aristocrazia o borghesia) chiede ormai di partecipare attivamente, interamente, collettivamente alla vita intellettuale; e gli è impossibile giungervi attraverso il latino. Le condizioni diverse, materiali e spirituali, del laicato, anzi di tutta la nazione, spiegano come fuor di Francia la fioritura letteraria volgare si manifesti in ritardo. È il caso dell'Italia e della Spagna, dove le letterature volgari cominciano solo verso il Duecento; e prendendo esempio e modello dalla letteratura francese e dalla provenzale, anche se giungano presto ad affermare la loro originalità, e l'italiana a toccare d'un balzo con Dante le vette della gloria.

Ma intanto appare quanto le lingue volgari, più schiette, più ingenue, più immaginose, più vive, siano superiori per efficacia artistica al latino scolastico. E ne viene o un abbandono progressivo del latino come lingua d'arte, ed è ciò che accade oltralpe; o un ritorno sia pure anacronistico al latino classico, qual si prepara in Italia coi precursori dell'umanesimo. Come lingua di scienza, il latino non accenna ancor certo a morire; ma già le lingue volgari, in Italia, in Francia e in Spagna, come in Germania, in Inghilterra e dappertutto, rivendicano praticamente, e talora anche teoricamente, il diritto di provvedere a tutti i bisogni della cultura. L'universalismo medievale s'infrange. Nel campo intellettuale, come in quello politico, si attua l'indipendenza delle nazioni moderne.

Per l'arte nel Medioevo, v. gotica, arte; romanica, arte; ecc.

Bibl.: Sulla storia della cultura in generale: G. Schnürer, Kirche und Kultur im Mittelalter, voll. 3 (i due primi in 2ª ed.), Paderborn 1927 e 1929.

Sulla storia del pensiero: B. Geyer, Die patristische und scholastische Philosophie, in F. Ueberweg, Grudris der Gesch. der Philos., II, 11ª ed., Berlino 1928.

Sulle scuole le opere d'insieme sono tutt'altro che recenti: L. Maître, Les écoles épiscopales et monastiques de l'Occident depuis Charlemagne jusqu'à Philippe Auguste, Parigi 1866; H. Denifle, Die Universitäten des Mittelalters bis 1400, I, Berlino 1885; H. Rashdall, The universities of Europe in the middle ages, volumi 3, Oxford 1895. Importante tra le monografie quella di A. Clerval, les écoles de Chartres au moyen âge, Parigi 1895. Per l'Italia: G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, I: Il Medioevo, voll. 2, Milano-Palermo-Napoli 1913-14.

Per la Germania: F.A. Specht, Geschichte des Unterrichtswesens in Deutschland von den ältesten Zeiten bis zur Mitte des 13. Jahrhunderts, Stoccarda 1885.

Sugli studî intorno alla letteratura latina medievale (che, disprezzata e trascurata per molti secoli, se non in quanto servisse a indaginis toriche, ebbe un primo cultore in P. Leyser, Historia poëtarum et poëmatum medii aevi, Halle 1721, ma fu ancora per più d'un secolo trattata con diffidenza, anche se largamente consultata, dagli eruditi, e non fu accostata con interesse se non a partire dal Du Méril, dall'Hauréau, dal Guatier, dal Delisle in Francia, dal Mone, dal Grimm, dallo Schmeller, dal Giesebrecht in Germania, dal Wright in Inghilterra, né fu metodicamente indagata se non a partire dal Traube, dal Meyer von Speyer, dal Winterfeld) può orientare P. Rumpf, L'étude de la latinité médiévale, in Archivum romanicum, IX (1925).

Per la storia della letteratura latina medievale l'opera fondamentale (preziosa per l'informazione particolare, anche se non ricca di vedute generali) è ora quella di M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, voll. 3: I: Von Justinian bis zur Mitte des 10. Jahrhunderterts, Monaco 1911; II: Von der Mitte des 10. Jahrh. bis zum Ausbruch des Kampfes zwischen Kirche und Staat, ivi 1923; III: Vom Ausbruch des Kirchenstreites bis zum Ende des 12. Jahrh., ivi 1931 (un IV e ultimo volume deve seguire, a cui collaborerà, come al III, P. Lehmann). Ma non ha perduto ogni valore la meno esatta e più geniale opera di A. Ebert, Allgemeine Geschichte der Literatur des Mittelalters im Abendlande, voll. 3, Lipsia 1889 (2ª ed.), 1880, 1887 (traduzione francese, Parigi 1883-89): gunge solo agl'inizî del sec. XI, ma tien conto anche delle letterature volgari. E può ancor render servizio il faticoso repertorio di notizie di G. Gröber, Übersicht über die lateinische Litteratur von der Mitte des 6. Jahrhunderts bis 1350, nel suo Grundriss der romanischen Philologie, II, i, Strasburgo 1893. Giunge sino alla fine del Medioevo, ma non abbraccia tutti i generi letterarî, F.J.E. Raby, A history of christian-latin poetry, Oxford 1927. Considera più specialmente l'Italia, ma non vi si limita, F. Novati, Le origini, continuate e compiute da A. Montevardi, Milano [1900]-1926: non oltrepassano il sec. XII, sì che per il secolo seguente è da veder nella stessa Storia letteraria d'Italia, edita da F. Vallardi, un capitolo di G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1930, p. 210 segg. Del Novati è anche importante, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana del Medioevo, 2ª ed., Milano 1899. Ma per l'Italia si possono pur sempre consultare i primi volumi di G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana (a partire dalla 2ª edizione, Modena 1787 segg.); e si veda ora anche il primo volume di G. Zonta, Storia della letteratura italiana, Torino 1927. per la Francia è fondamentale la Histoire littéraire de la France, iniziata dai benedettini della congregazione di S. Mauro (voll. 12, Parigi 1733-63), ripresa e continuata dall'Accademia delle iscrizioni e belle lettere di Parigi (a partire dal 1814; l'ultimo volume, ch'è il 36°, non oltrepassa gl'inizî del sec. XIV). Un rapido quadro d'insieme dà F. Picavet, La littérature française en langue latine, nella Histoire de la nation française diretta da G. Hanotaux, XII, Parigi 1921.

Un indice di autori e di opere ancora utilizzabile offre J. A. Fabricius, Bibliotheca latina mediae et infimae aetatis, nell'edizione di Firenze 1858. Per la storiografia: A. Potthast, Bibliotheca historica medii aevi, 2ª ed., Berino 1896. Del resto un buon sussidio bibliografico si può trovare in U. Chevalier, Répertoire des sources historiques du moyen âge. Bio-bibliographie, 2ª ed., Parigi 1905-07.

Una grande collezione di testi (benché in edizioni spesso manchevoli) offre il Patrologiae cursus completus, Series latina, edito da J. P. Migne, Parigi 1844-1855 (voll. 217, da Tertulliano a Innocenzo III, e 4 volumi di indici). Testi che interessano anche solo indirettamente la storia, e non la sola storia germanica, raccolgono i Monumenta Germaniae historica iniziati da G. H. Pertz, Hannover 1826, e tuttora in continuazione (specialmente importanti per noi i 32 volumi degli Scriptores, nonché le serie seguenti: Auctores antiquissimi, Scriptores rerum merovingicarum, Scriptores rerum langobardicarum et italicarum, Poetae latini aevi carolini, Libelli de lite imperatorum et pontificum). Per la Francia si ha il Recueil des historiens des Gaules et de la France, iniziato da M. Bouquet nel 1738, ripreso e compiuto in 23 volumi nell'edizione curata da L. Delisle e da altri, Parigi 1869-76, e ora la snella collezione fondata da L. Halphen, Les classiques de l'histoire de France au moyen âge, Parigi 1923 segg. Per l'Inghilterra si hanno i Rerum britannicarum medii aevi scriptores, Londra 1858-91 (voll. 228). Per l'Italia: i Rerum italicarum scriptores di L. A. Muratori, voll. 28, Milano 1723-51, ripresi modernamente da G. Carducci e V. Fiorini, Città di Castello 1900 segg. (in continuazione), e le Fonti per la storia d'Italia, pubblicate dall'Istituto storico italiano, Roma 1887 segg. (pure in continuazione), contengono testi anche non strettamente storici. Piccole collezioni di testi di speciale interesse linguistico o folkloristico sono la Sammlung vulgärlateinischer Texte, iniziata da W. Heraeus e H. Morf, Heidelberg 1908 segg., e la Sammlung mittellateinischer Texte, edita da A. Hilka, Heidelberg 1911 segg. Ai testi alternano studî filologici le Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, fondate da L. Traube e continuate da P. Lehmann, Monaco 1904 segg.

Per tutte le questioni filologiche si può infine rinviare all'ottimo manuale di K. Streckher, Einführung in das Mittellatein, 2ª ed., Berlino 1929.

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