Metafora

Enciclopedia Dantesca (1970)

metafora

Francesco Tateo

Figura retorica consistente nell'usare in luogo del vocabolo proprio un vocabolo diverso attinto ad altro campo semantico. Il trasferimento del vocabolo da un campo a un altro campo semantico (di qui il termine latino di translatio che designa tale figura, e il termine consueto di ‛ traslato ') non deve tuttavia essere imposto dall'esigenza di designare un oggetto o un concetto mancanti di denominazione propria, altrimenti si verifica quella necessaria m. chiamata abusio o ‛ catacresi '.

Spiegata da Cicerone (Orat. III XXXIX 157) e Quintiliano (Instit. VIII VI 8) come una similitudine abbreviata attraverso la soppressione del termine comparativo, la m. venne giustificata dall'esigenza di una più intensa significazione a dal fine del diletto, e considerata come un vizio allorquando il significato risultasse poco perspicuo o la translatio stessa immotivata. La classificazione dei vari generi di m., presente nei retori antichi, si trova schematicamente illustrata da Isidoro (Etym. I XXXVII 2-5), donde passa nella retorica medievale. Isidoro, che considera la m. come un rivestimento e le attribuisce la medesima ragione che all'allegoria, ossia un'esigenza didattica e un'esigenza di sacrale difesa (" ut sensus legentis exerceant, et ne nuda atque in promptu vilescant "), distingue infatti quattro " modi " di m. a seconda del campo semantico di provenienza: " ab animali ad animale ", " ab inanimali ad inanimale ", " ab inanimali ad animale ", " ab animali ad inanimale ".

La m. assume in D., fra le figure retoriche, un posto privilegiato, sia per essere enormemente profusa, sia per il fatto di costituire uno dei punti di forza del suo stile realistico e immaginoso insieme e il segno più evidente del suo modo di concepire tutto il reale intrinsecamente connesso da un'infinita serie di corrispondenze e di analogie. Per questo la m. dantesca, pur poggiando sull'uso scolastico, come rivela la ripresa di certi traslati consueti che ricorrono nelle esemplificazioni dei retori, si estende molto oltre i limiti della tradizionale classificazione e per la ricercata analogia su cui spesso si regge, e per il prevalere dello scambio fra mondo spirituale e mondo sensibile, fra il senso interno e il senso esterno, che è nella consuetudine del linguaggio biblico e liturgico. Va anche ricondotta alla tradizione letteraria del Medioevo la tendenza dantesca a estendere la m. oltre il limite del singolo vocabolo, come prescriveva l'insegnamento retorico, e a costruire complesse immagini in cui l'uso traslato si ripercuote sull'intera frase, sviluppando quel linguaggio tropologico che è fra le più tipiche note dell'espressione dantesca. Ma di quest'ultimo genere di linguaggio figurato è opportuno parlare a parte, a proposito della transumptio (v.), distinguendo la m. propriamente detta (transumptio dictionis) dalla transumptio orationis, distinzione che troviamo più che altrove chiaramente indicata nell'Ars poetica di Gervasio di Melkley. Ed è alla Commedia che innanzi tutto bisogna rivolgersi per documentare la varietà e il sistema della m. dantesca, entro i limiti di un'esemplificazione quale sola ci consente questa sede. Si dirà in generale che la rima ha una parte notevolissima nel suggerire e nel sottolineare la singolarità dei vocaboli assunti in senso traslato.

Sorvoleremo sul primo e sul secondo genere della classificazione tradizionale, che prevedono rispettivamente il trasferimento di un predicato da un essere animato a un altro, da un essere inanimato a un altro, perché non sono rilevanti nell'uso dantesco. Eco dell'esempio classico che illustra il primo (" aligeros equos "), è nella comparazione ali sembiar le gambe loro isnelle (If XVI 87), mentre - come vedremo - è in altro senso assai diffusa la m. delle ali. Un caso particolare, che ci riconduce al clima infernale, è costituito dalla m. proveniente dalla comparazione uomo-bestia, sia che si attribuisca agli spiriti umani la voce del cane (la voce degli avari abbaia, If VII 43; Bruto latra, Pd VI 74; cfr. If XXXII 105-108), sia che il dannato o l'essere demoniaco sia rappresentato come ‛ mulo ' (lf XXIV 125) o come lupo (VII 8). Ma una sottile allusione a tale comparazione è nello spogliarvi lo scoglio di Pg II 122, se esso rinvia specificamente alla muta dei rettili. Al classico esempio che illustra il secondo genere della suddetta classificazione si ricollega Pd II 14 vostro navigio, servando mio solco (" sulcumque sibi premat alta carina ", Aen. X 296). Ma vanno segnalate due metafore riconducibili a quest'ultimo genere per il loro particolare esito poetico, il famoso tremolar de la marina (Pg I 117), che esula alquanto dallo schema suddetto, perché il verbo che istituisce un vago confronto fra il lieve ondeggiare del mare sul lido e il movimento delle foglie evoca una sorta di animazione cui non è estraneo il particolare suono del verbo stesso, e il verde smalto che designa il prato su cui siedono gli spiriti magni (If IV 118). Si aggiunga la m. di Pd II 78 così questo [pianeta] / nel suo volume cangerebbe carte, dove l'analogia fra il ciclo lunare e il libro, così insolita, è suggerita dal significato etimologico di ‛ volume ', che collega le due cose.

Il trasferimento " ab animali ad inanimale " è testimoniato nella Commedia dal classico esempio del mormorar di fiume (Pd XX 19), dall'uso metonimico di ‛ vedovo ' in vedovo sito (Pg I 26) e parimenti di ‛ cieco ' in cieco fiume (I 40), cieco mondo (If IV 13), cieco carcere (X 58), donde cieca vita (III 47) è la vita dei dannati, ma anche da una serie di m. essenzialmente nuove, come quella che designa la neve come sorella bianca della brina (XXIV 5), o quella che trasferisce sulla penna l'operazione compiuta dall'autore (se fior la penna abborra, XXV 144). L'attribuzione all'acqua del mare dell'atto d'inghiottire (Pg II 42) allude insolitamente, nella sua forma negativa (l'acqua nulla ne 'nghiottiva), allo sfiorare della superficie del mare da parte del battello. Tutta una serie di m. derivate dal comportamento umano è volta a illustrare le cose celesti, attraverso una sorta di personificazione (ma per questa figura cfr. la voce relativa): così l'acre s'allegra (If VII 122), la stella di Venere vagheggia il sole (Pd VIII 12), il cielo ride (XXVIII 83, ed è m. assai ricorrente, come si vedrà), mentre la stella di Venere fa rider l'orïente (Pg I 20). Una particolare efficacia rappresentativa è nella m. dell'albero che vede a la terra tutte le sue spoglie (If III 114), o in quella delle spalle del monte vestite dei raggi del sole (If I 16-17), o dell'Inferno che assanna i dannati (XVIII 99) o che divora / Lucifero con Giuda (XXXI 142), mentre 'l golfo / che riceve da Euro maggior briga (Pd VIII 68-69) è in relazione con l'immagine mitologica del dio, e Pistoia che si dimagra (If XXIV 143) rasenta la vera e propria personificazione. Analogamente tendono alla personificazione, consueta con i luoghi geografici, le m. di If XX 74 ('n grembo a Benaco) e di Pg V 75 (in grembo agli Antenori), divenute una formula, e non fanno che sviluppare la trita immagine del ‛ discendere ' del fiume i versi di If V 98-99, dove il Po figura trovar pace co' seguaci sui. Più complessa risulta, se pure sulla linea consueta dell'animazione del cielo, la m. di Pg XX 132 (a parturir li due occhi del cielo) perché i due corpi celesti, rappresentati metaforicamente dagli occhi, assunti nel senso metonimico di ‛ luci ', alludono a loro volta alle persone mitologiche della favola dell'intera similitudine, in cui compare anche l'altra cara m. del nido (v. 131).

Il trasferimento dal mondo inanimato a quello animato presenta, oltre i casi classici in cui, ad es., viene attribuita all'uomo la ‛ mollezza ' (fu molle / suo re, If XIX 86-87; si mostrar molli, Pg XXIV 124) o l '‛ esser crudo ' (per essere al dover le genti crude, Pd IX 48), o l'ardore luminoso del fuoco all'anima beata che sorride (sorridendo, ardea ne li occhi santi, Pd III 24), alcune metafore che mirano a dare un senso più immediato e concreto dell'azione, come ‛ divellersi ' e ‛ svellersi ' per il normale " uscire " (qual anima si svelle / del sangue, If XII 74; de l'abisso mi divella, XXXIV 100), m. applicata anche all'anima che si libera del corpo (XIII 95). Torreggiavan (XXXI 43, e cfr. anche i vv. 20, 31 e 40-41) detto dei giganti è in relazione con tutta la figurazione della valle circondata dai giganti, concepita come un ampio castello turrito. L'insieme degli spiriti suggerisce al poeta due serie diverse di m. tolte dal mondo inanimato, a seconda che si tratti dei dannati o dei beati. Nel primo caso infatti predomina la nozione del cumulo confuso: la selva ... di spiriti spessi, If IV 66; la settima zavorra, XXV 142; languir li spirti per diverse biche, XXIX 66 (m. cui già è ricorso il poeta con l'inconsueta forma verbale s'abbica, IX 78). Nel secondo caso si parla invece di santa mola (Pd XII 3), di nastro su cui sono incastonati gli spiriti come le gemme (XV 2 2), immagine sorretta dal rapporto metaforico sovente istituito fra ‛ gemma ' e spirito beato: XV 85 e 86, XVIII 115, XX 16-17, XXIII 101-102. Un analogo processo metaforico si attua in quei luoghi dove le parti del corpo umano vengono comparate a oggetti inanimati: così, gli occhi di Beatrice sono smeraldi (Pg XXXI 116), la gola di Pier da Medicina è una canna (If XXVIII 68) e la pelle di un falsario è una maglia che le sue dita ‛ dismagliano ' (XXIX 85). Dello stesso genere è la m. di XXXI 135 (poi fece sì ch'un fascio era elli e io), a meno che la figura scelta a rappresentare assai efficacemente la situazione eccezionale dei due poeti non venga considerata una catacresi.

L'antica classificazione della m. contemplava il trasferimento semantico fra le sfere proprie dei vari sensi. Alcune di tali m. sono divenute un corredo normale dell'espressione poetica, sicché in D. ‛ dolcezza ' è sempre usata nel senso traslato e ‛ dolce ' viene riferito largamente all'udito (dolci salmi, If XXXI 69; dolce mio vocale spirto, Pg XXI 88) o alla vista (Dolce color, I 13; dolce aspetto, Pd III 3). Così è normale l'estensione di fioco alla luce (If III 75). Con un forte accostamento lo stesso genere di m. è in I 60 ('l sol tace) e soprattutto in V 28 (d'ogne luce muto); lo scambio fra la vista e il suono sostiene in Pd XXIII 109 un'insolita aggettivazione (la circulata melodia) carica di allusioni simboliche, ma effettivamente collegata alla situazione dell'angelo che gira intorno alla Vergine; allo stesso modo analoghe m. del Paradiso (fulvido di fulgore, XXX 62; odor di lode, v. 126) s'intendono con la figurazione simbolica alla quale si riferiscono, rispettivamente, il fiume di luce e la rosa dei beati. Al linguaggio mistico si collega la m. che esprime il piacere della visione (la pastura / del viso mio, XXI 19-20; il medesimo traslato, in rima, si ritrova nell'amplificazione di un medesimo tema, XXVII 91) e l'effetto prodigioso, quasi fisico della luce paradisiaca (nova luce percuote il viso chiuso, Pg XVII 41), mentre il riferimento metaforico al gusto, a proposito della sofferenza fisica, poteva ottenere nell'Inferno un effetto comico di scherno (che ti mena a sì pungenti salse, XVIII 51) tanto più per l'allusione ironica al ripugnante sterco. Non riguardano propriamente lo scambio fra i sensi, ma a esso si avvicinano, sottili m. come quella di If XXIV 120, che ai già metaforici colpi vendicativi di Dio attribuisce un verbo relativo alla pioggia (croscia) e quella di Pg XXVII 67 (di pochi scaglion levammo i saggi), che fa del salire gli scalini un susseguirsi di ‛ prove ', ma allo stesso tempo allude col verbo ‛ levare ' non alla prova in genere, ma a quella dell'assaggio (comunque ‛ saggio ' è la materia prelevata per fare esperimento).

Invece lo scambio fra il senso esterno e quello interno, che D. preferisce indicare con immagini corpose, sensibili, anima una serie di metafore, da quella consueta di amaro (Pd VI 54) a quelle che rappresentano l'effetto, nella mente di chi ascolta, del parlare, che ora abbaglia (Pg XXXIII 75), ora inonda / e scalda (Pd IV 119-120), ora è corto e fioco (XXXIII 121; per l'uso traslato del primo dei due predicati, cfr. Pg XXX 137). Di qui anche la normale m. della vista de la mente (Pg X 122), delle luci / de lo 'ntelletto (XVIII 16-17).

La maggior parte delle m. dantesche riguarda la rappresentazione sensibile della vita psicologica o spirituale. Il ruminando di Pg XXVII 91 non fa che ricalcare l'uso traslato del corrispondente vocabolo latino e attinge da questo la sua intensità espressiva. Lo stesso deve dirsi della m. del ‛ morso ', variamente documentata nel senso di " rimorso ", di " rimprovero " o di " pena ". Così è normale l'impiego traslato di ‛ armarsi ' in If XXXIV 21 (di fortezza t'armi), dove lo stesso valore del sostantivo può aver suggerito l'immagine (ma cfr. anche Pd XVII 109, XXIV 46 e 49; s'armi è anche usato metaforicamente nel più generico senso di " provvedersi ", s'armi / ... di vivanda, If XXVIII 55). Ma il tema ‛ bellico ' suggerisce anche m. meno consuete: tra la brama e la cattiva volontà si apre una ‛ battaglia ' (Pg XX 1); una ‛ battaglia ' è anche la lotta dell'anima con gl'influssi celesti (Pg XVI 77), e una ‛ tencione ' s'ingaggia nel capo del poeta dinanzi a una difficile scelta (If VIII 111), o fra gli occhi e gli ostacoli che impediscono la vista (Pg X 117). A un conveniente livello comico appartiene la zuffa che più realisticamente s'ingaggia fra gli occhi e il naso del poeta e lo spettacolo infernale (If XVIII 108). Comune è anche la m. dell'‛ accendersi ' per designare la vita dell'anima (un'anima sovr'altra in noi s'accenda, Pd IV 6), o delle sue più ‛ calde ' manifestazioni (le tre faville c'hanno i cuori accesi, If VI 75; m'accesero un disio, Pd I 83), cui corrisponde quella dello ‛ spegnere ' (non s'ammorza la tua superbia, If XIV 63-64; volontà... non s'ammorza, Pd IV 76); e si confronti il largo uso metaforico di ‛ spegnere '. Un effetto particolarmente intenso è nell'accarno di Pg XIV 22. Analogamente, all'uso metaforico, ormai consueto, di ‛ pieno ' in rapporto con sentimenti dell'animo (piena / d'invidia, If VI 49-50; pien di spavento, IX 65; pien di disdegno, v. 88; pien d'ira, XII 72, ecc.), cui si aggiungono m. meno consuete come quelle di If I 11 (pien di sonno) e di Pd IV 139-140 (occhi pieni / di faville d'amor), corrisponde l'uso di ‛ scarco ' o ‛ carco ': di stupore scarche (Pg XXVI 71), si discarchi di vergogna il carco (Pd XVIII 66), dove la m. è accentuata dalla paronomasia. Ma la m. di ‛ pieno ' è particolarmente notevole nell'uso assoluto, nel senso cioè di " completo ", " soddisfatto ": la risposta così piena (If X 66), l'età... piena (XV 51), pieno il mio dimando (v. 79), tutta piena / esperïenza (XVII 37-38), esperïenza piena (XXVIII 48), la vostra voglia è sempre piena (Pd XXIV 3), e cfr. per empierti bene ogne disio, VII 121.

Specialmente quest'ultimo esempio si ricollega alla diffusa m. della sete e del cibo, che nella Commedia rappresenta uno dei più sintomatici esempi della vita fisiologica assunta a simbolo della vita spirituale; né allo sviluppo di tale m. ha contribuito poco la presenza del modello biblico, che è direttamente richiamato nella famosa perifrasi di Pg XXI 1 ss. (la sete natural, ecc.) e nella parafrasi della ‛ beatitudine ' in Pg XXII 4-6. La ‛ sete ' designa talora generalmente il desiderio di sapere: questi n'hanno maggior sete (Pg XXVI 20), già de l'ottava con sete rimani (Pd X 123); nello stesso canto X, che è appunto quello della ‛ sapienza ', la m. della sete di sapere si sviluppa in quella del vitto (anch'essa dietro una suggestione biblica), che rappresenta la verità capace di appagare il desiderio di conoscere (ma cfr. XXIV 2, dove il cibo che sazia perpetuamente è quello del mistico Agnello). Analogamente in Pd XVII 11-12 la m. della sete (t'ausi / a dir la sete) richiama quella del ‛ mescere ' e in Pd VII 11 quella del dolce liquore che diseta. Ma in Pg XXXII 2 (a disbramarsi la decenne sete) la violenza del verbo attribuisce alla metaforica sete un valore più fortemente sensibile, che richiama il luogo analogo in cui il desiderio di vedere il volto della Veronica è paragonato alla ‛ fame ' (che per l'antica fame non sen sazia, Pd XXXI 105). Altrove la sete è quella mistica della beatitudine: La concreata e perpetüa sete / del deïforme regno (Pd II 19-20); e d'altro non ci asseta (III 72); 'l sacro amore... che m'asseta / di dolce disïar (XV 64-66), dove il verbo si collega al termine che indica il ‛ desiderio ' assunto in un'accezione mistico-religiosa. È interessante a questo riguardo l'uso del verbo ‛ assetare ', che non si spiega se non in relazione col significato metaforico di ‛ sete ', sicché ‛ procurar la sete ' vale " accendere l'amore di sé " e avrà come soggetto Dio, oppure un sentimento personificato che induce a capovolgere la frase (quando alcun di sé asseta, Pd I 33; la superbia ch'asseta, XIX 121) elevando a soggetto l'oggetto del desiderio. A un ordine di significazione mistica appartiene anche la ripetuta m. della sofferenza come amara bevanda desiderata per la sua sostanziale dolcezza: a ber lo dolce assenzo d'i martìri (Pg XXIII 86), per la sete del martiro (Pd XI 100), metafore che possono avere un lontano modello nell'amaro calice del racconto evangelico. La m. del bere è talora complicata dallo scambio con quella del cibo; a parte l'uso di ‛ vivanda ' per ‛ bevanda ' (l'acqua del Lete, in Pg XXX 143), se in Pg XXVIII 134 e XXXI 129 ‛ saziare ', ampliando il suo consueto significato, ma con un certo fondamento etimologico, indica il soddisfacimento della sete, in XXI 39 (si fece la mia sete più digiuna) l'inusitatezza dell'attributo mira chiaramente a sorprendere il lettore.

In realtà D. preferisce le m. della sete per indicare il desiderio di conoscere (che è designato metaforicamente con ‛ digiuno ' tre volte: Pd XV 49, XIX 25 e 33), mentre per dar risalto sensibile al soddisfacimento del desiderio ricorre alla m. del cibo, sia col termine, che abbiamo visto meno impegnativo, di ‛ saziare ' (o di ‛ sazio '), sia col più crudo ‛ disfamarsi ' (Pg XV 76), o ‛ cibare ' (If VIII 107), o ‛ pascere ' (Pg XXVI 103). Così gli aggettivi ‛ digiuno ', ‛ ghiotto ', ‛ ingordo ' designano metaforicamente un desiderio particolarmente intenso (si aggiunga il raro ne gola, Pd X 111), ma in Pg XVII 122 (de la vendetta ghiotto) e in If XVIII 118-119 (sì gordo / di riguardar) l'espressione serba un notevole intento dispregiativo. Alla m. del cibo D. ricorre ancora per indicare il nutrimento morale (poi vince tutto, se ben si notrica, Pg XVI 78).

La rappresentazione sensibile della vita psicologica si risolve spesso in m. immaginose, sottolineate, se non condizionate, dalla rima; tale quella che introduce finanche un neologismo (la speranza ringavagna, If XXIV 12), e l'altra (esperienza imbarche, Pg XXVI 75), che ricalca il medesimo schema. Più ricercata è quella che trasforma il disio in un ago (la cruna / del mio disio, Pg XXI 37-38) e ancora quella che, oltre a far dei sospiri d'invidia dei veri sospiri, trasforma il petto in un mantice (invidia move il mantaco a' sospiri, Pg XV 51). Alcune m. ricalcano efficacemente i movimenti dell'animo su quelli dell'inseguimento e della fuga, a loro volta espressi attraverso locuzioni metonimiche: la puntura della rimembranza dà de le calcagne (XII 21) e la virtù diè le reni (Pd IV 141). Allo stesso modo D. spreme il suco del suo concetto (If XXXII 4), ha la testa cinta di ‛ errore ' (III 31) e si fa raccomandare da Corrado Malaspina che la sua opinione rimanga sempre conficcata come un chiodo nel mezzo de la testa (Pg VIII 137).

La fenomenologia dell'intelletto, sostanzialmente incentrata intorno al tema della difficoltà che l'ottunde, dell'errore che lo devia e della verità che lo appaga, si rivela attraverso m. assai varie, dal classico tropo della ‛ capacità ' (il seno della mente, If XXVIII 5-6), dell'impietrarsi, che ricalca quello della durezza del cuore (ne lo 'ntelletto / fatto di pietra e impetrato, Pg XXXIII 73-74), da quello della nebbia che offusca l'intelletto e si dirada al sopraggiungere del chiarimento (puote disnebbiar vostro intelletto, Pg XXVIII 81; purgherò la nebbia che ti fiede, v. 90, dove il verso si complica con altre due distinte m., quella del purgare usato in senso improprio, e del ferire attribuito alla nebbia; ma nebbia è anche quella del peccato) a quello del legame che impaccia l'intelletto (Pd XIII 120), che suggerisce la diffusa m. del ‛ nodo ', designante il dubbio e che giustifica lo ‛ spiegare ' di Pg XVI 53-54 (scoppio / dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego) introdotto forse nel suo senso originario di " sciogliere ", fino alla m. della piaga (Pg XXV 30) assunta poi spesso a indicare il peccato o la sventura. Altrove è un coperchio quello che nasconde alla mente la verità della fede (Pg XXII 94), e lo stesso dubbio è avvertito come una copertura, un vestito, che avvolge la mente, donde la m. del ‛ disvestirsi ' del dubbio (Pd I 94), fatta seguire subito da quella analoga dell'‛ irretire ' (v. 96). Così Beatrice invita D. ad ‛ aprire ' la mente alla sua rivelazione (V 40), e a sua volta la nozione rivelata è come se fosse aperta (v. 52). E la distinzione fra il parlare difficile della scienza, inteso dall'intelletto ben disposto, e il parlar semplice adatto alla mente rude si risolve ancora nella m. dello scoprire o svestire le parole (saranno nude / le mie parole, quanto converrassi / quelle scovrire, Pg XXXIII 100-102); che ricorda l'aprire per prosa di Vn XXV 8.

Né è il caso d'insistere su quelle m. che collegano il processo intellettuale al procedere dell'uomo su un difficile terreno: tener lo guado (Pd II 126), lo pié non fida (III 27). Non diversamente l'alto passo (If II 12) designa l'ardua difficoltà dell'impresa oltremondana. Ai pericoli e alle difficoltà dell'intelletto allude una più insolita m., che s'inserisce col suo forte colorito sensibile nell'altra consueta m. della luce: di vera luce tenebre dispicchi (Pg XV 66).

La ricerca del vocabolo realistico è la matrice di una notevole serie di m., sia che il poeta intenda con esse evidenziare un atto o un effetto collocabile in una sfera morale inferiore, sia che egli intenda semplicemente contribuire alla costruzione di uno stile di livello ‛ comico '.

Non molto rilevante, anche perché sembra suggerita dalla rima, è una m. come perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi (If XIII 57), che sembra caricare le parole di Pier della Vigna di un significato (impegolarsi in un difficile discorso) che esse non vogliono avere, se non fosse che l'immagine realistica si conviene al luogo e alla degradante condizione del dannato. Altrove (XV 94) il preannuncio della sventura diventa in rima una ‛ caparra ', ma il tono delle amare parole di D. contro la Fortuna è volutamente realistico, come indica il proverbio finale. La stessa cosa si deve dire di If XI 54 (quel che fidanza non imborsa), dove la rima ha avuto il suo peso nel suggerire la perifrasi e la relativa m., e dove tuttavia il tono delle parole di Virgilio è influenzato dal livello del tema. In Pg X 118 lo stesso Virgilio, rappresentando la degradante pena dei superbi, ricorre a una serie di rime chiocce in cui compare coerentemente la m. disviticchia per indicare realisticamente l'operazione che D. dovrebbe compiere con i suoi occhi onde accorgersi della reale consistenza delle figure apparsegli. Il ripetuto uso di brullo (o brollo: If XVI 30, XXXIV 60, Pg XIV 91), riferito nel Purgatorio alla decadenza della schiatta, nell'Inferno al deturpamento della pelle, si vale dell'effetto che entro una particolare concezione morale provoca la comparazione fra l'uomo e il livello inferiore della natura. La rappresentazione della voragine infernale come un ‛ sacco ', ma un metaforico sacco che contiene i dannati e con loro il male dell'universo ('l mal de l'universo tutto insacca, If VII 18), richiama la rappresentazione indiretta di Firenze come sacco d'invidia (La tua città, ch'è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco, If VI 49-50), con una m. che ha piuttosto un valore proverbiale. Un carattere più crudamente dispregiativo, animato da ragioni polemiche, è nel puzzo... del paganesmo di Pd XX 125, oppure in un colorito neologismo quale s'indraca (XVI 115) evidenziato in rima. Talora la m. realistica serba un intento ironico che si ricollega allo stesso livello comico dello stile. A parte quella di If XXI 115 (riguardar s'alcun se ne sciorina), dove il traslato di uso comune per dire " mettere in mostra " è già particolarmente espressivo riferito ai dannati che cercano soltanto di trovare rifugio uscendo dalla pece, un carattere propriamente ironico ha la m. di If VII 35, dove la giostra indica lo scontrarsi delle schiere di avari che si risolve in un vile e reciproco rinfacciamento delle colpe, e quella di XIV 40 (la tresca / de le misere mani), dove il ricordo ironico del pittoresco ballo a proposito dell'affannosa difesa del sodomita si carica di scherno. Il dileggio è presente anche nella rappresentazione del dannato che munge / le lagrime (I f XII 135-136; ma in Pg XIII 57 e XXIV 17 la medesima m., collegata alla metonimia ‛ dolore ' per ‛ lacrime ', ‛ sembianza ' per ‛ volto ', ha semplicemente un valore intensivo, mentre in Pd XXI 87 è assorbita addirittura nel linguaggio filosofico) e in misura minore nelle m. suggerite dalla singolare immaginazione dello stato dei golosi in Purgatorio, e che appartengono al medesimo mondo vegetale, analogamente al simbolismo centrale dell'albero che nel sesto girone attrae l'interesse dei viaggiatori: le figure che si assottigliano per la fame sono paragonate ora all'albero che perde le foglie (sì vi sfoglia, Pg XXIII 58), ora al grappolo (la piaga / de la giustizia che sì li pilucca, XXIV 38-39). Nelle parole di D. a Forese, colpito da questa pena, la progressiva degenerazione di Firenze è paragonata all'operazione di scarnire l'osso ('l loco u' fui a viver posto, / di giorno in giorno più di ben si spolpa, XXIV 79-80).

Il tono satirico e grottesco domina nell'immaginosa m. di Pg XX 75 (a Fiorenza fa scoppiar la pancia) giustificata anche dal tono profetico del passo, dove l'allusione alle arti subdole tutt'altro che eroiche di Carlo si riflette nel carattere plebeo della personificazione. In una profezia è inclusa, e ad essa si adatta per quel che serba di vago, la m. anch'essa realistica, perché tolta dal mondo animale ma senza scherno, di Pd IX 51 (che già per lui carpir si fa la ragna).

La leggerezza e la velocità del movimento spirituale trova naturalmente la sua adeguata m. nel ‛ volo ' degli uccelli, talora risolto nella perifrasi del ‛ muover l'ali ' (Pd XXXII 146), o nella metonimia delle ‛ penne ' o delle ‛ piume '. L'elevarsi dell'anima è identificato propriamente con l'impennarsi dell'alato (Pd X 74), ali e piume rappresentano lo slancio del desiderio mistico (Pg IV 28), o la capacità di sublimazione intellettiva per cogliere il mistero (Pd XXXIII 139); il degradarsi dell'anima è avvertito come un appesantirsi delle ali, divenute incapaci di sollevare il corpo (Pg XXXI 58), mentre la miracolosa esperienza del poeta, reso capace di sollevarsi a Dio, è avvertita come un rivestirsi di piume (Pd XV 54), e analogamente l'intensificarsi della sua velocità di ascesa è resa metaforicamente con il crescer delle penne (Pg XXVII 123). Non va tuttavia dimenticato che la m. del volo costituisce spesso, in effetti, la designazione letterale del volo reale che il poeta immagina di compiere col suo corpo, nell'ascesa verso l'Empireo. Anche il processo invisibile delle facoltà psichiche è rappresentato con la medesima m.: si pensi al trar d'ale (Pg X 25) con cui è indicato il veloce fenomeno ottico e alla varietà delle ali (Pd XV 81) in cui è simboleggiato il processo non concomitante, nell'uomo, della volontà e dell'intelletto. In Pg XXIV 58 gioca forse il duplice significato di penne, in quanto lo stile dei nuovi poeti (metonimicamente indicato con lo strumento dello scrivere sotto la metaforica dettatura di amore) corrisponde anche a un volo di essi, stretti dietro l'alata guida. Il folle volo di If XXVI 125 è evidentemente una m. del veloce corso della nave di Ulisse, ma insieme del suo sbandamento morale: e l'immagine si complica con il metaforico scambio fra ali e remi, che ricorda l'altra m. di If XVII 115 (Ella sen va notando lenta lenta).

La dedizione alla vita cristiana si concreta nella ormai tradizionale m. della ‛ milizia ' e del ‛ militare ', che richiamano appunto tutta una particolare concezione del servizio svolto all'insegna di Cristo (cfr. Pd XII 37). Né è il caso d'insistere su altre m. implicanti la tradizione dei testi sacri, come, ad es., quella della ‛ greggia ', della ‛ sposa ', della ‛ destra ' di Dio (donde, con effetto realistico, e con in più lo scambio metonimico fra astratto e concreto, la m. della divina vendetta che ‛ martella ', If XI 90); mentre altre m., come quelle del ‛ sole ' per designare Iddio, le anime, o un personaggio eccellente, riguardano propriamente il sistema dei simboli su cui si regge il poema. Così dalla percezione del ‛ riso ' come corruscazione... de l'anima e manifestazione del suo diletto scaturisce l'attribuzione del ‛ riso ' ai cieli per indicare quel particolare splendore che è manifestazione di maggiore beatitudine (Pd V 97), e per analogia al cielo visibile illuminato da Venere (faceva tutto rider l'orïente, Pg I 20) e alle carte illuminate dal colore della miniatura (XI 82).

Questa intercambiabilità fra ‛ riso ' e ‛ luce ' suggerisce anche la nuova m. del volto di riso dipinto (Pd XXIX 7), che si ricollega a un'altra interessante analogia fra pittura e visibilità, evidenza, per cui il desiderio di D. è dipinto sul suo viso (IV 10), in Dio è dipinta ogni cosa (XXIV 42), le rive del fiume paradisiaco sono dipinte di fiori (XXX 63; v. METONIMIA), e in Pg XXII 74 il colore è concepito nella sua virtù di rendere efficace il disegno, in una m. che si riferisce al racconto autobiografico di Stazio. E si veda d'altra parte l'uso metaforico di ‛ stinguere ', " togliere il colore ", per " attenuare " in genere. L'interesse dantesco per l'esemplificazione pittorica attraverso l'immediatezza della m. è testimoniato da una preziosa allusione alla tecnica pittorica del chiaro-scuro in Pd XXIV 26, dov'è presente lo scambio, di cui già si è detto, fra i sensi (del canto di Beatrice, con le sue pieghe, non può dare un'idea il nostro parlare, che è color vivo, incapace di toccare tali sfumature). Del resto la luce per il poeta non è altro, spesso, che colore; infatti la luce imbianca, nel senso naturale (If II 128) o spirituale (Pd VII 81); ‛ biancheggiano ', cioè luccicano, le stelle della via Lattea (XIV 98); e le immagini del bassorilievo ‛ biancheggiano ' (Pg X 72), dove il verbo può designare propriamente il bianco colore della pietra, ma è adoperato in modo (mi biancheggiava) da alludere all'emanazione di luce, e cioè a un senso metaforico assai simile a quello dei casi precedentemente citati. Donde anche l'‛ imbiancarsi ' designa metaforicamente l'illuminarsi del vero dinanzi alla mente.

Fondamentalmente orientato verso la rappresentazione sensibile dell'intelligibile, il linguaggio dantesco affida spesso la coloritura dei concetti astratti alla m. tratta dall'esperienza quotidiana. Basterà ricordare due esempi tipici d'immagini care al poeta, il quale ricorre volentieri ai vari aspetti e momenti dell'uso dell'arco e della freccia, con le relative figure della cocca e della corda, per indicare una serie di atti e di situazioni dell'ordine psicologico, intellettuale e divino; e richiama il ‛ sigillo ' e il ‛ sigillare ' per rappresentare metaforicamente una serie analoga di concetti astratti. Ma su questa linea il linguaggio dantesco dà ampio spazio soprattutto alla m. tratta dalla natura, in particolare quella idillica cara alla poesia amorosa, per rappresentare sensibilmente il mondo soprannaturale. E se da una parte il paesaggio naturale del Purgatorio si ravviva, animato quasi in una mitica vicenda, attraverso m. come L'alba vinceva l'ora mattutina / che fuggia innanzi... (I 115-116), la rugiada / pugna col sole (vv. 121-122), il paesaggio paradisiaco si determina in una continua evocazione della natura fiorita. In realtà il mondo floreale ha un largo impiego metaforico, e non solo in relazione alla rappresentazione del Paradiso.

L'uso metaforico di ‛ dispogliare ' dipende da quello di ‛ spoglia ', assunto normalmente in senso traslato, ma vi prevale l'allusione all'ornamento della foglia, pari a un vestito, che ritroviamo in alcuni casi specifici: l'albero vede a la terra tutte le sue spoglie (If III 114), e così una pianta è dispogliata / di foglie (Pg XXXII 38-39, dove gioca una sorta di allitterazione che può aver addirittura suggerito l'immagine), e l'Ariete non dispoglia la primavera eterna (Pd XXVIII 117), ossia il simbolico giardino paradisiaco, delle sue foglie e dei suoi fiori. Difatti in If XVI 54 il lento dispogliarsi del dolore rimanda al fenomeno dello sfrondarsi della pianta, e spogliarsi dell'amore (Pd XV 12) e della speranza (Pg XXXI 27) equivale a perdere quel metaforico abbigliamento dell'anima che è come la fioritura della pianta. In Pd XXV 46-47 la speranza è appunto concepita come il fiore di cui l'anima si adorna (come se ne 'nfiora / la mente tua), e in XIV 13 la luce, che è lo splendido rivestimento delle sostanze beate, è come il fiore di esse (la luce onde s'infiora / vostra sustanza). Il fiore è del resto assunto a rappresentare in genere il termine o la manifestazione della beatitudine: il Paradiso sotto i raggi di Cristo (Pd XXIII 72) s'infiora, germoglia di fiori, quei fiori che corrispondono ai beati, e le anime che contemplano Beatrice (X 91-92) formano una ghirlanda, la quale s'infiora di piante, ossia si compone di piante fiorite (cfr. XII 96, dove le piante dei beati circondano Beatrice e D. come un fascio). La m. della ‛ ghirlanda ', del ‛ serto ', della ‛ corona ', torna nel Paradiso anche per il fatto che le anime s'immaginano disposte, nel cielo del Sole, a forma di cerchio. L'aspetto geometrico della ghirlanda ne fa talora la m. del semplice ‛ circondare ' (If XIV 10, Pg XIII 81, Pd IX 84), ma specie nell'ultimo caso, ossia nel discorso di Folchetto, l'immagine ha una ricercata ragione letteraria e mira a rappresentare l'Oceano come l'ornamento terminale della terra. Al simbolico ornamento floreale si riferisce la m. del giardino che traduce il ‛ Paradiso ' (Pd XXXI 97, XXXII 39), o dell'orto (XII 72 e 104, XXVI 64), nella biblica transumptio dell'ortolano divino (cui corrisponde la m. degli sterpi eretici, XII 100), mentre l'aiuola (XXII 151, XXVII 86), diffusa già nel linguaggio medievale, si riferisce piuttosto alla ristrettezza dei confini della terra abitata.

La m. della vita vegetale ricorre spesso anche per effetto del modello biblico, donde in particolare si sviluppa il tema della vigna (Pd XII 86-87) e dell'albero che dà cattivi frutti (Pg XX 43 ss.). Nei limiti più specifici della m. si contiene l'identificazione della pianta che si corrompe con l'ordine dei domenicani (Pd XI 137); ma la grazia divina è concepita come radice dell'umano e fruttuoso operare (Pg XI 33, XVII 135) o come la linfa che rinnova (rinverda) la buona volontà (XVIII 105). Il ‛ verde ' del mondo vegetale è infatti m. della vita, della durata, come nelle Rime (e 'l mio disio però non cangia il verde, CI 4), così nella Commedia: com' poco verde in su la cima dura (Pg XI 92, e cfr. al v. 115 la perifrasi color d'erba); la speranza ha fior del verde (III 135, se la m. non deve intendersi in questo caso tratta piuttosto dal colore con cui si soleva segnare la parte inferiore della candela). Analogamente il ‛ frutto ', la ‛ spiga ' equivarranno metaforicamente al risultato di un'opera buona o cattiva, il primo anche al risultato dell'influsso delle sfere celesti (Pd XXIII 20) e alla ‛ conseguenza ', nell'accezione filosofica del termine (II 70); e il ‛ pomo ' sarà prevalentemente, in senso metaforico, il termine del desiderio, ciò che val la pena di desiderare, donde scaturisce l'opposizione di frutto-foglie in Pd VIII 57, dove le fronde sono le parole e il frutto i fatti. Al fenomeno della vita vegetale si riferisce la m. del ‛ maturare ' per designare l'espiazione o il perfezionamento delle facoltà spirituali; se nel Purgatorio il pianto diviene la metaforica acqua che rende l'anima matura per la beatitudine (XIX 91 e 141), nel Paradiso sono i raggi divini che portano a maturazione lo spirito (XXV 36). Ma in If XIV 48 la medesima m. a proposito della pioggia che non rammorbidisce la tracotanza di Capaneo ha una sfumatura ironica per la stessa natura della pioggia infernale.

Un altro simbolo della vita spirituale è l'acqua, che nel suo esemplare fenomeno dello scorrere suggerisce una serie di m., non ignote del resto alla tradizione letteraria. Si veda per questo soprattutto l'immagine, abusata, dell'eloquenza come fiume che si spande dalla fonte virgiliana (If I 79-80). Lo spandersi dell'acqua dal fonte è naturale m. dell'esprimersi in Pd XXIV 57-58, o del fecondare (l'esperienza è come fonte della scienza, in II 95-96). L'intuizione della speranza attraverso la lettura del testo biblico e l'opera di edificazione che si assume l'autore del poema sono rispettivamente rappresentate dallo stillare delle parole sacre e dalla pioggia che il poeta rovescia sui suoi lettori (XXV 76-78). Al flusso dell'acqua è assomigliato il diffondersi dell'allegrezza nell'anima (Pd XVI 19, XXXII 88), e a un tale flusso il poeta allude in XXXIII 62, quando parla del godimento della visione e quando con immagine assai raffinata sente la dolcezza scendere a goccia a goccia nel cuore. ‛ Distillare ' e ‛ piovere ' sono usati come sinonimi, per esigenza di varietà, in Pd VII 67 e 70, per indicare il processo della creazione. Ma il significato mistico dell'acqua che dona refrigerio è al fondo della m. della pioggia identificata con il flusso della grazia o con la discesa dello Spirito Santo (Pd XIV 27; e cfr. Rime CXIII 12, Pd XVI 19, XXIV 91 ss., XXX 113), ovvero con la manifestazione della verità (XXIV 135) e con l'influsso celeste (XXVII 111). Così Dio è, secondo una consueta immagine, un fonte (Pg XV 132, Pd IV 115, XXIV 9, e anche XXXI 93).

A un tradizionale ordine di m. appartiene l'efficace rappresentazione di D. sbattuto nella fiumana (If II 108), che corrisponde al mare di questa vita di Cv IV XXVIII 2.

Il linguaggio tropologico della lirica dantesca non ha la ricchezza e la varietà di quello della Commedia; esso si raccoglie in sostanza intorno alla tematica amorosa e tende soprattutto a colorire con immagini corpose la vicenda psicologica. Una serie di queste m. si trova concentrata in Rime CIII per il particolare tono del componimento: l'amore è una lima che logora la vita (v. 22), esso ‛ rode ' il cuore (v. 25) e con i suoi denti la morte consuma (manduca) il poeta (v. 32); e così la crudele donna dilania il suo cuore (v. 54). Più consueta è la m. della freccia di Amore, dipendente dalla tradizionale figurazione mitologica (L 57-58, CXVI 74, LXXX 16; ma cfr. i vincastri di Amore in LXII 1), della morte, non violenta, che dà la donna (La sua vertute, ch'ancide sanz'ira, LIX 5), della battaglia e della guerra di Amore (XLVII 14, L 62, C 62; e cfr. L 3) e delle ferite che provoca Amore (LVIII 3, LXVII 7). È già nelle Rime una serie di m. che designano l'invisibile vita dell'intelletto, come avverrà in larga scala nella Commedia: a parte l'ovvio riferimento agli organi sensibili per rappresentare la vita intellettiva (gli occhi ch'a la mente lume fanno, CVI 49; oh mente cieca, v. 70), nello stesso componimento la benda (v. 57) designa metaforicamente il parlare allegorico, che nasconde la verità all'intelletto, e in C 10 ss. i pensieri d'amore sono un gravoso ‛ carico ' della mente (e però non disgombra). Sarà ripresa nella Commedia la m. del fuoco dell'ira (d'ira mi coco, Rime XLII 3; cfr. Pg XV 106), e già nelle Rime è adoperato il verbo ‛ piovere ' in senso metaforico per designare il sopraggiungere della paura (LXV 5), il discendere dell'amore (C 67), o della virtù (LXXXVII 11) del cielo: esso diventerà nella Commedia tipico dell'azione divina. Altre m. ancora, collegate alla tradizione della lirica amorosa, come ancella (XC 18-19), o gioia (Vn XV 4 2), rivivono nel particolare linguaggio della Commedia. Interessante la m. del libro della memoria, che ritorna due volte in Rime LXVII 59 e 66, e all'inizio della Vita Nuova (I), e ancora nella Commedia (del libro che 'l preterito rassegna, Pd XXIII 54).

Nella prosa e latina e volgare l'uso della m. rientra in una consuetudine letteraria assai diffusa nella tradizione medievale e ne riprende i modi senza notevole originalità. Più diffuso che nella poesia, dove la m. ha funzione espressiva piuttosto che esornativa, risulta quel genere di metafore esplicite come l'artimone de la ragione (Cv II I 1), al diritto calle de lo inteso processo (IV VII 1), aquam nostri ingenii (VE I I 1), incendium tuae dilectionis (Ep III 2). Il parlar figurato della prosa si organizza spesso in forme più complesse che sarà opportuno esaminare a proposito della transumptio; ma sarà il caso di segnalare almeno la m. del venari che in VE I VI 1 evoca il simbolo della ‛ pantera ', e la m. del pane e della vivanda, che nel Convivio richiama il titolo stesso dell'opera.

Al particolare colorito realistico del Fiore contribuisce non poco la m., la quale rivela anzitutto la propensione verso l'immagine sensibile, come nel caso di essere in bilanza, ripetutamente riferito alla condizione psicologica del dubbio (VII 11, XLIV 9, CLII 8, CLXXII 6), laddove nella Commedia la medesima immagine della bilancia ricorre come simbolo della giustizia (Pd V 62, XIII 42). E come nella Commedia è diffuso l'impiego metaforico di ‛ guerra ', così nel Fiore esso si ritrova (tutto 'l mondo ha preso con noi guerra, CXXIII 13) accanto a ‛ battaglia ' nel senso di ‛ travaglio ' (CLXIX 3), ma anche a ‛ guerreggiare ' attribuito a entità astratte personificate (XXXI 6, LXXIII 8), a ‛ guerrero ' (XXXVI 13) nel senso metaforico di " avversario "; cui si aggiunge ‛ armadura ' nel senso di " difesa " (CXXVI 1, CLXII 10). Come nella Commedia, ricorre nel Fiore la m. del ‛ nutrimento ', oltre che nell'impiego più comune (di buona speranza il mi notrico, III 13; d'amarla non ti sfami, LIV 4), in una più complessa allusione al rapporto d'amore (XXXIV 9 ss., dove al nodrimento d'amore e al nodrire di speranza fanno riscontro il digiunar e la salsa stemperata di languire; cfr. di buon morse' tuttor la mi notrica, LXII 3). Al rapporto d'amore si riferiscono altre metafore, in cui compare un insolito realismo, come le derrate di LVIII 3, il far mercato di LV 2, nel quale ultimo sonetto il bacio diventa una " caparra " (ma se d'un bascio l'avessi inarrato, v. 3; cfr. altre persone m'avieno inarrata, CXLVII 8). L'impronta realistica dell'insegnamento d'amore si riflette nelle forti immagini del ‛ balestrare ' e dell'‛ accroccare ' (CLXVI 9 e 11), riferiti alle scaltre arti d'amore (nel Detto, v. 366, amore cinge il crocco). Al medesimo tono, con una più esplicita intenzione ‛ comica ', appartiene la m. del ‛ sale ' accolta nel senso diffuso di " intelligenza " (ed egli avesse alquanto sale in testa, XCIII 6), ma anche in quello di " gusto ", " piacere ", che si sviluppa in una più ampia ‛ transumptio ': tale / ch'ogne vivanda mangi sanza sale, / sì fortemente t'ha dissavorato, XXXVII 7-8). A tale stile si confanno alcune espressioni metaforiche, che potremmo dire gergali, come tu non saresti gito co llu' a danza (IX 11), sed al su' amor non vuo' tagliar le carte (LXII 8), di filo in aguglia (XLIX 2), dessono a Malabocca scacco matto (LXXXIV 4). Alle quali si possono aggiungere, fra le tante che mirano a un'esemplificazione sensibile, metafore come queste, che hanno del proverbiale: così convien cambiar le pere a pome (LIV 11), della religion... / i' lascio il grano e prendone la paglia (CIII 4-5).

Bibl. - A. Schiaffini, A proposito dello " stile comico " di D., in Momenti di storia della lingua italiana, Roma 1953², 43-56; Pagliaro, Ulisse 101-109; S. Battaglia, Linguaggio reale e linguaggio figurato nella D. C., in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di D., Napoli 1967², 51 ss.; F. Forti, La " transumptio " nei dettatori bolognesi e in D., in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 127-149; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 75 ss., 294-303, 382-384.