METAMORFISMO

Enciclopedia Italiana (1934)

METAMORFISMO (dal gr. μεταμόρϕωσις "trasformazione")

Giovanni D'Achiardi

Le rocce costituenti la crosta terrestre mostrano frequentemente di aver subito delle trasformazioni, che le hanno rese ben diverse da quello che dovevano essere originariamente, trasformazioni che, tenuto conto delle cause che possono averle prodotte e del momento nel quale si produssero, possono raggrupparsi in tre grandi categorie indicate con i nomi di diagenesi, metasomatosi, e metamorfismo. La diagenesi riguarda esclusivamente le rocce sedimentarie; metasomatosi e metamorfismo produssero invece trasformazioni sia su rocce sedimentarie sia su rocce eruttive, in epoche indipendenti da quella della loro formazione, e furono causa della prima agenti esterni o superficiali, del secondo agenti interni o, come anche si suole dire, cause endogene o di origine profonda.

Fu soltanto alla fine del 1700, che si cominciò a sostenere specialmente per opera di J. Hutton (1797) che alcune rocce, formate principalmente, o esclusivamente, da elementi cristallini, con una spiccata struttura scistosa, ritenute fino ad allora come le più antiche formazioni sedimentarie, costituitesi in mari ben diversi dagli attuali, dovevano considerarsi invece prodotte da trasformazioni di rocce sedimentarie, analoghe alle attuali, operatesi soprattutto per azione del calore e della pressione; e C. Lyell per primo (Principles of Geology, 1833) chiamò metamorfiche queste rocce e dette il nome di metamorfismo all'insieme dei fenomeni che si riteneva avessero prodotto queste trasformazioni.

Da allora lo studio del metamorfismo delle rocce divenne uno degli argomenti più interessanti per i geologi, che, cercando di determinarne le cause e d'interpretarne gli effetti, formularono svariatissime ipotesi, spesso in contrasto fra loro, e non sempre basate su dati d'indiscusso valore scientifico, tanto che la discussione sul metamorfismo divenne, e si è mantenuta, uno degli argomenti più dibattuti non solo del sec. XIX, ma anche dei giorni nostri.

Allo studio di queste prime rocce metamorfiche, che dovevano in seguito essere indicate con il nome di scisti cristallini, venne ad aggiungersi quello delle modificazioni prodottesi al contatto fra una roccia sedimentaria e una eruttiva, e fu necessario distinguere quanto si era osservato in questi casi in zone relativamente ristrette, da quanto era già noto per quelle in zone estesissime, talora per grandi parti di catene montuose; onde anche si cominciò a parlare da un lato di metamorfismo di contatto, dall'altro di metamorfismo regionale o generale. E tenendo conto delle cause che si ritenevano generatrici dell'uno e dell'altro, partendo dal presupposto, quasi sempre errato, che una sola isolatamente nei varî casi avesse agito, si distinsero metamorfismi: barogeno o dinamico, pirogeno, idatogeno, atmogeno o pneumatolitico, a seconda che era imputato alla pressione, al calore, all'azione dell'acqua, dei gas o vapori. Così pure si distinse un cambiamento della sua struttura, divenuta spiccatamente cristallina, e un metamorfismo chimico, se caratterizzato da un cambiamento della composizione chimico-mineralogica.

Oggi molte idee sono cambiate da quelle che furono un tempo in onore, e specialmente si è condotti a ritenere che nel maggior numero di casi, non una, ma più cause devono insieme aver agito; ma non per questo geologi e mineralogisti sono sempre tutti fra loro concordi; e specialmente dibattuta e controversa resta l'affemazione di molti che affidano alla pressione una parte preponderante, o esclusiva, in quelle trasformazioni che imputano al cosiddetto dinamometamorfismo, che talora rendono sinonimo di metamorfismo generale, mentre altri, esagerando in senso opposto, negano qualsiasi azione metamorfica dinamica, sia perché, come disse P. Termier, le azioni dinamiche possono deformare le rocce, ma non trasformarle, originare delle miloniti, ma non degli scisti cristallini, sia perché, come dimostrò G. Spezia con esperienze di laboratorio, la sola pressione (anche se di migliaia di atmosfere), su miscugli di corpi diversi, non può avere prodotto mai la più piccola trasformazione o combinazione chimica.

Ciò premesso si possono considerare i tre tipi di metamorfismo, oggi ammessi generalmente, che sono: metamorfismo di contatto; metamorfismo d'iniezione; metamorfismo regionale o generale.

Metamorfismo di contatto. - In esso sono da prendersi in esame le trasformazioni che una roccia eruttiva, ancora allo stato di massa fluida, fece subire alle rocce incontrate sul suo percorso, e quelle che lei stessa poté subire per azione di rocce con le quali venne in contatto, oppure attraversò o incluse. Le trasformazioni prodottesi furono dette esomorfe o esogene le prime (esomorfismo), endomorfe o endogene le seconde (endomorfismo).

Si riscontrano spesso masse gigantesche di rocce plutoniche circondate da un'aureola di rocce modificate; in questa zona di contatto, che può raggiungere chilometri di larghezza, e che ordinariamente non supera i 5-600 m., ma si può ridurre anche a qualche metro, si notano, come è naturale, le modificazioni più intense al confine della roccia eruttiva, mentre quanto più ci si allontana da essa, tanto più l'altra roccia riprende a poco a poco la sua composizione normale. Tali modificazioni sono prodotte dalla temperatura della roccia eruttiva e dalle sostanze liquide e gassose (agenti mineralizzatori), che da essa si sono sprigionate durante la sua consolidazione. Generalmente vengono considerati tre tipi diversi di esomorfismo e cioè il caustico, ridotto alla sola azione del calore, manifestatosi soprattutto verso la superficie della Terra; il termico, con ricristallizzazione e formazione di nuovi minerali per la presenza di vapor d'acqua e di altri agenti mineralizzatori, nonché per azione di elevata temperatura, senza sensibile trasporto di materia; l'additivo, con notevoli trasporti di materia dalla roccia eruttiva a quella che viene metamorfosata; questi ultimi due prevalenti in profondità.

L'azione caustica della sola temperatura è relativamente esigua rispetto a quella degli agenti mineralizzatori, come appare evidente dalla mancanza o quasi di vero metamorfismo al contatto di rocce effusive con rocce sedimentarie.

Si può ritenere che il motivo principale delle trasformazioni che avvengono al contatto sia la grande mobilità che possono acquistare le molecole, onde non solo può prodursi una cristallizzazione più o meno completa della roccia, ma possono anche gli elementi dei minerali essere messi in condizione di formare nuove combinazioni, corrispondenti a nuove condizioni di equilibrio, e aversi quei caratteristici minerali che vengono detti appunto "di contatto". Però è da ritenersi che la mobilità delle molecole, pur essendo notevole, non sia così completa come in una massa fusa, in via di raffreddamento e di consolidamento, con segregazione dei minerali, perché alla fusione della roccia sul contatto sembra che non si arrivi, e ordinariamente anche il riassorbimento di questa da parte del magma è trascurabile, o molto limitato. I minerali di contatto mostrano generalmente una cristallizzazione contemporanea, anziché un ordine di successiva formazione, con la conseguenza di frequenti caratteristiche interclusioni e imprecazioni, costituenti quelle strutture speciali indicate con i nomi di cribrosa, pavimentosa, pseudoporfirica, nodulosa.

Se nelle formazioni di contatto vi sia apporto notevole di materia dalla roccia magmatica all'altra non si può con sicurezza affermare: e se la massima parte dei geologi francesi sono per il sì, quelli tedeschi propendono invece per il no; certo si è che, nel maggior numero dei casi almeno, più che una vera e propria modificazione chimica, se ne ha una mineralogica e strutturale, con ricristallizzazione e formazione di nuovi minerali per diversa riunione degli elementi chimici giȧ esistenti, facilitata, verosimilmente, da agenti mineralizzatori volatili, come il fluoro, il cloro e il boro, dei quali non restano tracce, o soltanto piccolissime.

Che le formazioni di contatto siano per la loro composizione più in diretta dipendenza delle rocce metamorfosate, che non di quelle metamorfosanti, è dimostrato dal fatto che formazioni eguali o poco diverse si riscontrano spesso sul contatto con rocce eruttive fra loro completamente diverse, ma ciò non può affermarsi in modo assoluto. Così, ad es., in alcuni casi a contatto con i graniti possiamo constatare una feldispatizzazione della roccia metamonosata, la quale non presenta tracce di feldspati, e spesso neppure degli elementi che avrebbero potuto costituirli, più o meno lontano dal contatto. Però questo fenomeno della feldispatizzazione non in tutti i casi si deve considerare come un fenomeno di vero e proprio metamorfismo di contatto, ma può essere invece talora in correlazione con dei fenomeni sia di metamorfismo regionale, sia di metamorfismo di iniezione.

Sul contatto con i graniti e rocce simili, gli scisti argillosi e le filladi presentano un primo grado di trasformazione in scisti e filladi nodulose (Knotenthonschiefer, schistes argileux noduleux), poco diverse dalle rocce originarie, ma i noduli numerosi sono formati da aggregati squamosi di mica, probabilmente pseudomorfica di andalusite e di cordierite. A questa prima zona, che è la più lontana dalla roccia metamorfosante, ne segue una intermedia, costituita da micascisti nodulosi, bernoccoluti (Knotenglimmerschiefer), nei quali la struttura è divenuta nettamente cristallina, e insieme alla mica, visibile anche a occhio nudo, si accompagnano quarzo, andalusite, cordierite, staurolite, ecc., spesso in noduli, o in grossi cristalli, e da scisti cornubianitici (Hornfelsschiefer), da scisti macchiettati (Flecachiefer, schistes tachetés), da scisti a chiastolite. Finalmente nella zona che è a immediato contatto con il granito, ogni accenno a struttura scistosa è scomparso, la roccia è divenuta compattissima, tenace, a frattura scheggiosa, ha assunto colori grigi, verdi, bluastri, nerastri, rossastri; si sono formate cioè le cosiddette cornubianiti, o corneane (Hornjelse, cornéennes), contenenti numerosi piccoli individui di andalusite, pieni zeppi di inclusioni, che oltre servire a distinguere queste cornubianiti con il nome di questo minerale, imprimono alla roccia, se sono notevolmente abbondanti, un colore rossastro caratteristico. Esempî bellissimi di queste formazioni si osservano nella regione dell'Adamello, a contatto con la tonalite, all'isola d'Elba, in relazione con la massa granitica del Monte Capanne, in diverse località della Sardegna, ecc.

Anche negli scisti cristallini (micascisti e gneiss) il metamorfismo di contatto dà luogo spesso a formazioni con cordierite, andalusite, sillimanite e spinello, come nel micascisto a contatto con la diorite a S. Giovanni presso Varallo, sul contatto granitico a S. Fedelino nella bassa Val Mera, presso la massa granitica di Baveno, al contatto con filoni granitici, apofisi irradianti dalla massa principale, ecc.

I contatti con rocce calcaree dimostrano che esse sono spesso ricristallizzate e rese marmoree per notevole aumento della grana. Se sono argillose, marmose, arenacee, silicifere, il metamorfismo produce combinazioni della silice con l'allumina e con la calce a costituire minerali caratteristici, anche più varî e numerosi se nei calcari erano presenti magnesia e piccole quantità di alcali, che in vario modo disposti nella roccia, resa amarmorea, costituiscono i cosiddetti cipollini e calcifiri. Fra i minerali di contatto così costituiti si possono ricordare granato grossularia, vesuvi, anite, anortite, wollastonite, zoisite, epidoto, wemerite, diopside, fassaite, forsterite, monticellite, humiti, flogopite, spinello, corindone, ecc., e si può aggiungere la grafite, generalmente squamosa, se nel calcare si aveva presente sostanza organica. Fra tutte le regioni italiane, classica è la Val di Fassa, nel Trentino, ove sul contatto fra i calcari triassici e la sienite augitica, detta monzonite, si riscontrano caratteristici calcifiri, ricchi dei minerali su ricordati; ma ben conosciuta è anche la regione del Posto dei Cavoli, presso S. Piero in Campo, all'isola d'Elba, ove si può osservare il calcare divenuto cristallino al contatto della massa granitica di Monte Capanne, e arricchitosi soprattutto di wollastonite, alla quale si accompagnano dipiro (silicato del gruppo della meionite), pirosseno hedenbergitico, vesuvianite, condrodite, granato, ecc.

Le dolomie e i calcari dolomitici si comportano in modo abbastanza analogo, salvo la formazione di periclasio (MgO) e, per successiva idratazione, della brucite, e di una certa abbondanza di tremolite, come ci dimostrano quelle rocce della Val di Fassa che furono anche indicate con i nomi speciali di predazzite e di pencatite.

Le arenarie, quarziti, ecc., subiscono esse pure trasformazioni, che conducono a ricristallizzazione del quarzo in grossi grani e alla fomiazione di biotite, cordierite, sillimanite, feldspati, ecc. Alcuni infine sostengono che i graniti possono produrre un metamorfismo su rocce diabasiche, che si arricchirebbero di orneblenda, di pirosseno secondario e di ammassi granulari di plagioclasio; e che alcune eclogiti, come quelle dell'Affaccata (Elba), che forniscono cristalli ottaedrici d granato, accompagnati da bei cristalli di epidoto, non siano altro che rocce gabbriche metamorfosate dal contatto granitico.

Se alcuni ritengono che il metamorfismo esomorfo non presenti differenze sostanziali a seconda che le rocce metamorfosanti, siano acide (tipo granito) e siano basiche (tipo lherzolite), altri invece lo negano, ma non sembra che i fatti osservati possano dare ragione a questi ultimi. Furono specialmente studiati i contatti con lherzoliti e con diabasi; per i primi A. Lacroix si occupò di quelli che si riscontrano nei Pirenei, ove la lherzolite forma gobbe intruse nei calcari, nelle marne e accidentalmente nelle arenarie, e trasforma le prime due rocce in cornubianiti, micascisti e rocce anfiboliche caratteristiche per gran numero di minerali di contatto. Per i contatti con i diabasi si studiarono quelli con scisti argillosi, resi duri, compatti, fragili, e distinti con il nome di adinoli, o cornubianiti verdi, oppure trasformati in scisti macchiettati, o rigati di bianco, di rosso o di verde cupo, che furono chiamati spilositi e desmositi; ma sia il Brogger per la regione di Christiania, sia il D'Achiardi per quella di Berdianš, negli Urali, non arrivarono a determinare differenze sostanziali fra i contatti granitici e quelli diabasici.

I fenomeni di metamorfismo esomorfo prodotti da rocce filoniane e da rocce eruttive propriamente dette si presentano di molto minore entità di quelli delle rocce plutoniche e per il solito in aree di minore estensione; e ciò è da ritenersi che sia in correlazione, per le filoniane, con l'esiguità della loro massa, per le eruttive con la molto maggiore rapidità del raffreddamento e con la facile perdita degli agenti mineralizzatori che le accompagnano. Però non sono rari gli esempî di calcari divenuti cristallini, o di gneiss arricchitisi di andalusite al contatto di rocce filoniane; per le eruttive il fenomeno di contatto è caratterizzato soprattutto da un effetto calorifico che conduce a una semifusione; le arenarie si mostrano semivetrificate da rocce basaltiche per fusione del loro cemento, e spesso assumono una fessurazione prismatica in relazione a una contrazione del loro volume; le rocce argillose, o silicee, sempre per parziale fusione, possono essere trasformate in una massa compatta, durissima, scheggiosa, indicata con i nomi di diaspro-porcellana, o porcellanite.

Fra i prodotti di metamorfismo esomorfo di rocce eruttive si possono infine ricordare i proietti cristallizzati, così ricchi dei più svariati minerali, eruttati insieme ai blocchi di lave antiche, alle bombe, ai lapilli, alle ceneri di lava contemporanea da molti vulcani; per l'Italia sono soprattutto caratteristici e conosciuti quelli del Vesuvio, che si ritrovano inclusi nei tufi, specialmente in quelli antichi del Monte Somma, che si possono considerare come frammenti appartenenti a una zona di contatto profonda, strappati e proiettati all'esterno dalla violenza delle eruzioni vulcaniche; e specialmente quelli cosiddetti calcarei, ricchi di vesuvianite, granato, pirosseno, biotite, spinello e magnetite, non si possono, per la ricchezza e somiglianza dei minerali, ravvicinare alle zone di contatto della Val di Fassa.

Le modificazioni endomorfe prodottesi nelle rocce magmatiche nei varî contatti, non vi è dubbio che presentano molto minore importanza rispetto a quelle esomorfe e sono dovute essenzialmente a due cause, e cioè al più rapido raffreddamento delle parti periferiche rispetto a quelle centrali, ciò che conduce a una struttura porfirica o porfiroide, che caratterizza spesso la parte periferica delle rocce granitiche, e a un cambiamento di composizione chimica in correlazione con il possibile riassorbimento avvenuto della roccia di contatto, ciò che può spiegarci, ad es., la presenza di augite invece di orneblenda o biotite, e la segregazione di allumina o di silicato di alluminio, sotto forma di corindone, andalusite, ecc. Con le azioni di contatto propriamente dette sono strettamente connesse, e spesso anche non vi è possibilità di nettamente separarle, quelle che, appartenenti ordinariamente al periodo post-eruttivo, sono dovute essenzialmente ai gas, ai vapori, alle acque termali, direttamente o indirettamente provenienti dal focolare eruttivo. I fenomeni pneumatolitici si possono essi pure dividere in esomorfi ed endomorfi, ma a differenza di quelli di contatto vero e proprio, che consistono essenzialmente in modificazioni strutturali e mineralogiche, essi sono caratterizzati da vere e proprie modificazioni chimiche, spesso con apporto di sostanze caratteristiche, perché facenti parte di agenti mineralizzatori, quali composti del boro e del fluoro, cloro e zolfo, anidride carbonica e acqua. A esalazioni borifere è dovuta la formazione della tormalina, nelle zone granitiche periferiche e nelle rocce al contatto, nonché dei filoni pegmatitici, esalazioni che talora furono anche fluorifere, come quando nelle rocce granitiche si formarono i giacimenti filoniani stanniferi. Al contatto invece con le rocce basiche, come quelle gabbriche, l'agente principale di fenomeni pneumatolitici sembra essere stato il cloro.

Nello stesso quadro dei fenomeni pneumatolitici rientrano tutte quante le azioni delle fumarole vulcaniche, non tanto come produttrici di efflorescenze minerali svariate, che si depongono sulle lave, quanto per le alterazioni che possono indurre sulle rocce vulcaniche già costituite, delle quali bellissimo esempio ci viene fornito dalle trasformazioni operate dai composti ossigenati dello zolfo sulle rocce trachitiche della Tolfa presso Civitavecchia, di Torniella, in provincia di Grosseto, ecc., con formazione di allumite, caolino, ecc.

Infine possiamo ricordare che le acque termali esercitano esse pure un'azione metamorfica molto energica e duratura, in dipendenza soprattutto dell'anidride carbonica che a esse si accompagna; così noi osserviamo che dalle rocce vulcaniche a feldspati, o feldspatoidi, si formano i caolini; nelle cavità amigdalari di rocce effusive e nelle geodi pegmatitiche di rocce granitoidi i minerali zeolitici e a spese di rocce peridotitiche e serpentinose magnesite e opale.

Metamorfismo di iniezione. - Con questo nome s'indica la trasformazione subita da alcune rocce sedimentarie per fitta interpenetrazione di materiale eruttivo, che si ritiene essere stato la causa della formazione di quei cosiddetti scisti di iniezione granitica, che il Weinschenk indicò con il nome di metascisti.

In essi la feldispatizzazione della roccia sedimentaria sarebbe prodotta per la penetrazione in essa dei magmi, facilitata da agenti mineralizzatori, anche per notevoli estensioni. E la feldispatizzazione potrebbe essere avvenuta lentamente per imbibizione senza notevole cambiamento di struttura, oppure per iniezione di materiale magmatico in numerosissimi straterelli o vene. Così, si potrebbero fra gli gneiss distinguere quelli normali prodottisi per metamorfismo regionale, e gli gneiss di iniezione, talora zonati, tal'altra venati. Per spiegare questa facile trasportabilità di materia dalla roccia eruttiva alla sedimentaria, che non si verifica nei fenomeni riferibili al metamorfismo di contatto, s'invoca spesso l'influenza delle grandi profondità alle quali questi fenomeni sarebbero avvenuti, soprattutto per causa delle più alte temperature. I metascisti possono essere compresi nelle migmatiti del Sederholm, rocce dovute a mescolanze di rocce sedimentarie ed eruttive, nelle quali però trovano anche posto quelle che si considerano generate per riassorbimento da parte di magmi granitici di notevole quantità di materiali sedimentarî presso il contatto.

Metamorfismo regionale o generale. - Lo studio di questo tipo di metamorfismo si ricollega direttamente con quello delle cause di dislocazione della litosfera, che i geologi americani indicarono con il nome di diastrofismo, cioè con quel complesso di deformazioni subite dalle rocce sedimentarie dopo la loro deposizione. Il punto di partenza del corrugamento orogenetico è, secondo loro, la teoria delle geosinclinali, che ha origine dalla osservazione fatta da J. Hall, verso la metà del secolo scorso, che le zone di corrugamento più intenso, corrispondenti alle catene montuose, coincidono con le zone di maggiore spessore dei sedimenti marini, avvenuti a profondità variabili fra i 200 e i 1000 metri, cioè in quella zona che fu detta batiale, e caratterizzati da una costanza notevole di facies, che non potrebbe essere spiegata in altro modo se non con l'ammettere che i sedimenti stessi si siano formati in immense aree a forma concava, nelle quali il fondo andava progressivamente abbassandosi con il progredire della sedimentazione. Queste aree, a sviluppo longitudinale spesso enorme, costituirebbero delle regioni di grande instabilità e di facile deformabilità poste ai confini fra due regioni più vaste e dotate di maggiore stabilità, quali due aree continentali, o una continentale e l'altra oceanica. Ogni zona di pieghe di notevole importanza, quindi ogni catena montuosa corrugata, avrebbe il suo punto di partenza nella formazione di una geosinclinale, la quale può essere stata soggetta anche a movimenti verticali di emersione e successiva immersione, senza sensibile deformazione di essa, cioè sottoposta oltreché a movimenti orogenetici (formatori di montagne) a movimenti epeirogenetici (formatori di continenti), sovrapposti. Tutti i fatti che hanno causato una dislocazione, se producono come fenomeno evidente la piegatura degli strati, si può anche ritenere che abbiano contribuito a produrre modificazioni strutturali, e non di rado anche chimico-mineralogiche, della roccia, cioè un vero e proprio metamorfismo.

Però il problema difficile a risolversi è quello di sapere se il metamorfismo regionale può essere imputato anche a sole cause meccaniche, e quindi essere tutto una cosa con quello che fu detto dinamo-metamorfismo, o metamorfismo di dislocazione; oppure non debba ritenersi da lui solo impotente a produrlo, perché, come dice il Termier, le deformazioni che può originare non si devono considerare come delle trasformazioni, e non debbono i minerali caratteristici delle rocce metamorfosate essere ritenuti effetto esclusivo della pressione, ciò che lo Spezia confermava sperimentalmente.

Se, come sembra più probabile, la pressione da sola non è sufficiente a produrre il metamorfismo regionale, si può anche ritenere che a questo abbiano contribuito, insieme ad azioni meccaniche, azioni calorifiche, idatogene e pneumatolitiche. A ogni modo però il metamorfismo regionale prodottosi in rocce sedimentarie non sempre si può dire in correlazione con fenomeni di dislocazione. Se noi infatti consideriamo un sedimento formatosi alla superficie in condizioni che sono in rapporto con quelle chimico-fisiche dell'ambiente superficiale, si può anche ritenere che detto sedimento debba, in generale, cessare di essere in equilibrio con l'ambiente stesso, quando questo muti, per il fatto che il sedimento fu ricoperto da altri strati più recenti, i quali dovettero produrre un aumento di pressione e di temperatura, e può allora l'acqua, di cui la massa era tuttora impregnata, avere assunto un'attività tutta diversa e immensamente maggiore che a temperatura e pressione ordinaria, e in tal caso si può anche ammettere che si possa produrre una ricristallizzazione del materiale sedimentario e la formazione di nuovi composti, fra gli elementi di questo, che tende lentamente a porsi in equilibrio con il nuovo ambiente. Non solo i minerali facilmente solubili come i carbonati, ma anche quelli che non lo sono, come il quarzo, le miche, le cloriti, i feldspati, si riscontrano fra i prodotti di nuova formazione, o per lo meno sono divenuti fanerocristallini per dissoluzione dei più piccoli individui e ricristallizzazione, e le sostanze colloidali possono dar luogo a nuove combinazioni cristalline.

Questo metamorfismo che si produrrebbe sotto il carico di strati soprastanti, specialmente per azione dell'acqua e dell'alta temperatura, chiamato da L. Milch metamorfismo di carico (Belastungsmetamorphismits) e da E. Artini metamorfismo di profondità, presenta caratteristiche molto simili a quelle che si riscontrano nel metamorfismo di contatto.

Nel metamorfismo delle rocce sedimentarie prodottosi in correlazione con i fenomeni di dislocazione della litosfera, se, come sembra, non è solo sufficiente la pressione a produrlo e quindi non si deve parlare esclusivamente di dinamometamorfismo, allo stesso modo che fu prima negata un'azione esclusivamente calorifica che avrebbe prodotto la fusione dei sedimenti e la loro ricristallizzazione, non si deve però negare che pressione e temperatura abbiano avuto gran parte, ma a esse si accompagnò l'azione dell'acqua e di agenti mineralizzatori; acqua che può essere quella residua rimasta interclusa all'epoca delle loro formazioni, o essersi dalla superficie infiltrata in zone molto profonde senza vaporizzarsi, anche se scaldata ben oltre i 1000, a causa delle forti pressioni, oppure essersi prodotta dal riscaldamento dei minerali idrati, oppure soltanto basici, o formatasi a spese dei vapori sviluppatisi dai magmi profondi, insieme a tutti gli altri agenti mineralizzatori, che tenderebbero a elevarsi attraverso le parti più permeabili. Se è vero che certi minerali possono ricristallizzare senza l'intervento dell'acqua, come avviene specialmente per le sostanze dimorfe, se è vero che gli studî recenti sulla diffusione dei corpi solidi conducono ad ammettere la possibilità di scambi e di reazioni chimiche anche allo stato solido, quando le parti siano in intimo contatto, per effetto della pressione, è pur vero però che nel metamorfismo regionale si è dovuto frequentemente constatare un apporto di nuovi elementi, perché nessun sedimento contiene tanto alcali o magnesia, quanto uno gneiss e un'anfibolite, e questi apporti non sono certamente spiegabili con la sola pressione.

Se il deposito originariamente fu argilloso, cioè di natura plastica e cedevole, la compressione unilaterale, lungamente insistente in direzione costante, la quale caratterizza le spinte orogenetiche, determina soprattutto nella massa una maggiore compattezza e una tendenza alla disposizione regolare in piani paralleli fra loro e normali alla direzione dello sforzo di tutti gli elementi lamellari, fibrosi, aciculari, cioè la scistosità, più o meno facile e manifesta, che non è in generale concordante con la stratificazione originaria, e quindi indipendente dall'inclinazione degli strati, come lo dimostra il fatto di essere concordante nelle diverse parti di una piega. Oltre questo prodursi della scistosità, si notano fenomeni di ricristallizzazione e, per queste rocce argillose, la scomparsa di ogni sostanza colloidale e l'abbondante neoformazione di miche e cloriti in lamelle esigue, ma riunite in pellicole e straterelli fitti. Il microscopio poi ci svela che la ricristallizzazione si è estesa anche ad altri minerali come il quarzo, e per essa si sono prodotti granuletti di albite, aghetti di rutilo, ecc. In tal modo si hanno passaggi dalle argille alle argille scistose, agli scisti argillosi, alle filladi.

Le rocce arenacee e i conglomerati, sembra che abbiano risentito assai meno le azioni del metamorfismo di dislocazione, salvo casi speciali, nei quali si può ammettere che, per la loro eccezionale intensità, esse pure abbiano assunto strutture parallele, che i loro ciottoli più grossi siano stati schiacciati e appiattiti, assumendo forme lenticolari concordanti; in tal caso spalmature e straterelli di mica bianca sericitica si formano fra una lente e l'altra, e con il progredire di tale trasformazione può scomparire anche ogni traccia della struttura originaria mutata in una vera e propria struttura gneissica. Esempio di tale metamorfismo può esserci fornito dal verrucano del Monte Pisano, dai conglomerati carboniferi della Val d'Aosta, ecc. Nei calcari si osserva specialmente una ricristallizzazione che produce una struttura fanerocristallina, o saccaroide, e la scistosità non si manifesta altro che dove avvenga una copiosa neoformazione di minerali micacei. L'esempio più grandioso da noi di masse marmoree metamorfiche è quello delle Alpi Apuane, ove i marmi triassici riposano sopra rocce a sericite, clorite, ottrelite, di aspetto scistoso, risultanti dal metamorfismo di sedimenti permici.

Se in tal modo dalle rocce sedimentarie si formarono buona parte di quegli scisti cristallini che furono detti parascisti, per azione del metamorfismo regionale sulle rocce eruttive si considerano formati quegli altri scisti cristallini che, a distinguerli dai primi, furono indicati con il nome di ortoscisti. Le rocce eruttive per effetto delle spinte orogenetiche tangenziali subirono fenomeni di cataclasi, cioè di frattura e ricementazione dei singoli componenti mineralogici, primo fra tutti il quarzo in relazione alla sua fragilità; in esse si svilupparono quelle strutture caratteristiche dette a calcestruzzo o porfiroclastiche, e i minerali lamellari e fibrosi lentamente si adagiarono in piani paralleli fra loro, dando alle rocce una scistosità alla quale talora si accompagna anche una struttura ghiandolare, specialmente nelle rocce granitoidi caratterizzate da sviluppata struttura porfiroclastica. E se queste azioni meccaniche sono da addebitarsi alla pressione, è anche verosimile, per la formazione degli ortoscisti, il ritenere l'intervento di azioni calorifiche, idatogene e pneumatolitiche, per rendersi ragione delle trasformazioni chimico-mineralogiche subite dalle rocce originarie, a meno che la presenza di minerali non caratteristici di rocce eruttive non si voglia, in qualche caso, ritenere come conseguenza di speciali segregazioni di magmi, avvenute in condizioni del tutto diverse da quelle ordinarie.

Fra gli ortoscisti più caratteristici ricordiamo gli ortogneiss di vario tipo derivanti da rocce granitiche, sienitiche, dioritiche; anfiboliti, scisti verdi, prasiniti da gabbri e da diabasi; scisti seritici da porfidi quarziferi, ecc.

Se non vi è sempre possibilità di distinguere un ortoscisto da un parascisto, o da un metascisto, e se può essere ancora dubbioso lo stabilire a quali cause precise essi debbono la loro origine, ogni dubbio ormai è scomparso sull'origine loro certamente metamorfica, e gli scisti cristallini in genere, a qualsiasi formazione ed epoca geologica appartengano, ci rappresentano, nel loro insieme, l'effetto grandioso di quel metamorfismo che per la sua estensione fu detto regionale o generale.

Bibl.: Ch. Lyell, Principles of Geology, Londra 1833; Ch. Sterry Hunt, The origin of cristalline rocks, ecc., in Trans. R. Soc. Canada, II (1884); M. Lévy, Sur l'origine des terrains cristallins primitifs, in Bull. Soc. geol. fr., Parigi 1888; F. Zirkel, Lehrbuch der Petrographie, Lipsia 1891; A. Lacroix, Les enclaves de roches volcaniques, Mâcon 1894; id., Étude sur le métamorphisme de contact des roches volcaniques, Parigi 1894; E. Weinschenk, Mémoire sur le dynamométamorphisme et la piezocristallisation, Parigi 1900; P. Termier, Sur les micashistes, les granites, les gneiss, les amphibolites et les roches vertes des schistes lustrés des Alpes Occidentales, Parigi 1901; C. R. Van Hise, A treatise on Metamorphism, Washington 1904; H. Grubenmann, Die kristallinen Schiefer, Berlino 1904-1907; E. Haug, Traité de géologie, Parigi 1911; F. Rinne, Étude pratique des roches, Parigi 1912; F. Becke, Fortschritte auf dem Gebiete der Metamorphose, 1915-1916; E. Weinschenk, Grunzdüge des Gesteinskunde, I: Regionaler Metamorphismus, Friburgo 1913; C. K. Leith e I. W. Mead, Metanorphic Geology, New York 1915; L. Milch, Über Adinolen und Adinolschiefer des Harzes, in Zeit. deut. geol. Gesell., LXIX (1917); A. R. Daly, Metamorphism and its phases, in Bull. Geol. Soc. Am., 1917; H. Rosenbusch, Elemente der Gesteinslehre, Stoccarda 1923; E. Artini, Le rocce, Milano 1929.