Michel Foucault

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Catalani
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Michel Foucault è un filosofo francese la cui opera ha investito un vasto insieme di discipline: la storia della psichiatria, le scienze umane, il diritto penale, la teoria della politica, la sessualità. Il filo conduttore di queste ricerche così diverse è la dialettica fra la libertà e le istituzioni – manicomio, carcere, dispositivi biopolitici – di cui Foucault si è via via occupato. 

I primi anni e la Storia della follia

Nato a Poitiers nel 1926, Michel Foucault ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Parigi; divenuto negli anni ’60 uno degli intellettuali francesi più prestigiosi, è nominato professore al Collège de France nel 1970. È morto a Parigi nel 1984. La prima attività di Foucault si svolge sullo sfondo dell’esistenzialismo di Sartre e Merleau-Ponty, che domina la cultura filosofica e letteraria negli anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale, ma con una differenza ben precisa: la liberazione dell’uomo non va realizzata attraverso un incontro con il marxismo e con le organizzazioni politiche che lo rappresentano; anzi, più in generale, non è la politica lo strumento della liberazione: questa può essere portata a termine solo prendendo a modello l’esperienza del’larte e della letteratura. Se si tiene conto di questo, si può capire perché i primi anni dell’attività di Foucault (dal 1954 al 1961) si concentrino sul tema del disagio mentale e della follia: l’alienato e il folle sono stati visti fin dal romanticismo come personaggi che hanno una particolare propensione per la genialità artistica; il folle è un personaggio che si oppone radicalmente alla società costituita e, nella poesia (si pensi all’esempio del grande poeta romantico Hölderlin) come nella filosofia (qui l’esempio canonico è quello del filosofo F.W. Nietzsche), trova degli strumenti espressivi fondamentali per rovesciare i valori della civiltà borghese entro cui vive: siamo così in grado di comprendere perché la prima grande opera di Foucault sia una Storia della follia, in cui il protagonista del progetto di liberazione non è il proletario, ma il folle.

In quest’opera, Foucault si dedica a ricostruire come, nella cultura occidentale, si sia giunti a concepire la follia come qualcosa di patologico, come una malattia, mentre essa è il fenomeno fondamentale in cui si esprime la libertà dell’uomo, la sua esigenza di non aver limiti da parte della società, la necessità di vivere un’esistenza totale. L’opera, quindi, è, nel suo stesso impianto, una critica radicale della psichiatria, cioè della disciplina che ha preteso di inquadrare il fenomeno della follia come una malattia e di vederla come qualcosa di oggettivo, di riconducibile a cause organiche, di spiegabile e curabile sulla base di leggi scientifiche come quelle della fisica e della biologia.

Per criticare questa impostazione oggettivistica, Foucault parte dal tardo Medio Evo, periodo in cui chi soffriva di disturbi mentali non era, in molti casi, rinchiuso e isolato in spazi come i nostri ospedali psichiatrici, ma poteva circolare fra i suoi simili, per giungere ai primi decenni dell’Ottocento, quando i folli sono ormai rinchiusi nei manicomi. L’opera si conclude con l’illustrazione di due processi storici paralleli: da un lato, il costituirsi, nell’Ottocento, della psichiatria moderna; dall’altro, l’emergere di una letteratura e di una filosofia – Hölderlin, Nietzsche, Antonin Artaud, il grande poeta e teatrante che visse sempre sul bordo della follia – che si contrappongono radicalmente alla società industriale e la contestano non solo in quanto essa è matrice della psichiatria, ma in generale: la conclusione a cui giunge Foucault è che una letteratura che ha nella follia il suo centro di ispirazione è lo strumento per rovesciare la società borghese.

Anche se da questa impostazione così estrema sul piano filosofico e politico il suo autore si è distaccato ben presto, Storia della follia, con il passare degli anni, è divenuto un vero e proprio classico: 1) per la sua critica radicale della psichiatria, che ne ha fatto uno dei capisaldi del movimento antipsichiatrico; nonostante l’impostazione di Foucault sia assai diversa da quella del padre italiano dell’antipsichiatria, Franco Basaglia, il suo influsso è in parte confluito in essa; 2) perché ha costituito una pietra miliare nel campo della storia della scienza in generale e della storia della psichiatria in particolare: nonostante i molti errori di carattere filologico che contiene, l’opera mostra come un sapere scientifico si sia costituito non per il progressivo arricchirsi della ricerca scientifica, ma per effetto di mutamenti sociali e di mentalità collettiva che hanno strutturato le categorie stesse della scienza psichiatrica.

Le parole e le cose

Abbiamo visto come la filosofia di Foucault non sia affatto avulsa dalla storia e dagli eventi politici che a lui sono contemporanei, ma sia anzi un modo originale di impegnarsi in essi. Vedremo come tutto il seguito del suo lavoro confermi questo fatto; così, il secondo suo libro di grande rilievo, Le parole e le cose , uscito nel 1966, rappresenta un modo di interpretare e di reagire alla grande trasformazione che in quegli anni ha cambiato il volto delle società occidentali: l’avvento della società dei consumi e il grande boom dell’economia capitalistica. Con questa sua opera (che ebbe un grandissimo successo commerciale: 20mila copie vendute in dieci mesi, una tiratura da best-seller inedita per un libro di filosofia), Foucault svolge una critica radicale di tale società, e le contrappone di nuovo la letteratura, e non l’azione politica, come mezzo per contestarla radicalmente; nello stesso tempo, egli fa un’analisi nuova dei meccanismi attraverso cui essa esercita il suo dominio. Il fulcro del discorso di Foucault sta in una concezione radicalmente nuova del modo in cui si costituisce il sapere scientifico, che attraverso la tecnologia plasma le nostre società. La maggior parte dei saperi scientifici, compresi quelli che si chiamano le “scienze umane”, presuppongono il linguaggio e alcune categorie molto ampie che di questo plasmano i concetti fondamentali: Foucault le chiama episteme. Facciamo un esempio; nel Medioevo, tutte le forme di sapere erano strutturate secondo il modello analogico della somiglianza: il microcosmo (l’uomo) è simile al macrocosmo (l’universo), una medicina cura una malattia perché contiene qualcosa di simile a ciò che l’ha provocata, e così via (episteme della somiglianza). Se invece passiamo al Seicento e Settecento, tutti i saperi sono strutturati sul modello della geometria analitica e delle relazioni che gli esseri intrattengono nello spazio; si fanno dei quadri classificatori, come quelli del grande naturalista settecentesco Linneo, in cui sono fatti rientrare tutti gli enti dell’Universo (episteme dell’ordine). Con l’età industriale, avviene una nuova trasformazione dell’episteme: sono ora il tempo e la storia a strutturare tutti i saperi (episteme della storia). Le società e i saperi vanno soggetti a tali trasformazioni non per la volontà cosciente degli uomini, ma secondo un processo storico che gli uomini subiscono, che anzi crea il concetto stesso di uomo che noi siamo abituati a usare; la stessa società industriale di massa che in quegli anni si stava affermando va vista come l’avvento di strutture che dominano gli uomini (Foucault si collega così al movimento dello strutturalismo che stava diventando dominante allora in Francia); e il nostro mondo razionale, tecnico, industriale è frutto di una sorta di destino (qui Foucault si collega ad alcuni temi del pensiero esistenzialista di Martin Heidegger). Foucault proclama così la morte dell’uomo, volendo in tal modo indicare, contro l’esistenzialismo umanista di Sartre, che l’idea di un uomo che consapevolmente fa la propria storia e cerca di affermare in essa la sua libertà è definitivamente tramontata. Unica alternativa alla società industriale è, ancora una volta, la letteratura: in che modo? Abbiamo visto che il dominio della società si crea perché il linguaggio si fa portatore delle episteme, dei modelli che costringono a pensare le cose in un certo modo; ma la letteratura è un modo di usare il linguaggio che fa esattamente l’opposto: lo usa per liberarlo da ogni rapporto obbligato con questa o quella cosa; lo usa come un gioco fine a se stesso: essa è dunque l’unico spiraglio di libertà nel capitalismo avanzato.

Quest’opera di Foucault rappresenta il culmine di un movimento culturale che, negli anni Sessanta, pensa di poter rinnovare la società grazie all’opera del lavoro intellettuale e, in particolare, a quello degli scrittori; esso si oppone di conseguenza all’impegno diretto in politica; perciò egli fu accusato di incoraggiare la passività rispetto al potere dominante e di essere in fondo complice di esso.

Il Sessantotto e la microfisica del potere

Con la fine degli anni Sessanta una serie di eventi storici e intellettuali inducono Foucault a un radicale ripensamento di tutto il lavoro precedente. Per un lato, la letteratura gli appare sempre più legata al mercato e quindi ormai del tutto priva delle istanze rivoluzionarie che egli le aveva finora attribuito; per l’altro, il movimento di contestazione del Sessantotto lo induce a criticare il privilegio eccessivo che egli ha conferito al linguaggio e a spostare l’attenzione su aspetti più materiali e concreti: al posto delle strutture linguistiche, sono i corpi a essere il centro intorno a cui si esercita il controllo degli uomini; al posto delle strutture e delle episteme, sono il potere e le sue nervature a diventare ora il fulcro del suo discorso.

Il potere che domina nelle società industriali è radicalmente diverso da quello su cui erano fondate le società precedenti, e in particolare l’assolutismo monarchico; non si dirama da un centro unico (il sovrano) per investire tutta la società, ma ha infiniti centri, ovvero è senza centro; non agisce dall’esterno sui corpi, ma li modella dall’interno, attraverso un’opera di disciplinamento, che si attua soprattuto nelle prigioni e nelle scuole (perciò esso è chiamato da Foucault microfisico: esso non è esplicito e massiccio, ma sottile e sotterraneo); esso è una struttura di comando in cui il momento del sapere (indagare chi è e cosa fa lo scolaro o il detenuto) è fondamentale, ma è subordinato al momento del volere (si vuole che i corpi dei sudditi siano fatti in un certo modo perché meglio servano alla produzione capitalistica). Per un lato, il movimento del Sessantotto induce Foucault a riavvicinarsi al pensiero di Marx e a rimettere al centro il momento della produzione; per l’altro, la sottolineatura del momento della volontà è una nuova lettura del pensatore a lui piu caro, F.W. Nietzsche, che, in alcuni suoi celebri testi, ha visto la scienza come un prodotto della volontà, di scelte morali, di decisioni.

Sulla base di questo profondo ripensamento delle categorie portanti del suo pensiero, Foucault intraprende sia la revisione di quanto ha fatto fino ad allora (in particolare nel campo della psichiatria, che egli chiama ora “potere psichiatrico”), sia la ricerca in nuovi campi del sapere: il diritto penale, le prigioni, la sessualità. Il libro maggiore che egli scrive in questo periodo è Sorvegliare e punire, che ricostruisce le trasformazioni del diritto penale, e in particolare dell’istituzione carceraria, dal XVII al XIX secolo. Il carcere non è un’istituzione che sia stata creata, all’inizio dell’Ottocento, secondo un cosciente progetto di riforma: esso nasce, in più luoghi in Europa contemporaneamente, sotto la spinta delle esigenze della nuova società industriale, che ha bisogno di corpi docili per la produzione. Il carcere non nasce per rispondere a problemi di sicurezza, né per fini rieducativi: nelle prigioni si estraggono saperi sugli individui e si creano i delinquenti, secondo il modello di un potere che non comanda dall’esterno i suoi sudditi, ma li costituisce. Il carcere, con le relazioni di sorveglianza e di controllo microfisico che in esso vigono, diventa il simbolo di tutta la società, e l’opera segna l’avvento di un nuovo soggetto alternativo alla società capitalistica: il carcerato, che è capace di resistere al potere microfisico. Foucault, che corregge in parte, in questo periodo, la sua ritrosia all’impegno diretto nel campo della lotta politica, animerà un gruppo, denominato GIP, che si dedicherà alla lotta nelle prigioni.

Biopolitica, Illuminismo, sessualità

Nella seconda metà degli anni Settanta i movimenti a cui ha dato origine il Sessantotto e che hanno condotto Foucault alla visione del potere microfisico entrano in una crisi radicale: il marxismo si trova a fronteggiare la crisi dei totalitarismi del blocco sovietico, mentre in Occidente il capitalismo keynesiano, che ha dominato tutto il dopoguerra, comincia a lasciare il posto al neoliberismo. Foucault è indotto da questi mutamenti a una nuova, profonda trasformazione delle sue concezioni: la visione neoliberale, che egli non condivide, lascia però un segno profondo sul suo pensiero. Egli si rende conto che la sua visione non ha mai dato spazio al momento della soggettività individuale e che tale momento è fondamentale per comprendere come agisce effettivamente il potere: esso è sì costituente, secondo il modello della microfisica, ma non agisce in modo unidirezionale, su un soggetto passivo; al contrario, esso impartisce delle direttive a un individuo che è presupposto come libero e cerca di orientarne le scelte non direttamente, ma indirettamente. Detto altrimenti: non è la legge, che prescrive di fare una determinata cosa, a essere lo strumento fondamentale del potere, ma la norma, che agisce negativamente: dice quel che non si deve fare, lasciando ai soggetti la libertà di comportarsi in un modo o nell’altro all’interno di questi limiti. In questo modo, il potere microfisico si trasforma nella biopolitica e nella governamentalità, che rimandano per un lato al modo in cui in Occidente, a partire dal XVII e XVIII secolo, si è cercato di modellare la società per mezzo di dispositivi economici e demografici, istituendo un controllo sull’igiene, la razza, la natalità ecc.; per l’altro all’azione di un governo che orienta con norme indirette l’azione dei sudditi e che agisce su di essi non come massa, ma individualmente, come il pastore fa con le anime dei suoi fedeli. Questa nuova centralità del soggetto e dell’individuo nel pensiero di Foucault comporta una maggiore attenzione al tema dell’Illuminismo e agli scritti che Kant aveva a esso dedicato. La riflessione kantiana sull’Illuminismo come epoca dell’avvento della modernità e della razionalizzazione del mondo è da lui letta in questo modo: quando Kant si interroga sul significato dell’Iluminismo, egli non ne fa solo un elogio, ma apre un interrogativo sul suo significato e sulla sua legittimità; che significa il grande processo di razionalizzazione e di tecnicizzazione che, a partire dalla fine del Settecento, ha investito le società occidentali? E quale atteggiamento dobbiamo tenere, quali scelte etiche e politiche dobbiamo operare nei suoi confronti?

Anche i volumi 2 e 3 della Storia della sessualità (1976), che sono gli ultimi che Foucault ha consegnato alle stampe, hanno al centro la questione del soggetto: ripercorrendo la cultura greco-romana, ma riferendosi sempre al presente, Foucault cerca di delineare un’idea di soggetto che non è quello astratto e universale della tradizione umanistica, ma è piuttosto un soggetto finito, limitato e che si costruisce di volta in volta in relazione agli altri e al mondo che lo circonda: questo lavoro di costruzione è denominato da Foucault, con il riferimento a un tema della cultura classica, cura di sé.

Nell’ultimo, drammatico corso al Collège de France, segnato dalla malattia, l’AIDS, che lo porterà alla morte nel 1984, Foucault affronta questo tema della libertà finita proprio sotto l’angolatura del problema del rapporto con la morte, commentando il testo più classico della filosofia occidentale su questo tema: il racconto della morte di Socrate che fa Platone nel Fedone; l’ultima parola di Socrate, il suo testamento non è la svalutazione, l’odio della vita, ma l’invito a praticare la razionalità come trasformazione di se stessi, degli altri e del mondo.

Il tema della libertà è dunque quello che riunisce da un capo all’altro tutta l’attività intellettuale di Foucault, ma la libertà a cui egli approda alla fine è profondamente diversa da quella a cui mirava Storia della follia: lì si trattava di proporre un soggetto, il folle, che rompeva con tutti i limiti in cerca di una libertà assoluta; nell’ultima fase del suo lavoro, si tratta di un soggetto la cui libertà finita risiede proprio nei limiti che egli si sa dare, con cui egli si costruisce.

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