AMARI, Michele Benedetto Gaetano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 2 (1960)

AMARI, Michele Benedetto Gaetano

Francesco Gabrieli
Rosario Romeo

Nacque a Palermo il 7 luglio 1806 da Ferdinando e Giulia Venturelli, in casa del nonno paterno, di cui gli venne imposto il nome. Mediocre patrocinatore legale, costui traeva discreti guadagni dalla professione e, più, dall'ufficio di cancelliere del protomedicato, poco occupandosi di politica e in genere di ciò che andasse oltre i suoi privati interessi. Per contro, il padre Ferdinando, che l'A. più tardi giudicherà uomo "leggiero, improvvido quanto mai, incapace di grandi pensieri e molto più della esecuzione, istruito alla superficie ed ignorante al fondo" (v. Scritti inediti, Il mio terzo esilio), era un modesto "libriere della Tavola", cioè contabile nel Banco di Palermo; e, con le grosse perdite al gioco e il matrimonio, avversato dalla famiglia, non aveva certo migliorato la sua posizione. Verso il 1814 egli andò a vivere con la moglie per proprio conto, lasciando l'A. in casa del nonno; ma con tinuò a vederlo, e per suo tramite il ragazzo venne a contatto con l'ambiente acceso dei democratici palermitani, antiaristocratici e francofili, in odio alla co stituzione del 1812 e agli Inglesi suoi sostenitori. L'insegnamento elementare e poi quello dell'università (equivalente, nei suoi primi anni, a una scuola media superiore), benché impartito soprattutto da ecclesiastici (dei quali taluno "rivoluzionario e ateo"), tra cui primeggiava il fisico e storico Domenico Scinà, era largamente ispirato al diffuso empirismo di derivazione inglese; e il suo influsso, unito con quello del volterianesimo paterno, avviò ben presto il giovane sulla strada di una totale irreligiosità: "feci l'ultima comunione all'età di 12 anni. A tredici, studiando metafisica all'Università, io era materialista dal capo alle piante: nelle dispute solenni impugnava la spiritualità e l'immortalità dell'anima sì fieramente, che il professore, il teatino Li Donni, cronico [cioè costituzionale] in politica e fors'anche miscredente per proprio conto, ma spiritualista nella cattedra, non trovando altri argomenti, mi buttò addosso il suo cappello a tre becchi" (v. Scritti inediti, Appunti autobiografici, p.6). Si aggiungano poi, tra le esperienze mentali più vivamente avvertite dal giovane nei suoi anni di scolaro, la teoria delle facoltà dell'anima di A. L. C. Destutt de Tracy e il liberismo di Adam Smith, "che mi persuase anche e m'infiammò".

Nel febbraio 1820 "per amicizie" del padre l'A. veniva assunto come alunno nel ministero dell'Interno. Nel mese successivo perdeva il nonno avvocato, e con lui spariva la modesta agiatezza di cui il giovane aveva fino allora goduto. Tornato nella povertà della casa paterna assistette, fra il 15 e il 17 luglio, all'insurrezione palermitana per l'indipendenza e la costituzione. Il padre Ferdinando, "che aveva il cuore di un pollastro" (Il mio terzo esilio, cit.), dopo avere prudentemente atteso il trionfo della causa insurrezionale, si diede "tutto alla rivoluzione e mormorava contro i nobili della Giunta", schierandosi tra i fautori della costituzione di Spagna e dell'indipendenza. Ma nel settembre successivo le truppe napoletane rientravano nella città; e l'impressione ne rimase vivissima nell'adolescente: "avrei voluto mangiarmele e lacerarle coi denti. D'allora in poi il vago sentimento imitativo e puerile divenne in me persuasione e passione..." (ibid.).

Acceso democratismo e sicilianismo separatista si mescolavano infatti con pari intensità nel ristretto ambiente di piccoli borghesi socialmente spostati e istintivamente inclini all'estremismo politico, a cui il padre Ferdinando apparteneva. Restaurato il dominio borbonico, Ferdinando partecipò allora, con Salvatore Meccio e altri, a una congiura carbonara volta contro Napoli e l'occupazione austriaca, e ne divenne uno dei capi: ma queste macchinazioni, che "i teneano con poche precauzioni anzi con somma imprudenza, e vanità" (ibid.), vennero facilmente scoperte, e Ferdinando fu arrestato. Tuttavia, benché "condannato a morte con gli altri capi della congiura [il 29 genn. 1822], non fu fucilato, perché interrogato confessò insieme con tre o quattro altri" (Appunti autobiografici, cit., p. 13): il 3 ott. 1822 la condanna gli fu commutata nell'ergastolo per trent'anni nell'isola di Santo Stefano, donde nel maggio 1825 venne trasferito a Napoli e, nell'ottobre 1829, a Palermo; il 5 luglio 1834 venne finalmente rilasciato (morì nel 1850). Certo, la confessione e il contegno da lui tenuto dovettero contribuire non poco a determinare il duro giudizio che l'A., ancora nella vecchiaia, ne diede nei suoi ricordi.

Dopo l'arresto del padre il futuro storico si trovò a dover mantenere, col suo modesto stipendio d'impiegato, la madre e quattro fratelli. Difficoltà economiche e rancori familiari e politici assorbirono allora interamente l'animo del giovane, che, sognando guerra e insurrezione imminente contro Napoli, si educava, a suo modo, alla guerriglia, e intanto mandava avanti l'impiego, lasciati quasi interamente gli studi, se si toglie la lettura di Voltaire e dei voltairiani, di Rousseau, Machiavelli, Dante, Ariosto, Botta, Colletta, fatta per altro senza molta applicazione e perseveranza. "Praticava de' cacciatori e de' rivoluzionari in ritiro. Dimenticai quasi il latino. Dimenticai l'inglese che avea cominciato ad apprendere" (Appunti autobiografici, cit., p. 15). Così trascorsero "tre o quattro anni fino al 1827" (Il mio terzo esilio, cit.).

Intorno ai vent'anni l'amore "innocente e infelice" per la giovane Agatina Peranni (andata poi sposa a un inglese) lo spinse a raggentilirsi, a riprendere gli studi, a frequentare un ambiente di più moderato colore politico, a tendenza costituzionale e autonomista. Dopo il 1830, per un istante, giunse finanche a partecipare alle speranze suscitate nei liberali dall'avvento al trono del nuovo re Ferdinando II (v. Scritti editi, Carteggio: lettera del 26 ott. 1846, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., I, p. 197). Furono, questi, gli anni decisivi per la formazione intellettuale dello storico: "Walter Scott mi ricondusse agli studi conie forse vi ha avviato migliaia di persone in Europa".

"Tradussi tant bien que mal  il Love and Madness di Campbell. Lessi Hume, Robertson e più tardi Gibbon e prima e poi Shakespeare, Byron, Walter Scott e quasi tutti i poeti inglesi" (Il mio terzo esilio, cit.). Di queste letture, importante fra tutte fu certo quella dei grandi storici; e in genere non va sottovalutata l'importanza di questo interesse per una letteratura intesa allora in chiave nettamente "romantica", in un ambiente così decisamente "classico" come quello isolano. In effetti, una componente nuova veniva qui a inserirsi sul materialismo di stampo razionalistico, a cui il giovane si era sentito finora sentimentalmente e intellettualmente vicino. Nelle fantasie dello Scott si coloriva di immagini quel sentimento e venerazione del passato che nelle pagine di Hume e di Gibbon diventava consapevolezza del valore e significato della storia, razionale valutazione della forza della consuetudine e del costume. Non che questo attenuasse menomamente il piglio antispiritualista e anticattolico con cui l'A. guarderà sempre al passato: ma arricchiva di più complessi motivi il secco razionalismo della precedente generazione rivoluzionaria. E l'A. sentirà vivamente il distacco: "la generazione passata - dirà in un suo appunto, forse del 1846 (v. Bibl., O. Tommasini, La vita e le opere di M. A., p. 355 n. 3) - era cruda; il popolo bestia; quei che leggevano Voltaire o qualche Gazetta appresero pochi principii generali magri, isolati, e ch'essi non sapevano applicare"; e ciò riscontrava non solo nei democratici e giacobineggianti, ma anche nei più moderati fautori della costituzione siciliana del 1812, come un Paolo Balsamo, che a suo giudizio riprendeva i "principi di Montesquieu e di Mably: insomma.., tutto il crudo delle nuove dottrine del secolo passato: utopie non moderate da alcuna saviezza. E quest'opera, che fu certo d'uno de' gran saccenti dei tempi, mostra la misera condizione dell'istruzione pubblica nostra" (v. Scritti inediti: Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820, I, aggiunta a p. 185).

Documenti di questa fase della vita intellettuale dell'A. sono le traduzioni che allora egli pubblicò della Elegia sulle ruine di Siracusa di Thomas Stewart (Palermo 1832) e del Marmion di Walter Scott (Palermo 1832, voll. 2), l'Elogio inserito nei Componimenti in morte di Francesco Peranni generale d'artiglieria (Palermo 1833) e altri scritti e traduzioni rimasti poi inediti. Quest'attività letteraria e le congiunte esperienze culturali si innestavano per altro su un sentimento politico siciliano rimasto fermissimo, anche se era venuto prendendo colori più moderati, che fecero rimanere l'A. estraneo al tentativo insurrezionale compiuto, nel 1831, dai congiurati condotti da Domenico Di Marco. "Non è che non mi sentissi italiano - scriverà assai più tardi -, ma la vita nazionale italiana mi parea un bel sogno e nulla più. La via possibile a libertà parea a me, come a moltissimi siciliani, la rivoluzione contro i Borboni di Napoli e le menti e le armi delle province napoletane che li sosteneano" (nota agli Studii su la storia di Sicilia..., cit., del 9 genn.1888: edita in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., II, p. 371). Che questa coscienza culturale italiana fosse una realtà ben viva già allora lo mostra la partecipazione vivissima alla battaglia per la lingua, che vide l'A. schierato dalla parte del più intransigente purismo, sino a collaborare, con Gaetano Daita e Francesco Paolo Perez, alla ristampa di un Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso le quali non sono nei vocabolarj italiani, colla corrispondenza di quelle che vi sono ammesse (Palermo 1835), già uscito a Milano nel 1812.

Sul piano politico, però, l'animo dell'A. era ancora tutto siciliano. Così, nella polemica che, specie dopo il 1835, si accese sulla libertà del "cabotaggio" fra Napoli e Sicilia, egli parteggiava risolutamente per i "sicilianisti" Ferdinando Malvica e Vincenzo Mortillaro, contro i liberisti Francesco Ferrara, Emerico Amari e Raffaele Busacca, sostenitori della libertà di commercio col Mezzogiorno continentale e sordi alle richieste di protezioni interne per lo sviluppo dell'industria regionale; e con questo spirito accettò il suggerimento che amici autorevolissimi come Domenico Scinà e Salvatore Vigo gli diedero di replicare alla tesi, sostenuta qualche anno prima (1830) da Giuseppe Del Re, che nel 1130 Ruggero II avesse preso il titolo di re di Puglia di Calabria e di Sicilia, implicando con ciò una originaria unione della Sicilia col Regno continentale. Le Osservazioni di M. A. intorno una opinione del signor Del Re uscirono a Palermo nel 1835,e con la precisa dimostrazione erudita e la risoluta negazione che di rottura di un tutto originario in seguito alla guerra del Vespro potesse parlarsi (e tanto meno dunque di riunificazione sotto Alfonso I d'Aragona), documentarono insieme la perizia dello scrittore di storia e l'intento politico e ideologico del siciliano.

In tal modo l'A. vedeva aperta davanti a sé la via di quegli studi che allora intraprese risolutamente. Già dopo il 1820 aveva raccolto gli atti della Giunta provvisoria, che in quell'anno era stata alla testa della rivoluzione palermitana, vagheggiando una storia di quelle vicende: e adesso, intorno all'aprile 1834, riprese su più larghe linee l'antico disegno. Nel giro di due anni compose una narrazione delle vicende siciliane dalla metà del '700 al 1820, valendosi principalmente di memorie lasciate da uomini dell'aristocrazia liberale del '12 che, anche manoscritte, circolavano numerose a Palermo, e di testimonianze di autorevoli superstiti.

Lo scritto, per gran parte redatto in forma provvisoria, è piuttosto una prima stesura della grossa tela dei fatti principali: ma la critica sagace delle diverse relazioni già mostra la forza e l'acume del ricercatore, e in alcune impostazioni di più ampio respiro si rivela fin d'ora il piglio vigoroso dello storico. Così per esempio, studiando i nessi fra la rivoluzione francese e gli avvenimenti siciliani, l'A. notava che "se in Francia vi fu una rivoluzione contro i nobili e il Re, in Sicilia ve ne furon due: una dei nobili contro il Re e l'altra dei popolani contro i nobili che avean già il potere: la quale momentaneamente fece respirare il Re ma non era per certo alla sua sorgente diretta a favor di quello. La quale diversità si può attribuire alla diversa antica costituzione, perché in Francia nobili e Re facean due corpi legati intimamente; ed in Sicilia il parlamento ch'era tutto aristocratico era un'istituzione separata dal Re e dal popolo". Il che non toglie, per altro, che il processo storico realizzatosi nei due paesi avesse un fondo sostanzialmente comune, benché in Sicilia lo sviluppo sociale seguisse "con qualche secolo di ritardo per la mancanza del commercio e della istruzion pubblica" (Studii su la storia di Sicilia..., cit., I, n. p.15).Analizzando la condotta dei baroni alla vigilia del conflitto con la Corona, lo storico ne ricostruiva acutamente le varie e contrastanti motivazioni, osservando ch'essi "guardavano i favoriti napoletani con quel livore che ne' tempi feudali avea l'aristocrazia contro i favoriti; e tanto più erano offesi dalla Corte quanto più si credeano i soli nobili della nazione e quelli che la Corte avessero raccolto e difeso. Ma dall'altro canto il timore di perdere le proprietà e il grado che la rivoluzione di Francia aveva abbattuto sul continente assodavali nel proposito di difendersi quanto potessero dai francesi; nè meno li spaventava una sollevazione del popolo. Così restavano sospesi, sogguardando biechi la Corte e gli emigrati; e procurando di non far prorompere il popolo" (ibid., I, pp. 75-76). Il siciliano A. partecipava pienamente agli ideali d'indipendenza degli uomini del '12; e anch'egli condannava l'avventatezza di cui aveva dato tante prove l'opposizione democratica del 1813, e "i pazzi bollori di repubblica" in Francia (ibid., p. 43); ma trovava alla condotta dei democratici siciliani una giustificazione che la storiografia aristocratica negava, perché, "pigliando il caso della aristocrazia, che di tutti gli umani privilegi è il più odioso, massime oggidì che la distanza tra le due classi è brevissima, che non vi è giurisdizione, e che i beni sono spartiti, pigliando questo caso io dico, dev'esser una gran rabbia, per chi segga in un'adunanza ristretta per riformar la costituzione o pensi nel suo paese intorno alla riforma, il vedere una classe di nobili che, senz'altro titolo che l'usanza né altra distinzione che l'ignoranza e il libertinaggio, voglian davvero ordinar lo stato a beneficio ed onor loro e vogliano passare da più che qualunque altro cittadino" (ibid., I, n. p.15). Con questi criteri anche la versione della "spontanea" rinuncia dei baroni ai diritti feudali gli pareva accettabile solo a titolo provvisorio, e "se non mi riuscirà di scoprire come per la fondiaria del 1810 la ragione interessata di questo" (ibid., I, pp. 188 s.). Già allora, per altro, l'A. sentiva l'insufficienza della vecchia storiografia limitata alle vicende meramente politiche: e ilprofitto ricavato dalle letture di Voltaire e degli storici inglesi si scorge nel suo proposito di allargare il quadro alle istituzioni, alle leggi civili, alle condizioni economiche, sulle quali raccolse ampi materiali, elaborandoli anche in memorie particolari (ibid., II).

Ma quanto più egli la guardava da vicino, tanto più grandi gli apparivano le manchevolezze della fallita rivoluzione costituzionale siciliana, la modesta statura dei capi, la fiacchezza delle passioni politiche. Altro e più alto tema sembrò all'A. necessario a raggiungere il fine di "gridare la rivoluzione senza che il vietasse la censura". Gli sia o no venuto lo stimolo diretto dal Giovanni da Procida del Niccolini, certo la memoria del Vespro stava lì presente alla sua immaginazione con tutto il peso che sempre aveva avuto nella mitologia dell'indipendentismo siciliano: "Né altro soggetto più acconcio allo scopo mio; cinque secoli e mezzo d'antichità da opporre alla censura; una rivoluzione preparata (così credeva io allora), terribile, vittoriosa, nella quale si erano dileguati gli odi municipali che lacerarono la Sicilia innanzi il 1282 e tacquero allora; ma poi s'erano scatenati di nuovo fin oltre il 1820. La coscienza e la vanità mi disse che il libro poteva giovare alla cosa pubblica, e persuaso di ciò affrontai il pericolo che pure vedea chiaramente" (v. Scritti editi, Opere: Pref. alla 4 ediz. [Firenze 1851 ]de La Guerra del Vespro siciliano, I, p. XXVI). Dapprima, però, i larghi elementi letterari della sua formazione, e l'esempio di Manzoni, D'Azeglio, Guerrazzi, gli fecero vagheggiare l'idea di un romanzo storico, che avrebbe avuto al suo centro la figura di Giovanni da Procida: ma, provatosi, si accorse "subito" che "la natura non lo aveva destinato alle opere di immaginazione" (v. Scritti editi, Opere: Su la origine della denominazione Vespro Siciliano. Conferenza al Circolo filologico di Palermo il giorno 31 marzo 1882, p. 10).

Si è sostenuto (v. Bibl., G. La Mantia, I prodromi e i casi di una penetrazione quasi clandestina della tragedia "Giovanni da Procida'" di O. B. Niccolini in Sicilia nel 1831, pp. 235-286) che all'idea del romanzo sul Procida egli rimase fedele fino al giugno 1841, e che solo allora, per sfuggire alle persecuzioni della polizia contro i romanzi storici, adottò la forma della narrazione storica, e tolse al Procida e alla sua congiura la parte dominante che gli aveva attribuito finora. Ma già il breve spazio di tempo - un anno appena - in cui sarebbe avvenuta non solo la rielaborazione dell'intera opera ma anche la stampa, basta a toglier credito a questa tesi, che trova ostacolo anche nella documentazione epistolare degli anni della preparazione, dal 1835-36 in poi, nella quale si trova menzione di ampie ricerche, quali appunto poteva richiederle una opera di storia e non certo un romanzo (v. specialmente Scritti editi, Carteggio: C. Trasselli, Lettere di M. A. ad A. Gallo, pp. 5 ss.); senza contare le esplicite dichiarazioni in proposito dello stesso A., che solo fuggevolmente accennò talora all'idea del romanzo, e non credette neppure di doverne fare ricordo nei suoi scritti autobiografici.

Già nel 1837 gran parte dell'opera era redatta: ma allora la interruppe l'epidemia di colera che, nella quasi intera dissoluzione della pubblica autorità, gettò sull'A. la principale responsabilità dell'amministrazione sanitaria in quei mesi drammatici, fra l'incrociarsi di sospetti di veneficio, tumulti, e miserie inenarrabili. In parecchie città, specie della Sicilia orientale, scoppiarono disordini gravissimi: ma solo a Catania assunsero carattere politico, e l'A., che aveva avuto parte in pratiche cospirative allacciate dai liberali palermitani con i patrioti di quella città, visse qualche giorno di vivissima ansia: ma presto fu chiaro che il dovere primo era dovunque la salvezza dell'ordine civile minacciato dalle masse percorse da superstizioso terrore del colera; e a quest'opera l'A. si dedicò con zelo e sprezzo del pericolo (queste vicende narrò, fra il dicembre 1837 e il giugno 1838, in una inedita Descrizione del colera in Sicilia, v. Scritti inediti).

Senonché, in luogo di ricevere l'atteso riconoscimento dei servizi prestati, anch'egli fu colpito dalla nuova legge del 30 ott. 1837, con la quale il governo napoletano, sotto la spinta provocata da quegli avvenimenti, inaugurava una politica di più rigoroso accentramento, cominciando con le disposizioni sulla "promiscuità", che autorizzavano il trasferimento di impiegati siciliani nella parte continentale del Regno: in forza di esse l'A. veniva inviato a Napoli con decreto del 9 marzo 1838, e destinato il 9 luglio successivo al ministero di Grazia e Giustizia. Durissima esperienza, questa, per l'uomo cresciuto nel culto esclusivo della propria sicilianità: "la forza dell'iniquità mi scerpava da Palermo mia.., da quanto di più caro e di più sacro abbiasi al mondo, e frettoloso e straziato mi apparecchiava a mutare in altro soggiorno il sorriso della mia patria, la infelice fecondità della terra ove nacqui, le tombe de' miei, le memorie delle glorie del paese, la vivacità de' volti de' miei cittadini, il grato suono dell'idioma" (lettera del 12 giugno 1838, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, p. 29); sì da dichiarare più tardi ch'egli preferiva piuttosto lasciare l'Italia che non essere "esule" a Napoli, considerata, nonostante ogni esortazione anche di autorevoli Siciliani, patria di nemici e oppressori. Pure quel soggiorno giovò alla preparazione dell'opera che l'A. aveva intrapreso, consentendogli di mettere a profitto molti importanti documenti conservati nell'Archivio di Napoli, e ritemprando anche quella sorta di pessimismo eroico che doveva poi risplendere nelle pagine del Vespro: "Vorrebbe - scriveva a un'amica -che oggi io ascoltassi il precetto del presentar l'altra guancia dopo la prima ceffata, piuttosto che sperare nel Dio delle battaglie, aiutatore de' forti? Serbinsi i più miti dettami del Vangelo, serbinsi a tempi migliori, ché or di Mosè n'è d'uopo e de' Maccabei, e conviene studiare come a' tempi di Cromwell il Vecchio Testamento.., e vuol ella che un uomo, e giovane, e siciliano, vaneggi con la carità, il perdono, e lo sperar senza oprare?" (lettera del 10 nov. 1839, ibid., I, pp. 36 s.). E all' "oprare" egli si dedicava fin d'allora, compilando, insieme col marchese Giuseppe Ruffo, un Catechismo politico siciliano (che fu per qualche tempo attribuito a Niccolò Palmieri, e che, diffuso in Sicilia da Giovanni Raffaele, condusse poi all'arresto dello stampatore Brisolese) nel quale, pur accettandosi l'idea di una federazione italiana, si esprimevano i convincimenti del più deciso separatismo antinapoletano.

Il ritorno in Sicilia gli venne finalmente concesso nel settembre 1840. Allora poté completare l'opera del Vespro, che ben sapeva quanti rischi comportasse per l'autore, anche dopo che la compiacente sonnolenza della censura palermitana ne aveva autorizzato la pubblicazione, sia pure sotto il titolo anodino di Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII  (v. Scritti editi, Opere). Il successo della prima edizione di mille copie, uscita il 31 maggio, e quasi interamente esaurita in una settimana (lettera del 5giugno 1842, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, p. 45), fu immediato, superiore a ogni aspettativa: e non solo in Sicilia, dove aiutava la "simpatia politica", ma nel giudizio unanime che presto ne diedero gli uomini più eminenti d'Italia, e non solo d'Italia.

La trattazione, prendendo le mosse dalle vicende del Regno dopo la morte di Federico II, si allargava poi a particolareggiare la "mala signoria" angioina, il crescere veemente del sentimento siciliano contro l'oppressore, l'esplosione della rivolta popolare, la fondazione della "Communitas Siciliae" e il suo mutarsi poi in quella nuova monarchia che per quasi vent'anni sostenne una guerra vittoriosa contro Roma e Angiò, in un intreccio di rapporti di potenza che ebbe riflessi profondi sul sistema politico della cristianità. Novità più grossa e appariscente, la negazione della congiura di Giovanni da Procida, ridotta al rango di tardiva leggenda, come veniva dimostrato col silenzio delle fonti coeve e la tendenziosità delle posteriori, con il margine non piccolo di tempo trascorso tra la rivolta palermitana e l'intervento effettivo di Pietro d'Aragona, col carattere popolare e non aristocratico del regime seguito inimediatamente all'insurrezione. Argomenti, questi, più tardi largamente discussi e talora revocati in dubbio, ma che inducono gli studiosi ad ammettere tuttora che un largo margine d'incertezza circonda fatti fino all'A. ammessi come provati, e a sottolineare che anche se la parte di Giovanni da Procida fu più rilevante di quanto lo storico siciliano non riconoscesse, tuttavia la scarsa connessione tra la rivolta e l'intervento aragonese e la piena autonomia del regime politico datosi dai Siciliani subito dopo il Vespro rimangono risultati saldamente acquisiti: ciò che conserva alla tesi dell'A. una larga misura di validità storica. All'A. venne più volte contestato di avere sminuito il ruolo della congiura nobiliare di Giovanni da Procida in obbedienza a pregiudiziali ideologiche di tipo democratico: ma, in realtà, non v'è ragione di dubitare della replicata affermazione dello storico che a quel risultato egli era invece pervenuto sulla base di una spassionata analisi critica delle fonti. E, tuttavia, la partecipazione dell'A. all'atmosfera culturale del suo tempo si scorge con chiarezza nella visione che egli ebbe del Vespro, prodotto dell'"indole del sicilian popolo... della quale ognun può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forse perché son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio comprendere la sollevazione del 1282, sì com'essa nacque, repentina, uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta al girar d'uno sguardo" (Pref. alla " ediz. [Parigi 1843] de La Guerra del Vespro, cit., I, p. XXII). Nel fondo agiva qui una nuova idea del popolo e dell'iniziativa rivoluzionaria a carattere popolare, che si rifaceva da un lato alle esperienze della grande Rivoluzione, con la quale il "popolo" aveva fatto storicamente il suo ingresso sulla scena politica; e dall'altro al nuovo concetto e sentimento romantico della nazione e del popolo, quasi personificato nella sua coscienza e volontà, con la quale lo storico si sente legato da una comunanza spirituale profonda: ed è soprattutto in questo accoglimento delle fondamentali esperienze culturali e politiche che stanno alla base della storia ottocentesca che l'A. si mostra autentico figlio del suo tempo, e non tardo erede della cultura del secolo precedente, come più volte si è ripetuto. Il Vespro "fu tumulto al quale diè occasione l'insolenza de' dominatori, e diè origine e forza la condizione sociale e politica d'un popolo né avvezzo né disposto a sopportare una dominazione tirannica e straniera" (ibid., pp. XIX s.); e questo concetto di un'unitaria coscienza siciliana vivifica tutta la narrazione, e diventa strumento storiografico di fondamentale importanza per la ricostruzione dell'animo dei protagonisti e del significato storico della rivoluzione. Il rinnovamento delle energie più profonde dell'anima popolare nella grande rivolta è alla radice della rinascita morale di tutta la nazione; perché "non v'ha parte alcuna degli esercizii degli uomini, che non prenda vita dalle bollenti passioni d'un mutamento politico". "E chi guardi i siciliani in questo periodo, entro il medesimo anno ottantadue che li aveva veduto imputridire nella non curanza della servitù, li troverà franchi al combattere, pronti ed accorti al deliberare, devoti alla patria, affratellati tra loro, pieni di costanza, né spogli di generosità tra lo stesso disuman costume de' tempi: e dopo breve tratto, li scorgerà fatti provati guerrieri e marinai, pratichi negoziatori nelle faccende di stato, fermi oppositori alla corte di Roma, e pur tenaci nella religion del vangelo: e legislatori sorger tra loro.., e nascer forti scrittori; e lo stile d'ogni dettato, vivace e biblico, ritrarre il sollevamento dei pensieri..." (Un periodo delle istorie siciliane..., cit., p. 283). Alla rivolta del Vespro la Sicilia deve "una gran tradizione, e uno statuto politico che molto ristrinse l'autorità regia"; e in particolare alle forze popolari, che in un primo tempo si organizzarono nella federazione dei municipi siciliani, e ottennero poi un ampliamento delle loro franchigie nello stato monarchico, che, se pure sminuite, dovevano durare fino alla fraudolenta soppressione della secolare costituzione dell'isola nel 1816. Lo storico non mancava di avvertire che la rivolta del Vespro "per tristissimo compenso, aprì in Italia la strada alla dominazione spagnuola" (Pref. alla 2 ediz., cit., de La Guerra del Vespro, cit., I, p. XX); ma il soggetto ideale del racconto era quella virtù di popolo che animò la rivoluzione e la successiva guerra; e da questa impostazione - e non solo dalla forza letteraria dello stile, che, specie nella prima edizione, appariva allo stesso autore "disuguale, febbrile, spezzato, come la parola di chi è tra i tormenti" (ibid., p. XV) - l'opera trae la sua irresistibile eloquenza. Il "viver di violenza in sedici anni avea potentemente operato sull'indole niente morbida del sicilian popolo, e tramutatene le sembianze. Di festevole si fe' tetro: increbbero i conviti, i canti, le danze...; quel poetico brio degli animi a cupa meditazione dié luogo, a tristezza, a vergogna, a nimistà profonda, a brama ardentissima di vendetta. Feroci passioni, che propagaronsi da chi soffria le ingiurie in sé, a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a' tardi; dagl'iracondi ai miti; dagli animosi a' dappoco; e ogni età, ogni sesso, ogni ordine d'uomini invasarono. La foga delle passioni private, l'abbaco de' privati interessi, tacquero un istante, o anch'essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più possente di ogni macchina di congiura, perché spregia il vegliar sospettoso de' governanti, e li soperchia a cento doppi di forze" (Un periodo delle istorie siciliane..., cit., pp. 54 s.).

E, tuttavia, la passione politica non condizionava interamente il giudizio dello storico. Al di là del dramma degli oppressi si profilava il più vasto e umano dramma della storia universale, vista pessimisticamente quale corso governato da una dura e fatale necessità, rotto solo di rado da grandi ed eccezionali prove della contrapposta virtù degli uomini. Oggetto, questa drammatica lotta di virtù e destino, quasi unico che meriti la considerazione dello storico: ché, "del rimanente, che portan gli annali de' popoli, se non disuguaglianze di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre, paci bugiarde, sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono e fanno, moltissimi che si lagnan solo, e immolato il ben comune da contraria tendenza delle cupidigie private?" (ibid., p.1).La tragedia del Vespro trovava dunque una più larga e umana giustificazione: perché "vasto è il volume" della terrena violenza e crudeltà, "e tutte le nazioni scrisservi orribilità della medesima stampa e peggiori... Ond'io non vergogno, no di mia gente alla rimembranza del Vespro, ma la dura necessità piango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coi supplizî, consunta dalla fame, calpestata e ingiurata nelle cose più care; e sì piango la natura di quest'uom ragionante plasmato a somiglianza di Dio, che di ogni altrui comodo ha sete ardentissima, che d'ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rabido alla vendetta, sciolto in ciò d'ogni freno quando trova alcuna sembianza di virtù che lo scolpì" (ibid., p. 58).

Ma ciò che colpiva il più dei lettori era l'immediato richiamo al sentimento siciliano, l'appello, che prorompeva da ogni pagina, alla rivolta: ed esso non tardò a essere rilevato dal governo napoletano e personalmente dal marchese Del Carretto, che giudicava l'opera "dannabile per ogni verso, come quella che contiene massime antipolitiche ed erronee, oltraggiando spesso spesso la Santa Sede, fomentando la discordia tra gli abitanti dei domini di V. M., cercando di sciogliere i vincoli coi quali la M. V. si occupa di stringere i suoi popoli in uno" (v. A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, pp. 57 s.). A Palermo l'A. ebbe prima un aspro colloquio col luogotenente generale dell'isola L. N. De Majo; e successivamente venne sospeso dall'ufficio e invitato a Napoli a giustificarsi. A queste misure, e ad altre più gravi che si temevano, egli si sottrasse cercando scampo all'estero. Dopo un primo tentativo nella notte tra il 25 e il 26 ott. 1842, fallito a causa del maltempo, che costrinse al ritorno la tartana su cui si era imbarcato, l'A. rimase per oltre quindici giorni nascosto in un remoto granaio finché, il 14 novembre successivo, poté ritentare la partenza, e stavolta con miglior fortuna, giungendo, per Tolone e Marsiglia, a Parigi.

Qui la celebrità scientifica e politica già conseguita gli aprì le porte degli ambienti culturali più elevati della capitale, dove entrò via via in relazione col Dumas, il Villemain, il Buchon, il Thiers, il Thierry, il Michelet, e prese contatto col meglio dell'emigrazione italiana: sì che dopo un periodo di iniziale disagio, in cui giunse a meditare il ritorno a Palermo, qualora il governo gliene avesse rivolto l'invito (ibid., I, pp. 84 ss.; III, pp. 18 ss.), l'atmosfera di Parigi divenne alimento indispensabile alla nuova vita sociale e intellettuale dello storico. Nel nuovo mondo più largo vennero precisandosi le sue posizioni di fronte alle maggiori correnti di pensiero storiografico del tempo, che del resto non gli erano rimaste ignote a Napoli e a Palermo. La formazione letteraria classicheggiante e il forte influsso dell'empirismo storiografico degli Inglesi lo salvaguardavano per altro da eccessivi entusiasmi per le filosofie della storia; e già poco dopo l'arrivo a Parigi giudicava "illusorio e imperfetto" il corso di "ragione istorica" tenuto al Collège de France dal Michelet (a cui peraltro si legò più tardi di stretta amicizia), e condannava i "delirî suoi sul sistema tedesco" (v. Scritti inediti: Diario del mio esilio, dicembre 1842). Queste idee egli ebbe modo di sviluppare nella collaborazione che tra l'ottobre e il novembre 1844 intraprese all'Archivio storico italiano del Vieusseux, fornendo, accanto ad alcuni testi arabici che documentavano il nuovo indirizzo dei suoi studi, anche importanti rassegne della letteratura storica contemporanea. Non si può negare, egli osservava con esplicito riferimento a Hegel e Guizot, che le "scuole storiche d'oltremonti" "abbiano dato una spinta alla scienza. La storia di Tito Livio, quella stessa del Machiavelli non basta più al secol nostro, ma i sani intelletti italiani non consentiranno giammai a far della storia un'arte da interpretar sogni" (v. Scritti edili, Opere: Dei lavori di storia italiana, in Arch. stor. ital., Appendice I [1845], pp. 517 ss.). E aggiungeva che il metodo storico moderno richiede una più precisa indagine "che abbracci tutte le classi e tutti gli esercizi intellettuali e materiali degli uomini, le condizioni economiche, i rapporti delle nazioni tra loro, e tante particolarità che sembrano oziose a prima vista, e pur danno nesso e colorito, cioè a dir verità, alla rappresentazione"; riuscendo ormai insoddisfacente il vecchio criterio di rifarsi, "direi quasi, all'alfa e all'omega, le cause immediate e le somme generalità dell'umana natura" (v. Scritti editi, Opere: Pref. a C. Botta, Storia della guerra dell'Indipendenza degli Stati Uniti d'America, pp. II s.).

Ma soprattutto l'orizzonte intellettuale dello storico doveva conoscere un radicale allargamento con lo studio che adesso l'A. intraprese dell'arabo, nell'intento di meglio precisare le linee incerte e assai confuse della storia siciliana nell'età precedente alla conquista normanna. Di tali studi sarà detto più particolarmente qui appresso: ma va ricordato fin d'ora che negli studi arabi come in quelli di storia del Medioevo l'A. portava la medesima ispirazione che già lo aveva fatto rivolgere al Vespro, e che neanche in quel "mare della lingua ed erudizione arabica" l'interesse erudito andò mai diviso per lui da un più largo mondo di pensiero. In effetti progresso negli studi e nell'erudizione, anche negli aspetti più tecnici, significò sempre per l'A., quanto meno, una forma di contributo all'incremento della civiltà moderna e al trionfo della ragione contro il pregiudizio clericale, e anche all'innalzamento dell'Italia fra le nazioni civili del mondo contemporaneo.

Che ormai l'Italia veniva prendendo sempre più il posto dominante fin qui occupato dalla Sicilia. Non che tra i due termini, per l'A., ci fosse mai stato constrasto: e già nella Guerra del Vespro lunghe pagine egli aveva dedicato al formarsi del comune sentimento di "nazione latina".Ma l'ideale italiano, fin qui creduto privo di attualità politica, viene ora assumendo forma più concreta: l'A. entra in contatto col Mazzini, "non ostante che non cammini per la stessa via", allarga le sue relazioni ad altre regioni, viene prospettando una impostazione politica del problema siciliano che si inserisce nel quadro di un generale rivolgimento nella penisola. A questa evoluzione, che nello stesso periodo veniva realizzandosi anche nei settori più avanzati del liberalismo siciliano, l'A. diede un contributo fondamentale con la Introduzione all'edizione da lui curata dell'ancora inedito Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia di Niccolò Palmieri (Losanna 1847), per "dare un'altra spinta al movimento, che deve ormai avvicinare la Sicilia all'Italia, a profitto di tutta la nostra nazione italiana" (lettera del 7 ag. 1846, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A.,cit., I, p. 194).

Nella Introduzione, il cui significato politico e la cui efficacia finirono presto per soverchiare quelli del pur notevole scritto del Palmieri, la questione siciliana era mostrata inseparabile dal moto italiano, e portata "dinanzi quel... Parlamento, senza tetto sì, senza nome, senza statuti, che dalle Alpi alla punta del Lilibeo comincia ormai a deliberar sulle proprie faccende" (Introduzione, cit., p. VIII). L'inserimento dell'isola nella federazione italiana era indicato come interesse comune italiano, perché essa era elemento di debolezza e non di forza nel Regno di Napoli: benché si ammettesse la possibilità di un'unione con Napoli "in istretta federazione, anche sotto un sol principe",come la Svezia e la Norvegia (ibid.,p. XLIX). L'A. esortava per altro i Siciliani a far valere le loro ragioni "senza cospirazioni, senza sette... in tutti i modi non proibiti espressamente dal codice penale" (ibid.,p.LVII); partecipando così anch'egli all'indirizzo moderato dell'agitazione patriottica di quegli anni, benché guar dasse con molto scetticismo alle speranze che gli ambienti liberali riponevano allora nel papato, verso il quale egli si rifiutava di smettere l'antica e radicata diffidenza (lettera del 26 ott. 1846, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, p. 197).

Intorno alla fine del 1845 cercò anche di ottenere una cattedra di arabo a Pisa, che gli consentisse di tornare in patria: ma le pratiche iniziate con amici toscani non ebbero effetto.

Quando poi i Palermitani con l'insurrezione del 12 genn. 1848 aggiunsero al-l'agitazione della stampa e dell'opinione l'"argomento delle fucilate", l'A. salutò con entusiasmo l'avvenimento, parendogli quasi di veder rinnovata in quel giorno la gesta del Vespro (Pref. alla 4 ediz. de La Guerra del Vespro, cit., I, p. XXVIII).

Dopo aver frettolosamente redatto e pubblicato Quelques observations sur le droit public de la Sicile (Paris s.d. [ma 9 febbr. 1848]), in cui ribadiva il diritto storico dell'isola alla costituzione e a fissare i termini della sua unione con Napoli, partiva per Palermo, dove giungeva il 3 marzo, acquistando subito, col prestigio che circondava l'autore del Vespro e con le sue relazioni con i maggiori esponenti della rivoluzione, una posizione politica di primo piano. Alla vigilia dell'arrivo, il 2 marzo, era stato nominato alla cattedra di diritto pubblico siciliano dell'università di Palermo, rimasta scoperta dal tempo di Rosario Gregorio; il 3 diventava membro del Comitato di guerra e marina, e l'8 ne assumeva la vicepresidenza. Nelle elezioni del 16 marzo riusciva deputato di Palermo con larghissimo suffragio, di appena due voti inferiore a quello ottenuto da Ruggero Settimo; e successivamente, il 27 marzo, accettava, dietro le vive insistenze dell'amicissimo Mariano Stabile, la carica di ministro delle Finanze. Ufficio, questo, che "più mi costava quanto meno me ne intendeva" (Il mio terzo esilio, cit.), e accettato con consapevole sacrificio in una situazione in cui le difficoltà erano enormi, concorrendovi il disordine amministrativo dilagante, la riluttanza del governo provvisorio a servirsi di mezzi coattivi, la fiducia eccessiva che lo Stabile riponeva nell'aiuto anglo-francese, non meno pericolosa sul piano finanziario che su quello diplomatico e militare. Fu per l'A. una assai dura esperienza, nella quale egli stesso temette che il ministro avesse sciupato parte della universale popolarità conquistata dallo storico, senza riuscire peraltro a realizzare nessun provvedimento atto a sanare la rovinosa situazione finanziaria del governo rivoluzionario (ibid.). Caduto poi il governo Stabile (13 ag. 1848), il nuovo ministro degli Esteri V. Fardella di Torrearsa inviò l'A. a Parigi e a Londra (31 agosto) per caldeggiare, da parte delle potenze occidentali, il riconoscimento del governo siciliano e l'appoggio alla elezione del duca di Genova, o di altro principe, a re di Sicilia. Missione che l'A., insieme con F. Maccagnone principe di Granatelli e Luigi Scalia, adempì con abilità ed energia, ma che urtava contro ostacoli insuperabili, dopo che la caduta di Messina, ai primi di settembre, aveva mostrato l'estrema debolezza del governo rivoluzionario.

Tuttavia, l'A. perseverò nei suoi sforzi, appoggiandoli anche con nuovi opuscoli e articoli su giornali francesi e inglesi, e adoperandosi nel tempo stesso per l'acquisto di armi e di naviglio da inviare alle forze siciliane; e quando, nell'aprile 1849, la ripresa dell'offensiva napoletana apparve imminente, egli accorse di nuovo nell'isola, sperando di partecipare alla lotta. Ma, battuto l'esercito siciliano a Catania, e avvicinandosi il nemico alla capitale, prevaleva ormai anche a Palermo la volontà di cessare la lotta. L'A. e gli altri sostenitori della resistenza fino all'ultimo si scontrarono con i benpensanti e reazionari mascherati che, con l'appoggio della Guardia nazionale, erano risoluti a imporre la resa: ma in quei giorni decisivi non ebbero animo di far appello allo spirito combattivo ancor desto del popolo palermitano, temendo i rischi di una guerra civile. "Il popolo - spiegherà poi l'A. - ci avrebbe seguito; ma chi potea rispondere della moderazione di un popolo, che avesse gustato le prime gocce del sangue civile...? La parte di capo di una moltitudine, alla quale non so quanti brutti nomi non si sarebbero dati, mi fé paura quand'io non vedea la probabilità di un esito felice" (lettera del 6 ag. 1849, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, p. 582; e cfr. anche Il mio terzo esilio, cit., al 30 giugno 1849). Si decise così a ripartire, il 24 aprile; e, dopo l'avventuroso naufragio del vapore francese "Rhamsès" su cui era imbarcato, tornò a Parigi. Terribile fu però il suo dolore quando apprese che il 29 aprile il popolo palermitano aveva ripreso le armi senza capi, in un ultimo tentativo di resistenza: temette d'essere stato, sia pure senza colpa, "disertore": parola che "mi suona come la tromba del giudizio agli orecchi d'un credente" (lettera del 14 maggio 1849, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., I, p. 571; Il mio terzo esilio, cit., al 30 giugno 1849). Veniva qui alla luce la contraddizione profonda e, in certo modo, permanente, di tutta la visione politica dell'A.: legato per molti fili alla ideologia democratica e rivoluzionaria, e idoleggiante il popolo e le masse da un lato; e dall'altro, coscienza civile troppo elevata per indulgere a quelle forme di rozzo estremismo, che, tuttavia, erano le sole che potessero ottenere il controllo politico delle masse popolari; specie laddove, come in Sicilia, l'arretratezza di quelle masse minacciava a ogni tratto di far degenerare l'azione popolare in anarchia sovvertitrice, priva di qualunque finalità politica.

Tuttavia, la dura esperienza quarantottesca, e il monito ideale lanciato dagli ultimi difensori della democrazia a Roma e Venezia, contribuirono a far schierare l'A. tra i molti che, considerando imminente la ripresa dell'ondata rivoluzionaria in Europa, erano persuasi che ormai essa si sarebbe svolta senza più compromessi col passato, del tipo di quelli tentati con gli esperimenti costituzionali, su una linea chiaramente democratica e repubblicana, che per l'Italia significava anche unitarismo democratico al di là dei particolarismi regionali, e anzitutto di quello siciliano. Insegnamento fondamentale del '48 sembrava all'A. che "le province italiane non potranno mai conquistare la libertà se non si uniranno le forze morali e materiali di tutta la nazione. Non meno evidente mi sembra l'altra verità, che dopo il 1848 in Europa non si tratti più di accordi tra la libertà e l'autorità, o, in linguaggio più esatto, tra la libertà e la forza che sostiene l'autorità, spogliata oramai d'ogni prestigio. L'una dee vincere l'altra, e bandirla dalla civiltà europea: battaglia d'esito non incerto tra due campioni, l'uno immortale, e l'altro decrepito sì, che perde forza ogni dì, anche vincendo. Posti così fatti principii, cade al tutto il congegno della monarchia costituzionale siciliana; primo perché sarebbe monarchia, e secondo perché sarebbe siciliana" (Pref. alla 4 ediz. de La Guerra del Vespro, cit., pp. XXVIII s.). Furono, questi, anche gli anni della nuova e più intensa collaborazione dell'A. col Mazzini, alla cui opera di propaganda lo storico contribuì redigendo vari scritti, in parte destinati a circolare clandestinamente, e stampati e diffusi a cura dell'organizzazione mazziniana.

Sopraggiunse, invece, il colpo di stato del 2 dicembre: e l'A. a Parigi ne seguì la vicenda con drammatica ansietà (Il mio terzo esilio, cit., 6 dic. 1851-16 genn. 1852); ma neanche allora gli parve di dover disperare della causa liberale: "bisogna continuare la guerra ai preti, la guerra al dispotismo, la propaganda repubblicana, la istruzione pubblica e aspettare gli eventi" (ibid.). Ma gli eventi portarono la graduale ascesa del Piemonte costituzionale, il dilagare dell'impotente settarismo democratico (lettere del 18 giugno 1852 e 11 ott. 1853, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., II, pp. 19 s., 23 s.), l'iniziativa nazionale del Cavour in Oriente. Ancora nel 1856, tuttavia, l'A. riluttava alla conversione alla monarchia piemontese (cfr. la lettera del La Farina a lui diretta, 13 maggio 1856, ibid., II, pp. 41 s.) ma troppo radicato era in lui il senso delle realtà politiche perché alla lunga l'utopismo dottrinario non dovesse cedere alla nuova piega che gli eventi italiani prendevano sotto la guida del Cavour.

Senonché, questi anni furono quelli soprattutto in cui l'opera dell'arabista e orientalista, attraverso un lavoro tenace che risaliva al 1843, cominciava a dare i suoi frutti maggiori. Già a partire dal 1845 il nome dell'A. aveva cominciato a prender posto nel mondo dell'orientalistica, con le traduzioni e commenti di testi arabi che era venuto pubblicando, e con altri scritti e memorie particolari; mentre nel 1851 la sua competenza ebbe riconoscimento e agio di ampliarsi e approfondirsi con il nuovo ufficio che gli venne affidato di conservatore dei manoscritti arabi della Biblioteca imperiale [nazionale] di Parigi, incaricato di redigerne il catalogo. Ricordando più tardi la sua decisione di volgersi a questo settore di studi, l'A. si chiederà se "la stessa quantità di forze impiegate in altro studio qualunque avrebbe giovato più al paese e a se stesso" (Appunti autobiografici, cit., p. 25): ma la risposta inequivocabile era già stata data dalle grandi opere che comparvero appunto in questi anni: nel 1857 la Biblioteca arabo-sicula (v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni) e soprattutto, tra il 1854 e il 1872 la grande Storia dei Musulmani di Sicilia (v. Scritti editi, Opere), vagheggiata ancora prima della fuga da Palermo, intrapresa subito dopo l'arrivo a Parigi con i primi studi di arabo, proseguita con tenacia ammirabile per trent'anni, e rielaborata e arricchita, in vista della seconda edizione, fino alla vigilia della morte.

Assai più largo ambito, quello di questa opera, rispetto alla limitata vicenda del Vespro. Non solo i due secoli e mezzo di dominio arabo nell'isola cadevano sotto la considerazione dello storico, ma l'intero processo attraverso cui l'Islam si era tra-piantato dai deserti d'Arabia e dall'Africa del nord alle sponde di Sicilia; e poi la partecipazione musulmana al grande scontro delle civiltà arabo-bizantina e romano-germanica nel mondo mediterraneo; la sopravvivenza della cultura araba e il suo operare nella vita del Regno normanno-svevo, fino al forzato trasferimento dei Saraceni di Sicilia a Lucera; la indiretta partecipazione di quella cultura, attraverso la personalità di Federico II, al primo grande conflitto tra mondo moderno e teocrazia papale. L'opera ha dunque, nella ricostruzione del Medioevo mediterraneo, un peso assai maggiore di quel che non abbia la modesta storia dell'arabismo siciliano, in sé poco più che appendice culturale della Spagna musulmana (v. Bibl., F. Gabrieli, Arabi di Sicilia e arabi di Spagna, in Dal mondo dell'Islàm, pp. 92 s.).

Per questa nuova impresa lo storico era armato di nuove e assai più perfette armi di erudizione e di critica, nei domini dell'orientalistica e bizantinistica, archeologia, filologia, numismatica, ecc., di vastità e varietà pari alla grandiosità del compito. Ma le idee e i criteri ispiratori erano pur sempre quelli dell'autore del Vespro.Ancora qualche anno avanti l'uscita del primo volume dei Musulmani, sotto l'impressione del colpo di stato di Luigi Napoleone, la riflessione dell'A. tornava al fatalismo e pessimismo storico di sempre, davanti allo spettacolo dei "molti calpestati e spogliati dai pochi, e quel che è peggio la ragione oppressa dalla forza... fatto tanto costante nella società quanto lo è la circolazione del sangue nel corpo umano!" (Il mio terzo esilio, cit.). E anche adesso, nella secolare vicenda dei Musulmani, troppo sovente la storia dovrà registrare la spinta dell'"interesse proprio, sotto la solita specie di ben pubblico, morale, giustizia, religione" (v. Scritti editi, Opere: Storia dei Musulmani di Sicilia, 2 ediz., III, p. 43). "I destini dell'umanità corrono per uno sviluppo necessario e successivo come i fiumi dai monti al mare ";e se "gli episodi che spesso durano intere generazioni dipendono dal caso delle circostanze accessorie", lo storico è persuaso tuttavia che anche gli accadimenti che appaiono casuali hanno un loro posto nella ferrea catena di un determinismo storico a base materialistica. In effetti, ciò che chiamiamo "caso" abbraccia "le conseguenze delle quali non sappiamo trovare le cagioni, e queste non appartengono all'ordine morale" (Il mio terzo esilio, cit.). Davanti ai grandi fatti storici, siano essi collettivi come l'origine dell'islamismo, o individuali come la personalità di Federico II, lo storico preciserà circostanze e occasioni, ma confesserà che, nella sostanza, "la storia.., non può trovar cagioni che appieno le soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora il moderno gergo di avvenimenti provvidenziali, e uomini provvidenziali, or la metafora della vita umana applicata bene o male allo sviluppo dei popoli" (ibid., I, p. 143; e cfr. III, pp. 632 s.). L'innato senso storico suggeriva qui all'A. il rigetto delle ambigue soluzioni proposte da un lato dalle idealistiche filosofie della storia, e dall'altro dall'organicismo storiografico: ma per sostituirvi non già la razionale coscienza della libera creatività della storia, ma piuttosto il duro agnosticismo materialistico di cui si diceva. Certo, il pessimismo storico peserà negativamente sull'opera dell'A., che in più luoghi prenderà il tono della recriminazione e condanna moralistica, davanti alla violenza del dominio romano, alla corruzione bizantina, alla stessa Chiesa dell'alto Medioevo: mondi questi e valori che le convinzioni liberali e anticlericali dello storico respingevano e condannavano, senza che la sua dottrina della storia gli fornisse strumenti adeguati per superare, nel ripensamento, le posizioni ideologiche e di parte.

Ciò non vuol dire che per la Storia dei Musulmani si possa parlare senz'altro, come pure autorevolmente si è fatto (v. Bibl., G. Falco, A proposito della nuova edizione della "Storia dei Musulmani di Sicilia" di M. Amari), di invecchiata storiografia illuministica, incapace di tenere il passo con il pensiero dell'Ottocento storicista. Già nei suoi criteri ispiratori questo giudizio va soggetto a una radicale revisione, come tutto ciò che si riporta a una troppo schematica contrapposizione fra illuminismo e senso della storia; e, in particolare, del presunto illuminismo dell'A. va esaminato il reale contenuto, e la funzione che assolve nell'indagine storica. Del fatto religioso lo storico siciliano certamente non avvertì uno specifico e autonomo valore, indipendente dalla sua efficacia sulla restante vita morale: ché anzi, proprio nel rafforzamento del "legame morale" vide il "massimo scopo della religione come pensavano i nostri padri latini" (v. Scritti editi, Opere: Storia dei Musulmani di Sicilia, 2 ediz., I, p. 663).

Ma questa efficacia sociale della religione intuì con straordinario vigore e sensibilità, riuscendo grazie ad essa a cogliere e a rivivere momenti fondamentali del Medioevo, come per es. il rinnovamento della società araba dovuto all'islamismo, in cui si esprime il rinnovato vigore dell'anima nazionale, anticipato dalla grande poesia dell'età "barbara ed eroica", e dai più attivi commerci e contatti con culture più avanzate. E non solo dell'islamismo, che era un vecchio mito polemico della storiografia irreligiosa dell'illuminismo, l'A. storico dell'alto Medioevo ci ha lasciato un quadro altamente positivo: ma anche di momenti capitali della storia della Chiesa, come l'epoca di san Gregorio Magno, e l'"mpulso di civiltà" dato dal grande papa alla vita siciliana, i cui effetti durarono nell'isola per un secolo e mezzo (ibid., I, p. 133). Certo, lo storico siciliano non fu mai tenero per il "triregno, fabbricato di teocrazia giudaica, dispotismo romano, e barbarie settentrionale" (ibid., III, p. 633): ma accanto all'avidità di beni temporali e allo zelo dei fanatici seppe scorgere anche l'elevatezza morale e l'importanza storica dei Pietro l'Eremita e dei Savonarola (ibid., I, p. 664).

Indubbiamente, la visione storica dell'A. è rigorosamente laica e umana, e ha al suo centro non "polizze su l'altro mondo" ma "la moneta sonante delle virtù umane" (ibid., I, p. 265),che sono tutt'insieme virtù civili e morali, forze davvero creatrici della grande storia. Ma appunto questo concetto gli permise di superare in molti casi le strettoie del gretto moralismo democratico, e di cogliere invece la positività dell'opera politica dei grandi despoti costruttori di stato. In fondo, l'A. guardava sempre all'azione di "due motivi d'indole diyersa; la coscienza, cioè, e l'interesse: i quali.., s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad ogni novello passo della civiltà" (ibid., I, p. 325); e nella ricerca di questo legame la sua storiografia raggiungerà i livelli più alti. Da esso traggono vigore le grandi pagine sull'espansione araba, alla quale diedero "alimento a volta a volta il sentimento religioso, quel dell'eguaglianza sociale e quel della nazione, poi tutti e tre uniti insieme" (ibid., I, p. 159); e per questa via si giunge dalla primitiva virtù politica dei condottieri normanni allo splendore civile della Palermo di Ruggero II. Nei principî della loro fortuna, infatti, i "Normanni d'Italia, in lor vita da masnadieri mostrarono splendidamente le virtù che fondano gli stati" (ibid., III, p. 56); e in forza di queste virtù riuscirono a convertire quella molteplicità di schiatte, di culture e di religioni che avevano tratto a rovina il dominio arabo in Sicilia, "quando i corpuscoli sociali non stavano insieme per amor di patria né forza di comando ma ciascun faceva per sé" (ibid., II, p. 613), in elementi di forza della nuova monarchia, che seppe sottoporre quelle sparse molecole alla potenza ordinatrice di uno stato forte nella pace e nella guerra, e insieme tollerante delle differenze di religione e di stirpe. In tal modo la nascente nazione italiana, assorbiti gli scarsi Normanni ed ereditati i frutti della loro capacità politica, poté mandare ad effetto "l'opera cominciata dagli Arabi quattrocento anni avanti: la Sicilia tornata a potenza e splendore primeggiò per tutto il duodecimo secolo tra le provincie italiane; s'insignorì delle parti meridionali della Penisola; occupò temporaneamente qualche città dell'Affrica propria e sparse in terraferma molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra il quale entro pochi secoli dileguava in Europa le tenebre del medio evo" (ibid., I, p. 107).

In tal modo, il sentimento nazionale dell'uomo del Risorgimento veniva a sostegno della visione storica dello studioso. Intanto, le crescenti fortune della politica cavouriana riaprivano all'esule le porte della patria. Già il 4 maggio 1859 egli veniva chiamato dal governo provvisorio toscano a insegnare lingua e storia araba all'università di Pisa, e, il 20 dicembre successivo, all'Istituto di studi superiori di Firenze, dove nel gennaio 1860 iniziava le sue lezioni. Ma dopo il moto della Gancia a Palermo (4 apr. 1860) l'A. entrava a far parte, come segretario e cassiere, di un comitato di soccorso alla rivoluzione siciliana formatosi a Firenze; e successivamente, sbarcato Garibaldi a Marsala, tornava nell'isola. Fermissimo nel suo unitarismo, nel giugno egli sconsigliava al Cavour la convocazione del parlamento siciliano secondo la costituzione del 1812; e divenuto ministro dell'Istruzione e dei Lavori Pubblici (e poi, ad interim, degli Esteri) con Garibaldi (10 luglio), collaborò con il governo dittatoriale fino allo sbarco dei volontari in Calabria; ma chiese allora l'annessione immediata al Piemonte per plebiscito, dimettendosi con tutto il ministero davanti al rifiuto di Garibaldi (14 settembre). Ai programmi democratici miranti all'immediata conquista di Roma e Venezia, l'A. preferì insomma la più prudente politica del Cavour. Se però era anch'egli contrario alla convocazione di un'assemblea nella quale mazziniani e autonomisti avrebbero avuto troppo libero campo, era tuttavia persuaso che all'Italia convenisse un sistema di largo decentramento nell'amministrazione; e a tal fine propose la riunione di quel Consiglio straordinario di stato che venne convocato a Palermo con decreto del 19 ottobre, e che nel suo rapporto (redatto dall'A. nella prima parte: lettera del 2 ag. 1861, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., II, p. 154)consacrò le aspirazioni della parte migliore del moderatismo siciliano in fatto di autonomie: aspirazioni destinate, per altro, a restare insoddisfatte, davanti all'urgere dei problemi che spingevano il nuovo stato verso un rigido accentramento.

L'A. restò, tuttavia, persuaso del dovere, "nelle circostanze attuali, di sostenere l'abile e audace politica che ci ha condotti fin qui" (lettera del 19 dic. 1860, ibid., II, p. 144). Accettò dunque la nomina a senatore del Regno (20 genn. 1861); e anche nell'alta assemblea si mostrò zelante soprattutto a "contraddire certi umori clericali" (lettera del 10 genn. 1862, ibid., III, p. 231). Il 7 dic. 1862 entrò come ministro dell'Istruzione nel gabinetto presieduto prima dal Farini e poi dal Minghetti, in un momento difficile della vita scolastica italiana, fra l'irritazione e le resistenze suscitate, specie nel settore universitario, dalla politica di rigido accentramento del precedente ministro, Carlo Matteucci: sì che l'opera dell'A. dovette per gran parte limitarsi a cercar di placare quelle reazioni, abrogando talune disposizioni più controverse del regolamento universitario del 14 sett. 1862, e procurando di mandare avanti l'amministrazione senza troppe scosse. Il vivo malcontento dell'opinione pubblica in questa materia portò alla nomina, da parte della Camera, di una giunta d'inchiesta (marzo 1863), che per altro non arrivò mai a concludere i propri lavori (v. Bibl.: G. Talamo, La Scuola dalla legge Casati alla inchiesta del 1864, p. 58).

Caduto il ministero (23 sett. 1864) in seguito alla Convenzione di Settembre, dall'A. sostenuta senza riserve (lettere del 6 ott 1864 e 22 maggio 1865, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., III, pp. 254-56),egli tornò a dedicarsi interamente agli studi e all'insegnamento fiorentino (ripreso il 5 ott. 1864), anche dopo aver ottenuto il collocamento a riposo (1866). Il 29 ott. 1865 si era sposato con Louise Boucher, e nel 1873 si trasferì con la famiglia da Firenze a Roma; di lì passato a Pisa, ritornò poi con i suoi nella capitale nell'ottobre 1888.

La sua attività scientifica non ebbe sosta, specie nel campo degli studi orientali, che venne arricchendo di sempre nuovi contributi, mentre portava a termine i Musulmani, e veniva curando e ampliando le sempre nuove edizioni del Vespro, allo scopo di aggiornare l'opera con le nuove scoperte di fonti, e di riconfermare la propria tesi sulla inesistenza della congiura del Procida. La fama del dotto era ormai affermata nel mondo della cultura europea: e di essa ebbe riconoscimento anche nella copia di onori che gli vennero da società scientifiche italiane, francesi, inglesi, tedesche, austriache, russe, danesi, ecc., e da numerose università, tra le quali quelle di Leida, di Tubinga e di Strasburgo gli conferirono il dottorato honoris causa (rispettivamente nel 1876, 1877, 1886). Quando a Palermo nel 1882 si volle celebrare solennemente il centenario del Vespro, l'A. fu al centro di quelle commemorazioni, circondato dall'affetto riconoscente dei suoi conterranei; e allora, a richiesta del municipio della città, egli stese quel Racconto popolare del Vespro siciliano (Roma 1882), che rivela immutato l'antico fervore nell'animo del vecchio studioso.

Accanto all'attività scientifica l'A. continuò ad esercitare numerosi ed alti uffici pubblici, quale membro, oltre che del Senato, del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, del Consiglio superiore degli Archivi, dell'Istituto storico italiano, e di varie commissioni: sempre portando nel suo operato il rigido sentimento di giustizia, il calore di convinzioni, la rettitudine e lealtà di principî che erigono così alto la sua figura morale tra quella élite intellettuale e politica che fece il Risorgimento. Negli ultimi anni si diede a preparare la seconda edizione dei suoi Musulmani (che doveva essere completata, utilizzando il lavoro da lui lasciato, solo quarant'anni dopo la morte), attendendo, in piena serenità dello spirito e lucidità di mente, che la fine, non temuta, giungesse: ed essa lo raggiunse il 16 luglio 1889, dopo una mattina di lavoro alla Biblioteca nazionale di Firenze, mentre si recava a un'adunanza per il monumento all'amicissimo suo e partecipe delle vecchie idealità risorgimentali Atto Vannucci. Un mese prima, aveva inviato a una pubblica riunione un messaggio che riassume, nei suoi echi giacobini e nella ferma moderazione dei principî, l'ideale non retorico ma vivo e vero, che aveva animato tutta l'esistenza dello storico e del patriota: augurando "all'Italia, libera, una, indivisibile, che cresca di territorio, di forza, di prosperità, e non perda mai il giudizio" (11 giugno 1889, in A. D'Ancona, Carteggio di M. A., cit., II, p. 311).

L'A. cominciò a studiare l'arabo a Parigi nel 1843, quando già si avvicinava ai quarant'anni: e per l'innato ingegno, e il valore dei suoi maestri, il Reinaud, per es., si mise rapidamente in grado d'intendere anche non facili testi storici e geografici, di studiare e pubblicare manoscritti. Scopo preciso del suo studio fu sin dagli inizi quello d'illuminare la storia della sua patria siciliana nel periodo islamico, e poi quella di tutta Italia e del Mediterraneo nei loro rapporti col mondo arabo medievale. Primo saggio arabistico dell'A. fu l'edizione e versione della descrizione di Palermo estratta dall'opera del geografo del sec. X Ibn Ḥawkal, che egli pubblicò nel 1845 (v. Scritti Edili, Edizioni e traduzioni); seguì la versione di un'operetta didattico-narrativa dello scrittore arabo siciliano Ibn Zafer, che il traduttore intitolò Conforti politici  (v. Scritti edili, Edizioni e traduzioni); e subito dopo s'iniziò la pubblicazione delle due massime opere arabistiche dell'A., integrantisi a vicenda, la Storia dei Musulmani di Sicilia (v. Scritti Editi, Opere) e la Biblioteca arabo-sicula, con due appendici (v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni). Quest'ultima è la raccolta, per quell'epoca esauriente, dei materiali storico-geografici e anche letterari utilizzabili in funzione storica, che la letteratura araba ci ha lasciato sulla Sicilia musulmana; la Storia dei Musulmani di Sicilia, fondandosi su queste fonti orientali, e insieme su quelle greche e latine accessibili in quel tempo all'autore, dà la completa ricostruzione critica di quell'oscuro periodo di storia siciliana e italiana (sono infatti trattati anche gli insediamenti e le scorrerie musulmane nell'Italia meridionale per tutto il Medioevo). L'una e l'altra opera danno la massima misura delle qualità filologiche e storiche dell'A. nel campo arabistico.

Nella edizione e nelle versioni della Biblioteca si rivelano invero alcune deficienze della preparazione linguistica e filologica dell'editore, specie là dove si tratta di opere letterarie o poetiche dall'astruso e artificioso stile, la cui retta intelligenza richiede una lunga specifica iniziazione. Ma accanto a queste comprensibili lacune (in parte colmate dalle dotte emendazioni ai testi di H. Fleischer) rifulge la vasta e sicura conoscenza dell'A. nel campo più propriamente storico e geografico, che per tutto il Mediterraneo egli dominò veramente da padrone; la sua familiarità con testi ancor per gran parte inediti; la sua scrupolosa diligenza di raccoglitore, che gli fece sino agli ultimi anni adunar sempre nuovi materiali, riuniti nelle due appendici. Lo sviluppo degli studi e il dischiudersi di nuovi testi nei settant'anni dalla sua morte renderebbero oggi matura una nuova edizione della pregevolissima silloge, per alcune parti alquanto invecchiata. La Storia dei Musulmani di Sicilia, l'opera massima dell'A., apparve sin dal suo primo venire in luce, e resta tuttora, un classico della storiografia del secondo Ottocento. Fondata sui vastissimi materiali della Biblioteca integrati dalle fonti occidentali, disegnata con larga e sagace prospettiva che pone le vicende della Sicilia musulmana in rapporto con tutto lo sviluppo storico nell'Italia meridionale, nell'Africa del Nord e in generale nel Mediterraneo, animata da calda simpatia umana e schietto amor patrio, essa porta il suggello della piena maturità dell'A., per quanto, come coerenza e fecondità di pensiero storiografico, sia apparsa a taluni inferiore alla Guerra del Vespro. Rinviando per questo alla valutazione complessiva dell'A. come storico, si deve però dire qui che la Storia dei Musulmani si è rivelata di una solidità non intaccata dal tempo per quanto riguarda il lato arabistico, la scelta e l'uso delle fonti, l'impostazione delle grandi linee e la soluzione e talora l'intuizione geniale dei singoli problemi. Ciò è risultato alla revisione compiuta da C. A. Nallino per la seconda edizione dell'opera (v. Scritti editi, Opere), in parte su materiali approntati dall'A, stesso, ma soprattutto alla luce di oltre mezzo secolo di progrediti studi arabistici, che non hanno modificato della costruzione amariana se non pochi punti particolari.

L'opera arabistica dell'A. continuò indefessa anche dopo il '60, quando l'attività politica, di governo e poi d'insegnamento, assorbì buona parte delle sue eccezionali energie. Ricordiamo la edizione, versione e illustrazione dei Diplomi arabi del R. Archivio fiorentino (v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni), i Nuovi ricordi arabici su la storia di Genova (v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni), gli Altri frammenti arabi relativi alla storia d'Italia,negli Atti della R. Accademia dei Lincei,s. 4, VI (1889), pp. 5-31: lavori tutti che con molti altri minori lumeggiano i rapporti fra gli stati italiani e il mondo arabo mediterraneo. In particolare, alla sua prediletta isola patria è ancor consacrata la raccolta Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte, tradotte e illustrate (v. Scritti editi, Edizioni e traduzioni), un corpus completo per il suo tempo, poi integrato dalle ulteriori pubblicazioni epigrafiche di B. Lagumina. All'A., oltre alla mirabile produzione scientifica personale, gli studi arabistici e in generale orientali debbono la prima loro organizzazione nell'insegnamento superiore italiano, con una larghezza di quadri non più in seguito superata.

Scritti inediti. Le carte dell'A, sono ora custodite presso la Biblioteca Nazionale di Palermo, Fondo Amari (in gran parte non inventariato). Fra gli inediti ivi conservati ricorderemo: Scritti autobiografici: 1) Diario degli ultimi di giugno 1837, pp. 11 (b. 24); 2) Taccuino a matita, con annotazioni varie dal 26 ott. 1842 al 18 marzo 1843, e con scritture di altra mano, pp. 24 (non inventariato); 3) Diario del mio esilio, dicembre 1842, ma con aggiunte o sostituzioni successive al 1851, pp. 10 (non inventariato); 4) Il mio terzo esilio, dal 14 maggio 1849 al 16 genn. 1852, con larghe interruzioni e notizie sugli anni precedenti fino al 1848, pp. 65 (b. 24); 5) Appunti autobiografici, redatti "nel 1881 per rispondere all'insistenza del Sig. Leone Carpi che vuol rifare la biografia di me e di molti altri. Ma non ho finito lo scritto", che si arresta prima della pubblicazione del Vespro,pp. 32 (b. 18).

Scritti storici e politici: 1) Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820, vol. I (testo), pp. 978 e vol. II (documenti e memorie particolari), 1834-1836 (non inventariato); 2) Descrizione del colera di Sicilia del 1837, dicembre 1837-giugno 1838, pp. 21-116 (b. 22); 3) Sulla questione degli zolfi in Sicilia, senza data ma posteriore al 1842, pp. 22 (non inventariato); 4) Chronologie du Coran,1858, pp. 346 (non inventariato; una copia migliore [pp. 384] si trova nella biblioteca dell'Académie des inscriptions di Parigi: H. Derenbourg ne pubblicò una parte, corrispondente alle pp. 112-145, in Centenario della nascita di M. A., Palermo 1910, I, pp. 5-22).

Materiali relativi agli studi storici e arabistici e all'attività politica e parlamentare, oltre a un ricco carteggio, consistente in gran parte di lettere indirizzate all'Amari.

Il Fondo Amari, di cui sarebbe necessaria una sollecita inventariazione completa, non esaurisce, però, ovviamente, il molto materiale inedito che sull'A, si conserva nelle biblioteche italiane e straniere, e che potrebbe fornire la base, fra l'altro, a una nuova edizione dell'invecchiato Carteggio curato dal D'Ancona.

Scritti editi. Opere: Elogio di Francesco Peranni, in Componimenti in morte di F. Peranni generale d'artiglieria, Palermo 1833, pp. 9-36; Osservazioni intorno una opinione del signor Del Re espressa nella "Descrizione topografica, economica, politica de' reali dominj al di qua del Faro del Regno delle Due Sicilie", in Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, XII(1835), pp. 231-241; Catechismo politico siciliano [in collaborazione con Giuseppe Ruffo], s.l. né d. [ma Palermo 1839] (erroneamente attribuito a Niccolò Palmieri, fu più volte ristampato sotto questo nome: a Palermo in separato opuscolo, forse del 1844; in Ristampa delle proteste, avvisi ed opuscoli clandestinamente pubblicati pria del XII gennaro 1848 e che fan parte della rivoluzione siciliana, Palermo 1848, pp. XLIII-XLVIII; in N. Palmeri, Opere edite ed inedite, a cura di C. Somma, Palermo 1883, pp. 1105-1110); Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII, Palermo, Poligrafia Empedocle, 1842 (dalla 2 ediz., Parigi 1843, prende il titolo: La guerra del Vespro siciliano; da vedere nella 9 ediz. [in realtà 11 ediz.],Milano 1886, voll. 3; trad. inglese, London 1850, voll. 3; trad. tedesca di J. F. Schröder, Leipzig 1851, voll. 2; altra trad. tedesca di V. F. L. Petri, Grimma e Leipzig 1851, voll. 4; una vera e propria contraffazione è quella di H. Possien e J. Chantrel, Les vêpres siciliennes ou histoire de l'Italie au XIIIesiècle, Paris 1843); Dei lavori di Storia Italiana dati alla luce in Francia in questi ultimi dieci anni [1835-1845], in Arch. stor. ital., Appendice, tomo I (1845), n. 9, pp. 517-537; tomo II (1845), n. 11, pp. 335-368; Introduzione e annotazioni [anonime] a N. Palmieri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, Losanna 1847, pp. I-LIX (fu ancora ristampata anonima nella cit. Ristampa delle proteste..., pp. CXIII-CXXXVIII; e col nome dell'autore ebbe due ristampe a Palermo nel 1848); Quelques observations sur le droit public de la Sicile, Paris s.d. [ma 9 febbr. 1848]; La Sicile et les Bourbons,Paris 1849; Post-scriptum à la Sicile et les Bourbons, Paris 1849; La médiation française dans les affaires de la Sicile, Paris s.d. [ma 1849]; The Sicilian revolution and the British intervention in Sicily, London 1851; Storia dei Musulmani di Sicilia, Firenze 1854-72, voll. 3 (tomi 4) (da vedere la 2 ediz., a cura di C. A. Nallino, Catania 1933-39, voll. 3, tomi 5); Prefazione [1854] a C. Botta, Storia della guerra dell'Indipendenza degli Stati Uniti d'America ,Firenze 1856, vol. I, pp. I-LVII; Carte comparée de la Sicile moderne avec la Sicile au XIIe siècle [in collaborazione con H. Dufour], Paris 1859; L'Apostolica Legazia di Sicilia, in Nuova Antologia, VI (1867), pp. 444-467; Memoria su la data degli sponsali di Arrigo VI con la Costanza erede del trono di Sicilia e su i 'Divani' dell'azienda normanna in Palermo [risposta a O. Hartwig], in Atti d. R. Accad. dei Lincei, Classe di scienze morali, s. 3, II (1878), pp. 409-438; Racconto popolare del Vespro Siciliano, Roma 1882; Sull'ordinamento della Repubblica siciliana del 1282, in Sesto Centenario del Vespro, Palermo 1882, pp. 17-31; Su la origine della denominazione ' Vespro Siciliano ', Palermo 1882; Notizia della impresa de' Pisani su le Baleari secondo le sorgenti arabiche, in Liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus, a cura di C. Calisse, Roma 1904, pp. XLIV-LV; Bibliographie primitive du Coran, a cura di H. Derenbourg, in Centenario della nascita di M. A., cit., I, pp. 5-22; E. Michel, Vincenzo Malenchini e la spedizione dei Mille (memoria inedita di M. A.), in Il Risorgimento Ital., I (1908), pp. 987-993.

Edizioni e traduzioni: W. Scott, Marmion, novella di Flodden Field, dall'originale inglese recata in versi italiani, Palermo 1832, voll. 2; T. Stewart, Elegia sulle ruine di Siracusa, recata in italiano, Palermo 1832; Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso le quali non sono nei vocabolarj italiani, colla corrispondenza di quelle che vi sono ammesse, Palermo 1835 (rist. dell'Elenco compilato da G. Bernardoni, e uscito a Milano nel 1812, con aggiunte e correzioni, ed eseguita in collaborazione con G. Daìta e F. P. Perez); Ebn-Haucal, Description de Palerme au milieu du Xe siècle de l'ère vulgaire, testo arabo e trad. franc., in Journal asiatique,s. 4, V (1845), pp. 73-114; Mohammed-Ebn-Djobair de Valence, Voyage en Sicile sous le règne de Guillaume le Bon, testo arabo e trad. franc., ibid., VI (1846), pp. 507-545; VII (1847), pp. 73-92, 201-243; la traduzione italiana di questi due testi di Ibn Hawqal e Ibn Giubair, con ritocchi e l'introduzione interamente rifatta è da vedere in Frammenti di testi arabi per servire alla Storia della Sicilia Musulmana, tradotti e illustrati da M. A., in Arch. stor. ital., Appendice, tomo IV (1847), n. 16, pp. 9-88; Lettre sur l'origine du palais de la Couba,in Revue archéologique, VI (1850), pp. 669-683 (pubblica l'iscrizione da lui letta dalla quale risulta la datazione del 1182 per la costruzione della Cuba di Palermo); Ibn Zafer, arabo siciliano del XII secolo, Solwan el Mota' ossiano Conforti politici, trad. ital. dal testo arabo inedito, Firenze 1851; Biblioteca arabo-sicula ossia raccolta di testi arabici che toccano la geografia, la storia, le biografie, e la bibliografia della Sicilia, Leipzig-Göttingen 1857 alla quale seguirono: Appendice alla Biblioteca arabo -sicula, ibid.1875 e Seconda Appendice alla Biblioteca arabo-sicula, Leipzig 1887. I testi ivi raccolti comparvero in italiano in Biblioteca arabo-sicula. Versione italiana, Torino-Roma 1880-81, voll. 2 (comprensiva anche dei testi raccolti nella prima Appendice dell'originale) e nella successiva Appendice alla versione italiana sopra ricordata, Torino 1889 (che riporta i testi contenuti nella Seconda Appendice dell'originale); I diplomi arabi del R. Archivio Fiorentino, testo e trad. ital., Firenze 1863; una Appendice a tali Diplomi comparve a Firenze nel 1865; Nuovi ricordi arabici su la storia di Genova, testi e trad. ital., in Atti d. Soc. Ligure di storia patria, V (1873), pp. 551-635 più 39 pagine del testo arabo; Le epigrafi arabiche di Sicilia trascritte, tradotte e illustrate,parte I, Iscrizioni edili, Palermo 1875; parte II, Iscrizioni sepolcrali, ibid. 1879; parte III, Iscrizioni domestiche (rimasta incompleta, mentre la parte IV, che doveva comprendere iscrizioni varie di cui restasse solo "qualche apografo", non venne mai alla luce), ibid.1885; L'Italia descritta nel "Libro del Re Ruggero" compilato da Edrisi,testo arabo con versione e note (in collaborazione con C. Schiaparelli), in Atti d. R. Accad. dei Lincei, Classe di scienze morali, serie 2, VIII (1883); Altre narrazioni del Vespro Siciliano scritte nel buon secolo della lingua, con pref., Milano 1887; Altri frammenti arabi relativi alla storia d'Italia, in Atti d. R. Accad. dei Lincei, Classe di scienze morali, serie 4, VI (1889), pp. 5-31.

Carteggio: La fondamentale edizione di A. D'Ancona, Carteggio di M. A. raccolto e postillato coll'elogio di Lui, Torino 1896-1907, voll. 3, contenente 455 lettere dell'A, e 347 dei suoi corrispondenti, è ben lungi dal comprendere tutto il materiale disponibile. Già un certo numero di lettere venute alla luce ancora prima del compimento del Carteggio rimasero fuori della edizione (cfr. le indicazioni nella bibliografia del Salvo-Cozzo, cit. in bibl.); e di quelle incluse non poche furono pubblicate solo in parte. Successivamente, molte altre lettere sono state edite nelle sedi più diverse: M. d'Azeglio-M. Amari, Lettere edite e inedite, a cura di L. Geraci, Carini s.d.; Lettere di M. A. ad Agostino Depretis e ad Alberto Guglielmotti, in Riv. di Roma, XII (1908), pp. 144-47; F. Baldasseroni, M. A. e Giovan Pietro Vieusseux (con appendice di lettere inedite), in Arch. stor. ital., LXXII (1914), pp. 245-346; G. B. Siragusa, Un carteggio inedito di M. A.[con Reinhart Dozy], in Nuova Antologia, L (1915), pp. 25-45; M. Puccioni, Vincenzo Malenchini nel Risorgimento italiano [con lettere dell'A. al Malenchini], Firenze 1930; E. Di Carlo, Dodici lettere inedite di M. A. al conte Michele Amari di Sant'Adriano, in La Sicilia nel Risorgimento italiano, I (1931), pp. 113-122; Id., Lettere inedite di M. A. al prof. G. B. Siragusa, in Arch. stor. per la Sicilia orient., XVII (1931),pp. 285-295; C. Trasselli, Lettere di M. A. ad A. Gallo, in La Sicilia nel Risorgimento italiano, II (1932), pp. 3-13; Id., Sui rapporti fra M. A. e G. Lamberti, ibid. ,pp. 23-28; M. Ziino e G. Gabrieli, Lettere di M. A. a Graziadio I. Ascoli, in Arch. stor. siciliano, LIII (1933), pp. 255-258; C. Sgroi, Le relazioni fra M. A. e Corrado Avolio in un carteggio inedito dell'Amari, in Arch. stor. per la Sicilia orient., XXX (1934), pp. 124-146; E. Di Carlo, M. Amari e G. Di Marzo, Palermo 1936; Id., Contributo allo studio della vita e del pensiero di M. Amari [con alcune lettere a Guglielmo Libri], Palermo 1936; A. La Pegna, La rivoluzione siciliana del 1848 in alcune lettere inedite di M. A.[a Michele Chiarandà barone di Friddani], Napoli 1937; H. R. Marraro, Una lettera inedita di M. A., in Rass. stor. del Risorgimento, XXVII (1940), pp. 520 s.; G. Infante, G. Giunta, patriota catanese del '48 in una lettera inedita di M. A., in Bollett. stor. catanese, IX-X (1944-45), pp. 59-63; E. Zacco, G. Raffaele a M. A.(Lettere inedite), Palermo 1950; R. Corso, Tracce arabe in Calabria (Carteggio M. A. e D. Corso), in Arch. stor. per la Calabria e la Lucania, XXIV (1955), pp. 337-360.

Bibl.: Oltre ai lavori ricordati nella voce per il contributo di nuove integrazioni che hanno fornito ai Carteggi, e che spesso contengono anche notizie introduttive e commenti aitesti pubblicati, cfr.G.Dugat, Histoire des orientalistes de l'Europe, I, Paris 1868, pp. 12-24; F. G. Vitale, M. A., in Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche d'illustri italiani contemporanei, a cura di L. Carpi, IV, Milano 1888, pp. 459-478; A. Sansone, La rivoluzione del 1820 in Sicilia, Palermo 1888, pp. 241-254,335-349; Parole pronunziate da diversi oratori sul feretro del senatore M. A. il giorno 18 luglio 1889, Firenze 1889; O. Tommasini, La vita e le opere di M. A., in Mem. d. R. Accad. dei Lincei, Classe di scienze morali, s. 4, VI (1890), pp. 340-376 (rist. in O. Tommasini, Scritti di storia e critica, Roma 1891, pp. 271-354); A. D'Ancona, Elogio di M. A, in Carteggio di M. A., II, Torino 1896, pp. 316-397; D. Halévy, M. A., in La revue de Paris, IV, 5(1897), pp. 69-86; H. Derenbourg, Notice biographique sur M. A., in Opuscules d'un arabisant 1868-1905, Paris 1905, pp. 89-242; G. B. Siragusa, M. A., in Centenario della nascita di M. A., Palermo 1910, pp. IX-XLIV; B. Marcolongo, Le idee politiche di M. A., in Arch. stor. siciliano, XXXVI (1911), pp. 190-240; G. P. Gooch, History and Historians in the nineteenth Century, London 1913, p. 437; G. Gentile, La cultura siciliana, in La Critica, XIII (1915),pp. 41-45, 139 s., 225; B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, II, Bari 1921, pp. 28-34; G. La Mantia, I prodromi e i casi di una penetrazione quasi clandestina della tragedia "Giovanni da Procida" di G. B. Niccolini in Sicilia nel 1831, in Arch. stor. siciliano, XLV (1924), pp. 235-286; V. E. Orlando, introduzione a Le più belle pagine di M. A., Milano 1928; F. Brandileone, M. A., in Nuova Antologia, LXIV (1929), pp. 352-359; V. E. Orlando, M. A. e la storia del Regno di Sicilia, in Arch. stor. siciliano, L (1930), pp. 1 ss.; T. Scharten, Les voyages et séjours de Michelet en Italie. Amitiés italiennes, Paris 1934 passim; G. F.[alco], A proposito della nuova edizione della "Storia dei Musulmani di Sicilia" di M. A., in La Critica, XXXVIII (1940), pp.359-377 (rist. in G. Falco, Albori d'Europa, Roma 1947, pp. 486-512); Id., La Guerra del Vespro, in Albori, cit., pp. 478-485; E. Dupré Theseider, Alcuni aspetti della questione del "Vespro", in Annuario dell'università degli studi di Messina, 1946-47 (da vedere spec. nell'estratto con aggiunte e correzioni, Messina 1954, pp. 4-14); R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950, passim; S. Bottari, Per una nuova edizione de "La Guerra del Vespro" (Appunti di M. A.), in Siculorum Gymnasium, n. s., II (1949), pp. 295-299; F. Gabrieli, Dal mondo dell'Islàm, Nuovi saggi di storia e civiltà musulmana, Milano-Napoli 1954,pp. 89-91, 106 s., 231 s.; Id., Un secolo di studi arabo-siculi, in Studia Islamica, II (1954), pp.89-102; U. Rizzitano, Il centenario della Biblioteca arabo -sicula di M. A.(1806-1889), in Arch. stor. siciliano, s. 3, IX (1957-58), pp. 263-278; G. Talamo, La scuola dalla legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano 1960, p. 58.

Per la congiura carbonara del 1821 e la parte avutavi da Ferdinando A., V. Labate, Un decennio di Carboneria in Sicilia, I, Roma-Milano 1904, pp. 165-190; II, ibid. 1909, pp. 107-132 e passim.

Per lo stato attuale della questione riguardante la rivolta dei Vespri siciliani, S. Runciman, The Sicilian Vespers, Cambridge 1958, Appendix, pp.288-293.

Per un elenco esauriente degli scritti dell'A. cfr. G. Salvo-Cozzo, Le opere a stampa di Michele Amari, in Centenario della nascita di M. A.,cit., I, pp. XLV-CXVIII.

Per una bibliografia sull'A. cfr. L. e M. Ziino, Bibliografia di Michele Amari 1901-1930, Palermo 1930 (con appendici fino al 1936).

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