MILZA

Enciclopedia Italiana (1934)

MILZA (gr. σπλήν; lat. lien; fr. rate; sp. baro, melsa; ingl. spleen; ted. Milz)

Giuseppe LEVI
Carlo FOA'
Giovanni ANTONELLI
Mario DONATI
Ferruccio VANZETTI

Anatomia. - È un organo annesso all'apparato vascolare sanguifero. Esiste in quasi tutti i Vertebrati; soltanto nei Ciclostomi l'organo che fu erroneamente considerato come milza non è omologo a quello degli altri Vertebrati. Nell'embrione umano incomincia ad abbozzarsi alla fine del 1° mese di vita con un ispessimento mesenchimale situato nel mesogastrio dorsale (v. digerente, apparato).

Nell'uomo ha un peso medio di gr. 195, colorito per lo più violaceo, forma di tetraedro irregolare; è facilmente spappolabile. Ha sede profonda, e perciò, quando il suo volume non è aumentato, è difficilmente accessibile alla palpazione e agli altri metodi fisici di esame in uso in medicina. Si trova nell'ipocondrio sinistro presso alla colonna vertebrale, accolta nella concavità del diaframma, nel tratto compreso dalla 9ª alla 11ª costa; in avanti è ricoperta dallo stomaco, in basso ha un rapporto limitato col rene e con la ghiandola surrenale. La parte più bassa della faccia anteromediale della milza, la quale si modella sullo stomaco, corrisponde al punto d'entrata (o d'uscita) dei vasi e dei nervi (ilo). Il peritoneo ricopre la milza aderendo alla sua superficie sino all'ilo, dove l'abbandona costituendo dei legamenti che la congiungono a organi vicini (legamento gastro-lienale e legamento posteriore). Però per la distensibilità di questi legamenti, la milza non è molto fissa, muta facilmente di sede, a seconda della posizione del corpo (supina o eretta), per la distensione dello stomaco, e per i movimenti respiratorî (figg. 1-3).

La struttura della milza giustifica pienamente la definizione che ne abbiamo dato di organo vascolare. Infatti non solo i vasi sanguigni che vi affluiscono e che ne escono hanno un calibro rilevantissimo, relativamente alla sua grandezza, e perciò essa può ricevere in un breve periodo di tempo un'enorme quantità di sangue, ma il sangue e i vasi ne rappresentano il costituente quasi esclusivo. L'uno e gli altri sono accolti in un'intelaiatura fibrosa (stroma) costituita come una spugna, visibile anche nei suoi particolari con una semplice lente, quando con opportuni metodi si sia allontanata la polpa contenuta nell'interno. Da questi sepimenti la milza è suddivisa in moltissimi lobi (fig. 4). La polpa consta di due componenti di struttura e funzione molto diversa: la polpa bianca e la polpa rossa. La prima, anche a occhio nudo, risalta per il colorito bianco sulla seconda; al microscopio appare, in una fetta di milza, in forma di noduli attraversati nel centro da un'arteriola (corpuscoli splenici scoperti da Malpighi).

Lo stroma fibroso consta della capsula sottostante al peritoneo, e dalle trabecole che si dipartono dalla prima e che con le loro divisioni e anastomosi formano l'intelaiatura spugnosa relativamente grossolana di cui abbiamo detto; all'ilo la capsula s'introflette, accompagnando i vasi che penetrano nell'interno (fig. 4). Capsula e trabecole sono costituite da fibre collagene, da fibre elastiche con numerose cellule muscolari lisce; così ci rendiamo ragione della sua elasticità e della sua contrattilità, proprietà poste in luce da ricerche fisiologiche recenti (J. Barcroft); infatti può modificare in alto grado il proprio volume a intervalli di tempo brevi; si alternano ritmicamente a intervalli di un minuto espansioni e contrazioni; il massimo di espansione si avrebbe alla 5ª ora dopo la digestione.

La polpa rossa e la bianca hanno fondamentalmente una struttura comune; una trama di sottili fibrille anastomizzate a rete con cellule stellate a proprietà fagocitiche (istiociti) intimamente aderenti alle fibrille (figg. 5 e 6; v. connettivo, tessuto), nelle maglie della quale sono contenute, in modo da riempirle in modo completo, cellule della linfa e del sangue e sono attraversate da vasi sanguigni. Le arterie provengono da divisioni ripetute di rami dell'arteria splenica, che raggiungono l'organo dal suo ilo: decorrono insieme con le vene nello spessore dei sepimenti fibrosi che separano i varî lobi (fig. 4). A un certo punto le arterie abbandonano i setti fibrosi che separano i lobi e penetrano nell'interno di questi; subito si dividono e i rami arteriosi si circondano di manicotti di tessuto linfoide, i corpuscoli splenici, di cui si è detto sopra; di là da questi ultimi l'arteria si divide in un pennello di rami esili (arterie penicillari); con quali modalità questi si continuino nelle vene è arduo precisare. Certamente non esiste nella milza una rete di vasi capillari a perfetta tenuta come in tutti gli altri organi. In molti animali (nel gatto, nel vitello, ecc.) le arterie penicillari si aprono direttamente nella polpa rossa, in modo che le cellule del sangue in esse contenuto si riversano nelle maglie del reticolo della polpa (fig. 6; circolazione a tipo lacunare simile a quella della placenta e dell'apparato circolatorio di Invertebrati), le percorrono, e sono poi raccolte da capillari venosi a speciale struttura (seni venosi; figg. 4 e 5); ma nell'uomo le arterie penicillari si aprono nella polpa soltanto in punti limitati, e quasi dappertutto si continuano direttamente nei seni venosi; ciò nonostante il sangue che vi circola può attraversare liberamente la trama reticolare della polpa per la speciale struttura dei seni venosi. Questi fanno capo alle vene contenute nello spessore delle trabecole fibrose (fig. 4), formano una rete fittissima, le cui lacune sono occupate dai cosiddetti cordoni della polpa rossa, formata, come s'è detto, da una rete fibrillare e da cellule del sangue di vario tipo; le cellule endoteliali dei capillari venosi sono molto allungate e sono unite l'una all'altra, in modo da costituire una membrana fenestrata, la quale permette facilmente il passaggio verso i cordoni della polpa alle cellule del sangue. Le cellule endoteliali dei capillari venosi sono ritenute di tipo istiocitario e insieme con quelle del reticolo della polpa sono fra i componenti più essenziali del sistema reticolo-endoteliale. Contribuiscono a formare insieme con le cellule endoteliali dei sinusoidi del fegato (v. digerente, apparato) un valido meccanismo di difesa dell'organismo contro le infezioni. Inoltre le cellule endoteliali della milza fissano la colesterina quando questa sostanza circola nel sangue in quantità eccessiva. In breve, dispositivi, non del tutto simili in varî animali, permettono il rapido passaggio di elementi figurati del sangue circolante nella milza, dai vasi nelle maglie del reticolo della polpa; se così non fosse riuscirebbe inesplicabile come facendo circolare per qualche tempo delle soluzioni saline indifferenti, sia possibile di liberare il reticolo della polpa splenica da gran parte delle cellule libere in essa contenute.

Diremo infine di queste ultime. Nei corpuscoli splenici vi sono esclusivamente linfociti identici a quelli dei follicoli e dei noduli linfatici di altre regioni del corpo, ed indiscutibile che la polpa bianca della milza è un importante focolaio linfopoietico; infatti il sangue che esce dalla milza per la via delle vene spleniche è più ricco di leucociti di quello che vi arriva per le arterie. Nei cordoni della polpa rossa vi è grande varietà di cellule serie bianca (v. sangue), in determinate circostanze anche eritroblasti (eritrociti nucleati) plasmatociti, e talora, specialmente nei giovani, megacariociti; infine istiociti i quali hanno fagocitato eritrociti senescenti o frammenti di questi; oppure se questi furono emolizzati nell'interno del fagocita vi si ritrovano zolle di pigmento. Queste immagini sono l'espressione strutturale della più essenziale fra le funzioni della milza di distruggere gli eritrociti senescenti. In questo modo si libera il pigmento ferrico; infatti la milza ha una parte importante nel metabolismo del ferro.

Fisiologia. - Sebbene la milza non sia un organo indispensabile alla vita, essa esercita molteplici funzioni, alcune delle quali le sono esclusive, mentre altre sono comuni a diversi organi o sistemi. Durante la vita fetale la milza partecipa col fegato e col midollo delle ossa alla formazione dei globuli rossi; tale funzione si spegne normalmente nei primi anni di vita, ma si può risvegliare in talune malattie del sangue o dopo forti emorragie, quando l'individuo ha bisogno di un rapido rinnovamento dei globuli rossi. La struttura della milza normale riflette la sua funzione emolinfopoietica che è più spiccata negl'individui giovani e che si esalta nel corso di diverse malattie, soprattutto quanto il tessuto splenico reagisce alle infezioni. Come organo che regola il numero degli elementi circolanti del sangue, la milza possiede, oltre alla funzione formativa di alcuni di questi elementi, una funzione litica e cateretica (catatonistica di F. Bottazzi) sui globuli rossi e sui globuli bianchi. Nel traversare la polpa splenica i globuli rossi subiscono cioè una diminuzione della loro resistenza per azione di speciali sostanze (emolisine) elaborate dalla milza e dimostrabili nel sangue da essa emulgente. Alcuni di questi elementi, i più vecchi, sono poi senz'altro distrutti in loco da cellule ad attività fagocitaria del sistema reticolo-endoteliale, mentre gli altri passano nel fegato per terminare in questo organo il loro ciclo vitale. L'asportazione dell'organo o la legatura delle arterie a esso afferenti, portano infatti a un aumento assai manifesto della resistenza dei globuli rossi verso le soluzioni saline ipotoniche. Come conseguenza dell'emolisi intrasplenica, si ha la formazione in questo organo di pigmenti biliari, mentre si libera ferro che viene utilizzato da altri organi per la formazione dell'emoglobina. La milza possiede pure un'azione litica assai importante sui globuli bianchi, soprattutto sui polinucleati, come dimostrano sia la leucocitosi che si osserva dopo la splenectomia, sia il conteggio comparativo di questi elementi nel sangue arterioso e venoso della milza quando essa sia in stato di perfetto riposo (C. Colombi e L. Paolazzi). Sembra che anche quest'azione leucolitica sia dovuta a sostanze speciali (leucolisine) elaborate dal tessuto splenico. La funzione della milza entra pure nel complesso fenomeno della coagulazione del sangue, ed è stato provato (I. Spadolini, G. Viale) che il sangue venoso refluo dall'organo coagula molto rapidamente, mentre la chiusura delle vene lienali o l'asportazione dell'organo provocano costantemente un aumento del tempo di coagulazione. La milza, inoltre, possiede diverse altre funzioni che, sebbene ancora poco note e sebbene appaiano di scarso significato nell'economia dell'organismo, devono essere qui ricordate. L'asportazione della milza provoca una diminuzione dell'accrescimento corporeo (A. Dastre), mentre il succo di milza spiega un'azione favorevole sullo sviluppo delle cellule coltivate in vitro. L'asportazione della milza determina ancora delle modificazioni del metabolismo basale tendendo a elevarlo, del metabolismo degl'idrati di carbonio aumentando la concentrazione del glucosio libero e del glucosio proteico del sangue, del metabolismo del glutatione, dei grassi e soprattutto della colesterina. A proposito di quest'ultima sostanza bisogna ricordare che la milza non soltanto fabbrica la colesterina partendo principalmente dall'acido colalico e dai saponi, ma mette in circolo probabilmente una diastasi che presiede alla formazione di colesterina nei muscoli che lavorano. Senza milza infatti diminuisce la colesterina d'origine muscolare (M. Abelous e L. C. Soula). La milza esercita una funzione di ordine meccanico del più alto interesse. Situata, come essa è, in derivazione sul circolo portale, oltre a esercitare la funzione di una valvola regolatrice della circolazione addominale (L. R. Binet e G. Viale), deve essere pure considerata come un magazzino di eritrociti che, quando essa si contrae, vengono immessi nel circolo generale (J. Barcroft, L. R. Binet). Il lavoro muscolare, l'asfissia, l'avvelenamento da ossido di carbonio e le forti emozioni, provocano una contrazione della milza. La maggior parte dei fisiologi che hanno studiato questi fenomeni interpretano la contrazione splenica nell'esercizio muscolare come una reazione emodinamica compensatrice dell'organismo, che mette in circolo un maggior numero di emazie per rendere piu facili gli scambî respiratorî, mentre altri pensano che la milza trattenga tra le maglie della polpa gli elementi del sangue non già come un deposito di riserva, ma come un organo deputato prevalentemente alla distruzione di questi elementi. Comunque è certo che quando la milza si contrae per azione d'uno stimolo, come quelli sopra citati o come quello energico costituito da una iniezione di adrenalina, o dall'aria rarefatta, vengono bensì immessi nel torrente circolatorio molti elementi del sangue, ma questi sono già assai tarati nella loro resistenza per avere soggiornato tra le maglie della polpa splenica (fig. 7).

Anatomia patologica. - Per anomalia congenita si può avere la mancanza della milza o, all'opposto, riscontrarsi accanto all'organo principale numerose piccole milze, dette accessorie o succenturiate; altra volta la milza, pure per anomalia congenita, può presentare delle incisure anomale, o essere situata nell'ipocondrio destro anziché nel sinistro (situs viscerum inversus), o essere spostata nel cavo pleurico o nel piccolo bacino. Spostamenti si osservano anche in via acquisita di solito per notevole aumento di peso dell'organo, come nelle splenomegalie, o per compressione da organi vicini.

La milza per la sua struttura (apparato reticolo-endoteliale) rappresenta un organo di deposito di varie sostanze granulari e vi si possono trovare pigmenti endogeni (emosiderina e melanina), o esogeni (carbone), globuli rossi e bianchi, batterî, ecc.; oltre a ciò per la sua contrattilità e l'ampiezza delle lacune sanguigne può variare rapidamente e fortemente di volume, come dimostra anche l'osservazione clinica.

Per la sua ricchezza di sangue la milza partecipa attivamente ai disturbi di circolo. Nell'anemia essa si fa più piccola, più pallida e più consistente, ma in alcune forme di anemia cronica e specie nella perniciosa progressiva la si trova spesso di colorito rosso e alquanto aumentata di volume per ematopoiesi compensatoria. L'iperemia attiva è distinta da un colorito rosso intenso del parenchima splenico e da un modico aumento di volume, e talora anche da piccole emorragie, come si riscontra in molte malattie infettive acute e croniche. Nell'iperemia passiva, che occorre frequentemente di osservare nell'insufficienza di cuore, o per compressione locale della vena splenica, l'organo è alquanto aumentato di volume e di consistenza ed è di colorito rosso cupo e al microscopio si trovano le lacune venose molto dilatate dal sangue e il tessuto di sostegno per lo più ispessito. Rare sono le emorragie. Quando un ramo dell'arteria splenica viene occluso da un embolo o da un trombo, il rispettivo territorio, sottratto all'irrorazione sanguigna, cade in necrosi e si produce il cosiddetto infarto. L'area in preda all'infarto è caratterizzata da una forma conica, consistenza aumentata, margini netti e da un colorito bianco, quando l'infarto è anemico, e rossastro, quando è emorragico. In seguito gl'infarti, attraverso a fasi evolutive, vengono riassorbiti e organizzati, residuandone una cicatrice rientrante, che s'approfonda nel parenchima splenico e che può talora deformare l'organo. Quando gl'infarti sono settici, può seguire la loro suppurazione.

Fra i processi regressivi della milza sono da notare: atrofie, sia senili sia da cachessia, ecc., per cui l'organo si riduce notevolmente di volume e si fa flaccido e inconsistente; la degenerazione ialina a carico del tessuto di sostegno e delle arteriole con formazione d'una sostanza omogenea, vitrea; la degenerazione grassa nelle cellule reticolo-endoteliali e nelle trabecole; la degenerazione o meglio infiltrazione amiloide nel corso di suppurazioni di lunga durata, della tubercolosi, specie ossea, della sifilide, ecc., per la quale la milza, quando è colpita diffusamente, assume una maggiore consistenza e rigidità e sulla superficie di sezione un riflesso lardaceo o vitreo accompagnato da un colorito rosa pallido come di prosciutto affumicato, donde il nome di milza-prosciutto; nella forma circoscritta, invece, la superficie di sezione mostra disseminatamente dei noduli grigiastri, corrispondenti ai noduli linfatici, leggermente rilevati e semitrasparenti simili a uova di rana o a sagù cotto, donde il nome di milza-sagù. Anche le aree siderotiche descritte da C. Gamna sono da considerare come espressione di un processo regressivo circoscritto.

Fra i processi flogistici acuti - le spleniti - alcune verranno riferite fra le splenomegalie (v.), essendo la loro nota più saliente rappresentata dal cospicuo aumento di volume dell'organo; qui basta ricordare l'ascesso della milza in seguito alla localizzazione di germi piogeni per lo più durante il decorso di setticopioemie, per cui si formano focolai più o meno ampî contenenti un pus giallo-verdastro. Fra i processi flogistici specifici hanno importanza la tubercolosi e la sifilide: quella più frequente, specie nella forma acuta, distinta dalla comparsa di numerosi nodulini di grandezza miliare, rilevati, grigio-giallastri, disseminati in tutto l'organo, mentre nella forma subacuta e cronica, più rara, si hanno focolai a nodi più grossi, fino a raggiungere il volume di una noce, largamente caseificati. La sifilide è molto rara come localizzazione specifica, in forma di gomme miliari nella sifilide congenita e di gomme più grosse nell'acquisita (per l'iperplasia diffusa da sifilide e da tubercolosi, v. sotto).

Il capitolo più importante della patologia della milza è rappresentato dagli aumenti cospicui di volume dell'organo, che vengono designati col vecchio nome di tumori di milza e modernamente di splenomegalie. Tale denominazione ha però significato generale e comprende forme fra loro molto diverse per cui è necessario separarle in gruppi a seconda delle varie cause determinanti.

Un primo gruppo di splenomegalie è dovuto a molte malattie infettive acute e croniche e qui si tratta di spleniti. Fra le prime vanno ricordate le splenomegalie nel decorso del tifo addominale e dei paratifi, nelle setticopioemie, nella peste, nel carbonchio, nella febbre ondulante, febbre ricorrente, ecc.; in esse si ha in generale una forte iperemia dell'organo e iperplasia della polpa e talora focolai necrotici a carico della polpa e dei follicoli. È però qui importante ricordare che in queste varie infezioni il grado e il tipo della splenomegalia è alquanto diverso a seconda dell'agente causale e ancora che in alcune malattie infettive acute manca la splenomegalia, come per es. nella dissenteria, colera, tetano e altre, per cui non si deve ritenere che a tutte le malattie infettive corrisponda un tumore di milza. Un altro gruppo, in cui la splenomegalia raggiunge di solito proporzioni più rilevanti, è dato da numerose malattie infettive croniche; così molto considerevole è l'aumento di essa in seguito a ripetuti attacchi malarici tanto da superare anche 2-3 kg., con forte proliferazione dello stroma dell'organo e, se vi furono attacchi recenti, con colorito brunastro per deposizione di melanina. Anche nella leishmaniosi (v.) la milza è fortemente aumentata di volume con forte dilatazione dei seni ripieni di globuli rossi e con iperplasia degli elementi della polpa; nelle cellule reticolo-endoteliali si trovano i parassiti specifici scoperti da W. B. Leishman. Caratteristica è la splenomegalia nella linfogranulomatosi maligna (v. granuloma: Granuloma maligno), affezione sistematica d'origine forse infettiva dell'apparato linfatico, nella quale la milza assume il cosiddetto aspetto "porfiroide" per la presenza, su uno sfondo rosso, di noduli biancastri e sporgenti, in corrispondenza dei quali si trova un particolare tessuto di granulazione costituito da cellule linfoidi, epitelioidi e dalle cosiddette cellule di Sternberg. Nell'endocardite lenta, dovuta a un'infezione cronica da Streptococcus viridans, si ha pure un notevole tumore di milza, che sulla superficie di sezione è per lo più liscio e di colorito rosso omogeneo. Varia è la splenomegalia nel decorso della tubercolosi, ora quasi assente, ora di modico grado. In alcuni casi di sifilide congenita, più che nella acquisita, si osserva talora un notevole tumore di milza, al quale può associarsi una cirrosi epatica. In Egitto fra la popolazione araba si riscontra una splenomegalia, che pare in rapporto con una infestazione da Bilharzia Mansoni, distinta da sclerosi diffusa del tessuto di sostegno e molto spesso seguita da cirrosi epatica, la quale però verrebbe arrestata dalla splenectomia.

Un altro gruppo di splenomegalie è rappresentato dalle emopatie. Molto notevole e spesso imponente è la splenomegalia nella mielosi e nella linfoadenosi leucemica e aleucemica, nelle quali il tumore raggiunge talora i più alti gradi così da toccare i 5-6 kg. e anche più; al taglio l'organo appare nelle mielosi di solito ricco di polpa e di un colorito grigioroseo per lo più omogeneo, mentre nelle linfoadenosi è più spesso marmorizzato per la presenza di noduli grigiastri corrispondenti ai follicoli ingrossati: al microscopio si riscontra un'iperplasia del tessuto mieloide e rispettivamente di quello linfoide dell'organo; in entrambi il tumore splenico è l'espressione di un'affezione sistematica del tessuto mieloide e linfoide. Nell'ambito delle anemie si può avere un moderato tumore di milza nell'anemia perniciosa (forma splenomegalica), con colorito rosso vivo per ematopoiesi compensatoria, come pure nell'anemia pseudoleucanemica infantum, un'anemia cronica dell'infanzia. Anche l'iperglobulia primitiva o morbo di Vaquez (v. eritremia), è per lo più accompagnata da splenomegalia. Nell'ittero emolitico costituzionale, in cui si ha un'abnorme distruzione di eritrociti per un'anomalia congenita e familiare degli organi ematopoietici, s'osserva quasi costantemente un tumore di milza più o meno cospicuo con forte dilatazione delle lacune venose e degli spazî della polpa da parte di globuli rossi e deposizione di abbondante pigmento sanguigno nel tessuto reticolo-endoteliale.

Un altro gruppo di splenomegalie è in rapporto ad alterazioni del ricambio; così si osserva un considerevole tumore di milza e spesso anche del fegato nel morbo di Gaucher, singolare affezione per lo più familiare e che predilige il sesso femminile, caratterizzato dalla deposizione di una particolare sostanza a costituzione complessa nel tessuto reticolo-endoteliale tanto della milza, quanto del fegato, midollo osseo e linfoghiandole.

Infine un ultimo gruppo di splenomegalie s'osserva nel campo delle varie forme di cirrosi epatica (v.) e particolarmente nelle forme atrofica di Laennec e nella ipertrofica di Hanot, nelle quali il tumore di milza non è secondario alla cirrosi, ma coordinato alla stessa causa che provoca l'alterazione epatica. Invece in quella forma di splenomegalia che caratterizza la malattia di Banti, il tumore splenico costituirebbe secondo questo autore la lesione primitiva, mentre la cirrosi epatica sarebbe successiva a essa. Oggi però si tende a considerare la malattia di Banti non già come una forma autonoma ma piuttosto come una sindrome clinica in rapporto a diverse cause morbose.

Molto raramente la milza è colpita da tumori tanto primitivi quanto secondari e questo fatto ha notevole importanza biologica. Fra i tumori primitivi, oltre a qualche caso di fibroma, condroma, osteoma, sono da annoverare gli emoangiomi e i linfangiomi, sia di piccolo sia di grande volume, e i cosiddetti splenomi, che probabilmente vanno ascritti agli amartomi; fra i blastomi maligni primitivi fu osservato talvolta il sarcoma fuso- e rotondo-cellulare. Le localizzazioni secondarie di tumori maligni, sarcomi e carcinomi, sono pure molto rare: le metastasi dei carcinomi, per esempio, vi s'incontrano solo nell'1-2% dei casi di carcinomi, che colpiscono l'organismo umano.

Sono conosciuti anche casi di cisti della milza, derivate ora da dilatazione di vasi linfatici, ora da inclusioni d'epitelio peritoneale in via congenita o acquisita: furono segnalate anche cisti emorragiche d'origine traumatica.

Rotture della milza si hanno in seguito a traumi ma anche in via spontanea per rapidi e forti aumenti di volume dell'organo come nella malaria e nel tifo.

Tra i parassiti fu osservato l'echinococco sotto forma cistica e più di rado i cisticerchi e i pentastomi.

Patologia medica. - La milza è organo eminentemente reattivo e capace di alterarsi nella sua struttura e il più spesso tumefarsi per i più svariati processi, sia che la colpiscano primitivamente, sia che la interessino secondariamente a lesioni degli altri organi e apparati.

Per quanto riguarda i disturbi circolatorî, a parte le congestioni attive, che sono di scarsa importanza clinica, la milza può, come ogni altro organo, congestionarsi passivamente negli stati iposistolici (insufficienza cardiaca), ovvero in conseguenza della stasi nel dominio della vena porta (piletrombosi, pileflebite, ecc.). Tale congestione passiva conduce ad aumento di consistenza, leggiera dolorabilità e modico aumento di volume della milza. In caso di occlusione di un ramo dell'arteria splenica o per embolo o per trombosi (infarto splenico) si ha viva e spesso brusca dolorabilità spontanea, e anche suscitata dalla palpazione, nella regione dell'ipocondrio sinistro.

Fra le alterazioni spleniche a tipo degenerativo merita speciale considerazione la degenerazione amiloide, che consegue per lo più ai processi suppurativi cronici, ma anche alla tubercolosi, alla sifilide, ecc., e che il più spesso interessa, oltre che la milza, il fegato e i reni. L'organo aumenta di volume e di consistenza.

La milza si altera e aumenta più o meno di volume nel corso della maggior parte dei processi infettivi acuti e cronici. Sono da considerare in prima linea, dal punto di vista clinico, il tifo addominale e i paratifi, l'infezione melitense, la malaria, che nelle forme croniche o recidivanti può dare luogo ai più cospicui tumori di milza, le setticopioemie, l'endocardite maligna lenta, cagionata per lo più dallo Streptococcus viridans (H. Schottmüller), ecc. Tra le infezioni croniche, possono alterare e ingrandire la milza tanto la sifilide (specialmente congenita) quanto la tubercolosi. Tanto l'una quanto l'altra, se dànno luogo a vere forme di splenomegalia (casi relativamente rari) colpiscono per lo più anche il fegato. Nel corso dei processi settici (compresa l'infezione tifoide) o setticopioemici si può avere anche la formazione di ascessi splenici (febbre, dolore più o meno acuto all'ipocondrio sinistro, ingrandimento e deformazione della milza, specialmente se sviluppati in vicinanza del margine antero-inferiore).

Fra le splenomegalie di origine parassitaria sono da segnalarsi soprattutto quella cagionata da un protozoo del genere Leishmania, forma che colpisce più frequentemente i bambini, ma talvolta anche gli adulti, nelle regioni bagnate dal Mediterraneo, e che dà luogo ad anemia più o meno grave, leucopenia con linfocitosi, febbre irregolare, disturbi gastro-intestinali, grave deperimento organico ed esito letale, qualora non si combatta attivamente nei primi stadî per mezzo dei preparati di antimonio (G. Di Cristina e G. Caronia). Tale malattia corrisponde etiologicamente al cosiddetto kala-azar, frequente soprattutto nelle Indie. G. Pianese ha individualizzato, nel vasto campo delle anemie splenomegaliche infantili, quella forma che egli ha messo appunto in rapporto con la Leishmania (anaemia infantum a Leishmania di Pianese). La cosiddetta splenomegalia da bilarzia (Bilharzia haematobia o Distomum haematobium) è frequente in Egitto, donde il nome di splenomegalia egiziana. Tale affezione è dovuta all'insediarsi di una varietà di trematode nelle vene del territorio portale; essa è caratterizzata da disturbi a tipo dissenterico, febbri, ematurie, anemia secondaria, grave cachessia, e si associa a cirrosi epatica; colpisce per lo più soggetti di età giovane. Da questa forma E. J. Tschuchiya ha distinto la così detta Schistomiasis japonica dovuta a un trematode del tipo precedente, ma differenziabile da esso (Schistosomum japonicum). Questa forma morbosa è caratterizzata da splenomegalia, tumefazione del fegato seguita da retrazione a tipo cirrotico e ascite, dovuta in parte a lesioni endoflebitiche nel dominio della vena porta.

Le cisti da echinococco di rado si sviluppano primitivamente nella milza. Ingrandiscono e deformano l'organo, facendo assumere una forma globosa al tratto di milza invaso; possono complicarsi con suppurazione, e anche rompersi nella cavità peritoneale.

Fra i processi granulomatosi, a parte quelli di natura tubercolare e sifilitica, ha particolare importanza la linfogranulomatosi maligna o meglio il granuloma maligno tipo Paltauf-Sternberg, che colpisce in modo precipuo le ghiandole linfatiche e la milza, ma anche altri organi, sotto forma di un tessuto di granulazione, di cui fanno parte le caratteristiche cellule giganti descritte da M. Sternberg. Tale processo è per sé stesso grave; dà luogo a febbri periodiche, anemia secondaria più o meno intensa, per lo più leucocitosi, spesso eosinofilia sanguigna; conduce sempre, con durata variabile, secondo che sia più o meno curato (specialmente con la röntgenterapia), all'esito letale. Talvolta il processo granulomatoso assume istologicamente e clinicamente, come G. Antonelli ha potuto dimostrare in una sua osservazione personale, un andamento a tipo blastomatoso. Fra i processi iperplastici reticolo-endotelioidi, che in fondo rientrano fra le granulomatosi nel senso lato della parola, sono da ricordare il morbo di Gaucher, o splenomegalia endotelioide, in cui le lesioni non sono esclusive della milza, ma interessano anche il fegato e altri organi linfo-emopoietici, cioè il midollo osseo e le ghiandole linfatiche, e consistono nella sostituzione al normale parenchima splenico di grosse cellule d' origine reticolo-endoteliale infarcite di granuli lipoidi del gruppo dei cerebrosidi (cerasina). La malattia ha decorso cronicissimo e benigno, rimonta spesso alla prima infanzia, si manifesta in parecchi membri della stessa famiglia e della stessa generazione, predilige il sesso femminile, e s'accompagna a una tinta bronzina della cute. Affine al morbo di Gaucher è la splenomegalia tipo Niemann-Pick, caratterizzata dall'iperplasia di cellule d'origine reticolo-endoteliale cariche di un lipoide che differisce alquanto nella sua chimica costituzione dal precedente. Vi sono poi altre splenomegalie croniche d'origine ignota, caratterizzate da un'intensa proliferazione delle cellule reticolo-endoteliali, associate a cellule giganti: in alcuni di tali casi il fegato è alterato in senso cirrotico. Le cellule giganti sono talvolta così numerose da rassomigliare al sarcoma mieloide (J. W. Mc Nee). Molto recentemente è stato anche descritto (S. A. Siwe), tra le forme rare di epato-splenomegalie infantili con iperplasia reticolo-endoteliale, un quadro morboso costituito da: tumefazione della milza, del fegato e delle ghiandole linfatiche, tendenza alle emorragie in forma di porpora, modica anemia secondaria senza leucocitosi o leucopenia caratteristiche e senza monocitosi, numero dei trombociti normali, inizio acuto e febbrile, decorso rapido, esito letale in parecchie settimane o mesi, origine ignota (infettiva?).

Le cisti spleniche di natura non parassitaria possono essere: ematiche (d'origine emorragica), sierose (per lo più conseguenti a ectasia dei vasi linfatici), dermoidi, ecc.

I neoplasmi possono essere benigni o maligni. Fra i primi: i fibromi, gli emoangiomi, i linfoangiomi, i condromi, gli osteomi. I tumori maligni primitivi sono molto rari e sono sempre a struttura sarcomatosa o linfosarcomatosa.

Un importante gruppo di alterazioni spleniche è quello che rientra nel vasto campo delle emopatie (affezioni emato-lienali). Fra le anemie perniciose c'è una varietà descritta da A. Strümpell nel 1876, caratterizzata dalle note ematologiche proprie di tale gruppo di emopatie e da un tumore di milza che in genere manca nelle forme comuni (anemia perniciosa splenomegalica). Forme affini a tale varietà sono quelle descritte da A. Bignami e da N. Pende. La splenomegalia è invece ordinaria in quelle anemie che sono caratterizzate da intensi processi emocateretici o emolitici, cioè consistenti in esagerata distruzione dei globuli rossi, o perché essi sono congenitamente più fragili (diminuzione della resistenza globulare), o perché esistono particolari condizioni morbose che spiegano una attività emolizzante. Il risultato di tali processi è un'anemia di grado maggiore o minore, oscillante d'intensità, il più spesso accompagnata da lieve ittero (donde la denominazione di ittero emolitico). Di questo esistono due varietà: l'ittero emolitico costituzionale tipo Minkowski-Chauffard, affezione congenita e spesso familiare, caratterizzata soprattutto dalla diminuzione della resistenza globulare, e l'ittero emolitico tipo Hayem-Widal, malattia ritenuta come acquisita, nella quale la fragilità globulare non è elemento necessario e spesso manca. Non tutti gli autori ammettono tale distinzione. In tali forme la splenomegalia si ritiene spodogena, cioè in gran parte effetto del depositarsi nella milza dei prodotti derivati dalla più o meno intensa distruzione dei globuli rossi. Con ciò non è però escluso anche l'intervento attivo della milza in tale processo distruttivo, intervento che G. Banti ritenne il momento patogenetico fondamentale in un caso, guarito dopo la splenectomia (1911), e per il quale propose la denominazione di splenomegalia emolitica. Immediatamente dopo F. Micheli tentò tale operazione in un primo caso d'ittero emolitico primitivo. G. Antonelli (1913) non condivise il concetto bantiano della "splenomegalia emolitica" e ritenne piuttosto essere il tumore di milza in primo tempo effetto del processo emolitico, in secondo tempo rappresentare esso stesso un attivo fattore emolitico, e tale concezione patogenetica espose a proposito d'una singolare forma d'ittero emolitico acquisito con anemia a tipo pernicioso, che egli individualizzò clinicamente ed ematologicamente, e per il primo sottopose alla splenectomia con successo. Altre varietà nelle quali esiste un grado maggiore o minore di splenomegalia sono: l'anemia emolitica con ovalocitosi e poichilocitosi (Bishop, A. Hijmans v. d. Bergh, ecc.); la cosiddetta anemia emolitica con emosiderinuria perpetua delineata da E. Marchiafava, e che F. Micheli preferisce denominare splenomegalia (o anemia) emolitica con emoglobinuria-emosiderinuria tipo Marchiafava; l'anaemia infectiosa tipo Edelmann; la splenomegalia emolitica tipo Laederer; finalmente la forma recentemente delineata da G. Antonelli di anemia grave ipocromica criptogenetica, tipo morboso a sé, che riconosce verosimilmente un duplice meccanismo, mielotossico ed emolitico, si accompagna a tumore di milza non cospicuo, e volge a esito letale.

Un più o meno notevole tumore di milza si ha nella cosiddetta policitemia rubra o poliglobulia essenziale o morbo di Vaquez, caratterizzato da aumento numerico dei globuli rossi nel sangue fino a 14 milioni per mmc., e splenomegalia: malattia nella quale il tumore di milza non ha un chiaro significato patogenetico.

La milza prende parte ai processi leucemici con le alterazioni caratteristiche delle singole specie e con il suo più o meno cospicuo ingrandimento (linfoadenia o linfoadenosi, mieloadenia o mielosi, a varietà leucemica o aleucemica, a decorso acuto o cronico). Oltre a queste due specie fondamentali, accompagnate, soprattutto la seconda, da splenomegalia, si possono avere leucemie a tipo monocitico, a tipo plasmacellulare, e a cellule indifferenziate (emoistioblasti di Ferrata), sempre con tumore di milza più o meno cospicuo. In tutte le varietà di leucemia si tratta di malattie sistemiche, in cui il tumore splenico rappresenta una delle principali manifestazioni anatomo-cliniche. Oggi non s'ammette più, in opposizione a quanto si credette in passato, l'esistenza di una leucemia esclusivamente splenica o lienale. Nelle leucemie la röntgenterapia, specialmente se praticata sulla regione splenica, modifica, rallenta e spesso arresta il decorso di questi gravi processi, ma l'esito letale ne è la regola. Un grado maggiore o minore di tumefazione splenica si ha anche nelle leucosarcomatosi, che sono da considerare quali varietà leucemiche, le cui caratteristiche anatomiche e cliniche ricordano più da vicino quelle dei blastomi. Si aggiunga la leucoanemia, cioè quel processo che ha in parte i caratteri di una leucemia e in parte quelli di un'anemia perniciosiforme.

È da segnalare la frequente partecipazione della milza ad alcune forme di diatesi emorragica e particolarmente al morbo maculoso emorragico di Werlhof (acuto o cronico, costituzionale o acquisito), caratterizzato da emorragie molteplici, prolungamento del tempo di emorragia, tarda retrattilità o irretrattilità del coagulo, e piastrinopenia (piastrinopenia essenziale di Frank o emogenia di Weil).

Altre forme di splenomegalia sono caratterizzate da non ben definite alterazioni del sistema emolinfopoietico, p. es.: l'anemia splenica infantile di Henoch (o anaemia pseudoleucaemica infantum di v. Jaksch, o pseudo-leucemia splenica infantile di Cardarelli). Si tratta non d'una malattia autonoma, ma piuttosto d'una sindrome caratterizzata da ingrossamento cospicuo della milza, ipertrofia del fegato e leucocitosi, con comparsa in circolo, nel periodo acuto, anche di forme immature (mielociti), e anemia. P. Nobécourt segnala anche forme di anemia splenomegalica caratterizzata dalla presenza in circolo di cellule indifferenziate. Nella etio-patogenesi di questa sindrome si dà una certa importanza alla sifilide congenita, al rachitismo, alla malaria, come fattori predisponenti all'insufficienza funzionale del midollo osseo.

Forme di poco sicura autonomia anatomo-clinica ed ematologica sono: la splenomegalia con linfocitosi di Banti (splenomegalia, anemia secondaria e notevole leucocitosi con linfocitosi relativa e, anatomicamente, iperplasia dell'apparato follicolare della milza), forma rara; la splenomegalia linfomatosa di Bignami, che è da considerare con maggiore verosimiglianza come una varietà di pseudoleucemia linfatica, in cui il tumore di milza rappresenta l'elemento predominante; l'anemia splenica tipo Griesinger, sindrome splenica a decorso più o meno cronico, caratterizzata da splenomegalia, anemia di varia intensità e di vario tipo, linfocitosi relativa più o meno elevata, spesso con fome atipiche o immature, che fanno pensare all'affinità o all'identità di questa forma con le linfoadenosi; l'anemia splenica mieloide (splenomegalia cronica con anemia e reazione mieloide del sangue di Weil e Clerc), caratterizzata da anemia, reazione eritropoietica a tipo ortoplastico o metaplastico, mielocitosi, febbre, epatomegalia, decorso relativamente rapido, esito letale. Anche questa forma sembra rientrare, almeno in parte, nel campo delle leucemie mieloidi, e corrisponde forse a lesioni etiologicamente e anatomicamente differenti.

Consideriamo ora le splenomegalie in rapporto con le malattie di fegato. Nel campo delle cirrosi venose esiste una forma contrassegnata da un cospicuo tumore di milza (varietà ipersplenomegalica), tanto che ha fatto pensare a non pochi autori italiani e stranieri ch'esso debba considerarsi come un tumore precirrotico, e perciò la cirrosi del fegato in tali casi sarebbe la conseguenza delle alterazioni spleniche (cirrosi metasplenomegalica), analogamente a quanto A. Chauffard, A. Cardarelli, G. Rummo, ecc., pensarono avvenisse per la cirrosi malarica, di cui ammettevano l'esistenza e l'origine splenica. Questa concezione però, quantunque sembri suffragata da alcune constatazioni sperimentali, non è validamente dimostrata. La maggioranza degli autori, in analogia con quanto si ammette per l'abituale modico tumore di milza con cui si accompagna la cirrosi di Laennec, ritiene che il tumore di milza consegua a un processo irritativo cronico (quello stesso forse che altera nello stesso tempo il fegato), oltre naturalmente alla stasi portale, che contribuisce all'ingrandimento della milza. Una varietà speciale di cirrosi individualizzata da H. Eppinger (cirrosi ipertrofica di Eppinger) si accompagna a più o meno cospicuo tumore di milza: essa decorre con o senza ittero e dà luogo spesso a manifestazioni emorragiche e intensa anemia.

Nel campo delle cirrosi ipertrofiche biliari (malattia di Hanot) c'è la varietà ipersplenomegalica, individualizzata da A. Gilbert e A. Fournier. Anche qui si è prospettata la possibilità patogenetica che la cirrosi consegua alla splenopatia.

Si ha anche tumore di milza in quelle alterazioni del fegato che sono in parte a tipo cirrotico e in parte a tipo adeno-carcinomatoso (cancrocirrosi): anzi in tali casi il tumore di milza è ottimo elemento di diagnosi differenziale rispetto al cancro del fegato.

Il tumore di milza si riscontra anche in una speciale forma artropatica propria dell'infanzia, che per il primo delineò G. F. Still (1897), caratterizzata da tumefazioni articolari multiple, adenopatie generalizzate e ingrandimento della milza. Il decorso di tale affezione è cronico, e, attraverso esacerbazioni e remissioni, conduce ad anemia e deperimento, che può raggiungere la cachessia; l'etiologia e la patogenesi di tale forma morbosa sono oggetto di discussione.

Fra le splenomegalie ritenute primitive rimane ancora in prima linea la malattia di Banti, cioè la splenomegalia primitiva con cirrosi epatica. L'anemia splenica degli adulti, già prima descritta dallo stesso autore, è da ritenersi quasi certamente quale il primo stadio della malattia di Banti propriamente detta. In questa si distinguono infatti tre stadî: lo stadio anemico, caratterizzato da splenomegalia e anemia con leucopenia e mononucleosi relativa; uno stadio intermedio con epatomegalia in cui talvolta compare ittero; un terzo stadio caratterizzato da cirrosi atrofica del fegato e conseguente versamento ascitico. Banti ammetteva come lesione anatomica specifica la fibroadenia splenica, alterazione che però, sia pure in misura ridotta, si ritrova in molte altre forme di splenomegalia. Oggetto di discussione è stata ed è tuttora la questione se detta affezione morbosa si debba considerare o no come entità anatomo-clinica del tutto autonoma. Molti autori, specialmente della scuola tedesca, ammettono che essa si debba ritenere quale una sindrome, e non come una malattia, e che si possa svolgere per effetto della malaria, della sifilide ereditaria, ecc. Certo è che il tipo clinico di Banti si va sempre più smembrando in entità anatomo-cliniche differenti, e in distinte individualità nosografiche, che assottigliano ogni giorno più il primitivo ceppo bantiano; ciò non toglie però che tale tipo morboso conservi ancora una certa autonomia, così da non giustificare l'idea di demolirlo del tutto. Dal punto di vista terapeutico, è nota l'influenza benefica della splenectomia, purché la malattia non abbia raggiunto il terzo stadio.

Dalla malattia di Banti va differenziata, nonostante alcune analogie cliniche con essa, la splenomegalia tromboflebitica, caratterizzata da trombosi della vena splenica o della porta o delle sue branche di origine e da tumore splenico che può essere enorme. Le prime conoscenze intorno a tale entità morbosa si debbono ai lavori di G. Dock e A. S. Wartin (1904); in Italia, in questi ultimi anni, C. Frugoni ha particolarmente atteso, con personali osservazioni, ad approfondire clinicamente il quadro morboso. Questo rimane ancora oscuro nella sua genesi; ha decorso piuttosto grave, ed è caratterizzato da periodi febbrili, emorragie in forma di ematemesi e melena, anemia secondaria, leucopenia, ecc. Come la malattia di Banti, è anch'esso curabile e guaribile mediante la splenectomia, purché non s'intervenga tardivamente, o quando le condizioni del paziente siano particolarmente gravi. È da segnalare finalmente la splenomegalia a noduli siderotici, o splenogranulomatosi siderotica (A. Stengel, C. Gandy, C. Gamna), caratterizzata da noduli intrasplenici consistenti in speciali formazioni perivascolari, nelle quali la siderosi costituisce la nota più saliente. In Italia, C. Gamna ha portato un personale largo contributo a questo argomento. Le lesioni descritte in tal tipo di splenomegalie non sembrano però costituire un complesso specifico di una determinata entità morbosa, e non sono ancora nettamente definiti i rapporti fra le lesioni stesse e il quadro o i quadri clinici corrispondenti.

Chirurgia. - La chirurgia della milza ha acquistato negli ultimi anni un'importanza notevolissima, essendosi molto esteso il suo campo d'azione. In particolare molte emopatie, che si congiungono a splenomegalia, si sono dimostrate passibili di miglioramento o di guarigione mercé la splenectomia o, in certi casi, mediante un intervento più di recente introdotto nella pratica, cioè la legatura dell'arteria splenica. L'importanza, inoltre, che un gran numero di studî ha attribuito ai rapporti tra milza e fegato, dimostrando il concatenamento fisiologico e patologico epatolienale, per il quale fra altro i veleni di origine splenica possono determinare nel fegato alterazioni degenerative o infiammatorie, cui seguono fatalmente lesioni sclerotiche (cirrosi splenomegalica), ha dato lo spunto a una terapia profilattica di certe epatiti croniche e di certe epatosi, nel senso che la splenectomia precoce può influire in modo benefico sull'evoluzione delle lesioni epatiche e prevenirle qualora s'intervenga in stadio precirrotico.

La chirurgia della milza, nata nel 1549 con la prima splenectomia fatta da L. Fioravanti e A. Zaccarella, si basa sui risultati dell'esperimento e della clinica, i quali consentono di affermare che la milza non è un organo indispensabile alla vita, non solo, ma che la sua asportazione non ha, anche se fatta in giovani, influenza dannosa sull'accrescimento. Vero è che quando si asporta una milza sana, si osservano alterazioni di vario grado, talora permanenti, sia della crasi sanguigna, sia degli organi ematopoietici, sia del ricambio; le stesse funzioni gastriche e pancreatiche possono in parte risentirne. Ma, quando s'intervenga per asportare milze ammalate, e tanto più se l'affezione splenica è collegata a emopatie e pertanto influisce sfavorevolmente sulla crasi sanguigna, le conseguenze sono di tutt'altro ordine. Se nel primo caso infatti si può osservare che alla splenectomia consegue una temporanea diminuzione del numero dei globuli rossi e dell'emoglobina, nel caso invece delle anemie splenomegaliche si osserva come risultato postoperatorio innalzamento del tasso emoglobinico e aumento del numero dei globuli rossi, per cui si può giungere a vere e proprie policitemie e a iperemoglobinemia. Ciò perché, se anche in certe milze patologiche la polpa splenica può assumere una più o meno notevole funzione eritropoietica, nella maggior parte dei casi è esaltata in esse la funzione emolitica.

Sui globuli bianchi la splenectomia agisce determinandone un aumento, talora anche cospicuo; ma questo effetto, dovuto al fatto che la milza ha una funzione leucocateretica, cioè distruttrice dei globuli bianchi, anziché essere una controindicazione, spesso è anzi un'indicazione alla splenectomia, poiché la maggior parte delle emopatie splenomegaliche s'accompagna di regola a leucopenia, cioè ad abbassamento del numero dei globuli bianchi.

La stessa azione la splenectomia ha sul numero dei trombociti (piastrine), a proposito dei quali si possono fare le stesse considerazioni che per i globuli bianchi.

Vi sono anzi delle malattie, che si accompagnano a trombopenia, o piastrinopenia, che dir si voglia, nelle quali l'aumento del numero delle piastrine s'osserva immediatamente ed è persistente, dopo splenectomia; così come istantanea è l'azione che in questi casi la splenectomia esercita sopra la coagulabilità del sangue, notevolmente ritardata, e il tempo di emorragia, notevolmente prolungato in causa dell'alterazione splenica.

Si sa anche che alla splenectomia conseguono trasformazione del midollo osseo in midollo funzionante, di cui l'eosinifilia tardiva è spesso espressione, aumento di volume delle ghiandole emolinfatiche (L. Morandi e P. Sisto) e, in generale, ipertrofia e iperplasia delle ghiandole linfatiche (linfocitosi postoperativa); effetti tutti che, se in parte c'illuminano sulla funzione della milza, vanno tenuti presenti in clinica, soprattutto per dedurre la possibilità di compensi dopo asportazione della milza stessa e pertanto per essere rassicurati sulla possibilità di eseguire senza danno la splenectomia.

Certo è che, dopo la splenectomia, una funzione vicariante viene assunta, più o meno cospicua, dal midollo osseo, dalle ghiandole linfatiche e dal tessuto reticolo-istiocitario, in particolare da quello del fegato; e si può dire che in tutti gli organi è possibile osservare dopo splenectomia la formazione di follicoli di tipo linfoide o splenoide, così come aumenta il volume delle ghiandole emolinfatiche e di eventuali milze accessorie.

Si può dunque senz'altro concludere che all'esperimento chirurgico spetta il merito di avere confermato e ampliato i risultati delle esperienze puramente scientifiche sugli animali, col riconoscimento che la milza, nonché essere indispensabile alla vita, può essere asportata con tranquillità, perché le sue funzioni, tanto più se alterate da un processo morboso, possono essere facilmente assunte da più organi.

S'intende tuttavia che la splenectomia è un atto operativo importante al quale, particolarmente in certe affezioni e per difficoltà dovute al grande volume dell'organo, a brevità eccessiva dei peduncoli vascolari, ad aderenze, ecc., possono essere connessi pericoli immediati, nonché inconvenienti secondarî. Questi ultimi sono legati a turbe circolatorie che si siano prodotte nello stomaco, nel pancreas, nel colon (donde necrosi), a ernie o ad aderenze postlaparotomiche e così via.

Dal punto di vista chirurgico, e più precisamente delle indicazioni all'intervento chirurgico sulla milza, si possono distinguere due gruppi di affezioni; al primo appartengono le affezioni più strettamente della milza; al secondo le splenomegalie emopatiche, nelle quali la milza entra a far parte di un quadro morboso più vasto, cui partecipano fegato, midollo osseo, ecc., con alterazioni più o meno gravi del sangue (emopatie). Fra i due gruppi tuttavia la distinzione non è sempre netta.

Nel primo gruppo sono le lesioni traumatiche (rotture sottocutanee e ferite d'arma da taglio o da fuoco, spesso associate a lesioni di altri organi toraco-addominali; trombosi traumatica della vena splenica); le rotture cosiddette spontanee della milza; le anomalie di posizione o distopie della milza, congenite oppure acquisite; gli aneurismi dell'arteria splenica; le splenomegalie tromboflebitiche; gli ascessi acuti della milza; le splenomegalie tubercolari, sifilitiche, malariche, da kala-azar, da bilharzia; le cisti, parassitarie e non; i tumori benigni e maligni della milza.

Al secondo gruppo appartengono le splenomegalie emopatiche o medullo-emopatiche, fra le quali le leucemiche, l'anemia splenomegalica infantile, la splenomegalia emolitica (itteri emolitici), la porpora emorragica (trombopenia essenziale), la splenomegalia linfatica, le splenomegalie cosiddette reticolo-istiocitarie, le splenomegalie tipo Banti, ecc.

Per il trattamento chirurgico di codeste varie affezioni le operazioni che possono essere eseguite sono di due tipi: conservatrici o demolitrici. L'operazione demolitrice, cioè la splenectomia, è quella che ha le maggiori indicazioni. Per indicazioni speciali possono essere eseguite la splenorrafia (sutura della milza, in casi di piccole ferite); la splenotomia (incisione semplice della milza, in casi di raccolte purulente o cistiche o ematiche); la splenopessia o fissazione della milza (ideata per fissare, intra- o extraperitonealmente, milze mobili o ptosiche non patologiche); la splenocleisi, specie di splenopessia extraperitoneale, ideata e ancora difesa da B. Schiassi per certe splenomegalie; la legatura dell'arteria splenica, che può utilmente sostituire la splenectomia in certi casi di porpora emorragica e in genere allorché la splenectomia appaia operazione troppo difficile o addirittura impossibile per estese e tenaci aderenze, soprattutto se eccessivo il volume dell'organo.

Tutte codeste operazioni sono eseguite per via addominale o laparotomica; può però essere indicata la via toracica, o transpleurodiaframmatica, in certi ascessi del polo superiore, che possono anche consentire, per aderenze, di passare extrapleura (laparatomia transdiaframmatica parapleurale), e in talune ferite toraco-addominali con lesione della milza (C. Lenormant), che obblighino a intervenire attraverso la base del torace, con resezione di due o più coste e passando successivamente, con le dovute cautele per la pleura, attraverso il diaframma.

Per la splenectomia, che è l'operazione più frequente e che esige del resto certi tempi operatorî adattabili anche ad altri interventi, sono state stabilite norme tecniche precise, anche se per molti particolari dissimili. Essa esige una buona preparazione dell'ammalato e una perfetta anestesia; la quale può essere locale, come taluno raccomanda per pazienti particolarmente fragili, oppure rachidea (spinale), da certi chirurghi preferita quale anestesia di elezione, penetrando nello speco vertebrale non al di sotto dell'11°-12° spazio dorsale, oppure infine generale, eseguita o con etere o coi gas. Oggi, in grazia di molti mezzi e metodi (avertina, evipan, ecc.) per anestesie di base, cioè anestesie subcomplete ma di alto valore preparatorio così da limitare fortemente la quantità di etere o di gas che può essere necessaria per condurre a termine l'anestesia, trova forse le più vaste indicazioni la narcosi (anestesia generale) sia di fronte alla rachianestesia, sia, e tanto più, di fronte all'anestesia locale.

L'incisione per la splenectomia deve consentire un largo e comodo accesso alla loggia splenica, rispettando però al massimo le strutture anatomiche della parete addominale, e in particolare i nervi. Vi sono pertanto incisioni, che ragioni di necessità quali il volume della milza e le aderenze hanno imposto, le quali, per essere rispondenti soltanto al primo scopo, sono da ritenersi non indicate o da usarsi solo per eccezione. A questo gruppo appartengono la incisione a T coricato, l'incisione paracostale o sottocostale (G. Ruggi), quella a baionetta. All'opposto altre incisioni, quali le laparotomiche mediane semplici, sia l'epigastrica, sia l'epimesogastrica, non sono da prescegliere perché dànno luce insufficiente; e altre ancora, quali l'incisione longitudinale sul margine sinistro del muscolo retto, o la transrettale, perché non rispettano né l'una né l'altra condizione. Molti chirurghi tuttavia consigliano quest'ultima anche nei casi di milze molto voluminose, ritenendo che essa dia luce sufficiente e che la parte mediale del muscolo retto non presenti in seguito apprezzabile atrofia per difetto d'innervazione. Le incisioni più razionali sono quella di P. Lecène e M. Deniker (1924) e, per milze più voluminose, quella di N. Leotta (1926). La prima comincia sul bordo costale sinistro all'altezza della 9ª cartilagine costale, discende obliquamente parallela ai nervi intercostali sezionando il bordo condro-costale, che può del resto essere risparmiato, e tutti i piani muscolari della parete (muscoli obliqui e trasverso, guaina e muscolo retto) fino al di là della linea mediana al disopra dell'ombelico. L'incisione di Leotta comincia a livello del punto di unione del bordo costale col margine esterno del muscolo retto, discende obliquamente, con direzione parallela ai nervi intercostali, fino all'ombelico, che circonda, per discendere ancora quanto si vuole secondo il piano mediano verticale, come nelle laparotomie sottoombelicali. In confronto dell'incisione di Lecène e Deniker essa ha il vantaggio di risparmiare la sezione del muscolo retto di destra e permette una grande breccia che può essere ampliata a volontà prolungando l'incisione mediana sottoombelicale. Aperta la cavità peritoneale, ci si rende conto con la vista e con la mano del volume della milza, della sua mobilità, della lunghezza o brevità dei peduncoli vascolari. L'emostasi del peduncolo principale, all'ilo della milza, è facile nelle milze mobili, bene esteriorizzabili spontaneamente, o previa sezione dei legamenti splenoparietali e frenosplenici e di eventuali aderenze. Va fatta con duplice legatura di ciascun vaso, se possibile; l'allacciatura di due-tre peduncoli vascolari (vasi brevi, arteria e vena splenica, piccoli vasi di peduncoli polari accessorî) è per lo più sufficiente. In milze aderenti si consiglia anche l'emostasi preliminare dei peduncoli vascolari prima di fare l'isolamento della milza (N. Leotta). Compiuto così l'atto operatorio principale, cioè l'ablazione della milza, ci si assicura che la loggia splenica sia detersa né occorrano piccole legature accessorie per completare l'emostasi, e si richiudono con sutura a piani le pareti addominali.

Rimangono ora da considerare brevemente le indicazioni e i risultati della splenectomia e delle altre operazioni suaccennate.

a) Lesioni traumatiche. - Le più frequenti sono le rotture sottocutanee (75%, circa), da trauma diretto o indiretto, che avvengono per lo più in milze non normali, ma ingrossate e fragili per condizioni fisiologiche (periodo della digestione, gravidanza) o patologiche (le diverse splenomegalie). Vi sono anche rotture patologiche (R. Dalla Vedova) che avvengono senza traumi. Le rotture possono essere centrali (contusioni; rotture sottocapsulari), tangenziali, parziali o totali, isolate o associate a rotture di vasi o di altri organi. Da notare che la sintomatologia dovuta a lesioni extraspleniche può lasciar passare inosservata la rottura della milza. Un ematoma centrale o sottocapsulare può rompersi in secondo tempo per lacerazione della capsula (rottura in due tempi). Tutte codeste lesioni, gravi di solito per lo shock e per l'emorragia interna, esigono di regola la splenectomia. Il tamponamento non può che rispondere a condizioni di necessità; la splenorrafia non può generalmente essere applicata. Nelle ferite da taglio o da punta e più di rado in ferite trapassanti semplici d'arma da fuoco, possono trovare indicazioni il tamponamento e la splenorrafia, semplice o associata a trapianto emostatico di muscolo, di fascia, o di grasso. Nei casi eccezionali di trombosi traumatica della vena splenica, che può determinare il quadro di una grave anemia con leucopenia, è indicata la splenectomia (come per es., in un caso recente di H. Franck, operato da F. Rost). Nelle ernie traumatiche che possono conseguire ad ampie ferite della parete addominale, la riduzione immediata è l'intervento di scelta. La prognosi delle lesioni traumatiche della milza è grave; le statistiche dànno cifre molto varie di mortalità, dal 20 all'80%.

b) Anomalie di posizione. - Colpiscono milze normali (anomalie congenite per allungamento abnorme dei peduncoli legamentosi) o altrimenti malate. La torsione del peduncolo, nelle milze migranti e ptosiche, non è rara e costituisce un'indicazione chirurgica di necessità per accidenti sia acuti (strozzamento dell'organo, occlusione intestinale) sia cronici, intermittenti. La milza può giungere a gradi estremi di ectopia, così da venirsi a trovare persino nel sacco di ernie inguinali (G. B. Morgagni) o crurali. Milze mobili di lieve grado, di normale struttura e poco aumentate di volume, possono anche essere trattate senza intervento, con fasce contentive addominali. Milze patologiche o anche solo voluminose, che dànno disturbi meccanici gastro-intestinali, turbe nervose, dolori e in particolare sintomi di torsione, esigono l'intervento. Questo sarà la splenopessia intra- o extra- (retro-) peritoneale, se si ritenga conservabile l'organo, fissandolo con punti alla parete addominale, all'arcata costale, eventualmente collocandolo in una tasca retroperitoneale (exosplenocleisi di L. Rydygier e altri). La splenectomia è l'intervento indicato negli altri casi; a meno che per aderenze non solubili non ci si voglia limitare, come fece O. Lanz, alla legatura dell'arteria splenica.

c) Aneurismi dell'arteria splenica. - Non rarissimi (C. Henschen ne ha raccolti 72 casi), hanno origine traumatica, infettiva, ateromatosa, sede tronculare o terminale (ilari o intrasplenici). Di varia forma e volume, possono rimanere latenti o dar luogo a sintomi clinici di splenomegalia di vario tipo, in particolare tromboflebitico-aneurismatica (come in un caso di recente osservazione di M. Donati), o rivelarsi ex abrupto per emorragie. L'indicazione chirurgica deriva per lo più dalla splenomegalia con turbe ematiche anemiche, o da splenoepatopatie, nelle quali l'aneurisma si rivela all'atto operativo.

Chirurgicamente si possono trattare o con la legatura centrale dell'arteria splenica (casi precoci; casi di milze voluminose e con aderenze insuperabili), o con la splenectomia. Di 12 casi operati raccolti da Henschen, sei guarirono. Così pure Donati ottenne guarigione operatoria.

d) Splenomegalie tromboflebitiche. - A parte certe milze da stasi atrombotiche, le splenomegalie di questo tipo, sulle quali in Italia particolarmente ha richiamato l'attenzione C. Frugoni, si accompagnano a sintomi meccanici e dispeptici e gastrointestinali da periodiche emorragie che spesso simulano l'ulcera gastrica o l'ulcera duodenale o affezioni ulcerative dell'intestino; a quadri ematologici varî a tipo postemorragico semplice, a tipo tromboleucopenico, ecc., che esigono interventi chirurgici. Mentre la malattia lasciata a sé ha un esito più o meno tardivamente letale, sottoposta all'intervento chirurgico, tanto più se questo è precoce, il risultato può essere molto soddisfacente. L'operazione di scelta è la splenectomia, la quale in una statistica di Henschen su 22 casi operati ha dato 15 guarigioni e 7 casi di morte (32%). Se vi è ascite, si può associare alla splenectomia l'omentopessia (I. Tansini).

e) Ascessi acuti della milza. - L. Silvestrini nel 1924 ne raccoglieva 150 casi, per lo più secondarî. Essi non sono sempre facilmente riconoscibili clinicamente, però la febbre, il dolore all'ipocondrio sinistro, la splenomegalia possono farli sospettare. Poiché abbandonati a sé stessi possono ritenersi mortali (lo svuotamento della raccolta di un organo vicino può avvenire bensì, ma è eccezionale), essi debbono essere trattati chirurgicamente con l'apertura e drenaggio. Eccezionale è in questi casi l'indicazione della splenectomia.

f) Splenomegalie tubercolari, sifilitiche, malariche, da kalaazar, da bilharzia. - Per quanto difficile come diagnosi di natura, la tubercolosi della milza può assumere un'entità clinica tale da rendere necessario l'intervento chirurgico. Anzi, e per l'aumento di volume della milza e per la febbre e per i disturbi secondarî sull'apparato gastrointestinale, può divenire sia nella forma subacuta, sia soprattutto nella forma cronica, indicazione relativamente facile all'intervento chirurgico. La natura dell'affezione è però molte volte un reperto operatorio più che non una diagnosi clinica. A meno che non si ravvisino aderenze troppo estese e non si oppongano le condizioni generali dell'ammalato, la splenectomia, che in Italia è stata eseguita per questa indicazione da A. Carle, D. Taddei e altri, è il trattamento di elezione. Nelle splenomegalie sifilitiche la splenectomia è indicata in tutti i casi i quali sono ribelli alle cure specifiche, in quanto, come giustamente osserva N. Leotta, essa sopprime un grosso nido di spirochete e libera il paziente dai dolori spesso molto vivi.

L'indicazione all'intervento chirurgico nella splenomegalia malarica è molto meno frequente di un tempo, poiché per molte di esse la cura medica associata alla radioterapia ottiene degli eccellenti risultati. Se però la milza malarica è ectopica, se è migrante e tanto più se, come fu accennato precedentemente, intervengano sintomi di torsione del peduncolo, è indicata la splenectomia. Nelle splenomegalie da kala-azar è vantato qualche buon risultato anche definitivo con la splenectomia; tuttavia l'indicazione operatoria non può che essere oggi eccezionale, data la possibilità di una cura specifica della leishmaniosi per mezzo dei preparati di antimonio (G. Di Cristina e G. Caronia). La splenomegalia da bilharzia è straordinariamente frequente in Egitto. È una splenomegalia cronica associata a cirrosi epatica che colpisce prevalentemente i bambini e i giovanetti e più i maschi che non le femmine, e che presenta come stadio terminale l'ascite fra i 25 e i 35 anni. Gli ammalati sono anemici, perdono sensibilmente di peso, hanno accessi febbrili e presentano poi una tumefazione progressiva della milza con dolore locale sia dopo il riposo sia anche dopo qualche fatica. Talora il fegato è tumefatto e anche più che non la milza; facili, nei casi avanzati, le enterocoliti ulcerative. In questa splenomegalia il trattamento specifico dà buonissimi risultati negli stadî precoci; se invece la malattia è più avanzata, purché il fegato non sia già troppo compromesso e non vi sia ascite, la splenectomia ha dato risultati molto notevoli, con un'alta percentuale di guarigioni.

g) Cisti della milza. - Vanno distinte le cisti parassitarie e le non parassitarie, le quali ultime possono anche essere considerate insieme con i tumori. Alla prima categoria appartengono le cisti da echinococco, delle quali la milza non è sede frequente come localizzazione primitiva. N. Leotta ha raccolto 73 casi descritti da osservatori italiani. Possono avere sede centrale o periferica e talora sono appena aderenti alla capsula così da interessare per nulla o poco la polpa. Non difficili da diagnosticare, per il che possono essere d'aiuto le reazioni sierologiche e anche il reperto radiologico, possono complicarsi con suppurazioni o con la rottura in organi vicini o nella cavità addominale. La loro cura è esclusivamente chirurgica e il metodo di scelta è, quando possibile, la splenectomia. Più di rado hanno indicazione l'estirpazione totale della cisti allorché sia peduncolata, lasciando la milza, o l'enucleazione della cisti, seguita da sutura splenica; nella maggioranza dei casi finora è stata praticata la marsupializzazione in uno o due tempi. Le cisti non parassitarie possono essere dermoidi (rarissime), ematiche (conseguenti quasi sempre a traumi), sierose o siero-ematiche (anch'esse post-traumatiche).

A tutte queste cisti può essere applicata sia la marsupializzazione, sia la splenectomia a seconda dei casi. Altre cisti di tipo sieroso sono da interpretarsi come linfangiomi cistici (O. Barbacci, A. Pepere) e così pure si possono avere degli emangiomi cistici; in questi casi l'operazione di scelta è la splenectomia.

h) Tumori della milza. - Accanto a queste forme cistiche di tumori della milza, si hanno emangiomi diffusi, amartomi a tipo d'iperplasie nodose, fibromi e infine, per trascurare i carcinomi, tumori secondarî non d'interesse chirurgico, fibrosarcomi e sarcomi. Se la diagnosi è possibile e se vi è motivo per i sintomi clinici cui dànno luogo, è indicata la splenectomia.

i) Splenomegalie emopatiche. - Molto interessanti dal punto di vista chirurgico, nonché dal punto di vista scientifico, sono le splenomegalie emopatiche e medullo-emopatiche. Fra queste vanno considerate anzitutto le splenomegalie leucemiche e in particolare la leucemia mieloide, nella quale per molto tempo fu ritenuta controindicata la splenectomia e tanto più dopo l'introduzione della radioterapia. Più recentemente tuttavia divennero sempre più numerosi i casi di leucemia cronica ribelle a ogni altro metodo di cura, con milza mobile, in cui la malattia si è arrestata o è molto migliorata anche da anni in seguito alla splenectomia (W. Mayo, A. Ferrata). Molto discussa è l'indicazione alla splenectomia nell'anemia splenica infantile, descritta per primo da A. Cardarelli col nome di pseudo-leucemia splenica infantile. Infatti non è chiara la parte della milza in questa malattia, a etiologia e patogenesi ancora imprecise; per molti la milza non fa che reagire al fattore morboso, cosicché la splenomegalia dovrebbe ritenersi controindicata, sebbene vi siano alcuni casi operati, nei quali sono stati vantati dei successi. Un altro tipo di anemia splenomegalica infantile, con sclere blu, turricefalia, ecc., sembra invece guaribile con la splenectomia. Nella policitemia o morbo di Vaquez, e in altre varietà di eritremie, a onta di una scarsa statistica favorevole, la splenectomia deve ritenersi controindicata, perché vi sono dati che farebbero piuttosto desumere un'azione protettiva anziché dannosa della milza, in questi casi; di più si sono viste sorgere policitemie in individui splenectomizzati (F. Schupfer). Indicazione assoluta e precisa ha invece la splenectomia nella splenomegalia emolitica o ittero cronico emolitico, fatto operare per la prima volta con successo da F. Micheli nel 1911. Qui la splenectomia ottiene risultati immediati di vera e propria iugulazione della malattia, come ormai è stato dimostrato da tutti i chirurghi e da oltre 200 splenectomie finora eseguite: risultati che, se la diagnosi era stata esatta, si mantengono indefinitamente. R. Alessandri, L. Durante, hanno eseguito in casi gravi la legatura dell'arteria splenica, ottenendo miglioramento evidente.

La stessa indicazione assoluta e gli stessi successi radicali che nell'ittero emolitico ottiene la splenectomia nella porpora emorragica o trombopenia essenziale, nella quale fu applicata per la prima volta da P. Kaznelson nel 1916 e che ha trovato solo in tempi recenti, dopo l'esempio di L. von Stubenrauch, un'operazione concorrente nella legatura dell'arteria splenica.

Questa operazione, che ha avuto applicazioni anche in Italia (R. Bastianelli, M. Donati, G. Castiglioni), è però tuttora malcerto se sia da preferirsi alla splenectomia.

Altre affezioni che costituiscono indicazioni alla splenectomia sono la splenomegalia linfatica di Donati e l'assai simile follicoloiperplastica (di A. Ferrata); la splenomegalia reticolo-istiocitaria (morbo di Gaucher), nella quale, se anche non s'ottiene la guarigione dello stato morboso, si sono osservati notevolissimi miglioramenti, soprattutto in operazioni precoci (H. Hirschfeld e R. Mühsam, A. W. Fischer); e infine tutto il gruppo delle splenomegalie epato-lienali, quelle cioè che si associano, in un periodo più o meno tardivo della loro evoluzione, a lesioni degenerative e cirrotiche del fegato (splenomegalie cirrogene), prototipo la splenomegalia di Banti. Qualunque possa essere a tal riguardo la concezione patogenetica, sta di fatto che la splenectomia precoce può portare a guarigioni durature, mentre le cure mediche e anche la röntgenterapia non dànno risultato. Ma perché la splenectomia possa dare buon risultato è necessario che essa sia eseguita nel periodo preascitico, poiché in questo l'esperienza ha dimostrato che l'operazione diviene grave e i successi sono eccezionali. In tutte le epatiti ad andamento cirrotico del resto, siano esse di tipo atrofico o ipertrofico, allorquando possa essere accertata o sospettata l'origine splenica del processo, purché questo non sia troppo avanzato, è indicata la splenectomia, come l'unico intervento atto a impedire il progresso della lesione epatica e ad assicurare una maggiore sopravvivenza, talora anche assai lunga, all'ammalato.

Anche la splenogranulomatosi siderotica di C. Gamna è indicazione alla splenectomia.

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