MINO da Colle

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MINO da Colle

Francesca Luzzati Laganà

MINO da Colle. – Nacque a Colle di Val d’Elsa, probabilmente intorno alla metà del XIII secolo; da non confondersi con Minotto di Naldo da Colle. La sua biografia è ricostruibile quasi esclusi­vamente in base a elementi desumibili dalle opere.

Il nome Mino, con cui è siglata tutta la produzione, forse fu una scelta, uno stilema ispirato dal topos della modestia («qui Minus nomine nuncupor, plus facto appellari desiderans»: Firenze, Biblioteca nazionale, Nuovi Acquisti, 385, c. 15v) e tale da consentirgli retorici giochi di parole del genere della paronomasia (il suo appellativo usuale fu «gramaticorum minimus»). Il diminutivo in effetti potrebbe discendere dalla forma non alterata «Iacomus». Nella nomina a maestro comunale in San Miniato (Ibid., Magliab., II.IV.312 [già Magliab., Cl. XXV, n. 341], c. 72) risulta designato quale «Iacobinus», e in un’altra epistola con la semplice iniziale «I.», seguita dall’aggettivo Collensis (Ibid., Nuovi Acquisti, 385, c. 17v).

Sono noti pochi dati anche sulla famiglia. In una faceta lettera autobiografica, in cui scrive scherzosamente di un eventuale rientro in patria, M. si rivolge a un «fratello» Pietro (Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, c. 18r [19r]). È poi noto il nome di Manetto, un consobrinus (c. 55v [56v]) cui M. sembra legato da grande amicizia, forse identificabile con il maestro di grammatica citato all’anno 1296 nel memoriale di Pietrobono di Martino del Grasso (Zaccagnini, 1912). In un’epistola a Manetto M. ricorda la propria madre «et si nondum accepisti pecuniam quam habebat genitrix» (Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab., II.IV.312, c. 72r). La personalità e gli scritti di M., coevo di Dante Alighieri e intellettuale organico al Comune ormai in piena fase podestarile, potrebbero essere rivelatori del mondo e della cultura cui lo stesso Dante appartenne. È affatto verosimile che quest’ultimo, prima di accostarsi a Brunetto Latini, avesse «frequentato le lezioni di qualche maestro di grammatica e di retorica in Firenze» (Wieruszowski, 1940, p. 111). Nel primo periodo degli studi M. conseguì il notariato, che esercitò a Colle, quindi a Figline, da dove scrisse – in qualità di «notarius nunc Figline» – al canonico Enrico di Arezzo per ottenerne dictamina di mano del maestro Bonfiglio. Poiché il terminus ante quem della morte di quest’ultimo, cui M. succedette ad Arezzo nell’insegnamento, è il 25 giugno 1266, si deduce che egli fu notaio a Figline prima di quell’anno. All’epoca erano difficilmente caduti in desuetudine gli ordinamenti a monte dello Studio aretino del 16 febbr. 1255, che diffidavano chi non avesse superato il conventus dal tenere lezione ordinarie. Si ignora se M. avesse celebrato l’esame pubblico in questione, ma niente autorizza a deduzioni ex silentio. Dal momento che sia nei dictamina sia nel testamento egli reca il titolo di magister, si può dedurre che avesse conseguito la licentia docendi: il titolo nell’area degli «artisti» non escludeva di per sé la conventatio o, come anche la si chiamava, conventus (Firenze, Biblioteca nazionale, Nuovi Acquisti, 385, c. 32r). Oltre che come notarius e quindi come magister, M. è attestato con l’appellativo di gramaticus: la grammatica era lo stadio iniziale del trivio ed era impartita insieme con la retorica da un unico maestro. Che egli avesse compiuto gli studi giovanili a Bologna è plausibile non solo sulla base di considerazioni generali relative agli spostamenti di scolari toscani, ma anche per quanto risulta dalla silloge epistolare conservata in Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22: a Bologna egli dovette coronare gli studi e conseguire la licentia docendi. Esercitò ad Arezzo la nuova professione di insegnante, giungendovi esule politico forse dopo la disfatta del re di Sicilia Manfredi nel 1266. M. chiama «patria aretina» la nuova sede (Firenze, Biblioteca nazionale, Nuovi Acquisti, 385, c. 1r), mai dimentico, tuttavia, della terra d’origine, che torna spesso nelle epistole, e con toni accorati là dove l’autore è ispirato dall’esilio. Per esempio, in una lettera agli studenti di San Gimignano, ove ricorda l’ingratitudine della patria e, con accenti che suonano danteschi, l’amarezza dell’esilio: «alienam cogor petere patriam divina gratia profecturus in illam» (Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, c. 17v [18v]; Luzzati Laganà, 2001, p. 349). Altrove si rivolge ai notai colligiani di parte guelfa, rei di aver conculcato i diritti dei colleghi estromettendoli dalla patria e dagli uffici (Firenze, Biblioteca nazionale, Nuovi Acquisti, 385, c. 13) e ancora, in un diverso dictamen, chiama in causa i giudici e i notai guelfi di Colle – i quali celebrano il loro trionfo e persistono in comportamenti insani e feroci – per esortarli a rispettare le leggi di natura e a tornare al buon tempo antico (cc. 14v-15v). Anche se è difficile distinguere quanto fosse dettato da mode letterarie, quali l’invettiva, appaiono evidenti la ferita inflitta allo scrittore e il suo animus «ghibellino». Questo si individua anche nella scelta di proporre tra gli esercizi stilistici un manipolo di lettere pubbliche pisane che si trovano suddivise tra i manoscritti di Firenze (Biblioteca nazionale, Magliab., II.IV.312) e di Siviglia (Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22).

Nel periodo antecedente la rivolta del Vespro (30 o 31 marzo 1282) Pisa oscillò tra gli obblighi di prestare aiuto a Carlo I d’Angiò e le proprie inclinazioni politiche, che la avvicinavano invece all’imperatore Michele VIII Paleologo, come anche al re Pietro III d’Aragona, amico dell’Impero bizantino e avverso a Carlo d’Angiò (Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab., II.IV.312, cc. 66r-67r; Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, c. 16v [18v]).

Al di là dei dati, discutibili e discussi, M. rese onore alla fermezza – a lui congeniale – con cui Pisa osò misurarsi, quanto meno a livello diplomatico, con il papa Martino IV e con Carlo d’Angiò.

Sono soprattutto le lettere autobiografiche (da interpretarsi con le dovute cautele) che aiutano a ricostruire alcuni tratti della storia personale di Mino. In generale si riconosce che le sillogi epistolari – singolari antologie, che si usavano «nel Medio Evo nelle scuole di grammatica» (Zaccagnini, 1931, p. 3) – forniscono un quadro storico attendibile.

Di un breve scambio di notizie tra amici (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., A.VII.29, c. 30r), interpretabile come riferito all’imperatore Rodolfo I d’Asburgo e posteriore alla sollevazione siciliana del Vespro, è stata messa in evidenza l’importanza quale «contributo alla storia della politica italiana» perseguita dall’Asburgo, soprattutto per l’informazione che se ne trae di suoi «oratori» in carica presso la Curia papale di Martino IV (Wieruszowski, 1958).

Tuttavia nel senso propriamente fattuale non è agevole desumere dati dalle sillogi. È da chiarire che esse si caratterizzavano sia per la quasi esclusiva cura della forma – che era canonizzata, con fini di formazione professionale dei futuri maestri – sia per varianti contenutistiche (introdotte dall’autore nelle diverse fasi dell’insegnamento, oppure dagli utenti). È inoltre notevole lo scarso senso, tipico a quei tempi, dell’autorialità: tutti elementi che, nel complesso, facevano dei dictamina un genere che si direbbe «aperto».

Per esempio, M. contamina in una raccolta due lettere di Bichilino da Spello (che nel 1304 scrisse il Pomerium nello Studio padovano; cfr. ed. a cura di V. Licitra, Spoleto 1992) e ne assorbe due del maestro Boncompagno, senza citarne la provenienza; d’altra parte, il maestro Pietro Boattieri di Bologna ingloba addirittura in una sua raccolta, composta, sembra, nel 1317, un manipolo di lettere toscane di M., che furono riconosciute e a lui attribuite da Zaccagnini (1921, 1923, 1926, 1931) e da Schneider (1926).

Della formazione bolognese – peraltro in sintonia con la struttura che assunse lo Studio in Arezzo dove M., succeduto a Bonfiglio, come si è ipotizzato, visse una fase feconda – tutta la sua produzione reca traccia. Vi si professa il valore venale della cultura ed è identificata la retorica con l’ars dictandi, così che ne risulta privilegiato un dettato tecnico-giuridico confacente alla preparazione propedeutica dei pratici del diritto e alle esigenze dei governi comunali. In un’epistola M. raccomanda al notaio Corso di Pistoia il proprio cugino Manetto, che teneva lezione sulle Institutiones e sulla Summa (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., A.VII.29, c. 8r; Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, c. 55v [56v]) di Rolandino de’ Passeggeri, «in gramatice facultate» a Bologna. Non stupisce allora che egli mantenesse relazioni con Rolandino, cui scrive con deferenza, restituendogli una copia della Summa (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., A.VII.29, c. 8r). Ma Arezzo promosse anche una innovatrice stagione letteraria di stampo preumanistico e M. dovette essere in contatto con personaggi di spicco, tra i quali Geri, del quale è tradito un dictamen in una silloge di M. (Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab., II.IV.312, c. 75v), con precisa indicazione della paternità. Mentre si corrobora l’idea di una sorta di continuum tra la vecchia scuola di latinità e la nuova, che dava vita al classicismo, M. non cessò, per questo, di rimanere ancorato all’alveo dei conservatori. Il suo ruolo fu quello dei tanti maestri della scrittura artistica in latino che contribuirono a mantenere in vita l’antica lingua adeguandola alle esigenze contemporanee. Tuttavia M., che disdegnò l’uso del volgare nella sua ars, fu agli esordi della letteratura italiana per la composizione di due sonetti, in stile «comico», in cui ebbe a tenzonare con Monaldo da Soffena (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 3793).

Ad Arezzo egli non prese stabile dimora, ma si spostò come maestro itinerante da un Comune all’altro, secondo gli usi del tempo. Si sa che fu attivo a San Gimigna­­no, San Miniato, Volterra, Pistoia, Pisa (Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab., II.IV.312, c. 70r), forse in altri centri toscani, e anche a Bologna. Nonostante la sua operosità, M. non dovette raggiungere una buona posizione finanziaria, come testimoniano alcune epistole.

In una, in cui si dice «notarius», esule da Colle («olim de Colle») e al momento «asse inops», si rivolge per un prestito a un amico (Ibid., Nuovi acquisti, 385, c. 11v). Altrove, mentre svolgeva l’insegnamento a Volterra, ringrazia il notaio Nerio di Poggibonsi per la benevolenza con cui gli ha reso disponibile del danaro (c. 16r); in un altro passo, nel far presente a Manetto la grave soma da cui è oppresso, sembra alludere proprio alle sue ristrettezze economiche (c. 18v).

L’insegnamento a San Miniato fu sancito da un bando comunale di assunzione, che, accolto in una delle sillogi (Ibid., Magliab., II.IV.312, c. 72; Zaccagnini, 1923, pp. 528 s.; 1931, pp. 8 s.), presenta una concezione professionalizzata dell’arte di governo, fondata sulla retorica, sulla parola «ordinata» e «ordinatrice», come suona una moderna interpretazione (Artifoni), tale da rimandare alla politica «in detti», oltre che «in fatti», di cui fu teorico, in quel giro di anni, Brunetto Latini.

L’unico elemento certo della sua vita è la data del testamento, rogato a Bologna dal notaio Costantino. Fu procuratore Simone «domini Corsini», di Colle; ne diede notizia il messo comunale, Spinabello, davanti alla casa del testatore, «gridandolo» a gran voce, come si legge alla data del 10 luglio 1287 nel memoriale del notaio bolognese Enrichetto delle Querce.

M. morì forse poco dopo, anche se non si può escludere l’opposta ipotesi, per cui egli, malato in quella data, si fosse ripreso. Un dictamen parla, per esempio, di Brodario di Sassoferrato, con riferimento alla carica di podestà in Lucca (Ibid., Magliab., VI.152, cc. 26ra-26vb), che si fa risalire al 1296: nel testo il medesimo Brodario veniva proposto ai Cerchi per la carica di podestà di Firenze, cui fu effettivamente nominato nel 1300 (Davidsohn, IV, p. 186; VII, p. 300). Ma, trattandosi di un dictamen, non esistono certezze, e neppure si può escludere in assoluto di trovarsi di fronte a un’interpolazione.

L’elenco completo (a quanto si conosce a tutt’oggi) delle opere di M. è stato stilato da Wieruszowski che ne progettò l’edizione (cfr. Luzzati Laganà, 1989). Quanto agli scritti già ricordati (le Epistolae o Artes dictandi o dictaminis e i due sonetti in volgare), gli studiosi concordano sull’importanza delle Artes, la cui impronta municipale sembra farne uno specchio dell’autocoscienza dei governi cittadini. La mole massiccia è indice di una precisa domanda dell’epoca; le Cancellerie comunali ne assorbirono il linguaggio, innalzando il loro livello formale con l’adozione dello stilus altus (Wieruszowski, 1958, p. 292). A M. si devono inoltre Notulae (Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, cc. 1r [2r]-3v [4v]; Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 516, cc. 31r-33v; Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab., VI.152, cc. 19ra-20vb; Roma, Biblioteca Casanatense, Mss., 9, cc. 3v-6v; Monaco di Baviera, Universitätsbibliothek, Cod., 810, cc. 81r-83v), Proverbia (Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, cc. 3v [4v]-11v [12v]; Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 516, cc. 33v-34r), Flores (Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, cc. 11v [12v]-13 [14]; Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 516, cc. 34v-36r), Salutationes (Ibid., Biblioteca Casanatense, Mss., 9, cc. 1r-3v). Si segnalano ancora due Artes, allo stato attuale deperditae: di una si ha conoscenza dall’inventario del 1381 dell’antica Biblioteca del Convento di S. Francesco in Assisi (cfr. Inventario dell’antica Biblioteca …); dell’altra da una notizia dell’archivista catalano Diego García, vissuto tra XIV e XV secolo (cfr. Balaguer).

Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 3793, cc. 126v, 157v, 165r; Firenze, Biblioteca nazionale, Nuovi acquisti, 385, cc. 1-35; Magliab., VI.152, cc. 19ra-27vb; II.IV.312 (già Magliab., cl. XXV, n. 341), cc. 50-83; Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 516, cc. 31r-54v; Ibid., Biblioteca Casanatense, Mss., 9, cc. 1r-3v; Genova, Biblioteca universitaria, Mss., A.VII.29, cc. 1-34v; Siviglia, Biblioteca capitular y Colombina, Mss., 5.5.22, cc. 1 (2)-55v (56v); Arch. di Stato di Bologna, Ufficio dei memoriali, memoriale 69 (1287) di Enrichetto delle Querce, cc. XIVv-XVr (217v-218r); F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori, I, Prato 1846, p. 142; F. Ehrle, Zu Bethmanns Notizen über die Handschriften von St. Francesco in Assisi, in Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte des Mittelalters, I (1885), p. 492; A. D’Ancona - D. Comparetti, Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, IV, Bologna 1886, pp. 165, 170; V, ibid. 1888, p. 91; Il libro de varie romanze volgare. Cod. Vat. 3793, a cura di S. Satta et al., Roma 1902, pp. 351, 442, 464 s.; Inventario dell’antica Biblioteca del S. Convento di S. Francesco in Assisi compilato nel 1381, a cura di L. Alessandri, Assisi 1906, p. 93 n. CLXXIV; G. Zaccagnini, Per la storia letteraria del Duecento …, estr. da Il libro e la stampa, VI (1912), p. 4; Id., Guido Guinizelli e le origini bolognesi del «Dolce stil novo», in Documenti e studi pubblicati per cura della R. 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F. Luzzati Laganà