Minoranze nazionali

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Minoranze nazionali

Paolo Segatti
Simona Guglielmi

Gli abitanti della Provincia autonoma di Bolzano di nazionalità tedesca e quelli di lingua ladina assieme ai cittadini del Friuli Venezia Giulia di nazionalità slovena hanno condiviso con gli altri italiani una storia ormai lunga quasi un secolo. Tutti, a eccezione degli sloveni delle valli del Natisone, vi entrarono in seguito alla vittoria nella Prima guerra mondiale e alla successiva Conferenza di pace di Parigi. Vi entrarono insieme agli italiani del Trentino, di Trieste e dell’Istria e di Fiume e delle isole dell’arcipelago quarnerino, ai croati dell’Istria e agli sloveni del Carso Triestino e dell’alta valle dell’Isonzo. Un totale di circa un milione e mezzo di uomini e donne. Dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, rimasero entro i confini della Repubblica solo i sudtirolesi e gli sloveni del Friuli Venezia Giulia, oltre agli italiani del Trentino e di ciò che rimase della Venezia Giulia, ai quali si aggiunsero i profughi dall’Istria. Sudtirolesi e sloveni hanno dunque condiviso un lungo tratto di storia italiana. E lo hanno fatto a partire da una condizione di diversità linguistica e nazionale e, soprattutto, senza aver chiesto di diventare cittadini italiani. Contrariamente a moltissimi degli italiani ex sudditi dell’Impero Austro-Ungarico, per i quali l’annessione al Regno d’Italia rappresentò il compimento del risorgimento nazionale, i sudtirolesi, gli sloveni e i croati avrebbero voluto far parte di un altro Stato. Dopo la Seconda guerra mondiale, il ritorno del Brennero all’Italia frustrò nuovamente le aspettative della minoranza sudtirolese, come il ritorno di Trieste all’Italia frustrò quelle degli sloveni.

Il passato rende arduo capire cosa italiani, sudtirolesi e sloveni abbiano in comune, oltre al conflitto che per lungo tempo li ha divisi. Un ostacolo è rappresentato dalle rispettive memorie collettive, perché tutte sembrano rimanere chiuse nelle loro verità. O almeno questa è l’impressione che si ha se si guarda a come, di frequente, esse vengono narrate nello spazio pubblico. In questa situazione potrebbe sembrare che ciò che viene oggi condiviso tra la maggioranza italiana e le minoranze di lingua tedesca e slovena sia solo un pezzo di carta, quello del documento di identità. Il che non è affatto poco, perché quel documento sta a indicare una comune cittadinanza dalla quale discendono in parte anche gli speciali diritti collettivi che tutelano la diversità linguistica e culturale dei due gruppi nazionali, oltre che quelli individuali riconosciuti a ogni cittadino italiano. Ma oltre a una comune cittadinanza, le istituzioni che hanno garantito la tutela delle minoranze nazionali potrebbero aver consentito ai sudtirolesi e agli sloveni di condividere con il resto degli italiani anche un sentimento di identità comune, pur nel rispetto delle rispettive differenze nazionali.

Cenni storici: il primo mezzo secolo

Quando il Regno d’Italia raggiunse al Brennero e sul crinale del monte Nevoso quelli che la dottrina militare del tempo considerava i confini ‘naturali’, quelli cioè meglio difendibili, per la prima volta nella sua storia unitaria venne a contatto con un numero elevato di persone che parlavano lingue di ceppo diverso da quello latino (per una storia del confine orientale si veda Cattaruzza 2007; riferimenti importanti anche al Sud-Tirolo sono contenuti in Rusinow 1969). La situazione del Trentino/Sud-Tirolo era però diversa da quella della Venezia Giulia. Secondo il censimento austriaco del 1910, i tedeschi rappresentavano la quasi totalità degli abitanti del Sud-Tirolo, mentre nei comuni a sud della stretta di Salorno quasi tutti gli abitanti parlavano l’italiano. Sul confine orientale la demarcazione dei confini etnolinguistici dei diversi gruppi era invece molto meno netta. A parte i casi dell’alta Valle dell’Isonzo e del Carso, dove la quasi totalità dei residenti parlava lo sloveno, e della Pianura isontina, dove accadeva l’opposto, nel resto della Venezia Giulia la distribuzione sul territorio era a macchia di leopardo. Nelle città di Gorizia, Trieste, Pola e nel distretto di Parenzo gli italiani costituivano la maggioranza assoluta, ma con percentuali che variavano dal 51% di Pola e di Gorizia città al 68% del distretto di Parenzo. Negli altri distretti della costa occidentale istriana gli italiani rappresentavano la maggioranza relativa, con una forte presenza del gruppo linguistico sloveno nelle zone rurali. Nei distretti orientali e in quello di Pisino gli italiani erano, invece, una minoranza a fronte di una presenza significativa dei croati. Nel complesso la maggioranza relativa (43%) dei residenti in Venezia Giulia dichiarava di parlare italiano, mentre il 33% sloveno e il 15% croato. Il resto era rappresentato da persone che dichiaravano di usare il tedesco o altre lingue (C. Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti tra italiani e slavi nella Venezia Giulia, 1946).

Dal 1880 in poi i censimenti austriaci avevano introdotto la domanda sulla lingua d’uso, nella convinzione diffusa che la lingua fosse il criterio ‘scientifico’ per stabilire la nazionalità di una persona. La dichiarazione sulla lingua più usata, quella cioè parlata più di frequente nelle cerchie sociali allargate al di fuori del nucleo familiare, sottostimava però l’effettiva varietà linguistica presente sul territorio. Se fosse stata registrata la lingua materna, quella cioè appresa da bambino in famiglia, si sarebbe delineata probabilmente una frammentazione linguistica ancora maggiore, poiché in tutti i gruppi linguistici erano praticati idiomi/dialetti alquanto distanti dalla lingua che, dopo essere stata standardizzata, veniva considerata nazionale (per il caso del croato si veda Banač 1988). Inoltre, classificare le persone sulla base di un’unica lingua d’uso inevitabilmente sottovaluta la presenza di lingue minoritarie nella minoranza, di realtà bilingui e di fenomeni di ibridazione tra lingue di ceppo diverso. Ciò era particolarmente vero nella Venezia Giulia più che in Trentino e in Sud-Tirolo. Anche in quest’area, però, il caso dei ladini non considerati nei censimenti austriaci indica bene i limiti dello strumento censuario, il cui criterio identificativo si basava in ultima analisi su una premessa, del tutto politica, che considerava la lingua d’uso come la lingua della nazione alla quale la persona apparteneva.

Ma l’equivalenza tra lingua d’uso e nazione sottovaluta la complessità del nesso tra lingua e sentimenti di appartenenza collettiva. La scelta di usare una lingua poteva essere dettata da considerazioni di opportunità economica o di convenienza sociale, ragioni dunque diverse da quelle espressive dell’appartenenza soggettiva al corrispondente gruppo linguistico. Alla lingua parlata potevano poi corrispondere decisioni di appartenenza statale diverse. Per es., nell’immediato primo dopoguerra i nordtirolesi espressero in un referendum il desiderio di far parte della Germania, mentre gli abitanti del Vorarlberg austriaco dichiararono la volontà di far parte della Svizzera. In Carinzia, la minoranza slovena optò per la permanenza in Austria a fronte della scelta degli sloveni di entrare nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Infine, la lingua parlata più di frequente non esclude lo sviluppo di identità plurime o la sopravvivenza di identità locali o regionali. In Istria, ancora alle soglie del Novecento, erano presenti identità collettive che combinavano gli antichi sentimenti di appartenenza locale, trasversali ai confini linguistici, con le nuove identificazioni alla nazione (Ivetic 2010, p. 137). Identità regionali che significativamente sono riemerse nel momento in cui la Croazia è arrivata nel 1991 all’indipendenza come Stato nazionale.

Il punto centrale che qui si vuole sottolineare è che anche nei territori annessi dopo la Prima guerra mondiale al Regno d’Italia – proprio come in tutta Europa in quel periodo storico – il nesso tra lingua e senso di appartenenza nazionale era il risultato al quale ambivano i costruttori della nazione più che un dato di fatto. Ma in questi territori, allo stesso modo di quanto avvenne in Europa centrale e a differenza di quanto accaduto in Europa occidentale, la costruzione della nazione non era avvenuta nel quadro di istituzioni statali di tipo moderno come in Francia, o sulla base di una consapevolezza da parte delle classi dirigenti, centrali e periferiche, di appartenere a una stessa koinè linguistica prepolitica, come in Italia e in Germania (Gellner 1994). In Europa centrale la mobilitazione nazionale si era sviluppata in un contesto linguisticamente frammentato nel quale ogni nazionalismo aspirava a imporre la propria lingua nello spazio pubblico, prima piegando a suo vantaggio le istituzioni locali e poi, dopo il 1918, volendosi fare Stato nazionale. Lo Stato italiano nei territori redenti si trovò dunque a ereditare la struttura tipica dei conflitti nazionali dell’Austria-Ungheria, nei quali la questione della lingua aveva assunto una centralità assoluta fino a trasformare ogni scuola in una «roccaforte nazionale» (Ara 1991, p. 268-69; Rusinow 1969).

Nell’immediato primo dopoguerra i governi liberali in Italia attuarono politiche scolastiche sensibilmente diverse nei confronti delle due minoranze, tedesca e ‘slava’ (Ara 1991). In Sud-Tirolo il governo si limitò ad aprire scuole italiane nelle aree abitate da tedeschi. Nel caso della Venezia Giulia, invece, furono subito chiuse molte scuole con lingua di insegnamento sloveno e croato e al loro posto aperte altre in lingua italiana. In entrambe le aree i governi liberali promossero la diffusione della cultura e lingua italiana, come parte obbligatoria del curriculum scolastico.

L’avvento del fascismo peggiorò sensibilmente la condizione delle due minoranze. La riforma Gentile del 1924 impose l’italiano come unica lingua di insegnamento e accelerò la chiusura delle scuole con lingua di minoranza. Alle lingue minoritarie fu riservato uno spazio nei primi anni delle scuole primarie, alla stregua dell’insegnamento dei dialetti e delle culture locali. La politica linguistica del fascismo giunse a reprimere pure l’insegnamento privato del tedesco, dello sloveno e del croato nei territori di insediamento delle minoranze. Le politiche linguistiche del fascismo non si limitarono dunque a promuovere la diffusione della lingua italiana, ma puntarono a sopprimere la possibilità stessa di esprimersi in una lingua diversa dall’italiano, utilizzando a questo proposito tutta la capacità di costrizione di un regime totalitario. In sostanza ciò che si voleva ottenere era di costringere tedeschi, sloveni e croati a diventare culturalmente italiani. Non mancarono retoriche razziali, soprattutto nei confronti degli sloveni e dei croati, perché secondo diffusi pregiudizi dell’epoca non appartenenti a una Kulturnation. L’aspetto di esclusivismo etnico era tuttavia secondario rispetto a quello assimilatorio.

Le politiche linguistiche del fascismo vanno tuttavia valutate anche in prospettiva comparata. Tra le due guerre mondiali, in molti degli Stati successori dell’Impero Austro-Ungarico, tutti caratterizzati da un esteso pluralismo linguistico, vennero attuate politiche mirate all’assimilazione delle rispettive minoranze. Le scuole dei gruppi minoritari vennero chiuse e l’uso di lingue diverse da quella della maggioranza fu proibito nelle amministrazioni pubbliche. Negli anni Trenta l’uso della lingua slovena fu parzialmente soppresso nelle amministrazioni pubbliche del regno di Jugoslavia, sebbene lo sloveno fosse riconosciuto come una lingua costituente del Regno (Kamusella 2009). Occorre inoltre considerare che l’omogeneizzazione linguistica e culturale era obiettivo condiviso da gran parte delle classi dirigenti del tempo, anche da quelle democratiche. L’Europa centrale e orientale «presentava [dopo la Prima guerra mondiale] i più grandi problemi dal punto di vista della realizzazione del principio nazionalistico uno stato una cultura [...]. Se le eventuali unità (politiche) avessero dovuto essere [...] ragionevolmente omogenee, [...] molte, molte persone avrebbero dovuto essere assimilate, o espulse o uccise» (Gellner 1994, p. 116).

Non diversamente da quello che accadde in varie parti dell’Europa centrale e orientale tra le due guerre, anche lo Stato italiano non si limitò a cercare di assimilare culturalmente le popolazioni alloglotte. Promosse attivamente l’esodo di diverse decine di migliaia di sloveni e croati e attraverso gli accordi Mussolini-Hitler del 1939 obbligò i sudtirolesi a ‘optare’ tra l’Italia e la Germania. Tra questi, in 180.000 scelsero la cittadinanza germanica, ma solo 75.000 espatriarono realmente, e solo la guerra impedì il compimento dell’operazione (A. Tamborra, M. Udina, Minoranze nazionali, in Enciclopedia Italiana. II Appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1949, ad vocem). Il secondo capitolo dell’omogeneizzazione linguistica e culturale si aprì in Venezia Giulia, come in tutta Europa centrale e orientale, alla fine della Seconda guerra mondiale. Il nuovo Stato jugoslavo a regime comunista applicò una politica di ritorsione con la quale colpì non solo gli eventuali collaboratori con il nemico tedesco e italiano (poco importa se italiani o appartenenti ai diversi gruppi etnonazionali), ma regolò anche i conti con le popolazioni in posizione di minoranza e non disponibili all’assimilazione linguistica o ideologica.

La conseguenza fu l’espulsione di alcune centinaia di migliaia di italiani. In particolare, quelli provenienti dall’Istria nord-occidentale trovarono rifugio a Trieste in un’area dove vivevano molti sloveni. Nel Sud-Tirolo la sconfitta militare italiana non si tradusse in modifiche confinarie e conseguenti movimenti di popolazione, anche a causa dell’incerto status dell’Austria e dell’incipiente guerra fredda (1992. Fine di un conflitto, 2003). Nel 1945 l’interrogativo su cosa avessero in comune italiani, sudtirolesi e sloveni poteva avere solo una risposta: nulla, se non una profonda diffidenza reciproca, mentre a dividerli rimanevano contrapposte aspirazioni nazionali. A distanza di 60 anni le istituzioni di tutela delle due minoranze hanno consentito il superamento delle divisioni del passato e promosso nel contempo forme di integrazione tra maggioranza e minoranza? Per rispondere a questo interrogativo, vanno analizzate le principali caratteristiche dei sistemi di tutela realizzati in Alto Adige/Sud-Tirolo e in Friuli Venezia Giulia, dando conto di alcuni elementi relativi alla convivenza tra minoranza tedesca e slovena e maggioranza italiana.

Confronto fra due diversi sistemi di tutela

Il modello sudtirolese

Il sistema di tutela della minoranza sudtirolese prende una prima forma nel 1946 con gli accordi tra il primo ministro italiano A. De Gasperi (1881-1954) e il ministro degli esteri austriaco K. Gruber (1909-1995), a margine della Conferenza di pace di Parigi (1946). Con quell’accordo l’Austria in sostanza rinuncia alla richiesta di autodeterminazione per il Sud-Tirolo, ma ottiene il riconoscimento del ruolo di garante della ‘sua’ minoranza. Le materie coperte dall’accordo De Gasperi-Gruber furono molte: il rientro degli optanti che avevano perso la cittadinanza italiana nel 1939, il ripristino delle scuole in lingua tedesca, il bilinguismo, la parità di diritti nell’accesso ai posti pubblici, il riconoscimento dei titoli di studio e, non da ultimo, la concessione di autonomia legislativa e amministrativa alla Provincia di Bolzano. Gli accordi delineavano una forma di tutela certamente non organica, ma da subito dotata di due caratteristiche destinate a segnare profondamente lo sviluppo del modello sudtirolese: il coinvolgimento internazionale dell’Austria e l’ancoraggio della tutela della minoranza a un’autonomia territoriale. Questa seconda caratteristica riceve una prima formalizzazione nell’istituzione nel 1948 della Regione autonoma Trentino-Alto Adige, il cui statuto recepisce i dispositivi previsti dall’accordo De Gasperi-Gruber. Tuttavia questo statuto limitava le competenze della Provincia di Bolzano a vantaggio della giurisdizione regionale e quindi, inevitabilmente, riconosceva più poteri ai partiti espressione della maggioranza italiana. La stessa affermazione del criterio della proporzionale etnica per definire l’accesso al pubblico impiego, la composizione degli organi degli enti pubblici, la distribuzione di mezzi di bilancio provinciale destinati a scopi assistenziali, sociali, culturali, poteva apparire come una scatola vuota visto che non stabiliva come determinare la consistenza numerica dei due gruppi. Essa venne calcolata sulla base della rappresentanza elettiva dei gruppi linguistici in Consiglio provinciale per gli enti a raggio d’azione provinciale, mentre per quelli a raggio d’azione regionale si fece riferimento al Consiglio regionale (dove però la minoranza tedesca era sottorappresentata).

I segnali di insoddisfazione verso questa prima soluzione si intensificarono sul finire degli anni Cinquanta. La manifestazione di Castel Firmiano del 1957 (quando circa 35.000 sudtirolesi scesero in piazza per chiedere l’autonomia per il Sud-Tirolo), l’uscita del Partito popolare sud-tirolese (Südtiroler Volkspartei, SVP) dalla Giunta regionale nel 1959 e, soprattutto, gli attentati degli anni Sessanta segnarono il riaccendersi di un conflitto che tuttavia questa volta sembrò esprimersi, dal punto di vista sudtirolese, in una richiesta di autonomia da Trento più che da Roma. Il riacutizzarsi della tensione in Sud-Tirolo riaprì anche il lato internazionale della controversia: su richiesta austriaca, ben due risoluzioni ONU (1960-1961) invitarono Italia e Austria a riaprire le trattative bilaterali per dirimere le divergenze sullo stato di attuazione del Trattato di Parigi (1947).

La risposta del governo italiano fu l’istituzione nel 1961 della Commissione dei 19 composta da 7 sudtirolesi, un ladino e 11 italiani, a cui venne attribuito il compito di presentare delle proposte. Le indicazioni della Commissione confluirono in un insieme di provvedimenti (subito chiamato il ‘Pacchetto’ proprio per sottolinearne l’inscindibilità), che vennero accettati nel 1969 dal Congresso della SVP (ma con una maggioranza minima), dal Parlamento italiano e da quello austriaco. Il Pacchetto conteneva 137 misure a tutela della minoranza di madrelingua tedesca, la cui realizzazione richiese il cambiamento dello statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige, oltre che una serie di norme di attuazione dello stesso e di leggi speciali. La principale novità nel secondo statuto di autonomia (1972) fu il trasferimento alle Province di Trento e Bolzano di importanti competenze, prima in capo allo Stato o alla regione (Reggio D’Aci 1994; Marcantoni, Postal 2012). Il nuovo modello statutario si basa «sull’inscindibile nesso tra tutela delle minoranze e autonomia territoriale, elementi che danno vita a un sistema circolare di legittimazione reciproca, per il quale l’autonomia è funzionale alla tutela minoritaria e la tutela delle minoranze è il fine dell’autonomia» (Palermo 1999, p. 672). Il meccanismo regolatore di questo sistema è senza dubbio il principio della proporzionale etnica. Nel 1962, nel corso dei lavori della Commissione dei 19 sulla riserva dei posti pubblici a favore della minoranza di lingua tedesca, fu approvata a larga maggioranza la mozione che prevedeva un criterio proporzionale rigido la cui determinazione doveva avvenire in base alla «dichiarazione di appartenenza linguistica», resa dai cittadini della Provincia di Bolzano in occasione dei censimenti (Marcantoni, Postal 2012, p. 110).

Nonostante esista la possibilità di dichiararsi ‘altro’ (rifiutando pertanto la logica dicotomica della separazione etnica), per godere dei diritti è obbligatorio ‘aggregarsi’ a uno dei tre gruppi ufficialmente riconosciuti, tedesco, italiano o ladino. Dal censimento del 1981 a quello del 2001 la dichiarazione non era solo obbligatoria, ma anche nominativa. Poi, nel censimento del 2011, la nominatività non è stata più richiesta (Palermo 2011). Secondo l’ultimo censimento del 2011, il 69,4% dei residenti in Alto Adige/Sud-Tirolo hanno dichiarato di appartenere al gruppo linguistico tedesco, il 26,1% a quello italiano e il 4,5% a quello ladino. Rispetto al 1971 il gruppo linguistico tedesco è cresciuto di circa il 10%, mentre quello di lingua italiana è diminuito del 22% e quello ladino è invece aumentato del 21% (ASTAT 2006).

I principi della proporzionale etnica per la ripartizione dei posti del pubblico impiego e del bilinguismo furono oggetto di norme di attuazione già nel 1976, ma il percorso che portò alla piena realizzazione del Pacchetto fu lungo e tortuoso (e non mancò anche la ripresa degli attentati di matrice politica sul finire degli anni Settanta), in un delicato equilibrio nelle trattative tra SVP, Italia e Austria. La fine del contenzioso nel 1992 con il rilascio della ‘quietanza liberatoria’ da parte dell’Austria ha aperto una nuova stagione, basata sulla cosiddetta ‘autonomia dinamica’, che ha visto un progressivo rafforzamento dell’autonomia delle due province (anche in virtù della spinta al decentramento amministrativo che ha via via caratterizzato le riforme dell’ordinamento statale italiano), nonché una maggiore attenzione verso la componente linguistica ladina.

Il ‘non modello’ del Friuli Venezia Giulia

Il sistema di protezione della minoranza slovena in Friuli Venezia Giulia condivide con quello sudtirolese la derivazione internazionale dei vincoli di tutela. Ma le somiglianze terminano qui. Tre le principali differenze. La prima riguarda il rapporto tra autonomia territoriale e tutela della minoranza, principio centrale in Alto Adige/Sud-Tirolo, ma non nel caso del Friuli Venezia Giulia. In questa regione, anche a causa della particolare situazione internazionale, già nel dibattito in seno alla Costituente sulle ragioni della specialità si fece riferimento al carattere ‘confinario’ dell’area, più che al plurilinguismo e alla presenza di una minoranza nazionale. Lo statuto del 1963 (art.3) riporta un unico riferimento al riconoscimento dei diritti e alla salvaguardia delle caratteristiche culturali di chi appartiene a gruppi linguistici minoritari, senza peraltro specificarli. La seconda differenza rispetto a quanto è stato realizzato in Alto Adige/Sud-Tirolo sta nel fatto che l’accesso alla tutela non passa attraverso un atto amministrativo che sancisce la propria appartenenza al gruppo di minoranza. Infine, la minoranza slovena non è stata rappresentata da un unico partito che monopolizza insieme la mediazione degli interessi e la definizione della propria identità nazionale. Una parte cospicua degli sloveni ha, infatti, sempre votato per partiti della sinistra italiana, in particolare per il Partito comunista italiano (PCI) e i suoi eredi.

Gli interventi legislativi in tema di tutela della minoranza slovena sono stati molti, ma non organici. Lo statuto speciale per le minoranze annesso al Memorandum d’intesa del 1954 tra Italia, Jugoslavia, USA e Regno Unito – che sanciva il passaggio all’Italia di Trieste e dei comuni limitrofi – definì la cornice nella quale sarebbe poi andata a collocarsi la tutela della minoranza slovena in Italia (e di quella italiana in Jugoslavia). I principi cardine furono: a) la definizione della competenza statale in materia; b) la delimitazione dell’ambito di tutela ai comuni nei quali vi è un significativo insediamento della minoranza; c) l’affidamento di un ruolo di primo piano alla disciplina delle scuole. Lo statuto speciale per le minoranze assicurava alla minoranza la possibilità di usare la propria lingua nei rapporti con la pubblica amministrazione e le autorità giudiziarie, senza però definire attraverso quali istituti questa disposizione potesse essere attuata. Infine, il bilinguismo visivo era garantito solo nei comuni in cui la minoranza fosse presente in maniera significativa (più di un quarto della popolazione). Le misure di protezione così definite faranno parte anche dei successivi accordi tra la Repubblica italiana e la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia sanciti dal Trattato di Osimo del 1975.

Di iniziativa statale sono anche le due leggi speciali 1012 (19 luglio 1961) e 932 (22 dic. 1973) che disciplinano le scuole con lingua di insegnamento sloveno nelle Province di Trieste e di Gorizia. Una tappa importante nella costruzione di un sistema di tutela fu la sent. 11 febbr. 1982 nr. 28 della Corte costituzionale, che qualificò la popolazione di lingua slovena nel territorio di Trieste come «minoranza riconosciuta», riconoscimento che, però, non si applicava alle aree slavofone della Provincia di Udine (dove peraltro non tutti riconoscono lo sloveno standard come lingua di riferimento). Per porre fine a questa diversità di trattamento occorre aspettare la l. 23 febbr. 2001 nr. 38. Tale legge disciplina finalmente in maniera organica e globale la tutela della minoranza slovena in Friuli Venezia Giulia con una serie di misure in materia di onomastica, nell’uso della lingua minoritaria nella toponomastica e nelle insegne pubbliche, nella scuola, davanti alle pubbliche autorità locali e nelle adunanze degli organi elettivi. Si delineano, inoltre, le forme di sostegno regionali a diverse iniziative (culturali, sportive, ricreative, educative, editoriali) promosse dalle organizzazioni rappresentative della minoranza slovena. Tali garanzie valgono per i comuni collocati entro le aree territoriali d’insediamento della minoranza, individuati su richiesta di almeno il 15% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali o su proposta di un terzo dei consiglieri dei comuni interessati.

A distanza di diversi anni dalla legge, alcune normative rimangono ancora da attuare e resta ancora irrisolto il tema del bilinguismo visivo in centro città a Trieste e a Gorizia. Con la l. reg. nr. 26 (16 nov. 2007) la Regione Friuli Venezia Giulia ha ulteriormente integrato la normativa nazionale, all’interno del più ampio obiettivo di promozione delle diversità linguistiche presenti nel proprio territorio (friulana, slovena, germanofona). La legge istituisce l’Albo regionale delle organizzazioni della minoranza linguistica slovena e indica i requisiti per le organizzazioni di riferimento della minoranza. Inoltre, a seguito della modifica del sistema elettorale prevista dalla l. statutaria 18 giugno 2007 nr. 17, sono state introdotte alcune misure finalizzate a favorire sia la presentazione di liste di partiti o gruppi politici espressivi della minoranza slovena (agendo sul numero di firme necessario) sia la loro rappresentanza in seno al Consiglio regionale (attribuendo un seggio ai partiti o gruppi politici espressivi della minoranza slovena purché abbiano ottenuto almeno l’1% dei voti su base regionale e siano collegati con un altro gruppo di liste della stessa coalizione).

Due modi di operare

Non vi è dubbio che la tutela delle due minoranze nazionali sia garantita da due assetti istituzionali alquanto diversi. In Alto Adige/Sud-Tirolo il sistema di tutela poggia su tre pilastri: il primo è la dimensione internazionale, il secondo è il nesso tra tutela e autonomia territoriale della minoranza, il terzo la proporzionale etnica che ha garantito nel tempo l’equiparazione di opportunità lavorative nel settore pubblico ai componenti della minoranza. In questo modello i diritti che tutelano la diversità sono riconosciuti direttamente al gruppo linguistico e indirettamente all’individuo, che li esercita se dichiara di appartenere al gruppo italiano, tedesco o ladino. Il risultato è una «perenne tensione tra integrazione e separazione» tra persone che condividono lo stesso territorio (Palermo 1999, p. 671). Vi è infine un quarto pilastro non istituzionale, ma procedurale. La costruzione del modello nel corso del tempo è il risultato di un metodo decisionale fondato sull’accordo negoziato tra le parti coinvolte: lo Stato italiano, lo Stato di riferimento della minoranza (l’Austria) e, in modo sempre crescente, il partito di raccolta etnica della minoranza (SVP). Si è quindi in presenza di un modello consociativo di democrazia, dove l’integrazione si realizza attraverso la mediazione delle élites al vertice di gruppi che rimangono verticalmente separati (Ljiphart 1968; Pallaver 2007).

Per quanto riguarda i cittadini di lingua slovena in Friuli Venezia Giulia, non si può parlare di un modello organico, incardinato su istituzioni che assicurano l’autonomia territoriale della minoranza, declinata in Trentino come separazione linguistica e in Valle d’Aosta come bilinguismo.

Fino alla fine degli anni Novanta la tutela della minoranza slovena si è basata su una normativa frammentata dall’intreccio tra accordi internazionali, atti legislativi o amministrativi statali, regionali o statutari. Non sono previsti istituti, quali l’imposizione di quote o riserve legate alle dichiarazioni ai censimenti, che altrove hanno consentito politiche di ‘azione positiva’ volte a riequilibrare potenziali differenze di opportunità. Una immediata conseguenza è che non sono disponibili informazioni sul numero di sloveni cittadini italiani. È necessario fare affidamento su stime ricavate da dati tratti da inchieste campionarie. Da una indagine realizzata dalla Regione Friuli Venezia Giulia (E. Susič, A. Janezic, F. Medeot, Indagine sulle comunità linguistiche del Friuli Venezia Giulia.Tutela e normativa, 2010) su un campione di 750 residenti nei 31 comuni in cui è presente la comunità slovena risulta che il 31% ha appreso in famiglia da bambino, come lingua materna, lo sloveno, il 45,5% l’italiano, mentre il 4% si dichiara bilingue (il 19,5% risponde altro). Le stime puntuali variano da un minimo di 60.000 persone (F. Toso, Le minoraze linguistiche in Europa, 2008, p. 81) a un massimo di 110.000 (E. Susič, A. Janezic, F. Medeot, Indagine sulle comunità linguistiche del Friuli Venezia Giulia, cit.). Il che vorrebbe dire che coloro che dichiarano come lingua materna lo sloveno potrebbero oscillare tra il 5% e il 10% degli abitanti del Friuli Venezia Giulia.

Una non immediata conseguenza della mancanza di censimenti per stabilire il numero di sloveni è che il gruppo minoritario non conosce confini rigidi e formali quanto lo sono quelli derivati da una dichiarazione obbligatoria a un censimento, ma frontiere che possono essere attraversate in entrambe le direzioni. Come si vedrà a breve, è possibile che siano in crescita quelli che le attraversano venendo dalla maggioranza. Infatti questo modello offre a tutti, che siano o meno di nazionalità slovena, la possibilità di accedere ad ambiti di tutela della diversità linguistica e culturale (per es. nel sistema di istruzione) e offre le garanzie senza chiedere alle persone di dichiararsi preliminarmente membri della minoranza. E quindi senza chieder loro di accettare la definizione che di questa viene data dalle organizzazioni che detengono il monopolio della sua rappresentanza. I due sistemi di tutela hanno dunque rappresentato due modi diversi di rispondere alla medesima questione: garantire la convivenza tra la maggioranza italiana e una minoranza nazionale incluse nello Stato italiano a seguito di vicende belliche e accordi internazionali. Le differenze, come si vedrà, si riflettono anche nei livelli di integrazione promossi.

L’integrazione tra minoranza e maggioranza: il punto di vista soggettivo

Per analizzare le modalità di integrazione tra minoranza e maggioranza ci rifaremo a tre indicatori: la conoscenza reciproca della lingua, l’organizzazione scolastica su base linguistica, i sentimenti di appartenenza territoriale. L’importanza del primo indicatore appare scontata, poiché la competenza nella seconda lingua è condizione necessaria perché si sviluppino non solo contatti tra parlanti lingue diverse, ma anche una più approfondita conoscenza e contaminazione tra le reciproche culture. Allo stesso modo, l’esperienza scolastica – in un contesto multinazionale in cui il sistema educativo svolge un ruolo fondamentale di tutela della minoranza – può divenire luogo di incontro tra culture, ma anche di riproduzione della separazione etnica. Infine, il terzo indicatore può render conto dello sviluppo di sentimenti di appartenenza collettiva trasversali alla linea di demarcazione etnico-nazionale.

Per quanto riguarda il caso del Sud-Tirolo, un primo aspetto importante da rilevare è la ridotta conoscenza della lingua seconda, soprattutto per la componente italofona: solo il 47,7% comprende il tedesco rispetto al 78,1% di madrelingua tedeschi che comprendono l’italiano (ASTAT 2006). Le quote si riducono molto, in entrambi i gruppi, quando si passa dalla comprensione alla capacità di lettura e scrittura nella seconda lingua. Un italiano su due, inoltre, dichiara di non comprendere per nulla il dialetto tedesco. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare, considerando che quest’ultimo è, nel gruppo linguistico tedesco, la lingua d’uso prevalente, in ambito informale e non. Una ridotta conoscenza della lingua seconda si accompagna a una vita sociale prevalentemente monolingue. Emergono però segnali di cambiamento presso le nuove generazioni, che hanno relazioni amicali sempre più improntate a una maggiore varietà etnolinguistica. La separazione linguistica struttura anche il sistema educativo in Alto Adige/Sud-Tirolo, basato su tre sistemi scolastici distinti e autonomi tra loro (italiano, tedesco, ladino). Nelle scuole italiane e tedesche è previsto l’obbligo di insegnamento della rispettiva lingua seconda. Sono pochissimi coloro che hanno frequentato la scuola di un gruppo linguistico diverso dal proprio, con quote che oscillano tra il 2% e il 9% in base al grado scolastico (ASTAT 2006, p. 38). Negli ultimi anni sono nate alcune sperimentazioni di alfabetizzazione primaria bilingue italo-tedesca, che hanno generato non poche discussioni. Tali sperimentazioni sembrano però aver incontrato il favore della popolazione locale, almeno se si considera la crescita nel tempo delle domande di iscrizione (Baur, Mezzalira, Pichler 2008).

La differenziazione linguistica sembra pertanto tradursi in una marcata separazione della vita sociale, che parte fin dalla socializzazione primaria. Non stupisce, quindi, che la lingua materna definisca l’appartenenza al gruppo linguistico anche sul piano soggettivo: il 95,1% dei madrelingua italiani ha dichiarato di sentire di appartenere al gruppo linguistico italiano e la quota sale al 98,6% nel caso dei madrelingua tedeschi. Ma su tale differenziazione etnolinguistica si sono innestati comuni sentimenti di appartenenza territoriale? Il riferimento locale è rilevante per il gruppo linguistico tedesco (che nell’85,6% dei casi dichiara di sentirsi sudtirolese), molto meno per quello italiano. In quest’ultimo gruppo, infatti, solo il 10,1% si dichiara altoatesino e il 2,6% sudtirolese. Gli italiani si definiscono in primo luogo italiani (il 52,5%), rimarcando così la propria specificità nazionale, e una quota rilevante (il 14,4%), inoltre, sente la necessità di coniugare l’appartenenza territoriale con quella linguistica, dichiarandosi ‘sudtirolese di lingua italiana’. Si potrebbe pensare che una separazione della vita sociale su base etnolinguistica così marcata si associ all’idea di una difficile convivenza tra i due gruppi. I dati disponibili in realtà smentiscono questa ipotesi. La qualità della convivenza viene giudicata positivamente dalla stragrande maggioranza dei residenti in Alto Adige/Sud-Tirolo, anche se emergono alcuni segnali di insoddisfazione soprattutto tra la componente italiana rispetto al modello di integrazione. Per es., i cittadini di lingua italiana in misura nettamente inferiore a quelli di lingua tedesca (38,2% versus 59,6%) ritengono che la presenza di più gruppi etnico-linguistici in Alto Adige/Sud-Tirolo sia una ricchezza culturale. La quota di chi condivide tale opinione, tra l’altro, è aumentata nel tempo solo tra i madrelingua tedeschi; in entrambi i gruppi linguistici sono i più giovani e i più istruiti a riconoscere le potenzialità culturali della varietà etnica del territorio in cui risiedono.

Passando a un’analisi della situazione in Friuli Venezia Giulia, per esaminare se e come si sia realizzata l’integrazione tra la minoranza slovena e la maggioranza italiana, va ricordato che i cittadini di lingua slovena, rispetto agli abitanti di lingua tedesca in Alto Adige/Sud-Tirolo, sono minoranza anche in termini numerici, il che sicuramente ha influenzato il loro rapporto con la popolazione di lingua italiana. Nonostante non vi siano dati ufficiali sulla conoscenza dell’italiano da parte dei madrelingua sloveni, si può sostenere che esso sia conosciuto dalla quasi totalità della minoranza. La competenza linguistica in italiano è stata, in assenza di assetti istituzionali basati sul bilinguismo o sulla separazione linguistica, uno strumento indispensabile per l’integrazione sociale e politica della minoranza slovena. Al lato opposto, se si guarda alla conoscenza dello sloveno da parte della maggioranza di lingua italiana, i pochi dati disponibili sembrano indicare che essa sia scarsa o nulla. Una indagine ISTAT (Letture e linguaggio, 2000), infatti, ha stimato che in Friuli Venezia Giulia lo sloveno nel 2000 fosse conosciuto da circa 73.000 persone, dato che corrisponde all’incirca alle stime (di minima) della consistenza demografica della minoranza slovena nell’area.

Il numero di cittadini che conoscono lo sloveno sembra però destinato ad aumentare, almeno a giudicare dal numero di italofoni iscritti alle scuole in lingua slovena. Il sistema scolastico in lingua slovena prevede diverse scuole di ogni ordine e grado a Trieste e Gorizia. La lingua veicolare è lo sloveno, ma all’insegnamento dello sloveno e dell’italiano viene riservata la stessa importanza in termini di ore di insegnamento e i documenti ufficiali sono redatti in entrambe le lingue. Nella Provincia di Udine esiste, inoltre, l’unica istituzione scolastica statale con insegnamento bilingue sloveno-italiano. Una indagine condotta dagli Istituti regionali ricerca educativa (IRRE) nel 2004 indicava come una quota tra il 5 e il 15% degli iscritti alle scuole di lingua slovena in Friuli Venezia Giulia provenisse da famiglie di lingua italiana (IRRE Friuli Venezia Giulia, Rapporto Regionale, «Annali dell’Istruzione-Supplemento», 2004).

Dati più recenti raccolti dall’Istituto sloveno di ricerche (SLORI 2011) testimoniano l’incremento nel tempo di tale fenomeno. Se nel 1997 poco meno del 10% della popolazione studentesca delle scuole slovene goriziane aveva entrambi i genitori di madrelingua italiana, la quota sale al 23% nel 2003 e al 30% nel 2011. Sono in crescita anche gli iscritti alle scuole slovene che provengono da famiglie di nazionalità miste, il che fa pensare a una maggiore diffusione della competenza linguistica in sloveno.

Per quanto riguarda i sentimenti di appartenenza collettiva, alcune recenti indagini hanno evidenziato (Lingua e identità, 2008) un importante punto di contatto tra minoranza e maggioranza, ovvero il profondo attaccamento al territorio di residenza. Indipendentemente dalla lingua materna, quote superiori all’80% di persone residenti in Friuli Venezia Giulia si dichiarano, molto o abbastanza attaccate al comune, alla provincia e alla regione. Ma l’aspetto per certi versi sorprendente è che la maggioranza dei madrelingua sloveni provano tale sentimento anche per l’Italia (72,5%). Si tratta di una percentuale, tra l’altro, di poco inferiore a quella registrata tra gli italofoni (80,9%). Tra la minoranza il legame affettivo con l’Italia convive con quello per la nazione slovena: nel 2008 il 44% circa ha dichiarato di sentirsi tanto sloveno quanto italiano. La presenza di identificazioni duali si può desumere anche dall’indagine sulle comunità linguistiche realizzata dalla Regione Friuli Venezia Giulia. Tra i residenti in area slovenofona, alla domanda «A quale comunità linguistica sente di appartenere», il 44% risponde «italiana», il 24,4% «slovena», il 10,5% «entrambe», mentre il 20,4% indica «altro» (E. Susič, A. Janezic, F. Medeot, Indagine sulle comunità linguistiche del Friuli Venezia Giulia, cit.). Non sono disponibili dati disaggregati per lingua materna, ma se si considera che i madrelingua sloveni nell’area sono il 31% e i bilingue il 4% si può desumere che le identificazioni duali si siano estese anche al di là della cerchia delle famiglie miste. L’aumento di iscritti alle scuole slovene provenienti da famiglie miste, peraltro, pare contribuire allo sviluppo di identità duali.

Questo spazio di riconoscimento condiviso si accompagna alla consapevolezza, da parte sia dei membri della maggioranza, sia di quelli della minoranza, di avere qualcosa in comune. In una recente indagine (Segatti, Vezzoni 2008), ai residenti di Trieste e Gorizia è stata posta la seguente domanda: «Lei ritiene che gli appartenenti alla minoranza slovena/italiana residenti in Friuli Venezia Giulia possano essere considerati parte integrante della società italiana, come lo sono gli abitanti di Roma?». Le risposte affermative sono prevalenti, pari all’81% tra i madrelingua sloveni e al 55,1% tra i madrelingua italiani. Solo una ristretta minoranza ritiene che essi non lo siano perché appartenenti a «un diverso gruppo etnico-linguistico» (2,2% tra i madrelingua sloveni e 10,5% tra la maggioranza italiana). Una quota non trascurabile (30% tra la maggioranza italiana e 14,6% tra la minoranza slovena) ritiene però che l’integrazione sia un processo che dipende anche dalla volontà della minoranza.

I dati riportati restituiscono la fotografia di due realtà alquanto diverse dal punto di vista della convivenza tra maggioranza e minoranza in Alto Adige/SudTirolo e in Friuli Venezia Giulia. Il che sembra suggerire che i regimi di tutela possano differenziarsi non solo per l’estensione della tutela, ma anche secondo gli effetti che possono generare sulla propensione all’integrazione.

Conclusioni

Il sindaco di Bolzano (Bozen) Julius Perathoner (1849-1926), l’ultimo di lingua tedesca, fiero oppositore del fascismo e deposto dopo la marcia su Bolzano (1922), nel corso della prima visita alla città di Vittorio Emanuele III, disse che con l’annessione della Provincia l’Italia non era più uno Stato nazionale (Ara 1991, p. 270). Dopo quasi un secolo di storia il problema indicato dal sindaco di Bozen sembra aver trovato soluzioni diverse nei casi delle due minoranze.

È indubbio, però, che il sindaco Perathoner avesse ragione. Allora come oggi, sia nella Provincia di Bolzano sia nei comuni nei quali è storicamente insediata la minoranza nazionale slovena, la legittimità dello Stato italiano non può attingere solo all’inventario di valori prepolitici (lingua, cultura, tradizioni storiche) che gli italiani condividono pur tra tante variazioni locali. In queste terre il principio di nazionalità che caratterizza lo Stato italiano va bilanciato dal principio della tutela delle minoranze linguistiche e nazionali, diventato un principio fondamentale dell’ordinamento (Bartole 2012, p. 151). Come si è già visto, la definizione delle forme di tutela delle due minoranze ha preso strade diverse, che devono essere valutate non solo lungo la scala di una maggiore o minore protezione/riconoscimento, ma anche sulla base dell’integrazione che sono state in grado di costruire tra appartenenti a gruppi nazionalmente diversi.

La soluzione istituzionale data al problema indicato dal sindaco di Bolzano quasi un secolo fa, in Trentino-Alto Adige/Sud-Tirolo ha preso la forma dello Stato multinazionale paritario. Il che vuole dire che all’interno dei due ambiti giurisdizionali non si può più parlare di maggioranza o minoranza, ma di due nazioni che convivono nello stesso territorio e lo governano in una forma di condominio (Toniatti 1994). L’«integrazione per separazione», che uno Stato multinazionale paritario realizza, presenta tuttavia due limiti. Ha anzitutto una limitata capacità trasformativa delle identità nazionali. Tende infatti a ‘naturalizzare’ i significati che queste avevano assunto nel momento del conflitto. Inoltre, poiché in questo sistema i diritti collettivi che rendono possibile l’esercizio della tutela stanno in capo al gruppo prima che all’individuo che ne è parte, la libertà di ogni individuo di definire da sé il significato della propria appartenenza collettiva, se ne ha una sola o se ne ha più di una, è fortemente limitata. Se vuole tutelare la propria diversità deve aderire al gruppo per come viene definito da chi ha il potere di definirne i confini. Tale limitazione è rinforzata dal carattere monopolistico della rappresentanza politica che questo assetto della tutela tende a consolidare (W. Kymlicka, Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights, 1995; trad.it. La cittadinanza multiculturale, 1999).

Nel caso della minoranza slovena la soluzione istituzionale non si avvicina al modello di Stato multinazionale paritario. Infatti la protezione della minoranza non si esprime attraverso una speciale autonomia territoriale di tipo politico e la rappresentanza non si è espressa secondo linee etniche, nonostante tentativi ricorrenti da parte di diverse forze politiche italiane e slovene. Alla lingua slovena viene riconosciuta dignità nazionale, anche se il bilinguismo visivo, con il contenuto simbolico che questo ha, non è ancora attuato nei centri di Trieste e Gorizia. Apparentemente non c’è quella parità tra lingue che il modello sudtirolese garantisce nel contesto della proporzionale etnica. Tuttavia, nel caso degli sloveni, gli istituti preposti alla tutela linguistica non solo hanno consentito la sopravvivenza dello sloveno, ma hanno permesso anche, in qualche modo, la sua promozione, consentendo a quote di popolazione, che forse nel passato ne avevano perso l’uso, di recuperarne la competenza. Il fatto poi che l’accesso agli ambiti di tutela nei comuni facenti parte del territorio di insediamento storico della minoranza sia garantito a tutti i cittadini della Repubblica impedisce che l’integrazione avvenga solo attraverso una dichiarazione di appartenenza al gruppo.

Si tratta, dunque, di un modello nel quale l’integrazione non avviene sulla base di una rigida separazione. In questo modo le classi dirigenti hanno un limitato controllo sulla definizione dei confini del gruppo. Per questo è un modello che, pur meno organico di quello sudtirolese, ha maggiore capacità trasformativa delle identità collettive, come testimoniato dai dati sullo sviluppo di identità plurime. Un risultato da valorizzare, se si pensa ai lasciti del conflitto nazionale in Venezia Giulia nel 20° sec. che, tra l’altro, ha portato a vivere a Trieste molte decine di migliaia di espulsi dalle loro terre, diventate dopo la Seconda guerra mondiale slovene e croate. Un conflitto la cui ombra ancora negli anni Sessanta faceva sentire a molti italiani di Trieste come una minaccia l’uso in pubblico dello sloveno. Lo Stato, le cui istituzioni hanno garantito la tutela e la promozione della lingua e dell’identità nazionale slovena, non è diventato uno Stato multinazionale e non è rimasto uno Stato nazionale come lo era quando l’Italia entrò a Trieste e in Istria. Attraverso il funzionamento inclusivo della democrazia e quello non esclusivo degli assetti di tutela, esso ha reso possibile, a livelli non dissimili da quelli che si realizzano in altre parti del Paese, che gli appartenenti alla nazione slovena si sentissero parte dell’Italia, senza per questo rinunciare alla loro diversità. Una conquista che ha permesso che a Trieste, nel luglio del 2010, i tre presidenti di Italia, Slovenia e Croazia potessero compiere un pellegrinaggio nei luoghi che simboleggiano le memorie nazionali contrapposte dei tre gruppi. Non per dimenticarle, ma per ripensarle in un quadro europeo. Atto che sembra arduo da compiere in Alto Adige/Sud-Tirolo, ancora dopo un secolo.

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