MAFAI, Miriam

Dizionario Biografico degli Italiani (2016)

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MAFAI, Miriam (propr. Maria). – Nacque a Firenze il 2 febbraio 1926. Il padre Mario fu un importante pittore, membro e animatore della Scuola romana. La madre, Antonietta (Antoinette) Raphaël, ebrea lituana, fuggita bambina dai pogrom e arrivata a Roma dopo aver prima vissuto con la madre a Londra e poi, dopo la morte di questa, a Parigi, fu anche lei pittrice e musicista, ma soprattutto scultrice. Si incontrarono a Roma all<apost>Accademia delle belle arti, in via Ripetta. Lei, di qualche anno più grande, aveva la cittadinanza inglese che perse quando, il 20 luglio 1935, sposò Mafai (fino ad allora le figlie – oltre a Miriam, Simona, nata nel 1928, e Giulia, nel 1930 – avevano portato il cognome della madre)

Claudia Mancina

Formazione

Ha scritto, nella biografia incompiuta, di essere nata «sotto il segno felice del disordine» (Una vita, quasi due, a cura di S. Scalia, Milano 2012, p. 17). Ma il segno di questa famiglia fuori dalle regole era anche quello dell'arte, del cosmopolitismo, dell'anticonformismo, in politica come nella vita quotidiana. Le bambine Mafai erano singolari in molti modi: né ebree né cattoliche, festeggiavano le ricorrenze delle due religioni in allegro sincretismo, e celebravano un loro speciale rito del venerdì, accendendo le candele della menorah e leggendo poesie; erano antifasciste e insensibili alla retorica imperiale dell'epoca; soprattutto erano figlie di due artisti. L'arte non portava tuttavia nelle loro vite una lezione di leggerezza o di scapigliatura. Al contrario, era una lezione di coerenza e rispetto di sé, di passione del lavoro, che comunicò alle bambine l'orgoglio della loro diversità, nonostante il senso di isolamento talvolta provato in classe. Nel 1938, però, quella diversità diventò un pericolo. Le leggi razziali schiacciarono le ragazze Mafai su una sola faccia della loro composita identità: quella ebraica. Scoprirono di essere ebree, indipendentemente dalla loro scelta. Le due più grandi, Miriam e Simona, dovettero lasciare i banchi del ginnasio, mentre Giulia, ancora alle elementari, fu messa in una classe speciale. Miriam provò a imparare l'ebraico e sostenne il bar-mitzvah: «per puntiglio, per dignità, per orgoglio» (ibid., p. 39). Ma presto la famiglia abbandonò Roma, mentre l'ambiente intellettuale del quale aveva fatto parte si disperdeva. Dopo un periodo a Viareggio, nell'inverno 1939 si trasferirono a Genova (precisamente a Quarto). Lì Miriam visse l'esperienza della guerra: i bombardamenti, le macerie dei palazzi, i cadaveri. Ma anche l'esperienza del mare e quella dell'adolescenza: le letture, gli amici, la scuola (era riuscita, nonostante le leggi razziali, a iscriversi al prestigioso liceo Andrea Doria). Come molti italiani della sua generazione, durante la guerra Miriam – e con lei la sorella Simona – diventò comunista, per desiderio di giustizia sociale e per l'ammirazione suscitata dall'eroica resistenza sovietica all'invasione nazista. Cominciò così la sua storia d'amore con il Partito comunista italiano (PCI).

Il 30 agosto 1943 la famiglia tornò a Roma. Pochi giorni dopo, l'armistizio e l'occupazione della città da parte delle truppe tedesche di Albert Kesselring. Miriam ha raccontato come si mise in contatto con i comunisti. Insieme a Simona frequentava la Biblioteca nazionale, allora ospitata nel Collegio romano, l'antico collegio dei gesuiti nei pressi di piazza Venezia. Lì conobbero un giovane che era assistente del regista Luchino Visconti e che le mise in contatto con una persona che aveva l'autorità di ammetterle nell'organizzazione clandestina del partito. Le due sorelle cominciarono a distribuire materiale proibito, volantini e soprattutto il giornale l'Unità. Intanto facevano l'apprendistato comunista, partecipando a manifestazioni di studenti o di donne per il pane. L'impegno politico diventò ancora più totalizzante dopo la liberazione di Roma, tanto che Miriam, prima intenzionata a iscriversi ad agraria, decise di rinunciare all'università.

Alla fine del 1944 lasciò insieme a Simona la casa dei genitori, per andare a vivere in una casa del partito, che ospitava varie compagne e compagni. Dirà più tardi: «non sapevo che sarei entrata in una famiglia assai più esigente e severa di quella che lasciavo» (ibid., p. 78). Simona lavorava come dattilografa per il partito, Miriam per la Commissione alleata di controllo. Risale a questi anni un episodio poco conosciuto della sua vita: il breve matrimonio con Ugo Naxon, un ebreo egiziano arrivato a Roma con l'esercito inglese, sposato in sinagoga nel 1945, ma che morì tragicamente poco dopo.

Professione rivoluzionaria

Dopo un passaggio con Mauro Scoccimarro al ministero delle Finanze e poi al ministero dell'Italia occupata, Miriam diventò funzionaria del partito e come tale partecipò alla campagna elettorale del 1948, facendo comizi in Basilicata. Di quella campagna le restò il ricordo della spaventosa miseria dei Sassi di Matera, ma soprattutto del senso di solitudine e di incomunicabilità provato nel parlare a piazze vuote, o, se c'era un contatto con le donne, nel rendersi conto che, come lei non le capiva, anche loro non potevano capire ciò che diceva. Da quella postazione non era possibile farsi illusioni sull'esito delle elezioni (ibid., p. 105). La sconfitta fu totale e dolorosa; ma proprio perciò lasciare il PCI, anche per riprendere gli studi, appariva impossibile. Accantonata ormai definitivamente l'idea dell'università, Miriam si mise a disposizione del partito, che la mandò in Abruzzo, dove conobbe e sposò nel 1949 Umberto Scalia, segretario della federazione de L'Aquila. Dopo un periodo passato alla direzione della scuola di partito di Milano, durante il quale (nel 1949) nacque il suo primo figlio, Luciano, tornò a L'Aquila nella primavera del 1950 (la seconda figlia, Sara, nacque a Roma nel 1953). Ebbe allora inizio l'esperienza politica alla quale rimase più legata: la partecipazione alla lotta dei contadini del Fucino, feudo dei principi Torlonia, per la riforma agraria. Molti anni dopo dirà che, se la parola rivoluzione ha un senso, è questo: vincere la battaglia contro il principe Torlonia e portare i bambini di quei contadini ad avere le scarpe, andare a scuola, mangiare la carne. E non importa se poi quei bambini sono diventati democristiani (Il silenzio dei comunisti, Torino 2002, p. 17, con Vittorio Foa e Alfredo Reichlin).

Il rapporto con il Partito comunista, che del resto continuò ben oltre l'esperienza del funzionariato, è stato descritto da Miriam con toni quasi elegiaci, e tuttavia critici, in un volume del 1996. Il partito era un universo nel quale si trovava di tutto, dal fabbro al medico all'elettricista, ma soprattutto era una grande famiglia, attraversata da sentimenti e legami forti. Ma, come in tutte le famiglie, «un'improvvisa indiscrezione o un inspiegabile silenzio facevano intravvedere l'esistenza di un segreto, di una macchia, forse di un peccato» (Botteghe oscure, addio. Come eravamo comunisti, Milano 1996, p. 28). Un segreto, un peccato, che furono improvvisamente rivelati nel 1956, dal rapporto segreto di Nikita S. Chruščëv, che denunciò i crimini e le degenerazioni dello stalinismo. I dirigenti comunisti, che ebbero l'umiliazione di conoscerlo dal New York Times, si trovarono nella scomoda situazione di chi era stato complice o connivente. Fu per lei, come per tanti, uno shock, e probabilmente l'inizio di un processo critico e autocritico. Il saggio del 1996 è particolarmente interessante perché si colloca sul crinale tra passato e futuro. Guardando indietro, Miriam interrogava e ricostruiva la sua memoria del PCI sulla base dei problemi dell'oggi. Due anni prima Achille Occhetto si era dimesso e Massimo D'Alema aveva vinto la sfida con Walter Veltroni. Era una fase nuova del Partito democratico della sinistra (PDS), nella quale si programmava l'abbandono del grande palazzo rosso. Miriam si chiedeva che cosa sopravvivesse del PCI, che cosa fosse stato trasmesso ai suoi eredi. La sua risposta era, in questo libro, di un ottimismo quasi sorprendente: «C'è un patrimonio politico, morale e culturale che sopravvive, come sopravvive il desiderio di rifiutare l'ingiustizia, di difendere i deboli, di cambiare, se non il mondo, almeno la nazione in cui viviamo, o magari soltanto la nostra città o il nostro quartiere. [Una eredità] non tanto povera, non tanto piccola, affidata a coloro che lasciano le Botteghe Oscure per costruire la nuova casa» (ibid., pp. 149 s.). Questa eredità consisteva a suo parere in tre caratteristiche, che avevano fatto la specificità e la forza del Partito comunista: anzitutto la capacità di produrre idee e proposte su tutti i problemi del Paese; in secondo luogo la capacità organizzativa, intesa come capacità di dar corpo alle decisioni politiche, diffondendole nell'opinione pubblica; infine la capacità di selezionare i dirigenti, con un uso intelligente del metodo della cooptazione.

Tuttavia, quello stesso partito aveva grandi colpe, troppo a lungo negate: la rigidità ideologica, la mancanza di dialettica politica, la presunzione di superiorità, la fiducia cieca di avere la storia dalla propria parte, la durezza verso gli avversari e ancor più verso i propri iscritti, il legame di ferro con l'URSS, non solo politico ed economico ma ideale e morale (fino al punto di avere «due patrie», ibid., p. 106), la conseguente omertà sulle repressioni staliniane e sulla perdurante mancanza di libertà in quel Paese e negli altri Paesi dell'Est. Per questo era un'esperienza che doveva essere chiusa.

Il mestiere di giornalista

Nel 1956 Umberto Scalia fu mandato dal partito a Parigi, per tenere i rapporti con il Partito comunista francese, e Miriam – forse anche in seguito allo shock del rapporto Chruščëv? – decise di seguirlo, dimettendosi dal suo ruolo di funzionaria e diventando corrispondente di Vie nuove, settimanale di area comunista. Iniziò così la sua seconda vita, quella della giornalista. Senza dubbio la più importante, quella in cui sviluppò pienamente e liberamente la sua creatività. Ma il suo legame con la politica comunista restò fortissimo. Caratteristico del rapporto di Miriam con il partito, pur nella piena adesione, fu sempre l'assenza di rigidità e di conformismo. Essere comunista per lei non aveva niente di teorico, ma significava aderire a un progetto di modernizzazione e di libertà. Aveva un forte senso di appartenenza, ma contemporaneamente era libera. Il mestiere di giornalista le consentì di coltivare la libertà senza negare l'appartenenza. Molto più tardi, in un volumetto apparso nel 1986, descriverà così le caratteristiche necessarie al mestiere: «una grande curiosità per le persone e i fatti, l'attitudine a cogliere subito gli elementi essenziali di una situazione e insieme tutti i suoi particolari, la rapidità di apprendimento, di comprensione e di giudizio, una notevole sicurezza di sé, la capacità di ispirare fiducia e stabilire legami, una naturale tendenza alla produttiva superficialità (sapersi appassionare ad un argomento per breve tempo, scriverne e dimenticarlo subito dopo)» (Il giornalista, Roma-Bari 1986, p. 19). Una descrizione che è anche un autoritratto. Il suo giornalismo fu vivace, autonomo, brillante, ma anche molto investigativo, amante della cronaca e delle inchieste.

Dopo Vie nuove, passò a l'Unità, di cui fu cronista parlamentare, ma presto lasciò anche questo giornale per Noi donne, settimanale dell'Unione donne italiane (UDI), che diresse dal 1964 al 1969. Nel frattempo si era separata dal marito e aveva iniziato una relazione con Giancarlo Pajetta che durò sino alla morte di lui, nel 1990. Nel 1970 fu assunta come inviata da Paese Sera, importante quotidiano romano. Ma il giornalismo fiancheggiatore del PCI le stava ormai stretto. Quando Eugenio Scalfari cominciò a lavorare alla fondazione di un nuovo quotidiano, si buttò senza esitazioni nell'impresa. Fu quindi tra i fondatori de La Repubblica, che cominciò la sua fortunata avventura il 14 gennaio 1976, e ne fu sino alla fine una delle firme più rappresentative, dotata di grande notorietà e autorevolezza, amatissima dal pubblico dei lettori e delle lettrici. Il volume Diario italiano, 1976-2006 (Roma-Bari 2006) raccoglie gran parte degli articoli pubblicati sul quotidiano romano, per il quale si occupò soprattutto – ma con frequenti puntate nei temi sociali – delle vicende politiche dei due maggiori partiti. Fu presidente della Federazione nazionale della stampa italiana dal 1983 al 1986. La sua eccellenza nella professione le valse numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il premio Saint-Vincent nel 1964, il premio Ischia nel 2002, il premio Montanelli nel 2005. Nel 2003 fu insignita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dell'onorificenza di Grande ufficiale al merito della Repubblica italiana.

La sua attività giornalistica fu accompagnata da una intensa produzione pubblicistica. Entrambe ebbero due fuochi principali: la politica, soprattutto ma non solo a sinistra, e l'emancipazione femminile.

Dalla parte delle donne

Miriam ebbe sempre un'attenzione particolare, anche se mai scontata e mai banale, per quella che un tempo si chiamava la questione femminile. Questo fu per lei non soltanto un campo di interesse e di indagine, ma un punto di vista da cui guardare la politica e anche la storia del Paese. Due suoi libri sono dedicati al ruolo delle donne nella guerra e nel dopoguerra. Nell'Apprendistato della politica (Roma 1979), osservò il modo diverso che hanno avuto le donne di fare politica in una fase molto difficile, il secondo dopoguerra, che era però anche una fase di ricostruzione dei partiti e della politica stessa: «Ci furono quindi fin dall'inizio due modi diversi di fare politica, e il secondo – l'intervento nella dimensione quotidiana dell'esistenza – fu certo patrimonio delle donne, che vi si impegnarono con una concreta, quasi avida volontà di fare di soccorrere di organizzare, con uno slancio e una passione che le videro protagoniste di un movimento di solidarietà quale non si è più manifestato nel nostro paese. Fu questo il primo modo specifico in cui le donne si presentarono sulla scena politica nazionale» (p. 37). Non si tratta però della solita notazione sulla naturale concretezza delle donne. Miriam vedeva in questo stile femminile una scelta precisamente politica, coerente con l'impostazione togliattiana del partito nuovo, aperto alla società e attento a cercare soluzioni ai problemi del Paese. In questo senso sottolineò l'importanza data al lavoro tra le donne da Togliatti sin dal suo primo discorso pubblico, nel maggio 1944, e vide la scelta del leader comunista per il voto alle donne come un passaggio necessario, anche se rischioso, del radicamento del PCI nell'Italia del dopoguerra. Questa restò sempre la sua interpretazione della politica delle donne, che vedeva profondamente connessa, con la sua specificità e la sua autonomia, alla politica generale. Questo sguardo femminile, ma non settoriale, trova la sua espressione più felice in Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (Milano 1987): un libro a metà tra storia e inchiesta, dedicato alla vita quotidiana durante la seconda guerra mondiale, e dunque alle donne che della vita quotidiana sono protagoniste. Un libro che racconta quella guerra terribile attraverso parole e ricordi di donne, trasmettendoci l'idea che è questo il punto di vista migliore, quello che fa capire di più, che dà il senso di una guerra combattuta nelle retrovie, nelle file per il pane e nelle lotte sotterranee per la sopravvivenza e contro il regime; una guerra irregolare e feroce, e tuttavia «una storia di donne e di bambini» (p. 187). Sempre pronta a promuovere il protagonismo delle donne, Miriam fu però lontanissima da atteggiamenti lamentosi e autocommiserativi. Vide nelle donne, nonostante tutti i problemi e le difficoltà, un soggetto forte, capace di migliorare la propria vita con il lavoro e l'impegno politico; capace di guidare la vita sociale, come aveva fatto durante la guerra. Per il femminismo differenzialista, che ebbe una certa egemonia nella sinistra tra gli anni Ottanta e Novanta, nutrì molte riserve e una sostanziale diffidenza, vedendovi un atteggiamento utopistico e ideologico che impediva il riformismo e le ricordava il massimalismo delle prime fasi del movimento operaio. Nella polemica delle femministe differenzialiste contro l'uguaglianza sentiva l'eco di un pensiero marxista e leninista che il movimento comunista aveva a fatica lasciato dietro di sé. «Dopo aver rifiutato Lenin, perché dovrei oggi giurare su Luce Irigaray?» (Le vedove di Lenin e la deriva femminista, in Micromega, VII (1990), 15, pp. 7-15, in partic. p. 10). E mentre non condivideva la tesi dell'estraneità delle donne alle regole e ai comportamenti della politica, riconosceva senza esitazione il mutamento culturale indotto dalla loro presenza nella vita pubblica (Il morso della mela. Interviste sul femminismo, Rionero in Vulture 1993, con Ginevra Conti Odorisio e Gianna Schelotto). Nonostante le sue non taciute e severe critiche, fu sempre solidale con le donne e disponibile a farsi coinvolgere in corsi, seminari, dibattiti, senza risparmio. La sua ultima uscita pubblica, a pochi giorni dalla morte, fu una lezione in un corso di formazione politica femminile.

Mettersi dal punto di vista delle donne ebbe un effetto non secondario nel suo modo molto particolare di essere comunista. Derivarono anche da qui un certo tratto scanzonato e irriverente, un'autonomia di giudizio, una capacità critica, che spesso le impedirono di cadere nella trappola dell’ideologia o del luogo comune di sinistra, come quando denunciava nei movimenti del Sessantotto «una componente di tipo luddista, antimodernizzatrice, pauperista» (Il silenzio dei comunisti, cit., p. 34). Memorabile la sua risposta critica a Pier Paolo Pasolini, che lamentava la scomparsa delle lucciole: «Il tempo delle lucciole era per me il tempo in cui le donne andavano a lavare i panni al fiume» (ibid.). Un tempo che una donna non poteva rimpiangere: e dunque non poteva non essere dalla parte della modernizzazione.

Essere comunista

La sua attività pubblicistica fu in gran parte rivolta ad analizzare la storia, i problemi, le crisi di identità del Partito comunista. Oltre ai moltissimi interventi sulla stampa quotidiana, diversi libri testimoniano la mai sopita passione per il partito che era la sua seconda famiglia. Due di questi hanno la forma di biografie: L'uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia (Milano 1984) e Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l'Urss (Milano 1992). Ma la forma biografica, soprattutto nel primo caso, non esaurisce affatto il senso dell'opera. Il libro su Pietro Secchia è in realtà un saggio politico sulla formazione del «partito nuovo», cioè sul cambiamento radicale di strategia – e di identità – imposto da Togliatti al Partito comunista al momento del suo rientro in Italia, dopo il lungo e periglioso esilio moscovita, e sulle tenaci resistenze da lui incontrate. È particolarmente interessante leggere questo saggio insieme a Pane nero: da ambedue traspare una piena consapevolezza del significato dell'impresa togliattiana, che ha fatto del PCI un partito completamente diverso dagli altri partiti comunisti, destinandolo così ai suoi successi, ma anche alle contraddizioni che ne hanno poi segnato la fine. Il libro su Secchia mette in rilievo anche la forza del filone insurrezionalista interpretato da lui e inizialmente dallo stesso Luigi Longo; un filone da Togliatti sconfitto ma non domato, tanto da riemergere negli anni Settanta nelle organizzazioni terroristiche. Il volume su Bruno Pontecorvo è animato da un autentico interesse per le motivazioni personali della scelta del fisico italiano, per le sue riflessioni ed emozioni durante i lunghi anni passati in Unione Sovietica, in condizioni privilegiate ma anche con restrizioni della libertà impensabili per un occidentale. Ma la domanda finale a Pontecorvo, se si sia pentito, resta in realtà senza risposta: pur non potendo vanificare il senso della sua intera vita, lo scienziato appare confuso, incerto, perfino sgomento di fronte alla subitanea fine dell'URSS. In questo sgomento si esprime un interrogativo che non inquieta solo il protagonista del libro ma tutti coloro che, «con impavido ottimismo, cieca innocenza e una fiducia che sfidava ogni ragione» (Il lungo freddo, 1992, p. 6), hanno condiviso il sogno del comunismo.

Storia del PCI e sogno del comunismo sono i due temi, strettamente intrecciati, al centro di tre libri che hanno avuto grande risonanza: il già citato Botteghe oscure, addio. Come eravamo comunisti, Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista (Roma 1996) e, infine, Il silenzio dei comunisti, che ha avuto anche una fortunata versione teatrale, messa in scena da Luca Ronconi. Tre titoli che raccontano in modo chiaro come Miriam fu una delle pochissime persone che, dopo aver vissuto una piena esperienza di comunista, sono poi state capaci di chiudere quell’esperienza con totale e limpida convinzione, senza minimamente cedere alla tentazione di guardare indietro, e nello stesso tempo senza mai rinnegarla. Il suo Botteghe oscure, addio mette in scena una cerimonia degli addii di stile cechoviano, con grande tenerezza per il PCI, per il suo sogno politico e nostalgia soprattutto per il ricchissimo ambiente umano, per la moralità dei rapporti che il partito aveva creato. Ma l’autrice di quel libro così commosso non pensa neanche per un momento che si debba tornare indietro né per un momento dimentica o sottovaluta il carico di errori e di contraddizioni che ha contrassegnato quella storia.

Dimenticare Berlinguer è un bilancio molto critico dell'eredità politica del leader che più di ogni altro ha incarnato le contraddizioni del Partito comunista. Un libro estremamente coraggioso e lungimirante. L'inchiesta, come la definì, è non tanto su Enrico Berlinguer quanto sul rapporto con la sua eredità. Anche in questo caso, l'analisi è mossa dai problemi del presente. E cioè in primo luogo dalla evidente incapacità dell'allora PDS di affrontare un bilancio critico della sua storia passata e in particolare di quel pezzo così importante che è stato il non lungo regno di Berlinguer, segretario del PCI per dodici anni (1972-84), durante il quale il partito ha toccato il massimo dei consensi e insieme il massimo dell'isolamento e dell'impasse politica. Miriam vide in Berlinguer un uomo insieme antico e moderno: antico, per il suo legame con la tradizione, per il suo attaccamento all'unità del gruppo dirigente, ma insieme moderno, per il suo modo solitario e innovativo di interpretare la leadership; schivo e riservato, ma insieme straordinario comunicatore, uno dei primi protagonisti della politica spettacolo. E dunque il leader che aveva spinto al massimo le possibilità espansive del PCI, fino a incontrare il punto limite, oltre il quale non c'era che da cambiare strategia e anche identità. Dopo Berlinguer, doveva cominciare una nuova storia, quella delle formazioni postcomuniste, della quale Miriam fu ancora partecipe, tra l'altro ricoprendo un mandato parlamentare alla Camera dei deputati, nella legislatura del 1994-96, eletta nella lista di Alleanza democratica.

Negli ultimi anni fu molto critica con gli imbarazzi e le ambivalenze dei postcomunisti; denunciò, rispondendo senza reticenze alle dure domande di Vittorio Foa (ne Il silenzio dei comunisti), la cattiva coscienza e l'incapacità di fare i conti con la propria storia da parte di chi era stato comunista. Aveva troppo senso della realtà per non condividere la necessità che il PCI diventasse un’altra cosa, si aprisse, facesse un tuffo nella modernità e nella democrazia. Aveva la lucidità di capire che il mondo era definitivamente cambiato; e che in un mondo cambiato l’eredità non frutta da sé, ma bisogna saperla mettere a frutto. Avrebbe voluto però una politica più coerente e coraggiosa. Soffrì i fallimenti politici delle nuove formazioni della sinistra e non trovò convincente la sintesi di tradizione comunista e tradizione cattolica operata dal Partito democratico (PD), che le ricordava l'infelice unificazione tra socialisti e socialdemocratici, nel 1966. Rimase però sino in fondo una donna di sinistra, nonostante la delusione. Delusione, ma non sfiducia. Aveva fiducia che una nuova sinistra sarebbe venuta, anche se forse non più da quel ceppo antico. Perché, come scrisse, l’ottimismo e la fiducia nel futuro erano il suo difetto principale.

Morì a Roma il 9 aprile 2012. Le sue ceneri riposano nel cimitero degli acattolici della città.

Opere

Oltre a quelle citate nel testo: Roma cento anni fa, Roma 1973; Lombardi, Milano 1976 (2a ed. Riccardo Lombardi. Una biografia politica, Roma 2009); Il sorpasso. Gli straordinari anni del miracolo economico, Milano 1997. Ha intoltre curato Le donne italiane. Il chi è del '900, Milano 1993.

Sul sito www.miriammafai.it si trovano tutti gli articoli pubblicati da Miriam Mafai. Sullo stesso sito sono presenti gli articoli pubblicati in occasione della sua morte.

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