Misure cautelari [dir. proc. pen.]. Applicazione ed esecuzione

Diritto on line (2012)

Valeria Di Masi

Abstract

L’applicazione e l’esecuzione delle misure cautelari, tema molto più ampio nella sua naturale estensione, viene affrontato da una prospettiva che pone al centro dello studio il diritto a difendersi ed il diritto ad autodeterminarsi. Perciò, la scelta di un modello fondato sull’adozione “tendenzialmente” a sorpresa della cautela si pone, pur sempre, in un’ottica garantista rispetto al diritto di difesa, diritto di cui tutti i soggetti sottoposti a qualsivoglia misura restrittiva della libertà personale dovrebbero poter godere.

1. Premessa

Il procedimento di applicazione delle misure cautelari si articola tra la richiesta del p.m. e l’ordinanza motivata del giudice. In termini generali, mette conto osservare come il modello cautelare italiano è incentrato, tendenzialmente, sull’azione a sorpresa, profilo che caratterizza il procedimento applicativo che si svolge in assenza di previo contraddittorio. Parte del diritto di difesa è garantita attraverso l’obbligo per il p.m. di presentare a favore dell’indagato tutti gli elementi ad esso favorevoli, raccolti durante le indagini preliminari e, per il giudice, di motivare il provvedimento in ordine agli elementi di prova a favore dell’indiziato e relativamente alla idoneità della misura che dispone. La disciplina codicistica configura un controllo della misura, successivo rispetto all’emanazione del provvedimento; la ratio dell’adempimento posto in capo al giudice a tutela della libertà personale e nella misura in cui si consente «un contraddittorio differito con l’interessato, per compensare quello non potutosi realizzare prima dell’adozione di un provvedimento restrittivo» (Kostoris, R.E., Commento sub art. 11, l. 8 agosto 1995, n. 332, in Giostra, G., a cura di, Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, 146 ss.).

2. Il procedimento applicativo

Il procedimento applicativo delle misure cautelari personali adotta una netta ripartizione dei ruoli tra il p.m. come “organo richiedente” e il giudice come “organo decidente”, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 291 c.p.p. In altri termini, la struttura del procedimento si incardina sul principio della domanda cautelare: nessuna misura può essere adottata direttamente dal giudice, salvo l’ipotesi di un’iniziativa ex officio in materia di revoca o di sostituzione di misure cautelari in corso di applicazione, ex art. 299, co. 4 ter c.p.p. In base al principio richiamato, quindi, il giudice è strettamente vincolato alla domanda dal p.m. ed è perciò impossibilitato ad emanare un provvedimento che contenga una misura più afflittiva di quella richiesta dall’accusa, ovvero in peius e privo di qualsiasi iniziativa. Il principio della domanda cautelare vige non solo nel momento di adozione di una misura ma nel corso della sua esecuzione, allorché le esigenze cautelari risultino aggravate. Diversamente, il giudice potrà disporre invece una misura cautelare meno grave di quella richiesta dall’accusa. La richiesta del p.m. rappresenta quindi il presupposto per l’adozione di una misura cautelare in tutte le fasi del giudizio e la sua mancanza integra l’ipotesi di nullità assoluta ex art. 178, co. 1, lett. b, c.p.p., insanabile e rilevabile d’ufficio in qualunque stato e grado del procedimento, ai sensi dell’art. 179 c.p.p.; stesso epilogo si verifica se il giudice applica una misura cautelare più afflittiva di quella richiesta dal p.m. Il giudice al quale il p.m. ha rivolto la richiesta di applicazione di una di tali misure, prospettando determinate esigenze cautelari, decide se accoglierla o meno anche nel caso in cui si ravvisino esigenze cautelari diverse da quelle indicate dall’organo dell’accusa. Sull’applicazione e sulla revoca delle misure cautelari provvede il giudice che procede; prima dell’esercizio dell’azione penale è investito il g.i.p. mentre, formulata la richiesta di rinvio a giudizio, la competenza ad emettere provvedimenti de libertate, pur se l’udienza preliminare debba ancora svolgersi, è regolata dall’art. 91 disp. att. c.p.p. (Cass. pen., sez. VI, 3.7.2000, n. 3047, in CED Cass. 220756). Le norme in riferimento individuano la figura del giudice che procede in relazione allo sviluppo del rapporto processuale e all’articolazione di questo nelle varie fasi del giudizio, correlati al passaggio degli atti da un giudice all’altro, nel senso che l’attribuzione alla competenza funzionale in ordine ai relativi procedimenti dipende dalla disponibilità materiale e giuridica degli atti e viene meno solo con la loro trasmissione ad altro giudice. In correlazione con lo sviluppo dinamico della vicenda processuale, l’ormai avvenuta trasmissione del fascicolo al giudice del dibattimento comporta lo spostamento della competenza dal g.u.p. in capo al giudice che procede affinché questo, con l’apertura della fase relativa agli atti preliminari al dibattimento, decida anche sull’applicazione della richiesta della misura cautelare, presentata dal p.m. all’udienza preliminare, ma non tempestivamente deliberata dal giudice (Cass. pen., sez. V, 1.7.2003, n. 46303, in CED Cass. 226842). Ciò, in ossequio al principio del giudice naturale predeterminato ex lege (art. 25 Cost.), è valido anche per il giudizio cautelare, così come disciplinato dall’art. 279 c.p.p. secondo cui «sull’applicazione delle misure cautelari provvede l’autorità procedente». Quindi, non esiste nel nostro sistema giuridico un giudice competente in via esclusiva per l’applicazione delle misure cautelari, ma di volta in volta decide il giudice della fase del procedimento penale (Cass. pen., sez. I, 16.1.2009, in CED Cass. 242446).

3. L’incompetenza del giudice

Il comma 2 dell’art. 291 c.p.p. detta una particolare disciplina per le ipotesi in cui il giudice, destinatario della richiesta del p.m., riconosca, per qualsiasi causa, la propria incompetenza. Nella pratica, quando ricorrono le condizioni e sussiste l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p., il giudice, seppur incompetente, ex art. 291, co. 2 è legittimato a disporre la misura. Congiuntamente al provvedimento che dispone la misura, il giudice deve emettere il provvedimento declinatorio di competenza in quanto le misure cautelari disposte cessano di avere effetto se, entro venti giorni dalla trasmissione degli atti, il giudice competente non provveda, a norma dell’art. 27 c.p.p., a confermare la misura con proprio, autonomo, provvedimento. Lo stesso art. 27 del codice di rito fa riferimento al giudice che si dichiara incompetente, postulando l’identità tra l’organo giudiziario da cui promana la dichiarazione di incompetenza per qualsiasi causa, con eventuale cessazione di effetto della misura se il giudice competente non provvede a norma degli artt. 292, 317 e 321 c.p.p., e l’organo giudiziario che ha adottato la misura in questione. Così, il legislatore prevede che l’autorità giudiziaria procedente, pur incompetente, è comunque investita della decisione in merito alla domanda di applicazione del provvedimento cautelare, e quindi possa darne disposizione unitamente alla declaratoria d’incompetenza (solo la formale dichiarazione d’incompetenza da parte del giudice determina l’inefficacia della misura cautelare che non sia stata rinnovata dal giudice competente entro venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti: Cass. pen., S.U., 25.3.2010, n. 12823, in CED Cass., Arch. nuova proc. pen., 2010, 4, 426, Cass. pen., 2010, 9, 3034; Spangher, G., Commento all’art. 291 c.p.p., in Giarda, A.-Spangher, G., a cura di, Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, I, 3081). Prevedendo una sanatoria postuma all’emissione dell’ordinanza dettata da un organo incompetente, il legislatore fa sì che la stessa non perda la sua validità, almeno fino al momento in cui deve passare alla convalida, si realizza così un’ipotesi di equiparazione tra l’ordinanza e la sentenza.

4. L’ordinanza e l’esecuzione della misura cautelare

Il provvedimento con cui il giudice procedente accoglie la richiesta del p.m. è un’ordinanza (art. 292 c.p.p.). Ridefinita nei suoi tratti fondamentali dalla l. 8.8.1995 n.332, la sua struttura deve contenere tutti gli elementi puntualmente forniti dal legislatore, ovvero la descrizione sommaria del fatto con le indicazioni delle norme di legge che si assumono violate, l’elenco degli indizi e delle esigenze cautelari che giustificano la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato. Fondamentale è la motivazione analitica delle ragioni che hanno indotto il legislatore alla scelta di una misura determinata, ovvero in alternativa ad altre unitamente all’esposizione delle ragioni per cui gli elementi pro libertate esistenti agli atti non sono stati ritenuti rilevanti (Cass. pen., 21.5.2008, n. 20318). Mentre, su un piano più generale, nel rapportare le esigenze cautelari idonee alla misura applicata, il giudice deve ottemperare ai criteri di adeguatezza e proporzionalità stabiliti dall’art. 275 c.p.p. L’ordinanza che non corrisponde pienamente al modello legale è viziata da nullità. Gli elementi di segno contrario offerti dalla difesa e i dati di intere risultanze investigative non possono e non devono essere ignorati, così come la strategia difensiva se non adeguatamente accompagnata e supportata da apporti critici, con un’indicazione degli elementi indiziari e con una conclusiva determinazione in cui si da conto della deliberazione assunta. In tema di motivazione, va evidenziato che in caso di applicazione della custodia cautelare in carcere, la motivazione “standard” va rafforzata, sempre a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, con l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. non possono essere soddisfatte con altre misure. Ove l’esigenza cautelare sia quella di cui all’art. 274, lett. a, a garanzia dell’acquisizione e della genuinità della prova, vi è l’obbligo di fissare la durata della misura. A riguardo, sempre la stessa legge introduce un nuovo corredo sanzionatorio ex art. 292, co. 2 c.p.p., precisando che, l’ordinanza che dispone la misura cautelare deve contenere tutti gli elementi descrittivi, tassativamente previsti dalla legge, a pena nullità, deducibile sia dalla parte che d’ufficio; non è così per i requisiti indicati nel comma 2 bis della stessa disposizione. Ancora, la stessa disposizione prevede nel nuovo comma 2 ter un’ulteriore ipotesi di nullità se l’ordinanza è priva della valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato, con la differenza che non è ammessa la rilevabilità d’ufficio. Invero, dal punto di vista applicativo, deve osservarsi come la statuizione de qua subisca il limite riconosciuto al tribunale del riesame di integrare o sostituire la motivazione ai sensi dell’art.309, co. 9 c.p.p. (Cass. pen., sez. III, 22.3.2001, n. 20692, in CED Cass. 219863; Cass. pen., S.U., 22.4.2010, n. 20300). Gli adempimenti esecutivi dell’ordinanza si diversificano in relazione alla tipologia della misura; l’ordinanza con cui viene disposta la custodia cautelare impone alla polizia giudiziaria la consegna di una copia del provvedimento, per rendere edotto il soggetto, sottoposto alla misura, delle norme di legge che si assumono violate e dei motivi del provvedimento. In forza dell’art. 94 disp. att., così come riformato, il detenuto deve avere precisa conoscenza del provvedimento che ne dispone la custodia, se del caso con l’ausilio di un interprete, e ha diritto a consultare la propria cartella personale e di ottenere copia dei provvedimenti giudiziari ivi contenuti, ex art. 23 ord. penit. Diversamente, le ordinanze che dispongono misure diverse da questa appena descritta, devono essere notificate all’imputato; una volta eseguite, le ordinanze o i provvedimenti vanno depositati nella cancelleria del giudice che le ha emesse, dandone avviso al difensore; sono poi trasmesse all’organo che ne cura l’esecuzione che, durante le indagini preliminari, è il p.m. richiedente, ex art. 92 disp. att. Se la persona nei cui confronti è disposta una misura cautelare personale viene raggiunta, il provvedimento trova esecuzione, in caso contrario la polizia giudiziaria incaricata dall’esecuzione redige apposito verbale e lo trasmette al giudice che dovrà scegliere se disporre ulteriori ricerche oppure dichiarare l’irreperibilità o lo stato di latitanza. In tal caso, latitante è colui che volontariamente si sottrae ad una misura cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o ad un ordine con cui si dispone la carcerazione.

5. Nell’ambito degli adempimenti esecutivi: “il problema delle copie”

La Corte Costituzionale (C. cost., 17.6.1997, n. 192) statuisce che il deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve comportare, insieme al diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia (C. cost., 8.6.1994, n. 219; in dottrina, v. Riviezzo, C., Custodia cautelare e diritto di difesa, Milano 1995, 32 ss. e Cristiani, A., Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, 15 ss.). Eseguita la misura, e fissato l’interrogatorio ai sensi dell’art. 294 c.p.p., sorge un problema circa la possibile autorizzazione nei confronti del difensore dell’indagato ad esaminare gli atti e ad estrarne copia.

In merito, è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale inerente l’art. 293, co. 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede il diritto del difensore ad ottenere copia degli atti depositati, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

Inizialmente, non sussisteva un diritto della parte ad ottenere de plano copia degli atti d’indagine, e i diritti della difesa erano adeguatamente tutelati dalla possibilità di esaminare gli atti depositati e di estrarne copia informale, mentre era da escludere il riconoscimento di un diritto in senso tecnico.

Così, il difensore dell’indagato, a buon diritto, si duole di non poter estrarre copia della documentazione su cui il p.m. fonda la sua richiesta; pertanto, si fa riferimento a quanto osservato dalla Corte Costituzionale nella pronunzia in cui sancisce che «quando l’indagato sia già assoggettato ad una misura cautelare... non sussistono valide ragioni per escludere l’esercizio del diritto di difesa» (C. cost., sent. n. 219/1994).

La questione si fa più delicata riguardo al momento in cui il codice di rito, all’art. 268, consente di non depositare, o comunque non mettere a disposizione dell’indagato e del suo difensore, le registrazioni di comunicazioni telefoniche poste a fondamento di una misura cautelare personale già eseguita, anche prima della procedura di deposito regolata dai commi 4 e seguenti della disposizione richiamata. In pratica, il p.m. può respingere l’istanza con cui la difesa richiede l’accesso agli atti, argomentando sul perdurante svolgimento delle indagini preliminari ed assumendo che il diritto difensivo di accesso alle registrazioni può esercitarsi solo dopo il deposito degli atti concernenti le intercettazioni; in tal modo, il provvedimento cautelare viene imperniato su prove inaccessibili per la difesa. Il caso è quello in cui la richiesta di cautela viene valutata, e successivamente accolta, in base a trascrizioni informali, curate dalla polizia giudiziaria; così la stessa difesa resta priva della possibilità di accedere alle registrazioni in quanto le stesse non sono comprese tra gli atti da depositare a norma dell’art. 293 c.p.p., non essendo state trasmesse al giudice. Pertanto, la legge, di fronte all’urgenza tipica dell’incidente cautelare ed alla perdurante segretezza delle indagini, non impone il deposito delle intercettazioni e gli adempimenti conseguenti prima dell’uso delle risultanze a fini cautelari.

In funzione del valore primario delle registrazioni come fonti di prova, le richieste cautelari dovrebbero essere corredate dai relativi supporti magnetici o digitali, almeno nei casi in cui non possa essere tempestivamente osservato il disposto del comma 4 dell’art. 268 c.p.p. In ogni caso, non dovrebbe essere consentito al p.m. di negare l’accesso alle registrazioni dopo l’esecuzione del provvedimento cautelare, mentre l’accesso diretto alle registrazioni può essere ritenuto necessario, dalla difesa dell’indagato, per valutare l’effettivo significato probatorio delle stesse. La qualità delle intercettazioni può non essere perfetta ed imporre una vera e propria attività di interpretazione quale la trascrizione peritale, che costituisce una modalità di valutazione della prova più affidabile rispetto a quella dell’operatore di polizia. È evidente che, in assenza della trascrizione peritale l’interesse difensivo si incentra sull’accesso diretto, tutte le volte in cui la difesa ritiene di dover verificare la genuinità delle trascrizioni operate dalla polizia giudiziaria che sono alla base delle richieste del p.m. al giudice. La possibilità del p.m. di depositare solo i brogliacci, a supporto di una richiesta di custodia cautelare dell’indagato, per quanto giustificata dall’esigenza di procedere alla salvaguardia delle finalità che il codice di rito assegna a tale misura, non può limitare il diritto della difesa ad accedere alla prova diretta, allo scopo di verificare la valenza probatoria degli elementi che hanno indotto il p.m. a richiedere la misura ed il giudice ad emanare un provvedimento restrittivo della libertà personale (C. cost., 10.10.2008, n. 336). L’interesse costituzionalmente protetto dalla difesa è quello di conoscere le registrazioni poste alla base del provvedimento eseguito, allo scopo di esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali. Nel caso in cui tali registrazioni non siano comprese tra gli atti trasmessi con la richiesta cautelare, la legittima pretesa difensiva di accedere alla prova diretta della comunicazione intercettata non è soddisfatta dalla previsione dell’art. 293 c.p.p., ovvero dopo l’esecuzione del provvedimento restrittivo. Pertanto, l’interesse in questione può essere assicurato con la previsione del diritto dei difensori di accedere alle registrazioni in possesso del p.m. Ciò deve concretarsi nella possibilità di ottenere una copia della traccia telefonica, secondo il principio già espresso dalla sentenza Corte cost., n. 192/1997, a proposito degli atti depositati nella cancelleria del giudice dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza cautelare.

Il problema viene risolto con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere, su istanza, la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate (ciò è disposto sempre con la sentenza della C. cost., 10.10.2008, n. 336).

In seguito, l’orientamento giurisprudenziale si è attestato sulla considerazione che la ratio della scelta dell’istituto del deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve, di regola, comportare necessariamente, insieme al diritto di penderne visione, la facoltà di estrarne copia, considerando che al contenuto minimo del diritto di difesa, ravvisabile mediante la conoscenza degli atti depositati mediante la loro visione, deve accompagnarsi autonomamente, salvo che la legge disponga diversamente, la facoltà di estrarne copia, al fine di agevolare le ovvie esigenze del difensore di disporre direttamente e materialmente degli atti per preparare la difesa e utilizzarli nella redazione delle richieste (Cass. pen., 21.10.2011, n. 46478; nell’alveo di tali pronunce si è inserita la giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., S.U., 22.4.2010, n. 20300, in senso conforme, anche Cass. pen., sez. IV, 23.11.2010, n. 8302).

6. L’interrogatorio di garanzia nell’ottica del rapporto tra misure cautelari e diritto di difesa

6.1 Premessa

Come anticipato, la mancanza di una forma di contraddittorio all’atto dell’adozione della misura è recuperato attraverso il cd. interrogatorio di garanzia. L’atto attraverso il contatto diretto tra il giudice e il destinatario del provvedimento restrittivo della libertà personale è funzionale «all’acquisizione degli elementi necessari per un’immediata verifica della sussistenza dei presupposti della misura cautelare disposta» (cfr. la Relazione del progetto preliminare del Codice di procedura penale, in G.U. 24.10.1988, n. 250, suppl. ordinario n. 2, 75). Trattasi di una vera e propria garanzia che si attiva indipendentemente dalla volontà dell’imputato; a questa si affianca l’esigenza di raccogliere il contributo conoscitivo dell’accusato al fine di operare la ricostruzione del fatto in giudizio. L’evoluzione, profondamente strutturale, che ha subito l’interrogatorio di garanzia parte da una visione di stampo inquisitorio in cui l’imputato è «il depositario di una verità da spremere» (Cordero, F., Procedura penale, Milano, 1987, 19), per approdare al concetto di colpevolezza che deve essere dimostrata «al di là di ogni ragionevole dubbio» sulla base degli elementi addotti sino a quel momento. L’innovazione concettuale di questo istituto comincia dalla figura del soggetto nei cui confronti si procede, la «bestia da confessione» (Cordero, F., Procedura penale, Milano, 19) «progredisce» sino a divenire un soggetto titolare di precisi diritti e garanzie, tra cui la facoltà di non collaborare in alcun modo alla propria condanna (Mazza, O., Interrogatorio dell’imputato, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 714). Un secondo elemento innovativo è individuabile nell’autorità competente ad eseguire l’interrogatorio ovvero il giudice, ex art. 294 c.p.p. La scelta è stata quella di attribuire un carattere pienamente giurisdizionale allo stesso istituto, nell’intento di evitare che un ruolo analogo, in chiave di tutela della libertà personale dell’imputato, potesse essere ricoperto da un magistrato chiamato a sostenere la funzione di accusa nel medesimo procedimento (Giuliani, L., Interrogatorio di garanzia, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, III, 760). In questo senso, anche sotto il profilo della giurisprudenza europea, il concetto possiede una sostanziosa portata innovativa; infatti, non si limita a stabilire un contatto con un giudice qualunque, bensì con il giudice che ha deciso in ordine all’applicazione della misura cautelare; diversamente recita l’art. 5, par. 3, CEDU che parla solo di «un giudice».

Occorre evidenziare che i due aspetti di portata garantista riguardano il potere-dovere del giudice di effettuare un primo controllo circa le condizioni di applicabilità della misura, e la summa divisio tra interrogatorio del giudice e interrogatorio del p.m.

Un profilo dissonante si delineava lì dove una prassi consolidata sanciva che l’interrogatorio investigativo precedesse quello giurisdizionale, tanto da far risultare inevitabile che, al successivo interrogatorio d’avanti al giudice, l’indagato si limitasse a confermare quanto già dichiarato in precedenza, senza che l’organo giurisdizionale potesse svolgere alcuna funzione di garanzia (Ruggeri, S., Il procedimento applicativo, in Amodio, E., a cura di, Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, Milano, 1996, 47). Tutto ciò, oltre a mal calibrare i rapporti tra accusa e difesa, faceva sì che l’interrogatorio del giudice non fosse altro che «un inutile doppione di quello appena svolto dal p.m.» (Kostoris, R.E., Commento sub art. 11, l. 8 agosto 1995, n. 332 in Giostra, G., a cura di, Modifiche al codice di procedura penale, op. cit., 151); in questo contesto si collocava la necessità di «togliere alla controparte pubblica del custodito il primo contatto con costui, per riservarlo ad un organo terzo» (Chiavario, M., Appunti sul processo penale, Torino, 2000, 400).

Pertanto, si è giunti a ritenere che «l’interrogatorio, come atto dell’investigatore, è in realtà un atto mediante il quale quest’ultimo interferisce nell’autonomia difensiva dell’indagato» (Dominioni, O., Le indagini preliminari, in Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 23 ss.).

Al fine di evitare un potenziale rischio di interferire sulla libertà morale di una persona si rinvia alla ratio sottesa all’art. 294, co. 6 c.p.p., per cui l’interrogatorio investigativo del p.m. deve seguire quello del giudice per ovvie ragioni di trasparenza che inducono a ritenere che «il primo manifestarsi di comportamenti processualmente rilevanti debba avvenire dinanzi ad un giudice terzo» (Parere del Consiglio Superiore della Magistratura, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, 452); nell’ottica di rafforzamento della finalità garantista dell’interrogatorio, la legge assegna definitivamente la prevalenza temporale all’intervento del giudice rispetto a quello dell’accusa (Marandola, A., L’interrogatorio di garanzia: dal contraddittorio posticipato all’anticipazione delle tutele difensive, Padova, 2006, 199).

6.2 Il diritto di autodeterminarsi e l’avvertimento della facoltà di non rispondere

Altra problematica riguarda la garanzia delle esigenze difensive rispetto all’invito a presentarsi e all’accompagnamento coatto. Tra le regole generali per lo svolgimento dell’interrogatorio, il legislatore ha previsto il potere del p.m. di convocare il soggetto interessato e la facoltà di ottenerne coattivamente la presenza in caso di mancata comparizione. Si ammette così «una forma di coazione e di intimidazione fisica e psicologica in funzione dell’interrogatorio» (Nobili, M., La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 55 ss.) .

Emerge a questo punto l’insanabile contraddizione tra l’aver conferito al p.m. il potere di disporre l’accompagnamento coattivo dell’indagato per procedere all’interrogatorio e il riconoscimento, in capo a quest’ultimo, della facoltà di non rispondere. Il p.m. deve comunicare, in anticipo rispetto all’espletamento dell’interrogatorio, una descrizione del fatto oggetto di addebito che, sia pure in maniera sommaria, consenta alla difesa di approntare una propria strategia difensiva. Si riconosce all’indagato il diritto di svolgere investigazioni difensive volte alla ricerca di prove della propria innocenza al di fuori dell’ambito processuale (Ubertis, G., Comunicazione giudiziaria ed attività istruttoria, in Riv. pen., 1974, 459) in modo da favorire l’autodifesa da esercitarsi nel corso dell’interrogatorio. Tuttavia, il tempo necessario per impiantare un’adeguata difesa potrebbe non essere sufficiente alla luce del fatto che non vi è un’adeguata garanzia che il termine a comparire sia congruo rispetto alle esigenze difensive. La notifica dell’invito a presentarsi deve infatti avvenire «almeno tre giorni prima di quello fissato per la comparizione, salvo che, per ragioni di urgenza, il p.m. ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire» ex art. 375, co. 4 c.p.p. Quindi, qualora venga concesso solo il termine minimo di tre giorni, o ancora ne fosse disposta l’abbreviazione ad horas, il tempo a disposizione dell’indagato potrebbe in concreto essere totalmente insufficiente per lo svolgimento delle investigazioni di parte (Mazza, O., Interrogatorio dell’imputato, cit., 719).

Il primo diritto fondamentale riconosciuto alla persona sottoposta a procedimento penale è quello di autodeterminarsi liberamente nell’esercizio della difesa, o anche diritto alla libertà morale (Flick, G.M., Libertà individuale, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1975, 545). Nel disporre le regole generali per lo svolgimento dell’interrogatorio, artt. 64 e 65 c.p.p., il legislatore scandisce il diritto dell’indagato ad intervenire libero, questo nella piena asserzione del diritto di autodeterminarsi nelle proprie scelte difensive, senza subire alcuna forma di coazione; il rinvio è al disposto dell’art. 2 Cost., in quanto «la tutela della libertà morale della persona nell’assunzione della prova ne rappresenta una diretta applicazione» (C. cost., 19.6.1998, n. 229, in Giur. cost., 1998, 1790). Così, i diritti di autodeterminazione e alla libertà morale si connotano per lo stretto collegamento con il diritto di difesa, del quale ne rappresentano una indispensabile pre-condizione: nessuna forma di difesa sarebbe tale se non fosse frutto di una scelta libera e consapevole (Montalbano, G., La confessione nel diritto vigente, Napoli, 1958, 121).

La libertà di autodeterminazione trova tutela in tutte quelle disposizioni che vietano ogni forma di tortura o di violenza (Chiavario, M., La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, 65 ss.). Questo principio è ormai garantito sia a livello europeo (art. 3 CEDU), che a livello internazionale (Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, ovvero la Convenzione internazionale contro la tortura e gli altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti). La stessa libertà è ulteriormente protetta dalla disposizione dell’art. 64, co. 2 c.p.p. che scandisce un forte e preciso divieto all’utilizzo di metodi influenti sul diritto di autodeterminazione, in grado di alterare la capacità di ricordare i fatti; divieto esteso poi ad ogni tipo di attività probatoria dall’art. 188 c.p.p.

In considerazione della portata dalla garanzia della libertà morale dell’interrogato, può ritenersi raggiunto il fine precipuo della disciplina in analisi. Più specificamente si è affermato il riconoscimento alla persona interrogata di avvalersi del diritto di autodifesa considerato «una incoercibile manifestazione dell’istinto di libertà per cui si è ritenuto iniquo e inumano assoggettarla a vincoli giuridico-morali, in forza del principio del nemo tenetur se detegere» (Chiavario, M., La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, cit., 65 e ss..)

Un breve cenno merita il dibattito attinente l’autodifesa passiva che può articolarsi secondo la facoltà di non autoincriminarsi o quella di rimanere in silenzio o ancora, di rifiutare totalmente il dialogo; in questo contesto si inserisce la controversa disciplina dell’avvertimento della facoltà di non rispondere, ovvero quell’avvertimento rivolto all’indagato che le dichiarazioni da lui stesso rese potrebbero essere utilizzate nei suoi confronti e che ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda.

Questo indirizzo subisce un netto cambio di rotta con la l. 1.3.2001, n. 63 che, in tema di attuazione dei principi del giusto processo, riordina l’omesso avvertimento in chiave di nullità intermedia stabilendo espressamente che l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 64, co. 3 lett, a e b c.p.p., rende inutilizzabile le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. Nell’ambito del riconoscimento della nullità è utile far riferimento ad un altro ostacolo al diritto di difendersi derivante dall’eventuale mancanza o dall’insufficienza dell’enunciazione del fatto contenuta nell’invito a presentarsi; in tal caso la problematica è superata poiché l’atto di convocazione è dichiarato affetto da nullità intermedia, stessa invalidità che investe l’interrogatorio conseguente, dato che in tal modo il soggetto sarebbe illegittimamente privato della possibilità di prepararsi ad affrontare il dialogo con il p.m.

6.3 La difesa tecnica

Come si è osservato sin ora, il processo evolutivo della disciplina dell’interrogatorio di garanzia, atto a cementare le prospettive di difesa dell’imputato, opera in vari contesti della disciplina, non da ultimo quello riguardante la difesa tecnica: «il difensore ha ora l’obbligo di intervenire» (Marzaduri, E., Giusto processo e misura cautelari, in Kostoris, R.E., a cura di, Il giusto processo, Torino, 2002, 259 ss.), la ratio sottesa a questa sorta di innovazione è riferita al significato garantistico dell’interrogatorio, come strumento di tutela della libertà personale (Giuliani, L., Interrogatorio di garanzia, cit., 793). Quindi, ai fini del compimento dell’atto, la presenza del difensore di fiducia è necessaria, con la conseguenza che l’eventuale violazione di tale precetto determina la nullità assoluta dell’interrogatorio, oltre che l’inutilizzabilità dei risultati probatori dell’atto medesimo. Pertanto, la mancanza di un difensore di fiducia è sopperita dalla nomina di un difensore d’ufficio, ex art. 97, co. 4 c.p.p.. La presenza necessaria del difensore ex art. 294, co. 4 c.p.p. è una imponente garanzia e funge da efficace deterrente contro l’impiego di metodi scorretti da parte dell’autorità procedente o contro possibili errori nella verbalizzazione (Grevi, V., Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, 123).

La difesa tecnica è un diritto costituzionalmente garantito, ex art. 24 Cost., dunque, mentre il diritto alla difesa personale prevede anche la sua manifestazione negativa, ovvero l’omissione di qualsiasi iniziativa difensiva, il diritto alla difesa tecnica non comprende l’espressione negativa consistente nella mancata nomina ed anzi nel rifiuto di un difensore. Nessuna disposizione costituzionale, come quella dell’art. 24, garantisce all’imputato, il quale voglia difendersi da solo o non difendersi affatto, il diritto di escludere dal processo il difensore che, a norma di legge gli venga nominato d’ufficio quando egli non ne designa uno di fiducia (Scaparone, M., Il diritto di difesa dell’imputato nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Atti del Convegno di Cagliari, 29 settembre - 1° ottobre 1995, Milano, 1997, 25). L’art. 104 c.p.p. ha fissato la regola generale secondo cui il rapporto con il difensore rappresenta un diritto dell’imputato detenuto ed una particolare estrinsecazione del diritto di difesa che è immediatamente esercitabile sin dal momento del fermo o dell’arresto, ovvero fin dall’inizio dell’esecuzione della misura della custodia cautelare. Il diritto in questione è operativo a partire da quando inizia la privazione della libertà personale di un soggetto. A riguardo si deve registrare un meccanismo assolutamente automatico, con assenza di ostacoli o intralci di sorta per il difensore nei confronti del quale l’accesso ai luoghi di custodia si configura, a sua volta, come un vero e proprio diritto (Cristiani, A., Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, cit., 15). L’incipit del disposto dell’art. 104 c.p.p. scandisce questo come vero e proprio diritto dell’imputato sottoposto a custodia, nella seconda parte invece lo comprime con la previsione che il giudice, nel corso delle indagini preliminari, su richiesta del p.m. e con decreto motivato, possa dilazionare, per massimo cinque giorni, l’esercizio del diritto di conferire con il difensore. Questa previsione è prevalentemente indirizzata a concordare le relative strategie in sede di interrogatorio, in quanto, avendo l’interrogatorio carattere assoluto, non è consentito imprimerlo. La previsione vale nel caso in cui sussistano «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», da molti definita una misura «rinnegante» il principio generale e, perciò, da ritenersi applicabile nei limiti di stretta necessità, (Nobili, M., Commento all’art. 104 c.p.p., in Giarda, A.,-Spangher, G., a cura di, Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, I, 1091) le ragioni infatti, devono essere specifiche, ovvero concernenti solo le esigenze da tutelare per il caso concreto, ed eccezionali, il che induce a ritenere insufficiente la loro identificazione con i presupposti che giustificano la misura cautelare. Il provvedimento che differisce il colloquio non è impugnabile; tuttavia, la conformità del decreto allo schema normativo prefissato per l’esercizio del potere è oggetto di successivo controllo, determinando una nullità quando la violazione investe gli interessi tutelati dall’art. 178, lett. c, c.p.p. (Colamussi M., In tema di deducibilità della nullità derivante dalla violazione del diritto dell’imputato in stato di custodia cautelare di conferire con il proprio, in Cass. pen., 1995, 2198).

Fonti normative

Artt. 2, 3, 24 Cost.; artt. 27, 64, 65, 97, 178, 179, 188, 274, 275, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 299, 307, 309, 317, 321 e 375 c.p.p.; art. 23 ord. penit.; art. 91, 92, 94 disp. att. c.p.p.; art. 5, par. 3 CEDU; l. 8.8.1995, n. 332, l., 1.3.2001, n. 63; art. 3 CEDU; Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Convenzione internazionale contro la tortura e gli altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti).

Bibliografia essenziale

Chiavario, M., Appunti sul processo penale, Torino, 2000, 400; Chiavario, M., La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, 65 ss.; Colamussi, M., In tema di deducibilità della nullità derivante dalla violazione del diritto dell’imputato in stato di custodia cautelare di conferire con il proprio, in Cass. pen., 1995, 2198; Cordero, F., Procedura penale, Milano, 1987, 19; Cristiani, A., Misure cautelari e diritto di difesa, Torino, 1995, 15 e ss.; Dominioni, O., Le indagini preliminari, in Lezioni sul nuovo processo penale, Milano, 1990, 23 s.; Flick, G.M., Libertà individuale, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1975, 545; Garofoli, V., Gli avvertimenti processuali come strumento di tutela, Milano, 1983, 72; Giuliani, L., Interrogatorio di garanzia, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 760; Grevi, V., Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972, 123; Kostoris, R.E., Commento sub art. 11, l. 8 agosto 1995, n. 332, in Giostra, G., a cura di, Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, 146 ss.; Marandola, A., L’interrogatorio di garanzia: dal contraddittorio posticipato all’anticipazione delle tutele difensive, Padova, 2006, 199; Marzaduri, E., Giusto processo e misura cautelari, in Kostoris, R.E., a cura di, Il giusto processo, Torino, 2002, 259 s.; Mazza O., Interrogatorio dell’imputato, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2011, 714; Montalbano, G., La confessione nel diritto vigente, Napoli, 1958, 121; Nobili, M., La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, 55 s.; Nobili, M., Commento all’art. 104 c.p.p., in Giarda, A.-Spangher, G., a cura di, Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, I, 1091; Riviezzo, C., Custodia cautelare e diritto di difesa, Milano 1995, 32 ss.; Ruggeri, S., Il procedimento applicativo, in Amodio, E. (a cura di), Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, Milano, 1996, 47; Scaparone, M., Il diritto di difesa dell’imputato nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Atti del Convegno di Cagliari, 29 settembre - 1° ottobre 1995, Milano, 1997, 25; Spangher, G., Commento all’art. 291 c.p.p., in Giarda, A .-Spangher, G., a cura di, Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, I, 3081; Kostoris, R.E., Commento sub art. 11 l. 8 agosto 1995, n. 332, in Giostra, G., a cura di, Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, 146 ss.; Ubertis, G., Comunicazione giudiziaria ed attività istruttoria, in Riv. pen., 1974, 459; Parere del Consiglio Superiore della Magistratura, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, 452; Relazione del progetto preliminare del Codice di procedura penale, in G.U. 24.10.1988, n. 250, suppl. ordinario n. 2, 75.

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