Mito

Enciclopedia del Novecento (1979)

Mito

JJean-Pierre Vernant

di Jean-Pierre Vernant

Mito

sommario: 1. Introduzione. 2. Μῦϑος e λόγος. a) Parola e scrittura. b) Dal mito alla storia e alla filosofia. c) Forme e livelli del mito. d) Miti e mitologia. e) Il mito tra il non senso e l'allegoria. f) Mitologia greca e pensiero occidentale. 3. Abbozzi di una scienza dei miti. a) Mito e linguaggio: la scuola di mitologia comparata. b) Mito ed evoluzione sociale: la scuola antropologica inglese. c) Mito e storia letteraria: la filologia storica. d) L'orizzonte intellettuale delle ricerche sul mito. 4. Il mito oggi. a) Simbolismo e funzionalismo. b) Nuovo approccio: da Mauss a Dumézil. c) Lo strutturalismo di Lévi-Strauss. d) Interpretazioni e problemi del mito. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Per la sua origine e la sua storia la nozione di mito, che abbiamo ereditato dai Greci, appartiene a una tradizione di pensiero peculiare dell'Occidente, nella quale il mitico è definito attraverso ciò da cui si differenzia: in un doppio rapporto di opposizione con il reale da una parte (il mito è finzione) e col razionale dall'altra (il mito è assurdo). Appunto in questa linea di pensiero, nel quadro di questa tradizione bisogna collocare, per poterlo comprendere, lo sviluppo degli studi moderni sul mito. Ricercando procedimenti interpretativi e tecniche di decifrazione capaci di conferire un senso a ciò che poteva sembrare a prima vista un guazzabuglio di favole strampalate, siamo stati condotti a mettere in questione le antiche concezioni e a interrogarci sulla vera natura di ciò che veniva designato col nome di mito. Qual è lo status sociale e intellettuale di questo genere di racconto? In che misura costituisce un modo specifico di espressione, avente una lingua, un pensiero e una logica particolari? Come collocare il mito nell'insieme della vita collettiva di una società e differenziarlo dalle credenze e dai riti religiosi, da tutti i fatti della tradizione orale: fiabe, proverbi, folclore, finzioni propriamente letterarie? E ponendoci in una prospettiva antropologica, quale posto gli assegneremo nell'individuo e nel gruppo, quale dimensione umana gli riconosceremo?

2. Mῦθος e λόγος

In greco μῦϑος designa un'espressione verbale formulata, si tratti di un racconto, di un dialogo o dell'enunciazione di un progetto. Μῦθος appartiene quindi allo stesso ordine di λέγειν, come indicano i composti μυθολογεῖν, μυθολογία, e inizialmente non è in contrasto con i λόγοι, termine i cui valori semantici sono vicini, riferendosi alle diverse forme di ciò che viene detto. Anche quando le parole posseggono una forte carica religiosa, che trasmettono a un gruppo di iniziati sotto forma di racconti riguardanti gli dei o gli eroi (un sapere segreto proibito al volgo), i μῦθοι possono altrettanto bene essere qualificati come ἱεροί λόγοι, discorsi sacri. Perché la sfera del mito si delimitasse rispetto ad altre, perché, attraverso l'opposizione di μῦθος e λόγος, ormai separati e posti l'uno di fronte all'altro, si delineasse la figura del mito peculiare dell'antichità classica, c'è stato bisogno di tutta una serie di condizioni il cui giuoco, tra l'VIII e il IV secolo prima dell'era volgare, ha prodotto all'interno dell'universo mentale dei Greci una molteplicità di distanze, di fratture, di tensioni interne.

a) Parola e scrittura

Un primo elemento da tener presente, in questa prospettiva, è il passaggio dalla tradizione orale a diversi tipi di letteratura scritta. Questa trasformazione ha avuto sullo status del mito in Grecia ripercussioni così forti che parecchi mitologi contemporanei si pongono il problema di sapere se gli stessi metodi interpretativi possano essere validi sia nel caso di un corpus di racconti orali, come quelli su cui lavorano gli etnologi, sia nel caso dei testi scritti, di cui si occupano i grecisti: e ci si è persino chiesti se si abbia il diritto di annoverare i due ordini di documenti in una sola categoria.

La scrittura non si è imposta nei differenti campi della creazione letteraria in Grecia con lo stesso ritmo e secondo le stesse vie di sviluppo. Non si tratta per noi di fissare le tappe di un progresso il cui corso non fu né lineare né univoco. Vorremmo soltanto isolare gli aspetti che, nell'emergere della letteratura scritta, interessano più direttamente il mito, la sua elaborazione, la sua trasmissione, il suo posto nella cultura antica.

Anzitutto, qualche osservazione generale. La redazione scritta, com'è noto, obbedisce a regole più variate e duttili che la composizione orale, di tipo formulare. La scrittura in prosa segna un ulteriore gradino. Come ha ben visto A. Parry (v., 1970), nei primi grandi prosatori greci esiste una stretta correlazione tra l'elaborazione di un linguaggio astratto e la piena padronanza del proprio stile. Rispetto alla tradizione orale e alla creazione poetica, la redazione in prosa - trattati di medicina, racconti storici, arringhe di oratori, dissertazioni filosofiche - rappresenta non soltanto un nuovo modo espressivo, ma una forma nuova di pensiero. L'organizzazione del discorso scritto va di pari passo con un'analisi più serrata, un ordinamento più rigoroso della materia concettuale. Già in un oratore come Gorgia o in uno storico come Tucidide, il gioco bilanciato delle antitesi nell'equilibrio retorico del discorso scritto, col suo suddividere, distribuire, porre in opposizione termine contro termine gli elementi fondamentali della situazione da descrivere, funziona come un vero strumento logico, capace di conferire all'intelligenza verbale una presa sul reale. L'elaborazione del linguaggio filosofico va oltre, sia per il livello di astrazione dei concetti e per l'uso di un vocabolario ontologico (si pensi alla nozione dell'essere in quanto essere o a quella dell'Uno), che per l'esigenza di un nuovo tipo di rigore nel ragionamento: alle tecniche di persuasione dell'argomentazione retorica la filosofia oppone i procedimenti dimostrativi di un discorso il cui modello è fornito dalle deduzioni dei matematici, operanti su numeri e figure. E. Benveniste ha certamente ragione quando osserva che Aristotele, cercando di definire lo status logico di tutti i possibili predicati dell'essere, non fa nient'altro che ritrovare le categorie fondamentali della lingua in cui pensa (v. Benveniste, 1958). Le categorie che il filosofo isola, e di cui stabilisce la validità nell'ordine del pensiero, si rivelano come la trasposizione, sul piano noetico, delle categorie linguistiche del greco. Bisognerebbe forse aggiungere che un siffatto tipo di riflessione, nel quale le strutture della lingua servono da base a una definizione delle modalità dell'essere e a una esplicitazione dei rapporti logici, è stato reso possibile soltanto dallo sviluppo delle forme di lingua scritta che la Grecia aveva conosciute. La logica di Aristotele è certo legata alla lingua in cui il filosofo pensa; ma il filosofo pensa in una lingua che è quella dello scritto filosofico. Nella letteratura scritta, e a cagion d'essa, s'instaura quel tipo di discorso in cui il λόγος non è più semplicemente l'espressione verbale, ma ha assunto il valore di razionalità dimostrativa, e su questo piano si oppone, per la forma come per la sostanza, all'espressione verbale del μῦϑος.

Riguardo alla forma, il λόγος si oppone al μῦθος per lo scarto tra la dimostrazione argomentata e la trama narrativa del racconto mitico; e, riguardo alla sostanza, per la distanza esistente tra le entità astratte del filosofo e le potenze divine di cui il mito narra le avventure drammatiche.

Le differenze non sono minori se, rovesciando i punti di vista, ci poniamo non più nella prospettiva di colui che redige uno scritto, ma in quella del pubblico che ne viene a conoscenza. Per le possibilità che offre di ritornare al testo per una sua analisi critica, la lettura presuppone un atteggiamento mentale diverso, più distaccato e a un tempo più esigente di quello che caratterizza l'ascolto di discorsi pronunciati. Gli stessi Greci ne erano pienamente coscienti: alla seduzione che la parola deve suscitare per tenere l'uditorio sotto l'incantesimo, essi hanno opposto, per lo più dandole la preferenza, la serietà un po' austera ma più rigorosa della lingua scritta. Da un lato hanno collocato il piacere inerente alla parola: essendo incluso nel messaggio orale, tale piacere nasce e muore col discorso che l'ha suscitato; dall'altro, dal lato della lingua scritta, hanno collocato l'utile, che è l'obiettivo di un testo che è possibile tenere sotto gli occhi e che serba in sé un insegnamento di valore durevole. Questa divergenza funzionale tra lingua parlata e lingua scritta interessa direttamente lo status del mito. Se l'espressione orale è orientata verso il piacere, ciò accade perché opera sull'ascoltatore come un incantesimo. Accompagnata dalla forma metrica, dal ritmo, dalle consonanze, dalla musicalità, dai gesti e talora dalla danza, la narrazione orale suscita nel pubblico un processo di comunione affettiva con le azioni drammatiche che formano la materia del racconto. Questa magia della parola, che Gorgia celebrò e che conferisce ai vari generi di declamazione - poesia, tragedia, retorica, sofistica - uno stesso tipo di efficacia, costituisce per i Greci una delle dimensioni in virtù delle quali il μῦθος si oppone al λόγος. Rinunciando volontariamente al drammatico e al meraviglioso, il λόγος esercita la propria azione sullo spirito a un livello diverso da quello dell'operazione mimetica (μίμησις) e della partecipazione emotiva (συμπάθεια). Il λόγος si propone di stabilire la verità dopo indagini scrupolose e quindi di enunciarla adoperando un modo di esposizione che, almeno in linea di diritto, faccia appello soltanto all'intelligenza critica del lettore. Soltanto quando ha rivestito forma scritta il discorso, spogliato a un tempo del suo mistero e della sua forza di suggestione, perde il potere di imporsi agli altri con la coercizione, illusoria ma irreprimibile, della μίμησις.

Per questa via lo status del discorso muta; diventa ‛cosa comune' nell'accezione che i Greci davano a questo termine nel loro vocabolario politico: non è più il privilegio esclusivo di chi possiede il dono della parola; appartiene nella stessa misura a tutti i membri della comunità. Scrivere un testo significa deporne il messaggio ἐς μέσον, al centro della comunità, metterlo apertamente a disposizione del gruppo. In quanto scritto, il λόγος è portato in mezzo al pubblico; allo stesso titolo dei magistrati che cessano dal loro incarico, deve rendere conto dinanzi a tutti, deve rispondere alle obiezioni e alle contestazioni che ognuno ha il diritto di muovergli. Si può dire allora che le regole del giuoco politico, così come funzionano in una città democratica retta dall'ἰσηγορία (il diritto di parola eguale per tutti), sono diventate anche le regole del giuoco intellettuale. Nella propria organizzazione interna, il discorso scritto si conforma a una logica che ormai implica una forma di dibattito in cui tutti, con la discussione e l'argomentazione contraddittoria, lottano ad armi pari. Non si tratta più di vincere l'avversario stregandolo o affascinandolo con la superiore potenza del proprio eloquio; si tratta di convincerlo della verità, conducendo a poco a poco il suo discorso interiore, che segue la propria logica e i propri criteri, a coincidere con l'ordine delle ragioni espresse nel testo che gli viene sottoposto.

Da questo punto di vista, ciò che dava alla parola la sua forza d'urto, la sua efficacia sugli altri si trova ormai abbassato al rango del μῦθος, del favoloso, del meraviglioso, come se il discorso potesse guadagnare nell'ordine del vero e dell'intelligibile soltanto perdendo nell'ordine del piacevole, del commovente e del drammatico.

b) Dal mito alla storia e alla filosofia

Di questo mutamento testimonia già il discorso storico di Tucidide, il quale prende le distanze rispetto a un passato troppo remoto perché si possa raggiungerlo in maniera diversa dalla forma mitica in cui la tradizione lo ha fissato e si limita, al di fuori dei paragrafi consacrati all'‛archeologia', ai fatti della storia recente, abbastanza vicini perché sia possibile esserne stati personalmente spettatori o indagare su ciascuno di essi con tutta l'esattezza necessaria. Preoccupazione della verità nello stabilire i fatti, esigenza di chiarezza nella narrazione dei mutamenti che si verificano nel corso della vita delle città (guerre e rivoluzioni politiche), conoscenza della ‛natura umana' abbastanza precisa per rintracciare, nella trama degli eventi, l'ordine che consenta all'intelligenza di far presa su di essi: tutti questi tratti sono associati in colui che, malgrado Erodoto, si è tentati di chiamare il primo vero storico greco, a un rifiuto altero del meraviglioso, τό μυθῶδες, considerato come un ornamento adatto al discorso orale e al suo carattere circostanziale, ma fuor di posto in un testo scritto, il cui apporto deve costituire un acquisto permanente. ‟Forse la mia storia - afferma Tucidide - spoglia dell'elemento fantastico accarezzera meno l'orecchio; ma basterà che la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo e acquistare ancora preveggenza per il futuro, che potrà quando che sia ripetersi, per la legge naturale degli uomini, sotto identico o simile aspetto. Sicché quest'opera è stata composta perché avesse valore eterno (κτῆμα ἐς αἰεί), più che per l'ambizione dell'applauso dei contemporanei nelle pubbliche recite" (I, 22). La critica che, tre secoli dopo, Polibio dirige contro Filarco, accusato di voler suscitare la pietà e la commozione del lettore dispiegandogli sotto gli occhi scene di terrore (τά δεινά), costituisce il miglior commento al testo di Tucidide: ‟Lo storico non deve utilizzare la storia per suscitare l'emozione dei lettori raccontando portenti, [...] ma menzionare alla luce della rigida verità i fatti e le parole, anche se siano completamente comuni". Lo scopo che la storia si propone, infatti, non consiste nello ‟sbalordire e allettare momentaneamente gli ascoltatori" ma ‟nell'insegnare e convincere per sempre gli studiosi, con le azioni e le parole che corrispondono a verità" (Polibio, II, 56, 7-12).

È significativo che la stessa opposizione tra il μυθῶδες - il meraviglioso proprio dell'espressione orale e dei generi poetici - da un lato (Platone, Repubblica, 522 a 8; Timeo, 26 e 5) e l'ἀληθινός λόγος - il discorso veridico - dall'altro si ritrovi nei filosofi, suscitando un atteggiamento mentale analogo riguardo al mito che, nella sua forma narrativa, viene assimilato alle favole delle vecchiette (μῦθος γραός; Gorgia, 527 a 4), simile a quelle che le nutrici raccontano per distrarre o spaventare i bambini. Quando Platone, nel Sofista, vuole squalificare le tesi dei suoi predecessori eleati o eraclitei, rimprovera loro d'aver adoperato, a guisa di dimostrazione, il racconto di avvenimenti drammatici, di peripezie e di sconvolgimenti imprevisti: ‟Ciascuno di questi mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini; uno dice che l'essere in quanto tale è tre cose e talvolta alcune di queste combattono fra loro in qualche modo, talaltra divengono amiche e fanno nozze, generano figli e altro che sia ai figli nutrimento" (242 c-d). Discordie, battaglie, riconciliazioni, matrimoni, procreazioni: tutta questa messa in scena della narrazione mitica potrà certamente sedurre degli spiriti infantili; ma a chi cerca di comprendere, nel senso proprio del termine, non apporterà nulla, poiché l'intelletto si riferisce a una forma di intelligibilità che il mito non comporta e che soltanto il discorso esplicativo possiede. Se si raccontano a proposito dell'essere disavventure analoghe a quelle che la leggenda attribuisce agli dei o agli eroi, nessuno in tali racconti potrà distinguere l'autentico dal favoloso. I narratori, nota ironicamente Platone, non si sono curati di ‟abbassare lo sguardo" sulla folla di coloro che, al pari di lui, per distinguere il vero dal falso esigono un discorso che sia in ogni momento capace di dare spiegazioni a chi ne chieda o, ciò che è lo stesso, capace di dar ragione di se medesimo, facendo intendere chiaramente di che cosa parli, in che modo ne parli e che cosa ne dica.

Su questo punto Aristotele segue da presso Platone. Chiedendosi nella Metafisica se i principi degli esseri corruttibili e quelli degli esseri incorruttibili siano o no i medesimi, egli evoca la tradizione di Esiodo e di coloro ch'egli chiama ‟teologi" - cioè gli autori di miti riguardanti gli dei - per sottolineare il sussistere, tra questi e se stesso, di una distanza che, prima ancora che temporale, è d'ordine intellettuale: ‟Quei del tempo di Esiodo, e tutti quanti teologizzarono, pensarono soltanto a dir cose conformi alle loro credenze, e delle difficoltà che travagliano noi non si curarono. Essi dei principi facevano Dei e dagli Dei facevano venir tutto, e dicevano che gli esseri i quali non hanno gustato il nettare e l'ambrosia nascono mortali. Certamente, parlavano così sapendo, essi, quel che dicevano, ma le ragioni che apportano sorpassano la nostra intelligenza". Questa finta modestia oppone in realtà al mito una condanna senz'appello: ‟Ma non vale la pena di fermarsi a indagare intorno a queste escogitazioni mitologiche. Bisogna apprendere da quelli che parlano dimostrando [...]" (Metafisica, II, 1000 a 11-20). In realtà, le difficoltà sollevate da Aristotele per liquidare ciò che i miti raccontano circa il nutrimento che dà l'immortalità non hanno, nella troppo logica forma di dilemma in cui le esprime, alcun senso ove ci si collochi nella prospettiva di racconti che non si pongono questo tipo di questioni e non formulano i loro problemi in questi termini. Aristotele legge il mito come se si trattasse di un testo filosofico. Delle due l'una, egli argomenta: o gli Dei prendono questo nutrimento per un semplice piacere, e allora esso non costituisce la causa della loro essenza immortale ; ovvero il nutrimento è veramente causa del loro essere, e allora come potrebbero gli dei essere eterni, se hanno bisogno di nutrimento? Per lo storico delle religioni, è il carattere fuor di posto, per non dire aberrante (in rapporto al mito), delle osservazioni di Aristotele che le rende interessanti. Tra μῦθος e λόγος lo scarto è ormai tale che la comunicazione è interrotta; il dialogo è impossibile, la frattura consumata. Anche quando sembrano avere di mira lo stesso oggetto, puntare nella stessa direzione, i due generi di discorso restano reciprocamente impermeabili. Scegliere un tipo di linguaggio equivale ormai a prender congedo dall'altro.

c) Forme e livelli del mito

L'opposizione tra μῦθος e λόγος, sul duplice piano delle forme espressive e dei modi di pensiero, ne ricopre altre che si delineano, entro la sfera del mito, nell'ambito stesso delle tradizioni religiose.

Come notava Erodoto, sono Omero ed Esiodo ad aver fissato, per i Greci, una sorta di repertorio canonico di racconti che mettono in scena le potenze dell'aldilà e, attraverso disavventure di ogni genere, ne riferiscono la nascita, la genealogia, i rapporti familiari, i privilegi, le funzioni e i domini rispettivi, le rivalità e affinità, gli interventi nel mondo umano. Nei due poeti questi racconti sono integrati in opere letterarie che, per la forma metrica e per il genere cui appartengono (epopea eroica, teogonia, testi sapienziali), continuano una tradizione di poesia orale che ha le sue radici nel passato. Anche qui lo sviluppo della scrittura modifica sia la composizione sia la trasmissione dei racconti. Nell'opera scritta, anche se si continua a cantarla e a recitarla in determinate occasioni, emergono i tratti specificamente letterari del testo e nello stesso tempo si diversificano dei generi di espressione, ognuno dei quali ha, oltre al proprio pubblico particolare, proprie regole formali e propri intenti estetici. Poeti elegiaci, lirici, tragici attingono al fondo comune della mitologia; ma, facendo dei temi mitici una materia letteraria, li adoperano con grande libertà per trasformarli secondo i propri bisogni, talvolta anche per criticarli in nome di un nuovo ideale etico o religioso.

Senza parlare di un Senofane, che sin dal VI secolo rifiutava l'antropomorfismo della mitologia comune e, stando a Diogene Laerzio, scagliava i suoi giambi contro Omero e Esiodo, si noterà lo spostamento che il mito subisce ad opera di un poeta come Pindaro, attaccato alle forme tradizionali delle credenze.

Le sue odi trionfali obbediscono a uno schema compositivo costante, che riserba al mito il posto centrale. Inserita tra un'introduzione e una conclusione consacrate al vincitore - alla sua persona, alla sua famiglia, alla sua città - la parte mitica, come nella Prima Olimpica, può occupare da sola più di due terzi del testo. Capita però che nel corso del racconto Pindaro s'interrompa per avvertire che non dirà altro, rifiutandosi la sua bocca di attribuire agli dei azioni indegne, o per comunicare che, non volendo essere costretto, in un caso come quello del banchetto di Tantalo, a chiamare cannibale nessuno degli dei (Ol. 1,82), si all ontanerà dalla tradizione per presentare la propria versione, diversa da quelle dei suoi predecessori (ibid., 59).

La verità è che, nel quadro dell'epinicio, il racconto tradizionale ha assunto una funzione e un significato nuovi. Se adottiamo la terminologia proposta da A. Jolles (v., 1930), diremo che si è allontanato dal mito (inteso in senso proprio) verso la leggenda. Il racconto non ha più valore in sé e per sé, ma in rapporto a qualcos'altro, come esempio di azione o di comportamento proposto all'imitazione degli uomini. La storia del pio Pelope è il prototipo di tutte le vittorie nella corsa di carri; quella di Tantalo, che le viene associata, avverte dei pericoli inerenti al successo.

Il mito ha assunto valore di paradigma; costituisce il modello di riferimento che permette di situare, di comprendere, di giudicare la vittoria celebrata nel canto. E rifrangendosi attraverso le avventure leggendarie degli eroi o degli dei che le azioni umane, pensate nella categoria dell'imitazione, possono rivelare il proprio senso e situarsi in una scala di valori.

La distorsione è ancora più marcata nei poeti tragici. Essi traggono i temi dei loro drammi dalle leggende degli eroi, così come le trovavano svolte nei cicli epici e in varie tradizioni locali. Non si limitano però a modificare certi punti dell'intreccio onde dargli una colorazione specificamente tragica, come nel caso dell'Edipo di Omero - che muore sul trono di Tebe - trasformato da Eschilo e Sofocle in un esule, cieco di propria mano, respinto dal mondo degli uomini. Portato sulla scena, il tema si trova sottoposto, in rapporto agli spettatori dell'epoca, a un duplice e contraddittorio movimento di allontanamento e di avvicinamento. Gli eroi dell'epopea sono uomini, non potenze soprannaturali, come quelle alle quali la città del V secolo rende un culto pubblico. Le imprese cantate nell'Iliade sono state compiute durante la guerra di Troia, nel corso di una spedizione che, anche se oggi possiamo metterne in dubbio la storicità, è descritta dall'aedo e vissuta dal pubblico come un avvenimento reale, appartenente allo stesso ordine temporale del poeta e del suo uditorio. In questa direzione i poemi omerici associano ai racconti mitici riguardanti gli dei una ‛gesta' centrata su alcune grandi famiglie, di cui celebra i fasti giustificandone le prerogative che sono ancora, nel presente, appannaggio dei loro discendenti.

Al contrario, la tragedia scava la distanza tra i personaggi che fa muovere sulla scena e il pubblico degli spettatori. Gli eroi tragici appartengono a un mondo differente da quello della città, a un'altra epoca, ben diversa dal V secolo ateniese. La polis democratica non integra nella propria cultura, se non ricacciandoli in un passato lontano e conchiuso, in un tempo leggendario ed estraneo al presente, i drammi che lacerano questi lignaggi reali, le sventure, le maledizioni ancestrali che li affliggono. Ma le stesse figure che il giuoco scenico, le vesti, i coturni, la maschera e infine la smisuratezza del loro carattere innalzano al livello degli eroi leggendari cui la città tributa un culto, si trovano poi, per il loro linguaggio, familiare e quasi prosaico, per le discussioni che le oppongono al coro e le une alle altre, ravvicinate all'uomo comune e rese contemporanee dei cittadini di Atene che affollavano i gradini del teatro. A causa di questa tensione costantemente mantenuta e del confronto, che troviamo in ogni dramma e in ogni protagonista, tra il passato mitico e il presente della città, l'eroe cessa di rappresentare un modello - come in Pindaro - per diventare l'oggetto di una contestazione. Egli è messo in questione dinanzi al pubblico; e, attraverso il dibattito aperto dal dramma, la posizione stessa dell'uomo diventa problematica, viene posto l'enigma della condizione umana, e ciò senza che l'indagine tragica, sempre ripresa e mai conclusa, possa avanzare una risposta definitiva e chiudere l'interrogazione (v. Vernant e Vidal-Naquet, 19732). Nella sua forma autentica, il mito forniva risposte senza mai formulare esplicitamente i problemi. La tragedia, quando riprende le tradizioni mitiche, le adopera con lo scopo di porre, per il loro tramite, problemi che non comportano soluzione.

Questa distorsione letteraria del mito è tanto più sorprendente in quanto, nella stessa epoca, altri cercano di raccogliere le versioni correnti veicolate qua o là dalla tradizione orale. Ferecide di Atene ed Ellanico, nel V secolo, immettono nelle loro cronache le locali leggende di fondazione e le genealogie divine o eroiche alle quali si riferiscono, in una data città, i culti pubblici o familiari. Qualunque sia, in tali testimonianze, la parte spettante a una reinterpretazione, certo già avviata prima da logografi come Ecateo, Carone di Lampsaco e Xanto di Lidia, essi preparano il lavoro di recensione che, a partire dall'età ellenistica, viene intrapreso dagli eruditi e sfocia nella composizione di vere raccolte mitografiche la Biblioteca dello pseudo-Apollodoro, le Favole e l'Astronomia di Igino, il libro IV delle Storie di Diodoro, le Metamorfosi di Antonino Liberale, i cosiddetti ‛mitografi vaticani'; a queste bisogna aggiungere le informazioni sparse, i frammenti di racconti torniti casualmente dalle glosse di scoliasti e lessicografi. In rapporto alle trasposizioni letterarie, questi testi ci offrono, sui miti e le loro varianti, una documentazione che, senza essere interamente grezza (neppure nella tradizione orale dei popoli che chiamiamo ‛primitivi', come vedremo, esistono miti allo stato grezzo), sfugge tuttavia a un rilettura effettuata partendo da norme esterne al pensiero mitico.

d) Miti e mitologia

Da queste raccolte di racconti, giustapposti e più o meno coordinati secondo la diligenza dei mitografi, bisogna distinguere, per i Greci, i casi in cui non si può più parlare di miti, ma di una mitologia, cioè di un insieme narrativo unificato che, per l'estensione del suo campo e la sua coerenza interna, rappresenta un sistema di pensiero originale: tanto complesso e rigoroso, a modo suo, quanto può esserlo, in un diverso registro, la costruzione d'un filosofo. L'esempio tipico di una tale mitologia ci è fornito dall'opera di Esiodo, specialmente dalla Teogonia. È passato il tempo in cui i filologi, in nome di criteri ‛logici' interamente arbitrari, credevano di poter denunciare il carattere composito e anzi le incoerenze di un testo che pretendevano di fare a pezzi rintracciandovi tutta una serie di strati e di aggiunte successivi di epoche diverse, eterogenei se non addirittura incompatibili gli uni con gli altri. Dopo lo studio classico di H. Fränkel, non si può invece non riconoscere in Esiodo, che propone una visione generale ordinata dell'universo divino e umano, il primo pensatore della Grecia; il che non toglie nulla alle riserve che si possono formulare nei confronti di una lettura che, per comprendere Esiodo, si colloca su un piano retrospettivo e, partendo dalla filosofia posteriore, ne interpreta l'opera come una prima forma di ontologia (v. Fränkel, 19622). Se si vuole evitare di pensare il μῦθος nel quadro del λόγος che l'ha sostituito, la decifrazione del testo deve in primo luogo badare a tutto ciò che è pertinente all'organizzazione narrativa del racconto. Su questo piano le analisi di P. Walcot e soprattutto lo studio di H. Schwabl sono conclusivi: essi hanno mostrato, da un lato, la messa in opera, nel complesso del testo, di un modo di composizione circolare (ring composition), il quale dà al racconto la sua coesione e permette di discernere le articolazioni fondamentali e, dall'altro, il regolare ricorso a parallelismi sintattici che, nella concatenazione delle diverse sequenze e nel rigoroso ordinamento dei particolari, assicurano l'equilibrio generale della narrazione e l'unità della sua architettura (v. Walcot, 1956, 1957; v. Schwabl, 1966). Il mitologo non può però limitare la propria ricerca al quadro formale del racconto; allo studio filologico egli deve associare un'analisi di contenuto, mirante a isolare i rapporti semantici, il giuoco delle corrispondenze simboliche, i molteplici livelli di significazione operanti nel testo, la gerarchia dei codici adoperati nel messaggio. Un tale programma di decifrazione, evidentemente, chiama in causa tutti i problemi riguardanti il mito, sia quelli metodologici che quelli di fondo. Non mancherà l'occasione di parlarne.

Per ora, volevamo solo sottolineare il carattere eccezionale della testimonianza esiodea e il suo interesse per i mitologi: pur conservando i suoi legami con la poesia orale, l'opera è già frutto di una redazione scritta.

Essa rientra nella linea di una tradizione mitica viva e complessa nella quale è stato possibile identificare influenze orientali (v. Walcot, 1966). Essa è però, a un tempo, una creazione nuova, l'opera di una personalità singolare la cui poetica tronca deliberatamente i legami con i propri precursori e contemporanei: ispirato dalle Muse, Esiodo dichiara di voler rivelare il ‟vero", celebrare ‟ciò che è stato, è e sarà", diversamente quindi da altri i cui racconti non sono che finzioni, menzogne destinate a lusingare la vanità del nobile pubblico per il quale sono state composte. Questa orgogliosa coscienza di apportare, con l'inaugurazione di una nuova specie di poesia, una parola di ‛verità' e di adempiere a una funzione profetica, la quale colloca il poeta, in quanto mediatore tra gli dei e gli uomini, in una posizione paragonabile a quella dei re, conferisce alla lunga sequela di racconti che compongono la Teogonia il valore di un autentico insegnamento teologico e fa inoltre delle favole, degli ammonimenti e dei consigli morali o pratici dispensati in Le opere e i giorni la lezione di un maestro di saggezza che è stato ravvicinato ai profeti d'Israele (v. Detienne, 1963). Nel materiale mitico fornitogli dalla tradizione, Esiodo opera una cernita; e soprattutto ne assoggetta i diversi elementi a un rimaneggiamento mirante a integrarli in una costruzione d'insieme originale. I temi, gli episodi, le figure mitiche ch'egli ha conservato o modificato si inseriscono nel filo della narrazione come gli elementi di un unico messaggio, del quale il poeta vuol comunicare a un tempo il significato globale e la ricca complessità. L'opera di Esiodo ci pone così di fronte a ciò che possiamo chiamare una mitologia dotta, un'elaborazione ampia e sottile, la quale possiede tutta la finezza e il rigore di un sistema filosofico, pur restando, cionondimeno, interamente impegnata nel liguaggio e nel modo di pensare propri del mito.

Di altre teogonie esistite in Grecia, vaste costruzioni della stessa specie di quella esiodea, non ci sono pervenuti che frammenti. Senz'aver avuto il peso, la portata quasi canonica che i Greci riconobbero all'opera del poeta beota, esse rispondevano, in un Ferecide di Siro, in un Epimenide o negli Orfici, ad ambizioni analoghe. Scostandosi volontariamente, su punti essenziali della narrazione, dal modello esiodeo ‛ortodosso', esse rivelano la presenza, nel campo dei miti, di un elemento di critica e di contestazione il quale, pur non prendendo la forma nè di obiezioni nè di discussione aperta, si esprime per mezzo di deviazioni significative, di divergenze nella forma e nel contenuto dei racconti. Queste molteplici versioni dimostrano che i miti - anche quando, entro una data cultura, sembrano contraddirsi - si corrispondono l'un l'altro in quanto, pur nel loro variare, fanno riferimento a un linguaggio comune, si inseriscono nello stesso orizzonte intellettuale e non possono essere decifrati se non nel quadro generale, in cui ciascuna versione particolare assume valore e rilievo in rapporto a tutte le altre. Sarebbe difficile sottovalutare l'importanza di questo dialogo che il pensiero mitico annoda continuamente con se stesso per tutto il tempo che rimane vitale. Due scoperte, una dopo l'altra, sono venute a confermare, per la Grecia, l'autenticità e l'antichità di quelle creazioni mitiche abbastanza ‛marginali' da consentire alla maggior parte dei grecisti, sul fondamento del loro carattere inconsueto o persino aberrante dal punto di vista della tradizione corrente, di ritenersi autorizzati a trattarle come elucubrazioni tardive, come sottoprodotti dell'immaginazione ellenistica. La prima riguarda un commentario su papiro a una poesia cosmogonica composta da Alcmane nella Sparta del sec. VII; la seconda ha messo in luce, in una tomba a Derveni, un rotolo di papiro riproducente il testo di un commentario di una Teogonia di Orfeo, che risale alla fine del sec. V e prova come i sacri racconti orfici sulla genesi degli dei e degli uomini, attestati in epoca tarda, continuino in modo affatto diretto una tradizione antica.

e) Il mito tra il non senso e l'allegoria

Questo bilancio sommario dei diversi tipi di documenti che, seguendo i Greci, raduniamo nella categoria del mito, basta già a mostrarne il carattere relativamente disparato: si va da molteplici versioni frammentarie, presentate in brevi racconti o anche in riassunti scheletrici, a trasposizioni letterarie più o meno ricche e artificiose, a vaste elaborazioni sistematiche con ambizioni teologiche. Ciò che tali testi, situati a livelli di pensiero assai diversi, hanno in comune è anzitutto il fatto di riallacciarsi, ad onta delle loro divergenze, a una medesima tradizione che essi possono sì modificare su certi punti, ma a condizione di inserirsi nella sua linea, di sottomettersi - pur nell'innovazione - a un certo numero di costrizioni, di rispettare un giuoco regolare ditemi, di associazioni, di accostamenti e di contrasti all'infuori del quale il messaggio, entro una data cultura, cesserebbe di essere intelligibile. Altra qualità comune è poi quella di essere racconti capaci di incantare l'uditore, il quale, nell'ascoltarli, deve provare lo stesso piacere che prova nell'ascolto di novelle e favole, e d'altra parte di essere anche racconti ‛seri' che, in chiave di finzione o di fantasia, parlano di cose affatto essenziali, relative alle più profonde verità dell'esistenza umana. E, infine, hanno la qualità di mettere in scena, attraverso la loro forma narrativa, ‛agenti' che compiono imprese tali da modificare, nel corso del racconto, la situazione iniziale la quale, alla fine, non è più interamente la stessa dell'inizio.

Nel mito, gli ‛operatori' di questa trasformazione, cioè i personaggi le cui azioni determinano la serie di mutamenti che si producono tra la prima e l'ultima sequenza della narrazione, sono potenze dell'aldilà, agenti soprannaturali le cui avventure si svolgono in un tempo, su un piano e secondo un modo di essere diversi da quelli della comune vita umana.

Piuttosto che isolare questi tratti comuni e interrogarsi sulla loro portata e sulle loro implicazioni circa il funzionamento del pensiero mitico, i grecisti sembrano aver scelto la strada di privilegiare questo o quel tipo di documenti, per poi appoggiarvi la loro concezione generale del mito.

Talora, prendendo in considerazione le molteplici e apparentemente contraddittorie versioni dello stesso racconto, vi si è visto ‟un giuoco gratuito dell'immaginazione", il libero prodotto di una fantasia sbrigliata. Talora invece si è data importanza agli aspetti letterari di siffatte creazioni: considerandoli come elementi tra gli altri della medesima cultura fornita di scrittura, si sono applicati loro i metodi dell'analisi storico-filologica validi per ogni altro testo; e dunque ci si è limitati a seguire da un autore all'altro il riaffiorare di un tema, le sue trasformazioni, come se, per comprendere un mito, fosse sufficiente, stabilendo le sue filiazioni ed enumerando l'intera serie dei suoi avatar, descrivere esattamente la sua carriera letteraria. Talora, infine, si è cercato di scoprire, sotto il velo della narrazione, una verità nascosta, una teologia segreta; si è voluto penetrare il mistero della favola per attingere, al di là d'essa, la saggezza religiosa ch'essa esprime sotto un travestimento simbolico.

Anche a questo proposito gli studiosi moderni non hanno fatto altro che seguire gli autori antichi; mettendosi sulle tracce di coloro che li avevano preceduti, essi sono in qualche modo rimasti all'interno della tradizione classica di cui avevano intrapreso lo studio: rinchiusi in quest'orizzonte, hanno considerato e visto il mito con gli occhi dei Greci. Questi ultimi, in realtà, non si sono contentati di respingere il mito, nel nome del λόγος, nelle tenebre dell'insensatezza, nelle menzogne della finzione. Essi non hanno cessato di sfruttarlo letterariamente come il tesoro comune da cui la loro cultura doveva trarre alimento per restare vitale e perpetuarsi. Hanno inoltre riconosciuto al mito dell'età arcaica un valore d'insegnamento, ma d'insegnamento oscuro e segreto; gli hanno attribuito una funzione di verità, anche se di una verità che non sarebbe formulata in modo diretto, ma che avrebbe bisogno, per essere attinta, di essere tradotta in un'altra lingua di cui il testo narrativo non sarebbe che l'espressione allegorica. Nel sec. VI, Teagene di Reggio ha già avviato, sui miti di Omero, quel lavoro di esegesi allegorica che, sostituendo ai dati del racconto degli equivalenti simbolici, ne effettua la trasposizione nel vocabolario della cosmologia, della fisica, della morale o della metafisica. Il mito si trova così purificato delle assurdità, delle inverosimiglianze o delle immoralità che recavano scandalo alla ragione; ma ciò accade al prezzo della rinuncia a ciò che il mito è in se stesso, se ci si rifiuta di prenderlo alla lettera e gli si fanno dire cose ben diverse da quelle che vuole schiettamente e semplicemente raccontare. Questa specie di ermeneutica troverà la sua più cospicua espressione nello stoicismo e nel neoplatonismo (v. Buffière, 1956; v. Pépin, 1958); ma possiamo affermare che tutta la tradizione greca, quando accetta di fare spazio al mito, si colloca in una prospettiva analoga e in esso riconosce o una maniera di dire diversamente, sotto forma figurata o simbolica, la stessa verità che il λόγος esprime in modo diretto, o una maniera di dire ciò che è diverso dalla verità, ciò che, per sua natura, si situa al di fuori della sfera della verità, sfugge di conseguenza al sapere e non appartiene al discorso articolato secondo l'ordine della dimostrazione. Platone, che tanto spesso sembra scacciare il mito, come quando nel Filebo (14 a) parla di un ragionamento (λόγος) che, minato dalle proprie contraddizioni interne, distrugge se stesso al modo di un μῦθος, o quando nel Fedone (61 b) osserva, per bocca di Socrate, che il μῦθος non è affar suo ma dei poeti - quei poeti che la Repubblica scaccerà dalla città come mentitori - questo stesso Platone nelle sue opere riserverà un posto eminente al mito come mezzo per esprimere simultaneamente ciò che è al di là e ciò che è al di qua del linguaggio propriamente filosofico. Come esprimere filosoficamente, per mezzo di un ordinato intreccio di parole, il ‛bene', valore supremo, il quale non è un'essenza, ma si colloca per dignità e potenza in quanto fonte dell'‛essere' e del ‛conoscere', al di là dell'essenza (Repubblica, 509b ss.)? O come parlare filosoficamente del divenire, sottomesso nel suo incessante mutamento alla causalità cieca della necessità? Questo divenire partecipa troppo dell'irrazionale perché un ragionamento rigoroso possa applicarvisi. Esso non può essere l'oggetto di un sapere vero, ma soltanto di una credenza (μίστις) d'una opinione (δόξα).

Così, è impossibile, a proposito degli dei e della nascita del mondo, addurre dei λόγοι όμολογούμενοι, dei ragionamenti interamente coerenti. Bisogna contentarsi di una favola verosimile, di un εἰκότα μῦθον (Timeo, 29 b-c). Circa l'anima, il suo destino, la sua immortalità, Platone riprende i vecchi miti della reincarnazione, così come nella teoria della reminiscenza (ἀνάμνησις) traspone i più antichi miti della memoria nei quali Μνημοσύνη figura, nell'aldilà, come fonte di vita eterna, riservata a coloro che, su questa terra, hanno saputo serbare la propria anima pura da ogni contaminazione. La Repubblica si chiude con queste parole: ‟E così, Glaucone, s'è salvato il mito e non è andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo".

In un luogo della Metafisica (1074 b ss.) Anstotele distacca dalla tradizione mitica le favole che gli uomini hanno foggiato per persuadere la moltitudine, come quelle che danno agli dei forma e sentimenti umani ; ma anch'egli aggiunge subito: ‟Le quali cose circa la forma degli dei, se si taglia via tutto ciò che c'è di secondario e si ritiene questo solo: che si pensa le prime sostanze esser divine, ben si potranno riguardare come una divina rivelazione".

Si constata così che, pur rovesciando sotto parecchi a- spetti il linguaggio mitico, la filosofia greca lo prolunga o lo traspone su un altro piano, sbarazzandolo da ciò che ne costituiva l'elemento di pura ‛favola'. La filosofia può dunque apparire come un tentativo di formulare, demitizzandola, quella verità che il mito già presentiva a suo modo ed esprimeva sotto forma di racconti allegorici.

Questa reintegrazione del mito nell'universo della ragio ne filosofica, dal quale si poteva crederlo scacciato, ha però la sua contropartita: accordando al mito diritto di cittadinanza, lo si naturalizza filosofo ; accettandolo, lo si assorbe. Nella prospettiva di Aristotele, riconoscere che nel mito c'è un elemento di verità divina equivale a dire ch'esso prefigura la filosofia. Analogamente, il linguaggio infantile prepara il linguaggio dell'adulto e ha senso soltanto in rapporto a esso. Il mito sarebbe dunque una sorta di abbozzo di discorso razionale: attraverso le sue favole, si percepirebbe il primo balbettio del λόγος.

f) Mitologià greca e pensiero occidentale

Se, alla fine di queste analisi, tentiamo di fissare il profilo del mito così come l'antichità classica ce l'ha tramandato, siamo colpiti dal carattere paradossale, a prima vista quasi contraddittorio, dello status conferitogli dalla tradizione. Da una parte esso costituisce per più di un millennio il fondo comune della cultura, un quadro di riferimento non soltanto per la vita religiosa, ma anche per altre forme della vita sociale e spirituale, il canovaccio sul quale non hanno cessato di ricamare sia la letteratura scritta dei dotti sia i racconti orali di ambiente popolare. Dall'altra sembra che, sempre nella medesima civiltà, non gli vengano riconosciuti nè un posto nè una figura nè una funzione che gli siano propri. O si definisce il mito negativamente, per mezzo di una serie di deficienze o di assenze: esso è non-senso, non-ragione, non-verità, non-realtà; oppure, se gli si accorda un modo positivo d'essere, è per ridurlo a qualcosa di diverso da se stesso, come se potesse accedere all'esistenza soltanto per il suo trasferimento in un altro luogo, per la sua traduzione in una lingua e in un pensiero stranieri. Talora viene assimilato, nel suo aspetto di fabulazione, alla creazione poetica e alla finzione letteraria, e lo si ricollega a quella potenza dell'immaginazione che c'incanta, è vero, ma come ‛maestra d'errore e di falsità'; talaltra gli vien concessa una capacità di esprimere la verità, ma solo per ricondurla tosto a quella stessa che è propria del discorso filosofico, del quale il mito appare allora come un approccio maldestro o un'allusione indiretta. In ogni caso, per lo status come per il modo di esprimersi, il mito si presenta come un'allegoria: esso non occupa una sfera propria più di quanto non parli una lingua che sia veramente sua. Nella tradizione di pensiero che ci viene dai Greci - segnata com'è dal suggello del razionalismo - il mito, ad onta del suo posto, dei suoi effetti e della sua importanza, si trova, quando non sia puramente e semplicemente rifiutato in nome del logos, cancellato nelle sue funzioni e nei suoi aspetti specifici. In quanto tale, esso è sempre esorcizzato, sotto questa o quella forma. Bisognerà attendere un pensatore come F. W. J. Schelling, con la sua affermazione che il mito non è per nulla allegorico, bensì ‛tautegorico', perché la prospettiva si modifichi in modo esplicito e radicale: se il mito non dice ‛un'altra cosa', ma proprio quella cosa che in nessun caso può essere detta diversamente, un nuovo problema viene alla luce e l'intero orizzonte degli studi mitologici ne risulta trasformato. Che cosa dice il mito, dunque, e qual è il rapporto tra il senso di cui è portatore e il modo in cui lo dice?

Ma, come ogni paradosso, anche quello della mitologia classica contiene un insegnamento. Se il mito può essere nello stesso tempo sia il terreno in cui nel corso dei secoli una cultura si radica, sia quella parte della cultura di cui essa stessa sembra misconoscere l'autenticità, ciò accade perché il suo ruolo, la sua funzione, la sua significazione fondamentali non sono, per gli utenti, immediatamente evidenti, e perché, almeno per l'essenziale, non si situano al livello della forma manifesta dei racconti. Un mito come quello greco non è un dogma la cui forma, servendo da fondamento a una credenza obbligatoria, debba essere fissata una volta per tutte in modo rigoroso. Il mito, come abbiamo detto, è un canovaccio sul quale fanno i loro ricami la narrazione orale e la letteratura scritta; ed entrambe ricamano con libertà sufficiente perché le divergenze nelle tradizioni, le innovazioni apportate da certi autori non suscitino scandalo e nemmeno problemi dal punto di vista della coscienza religiosa. Se i miti, quindi, possono variare da una versione all'altra senza che l'equilibrio del sistema generale sia compromesso, è perché ha minore importanza la trama, la quale può differire nel particolare svolgimento assunto qua o là dalla storia raccontata, mentre hanno un'importanza ben maggiore le categorie veicolate implicitamente dall'insieme dei racconti, l'organizzazione intellettuale che sottostà al giuoco delle varianti. Ma quest'architettura mentale, questa logica soggiacente, che il mito mette in opera dispiegando il ventaglio delle sue molteplici versioni e che ogni bambino apprende senz'accorgersene, ascoltando e ripetendo la tradizione così come impara la madrelingua, sono tanto meno afferrabili quanto più appaiono naturali e immediate. Bisogna prendere le distanze, essere esterni a una cultura, provare nei confronti della sua mitologia un'impressione di disorientamento completo, sentirsi sconcertati dal carattere insolito di un tipo di favola, di un genere di fantasia che non ci sono familiari, perché ci appaia con tutta chiarezza la necessità di una deviazione, di una via d'accesso meno diretta, la quale conduca dal testo di superficie alle basi che ne assicurano l'organizzazione strutturale, dalla molteplice serie delle varianti all'architettonica che ne fornisce la chiave d'insieme e autorizza così la decifrazione di un autentico sistema di pensiero, il quale non a tutti i suoi livelli è immediatamente accessibile alle nostre abitudini mentali.

Non sarebbe stata quindi l'estraneità, nel caso dei miti greci, a costituire inizialmente il principale ostacolo epistemologico alla loro analisi rigorosa, ma piuttosto la loro troppo grande vicinanza, la loro presenza ancora troppo ‛naturale' nell'universo mentale dell'Occidente. Si comprende allora perché i più spettacolari progressi contemporanei nelle ricerche mitografiche siano da ascriversi all'attivo degli antropologi e degli etnologi piuttosto che dei grecisti, i quali pur lavorano su un materiale da gran tempo inventariato, classificato e commentato.

Due condizioni erano senza dubbio necessarie perché nell'approccio al mito si rinnovassero le prospettive tradizionali. Bisognava anzitutto che le conoscenze relative all'antichità classica cessassero di trovarsi mescolate alla cultura generale dei dotti, che non fossero più integrate, come lo erano state dal XV al XVIII secolo, in una ‛erudizione' la cui origine rimonta all'epoca ellenistica (v. Bravo, 1968): bisognava, in breve, che si cominciasse a collocare i fatti antichi a distanza, sia sul piano storico che su quello culturale. Bisognava poi, e soprattutto, che i miti greci finissero di costituire il modello, il centro di riferimento della mitologia, e che fossero confrontati, attraverso lo sviluppo di una scienza comparata delle religioni, con i miti delle altre grandi civiltà non classiche e, con l'apporto delle ricerche etnografiche, con quelli dei popoli privi di scrittura. E attraverso questo doppio movimento - prima di allontanamento dall'antichità (diviene allora possibile pensare la grecità come un momento storico, come un mondo spirituale particolare avente caratteristiche proprie), e poi di accostamento dei miti greci a quelli degli altri popoli (diviene allora possibile considerare il mitico, sotto la diversità delle sue forme, come un livello del pensiero in generale) - che sono emersi i grandi tratti della problematica contemporanea riguardante l'universo del mito.

3. Abbozzi di una scienza dei miti

Sia l'una che l'altra svolta s'annunciano verso la fine del sec. XVIII. Da una parte, specialmente in Germania, si avviano gli studi di filologia storica: la storia si associa all'erudizione, dalla quale era in precedenza separata (per quanto riguarda l'antichità, la storia era sempre la stessa che avevano scritta gli antichi, quella di Erodoto, di Tucidide, di Polibio, ecc.); e nello stesso tempo, a opera del romanticismo e poi del hegelismo, si mette l'accento sulle nozioni di Volk, Volksgeist, Weltgeist, le quali, prefigurando i nostri concetti di cultura e di civiltà, possono trovare particolare applicazione al mondo greco. D'altra parte, sin dal 1724 il padre J. F. Lafitau aveva stabilito un parallelo, ripreso da Ch. de Brosses, tra le leggende in cui credevano i Greci e le superstizioni degli Indiani del Nuovo Mondo. Il riconoscimento di questa convergenza tra la mitologia della Grecia, madre della civiltà, nutrice della ‛Ragione', e quella dei selvaggi d'America doveva portare in piena luce, dopo il fallimento delle interpretazioni simbolistiche di F. Creuzer, uno scandalo che le tre grandi scuole, la cui contesa domina il campo degli studi mitologici alla fine del sec. XIX, dovevano tutte parimenti sforzarsi di eliminare: se si rifiutano le spiegazioni troppo facili e gratuite di tipo allegorico, come si spiega, nel popolo che ha raggiunto ‟gli estremi confini della civiltà", questo linguaggio ‟insensato e incongruo", in cui si narrano storie ‟selvagge e assurde" (v. Lang, 1886, pp. 20-25), che attribuiscono agli dei ‟cose che farebbero rabbrividire il più selvaggio dei pellirosse" (v. Müller, 1863; tr. fr., vol. II, p. 115): tutte le infamie del parricidio, dell'incesto, dell'adulterio, della sodomia, dell'assassinio, del cannibalismo? Come giustificare la presenza, fianco a fianco con la ragione più depurata, di quell'elemento irrazionale del mito che richiama il linguaggio ‟d'uno spirito colpito temporaneamente da demenza" (v. Lang, 1886, p. 63)? In una parola, come si spiega che, attraverso il mito, la barbarie appaia iscritta nel cuore stesso di quella cultura da cui deriva direttamente la nostra scienza e, in larga misura, anche la nostra religione?

a) Mito e linguaggio: la scuola di mitologia comparata

Per Max Müller e la scuola di mitologia comparata (cui si possono riallacciare, tra i grecisti, L. Preller e A. H. Krappe in Germania e P. Decharme in Francia, e la cui influenza si esercita ben al di là dei suoi adepti dichiarati), la spiegazione è d'ordine linguistico. Essa risiede nel sistema del linguaggio e nella storia della sua costituzione.

Contemporaneo della scoperta della grammatica comparata, Max Müller è il primo a stabilire una stretta correlazione tra i problemi del mito e il fenomeno del linguaggio. La genesi e l'evoluzione di quest'ultimo passano attraverso tre tappe: una fase tematica, una fase dialettale, una fase mitopoietica. Nella prima l'uomo, ancora in consonanza con l'universo in cui è immerso, esprime foneticamente in una serie di radici verbali e in una prima grammatica le reazioni dinanzi ai grandi fenomeni naturali, sia quelli regolari e ardentemente desiderati come il ritorno del Sole e della luce, la loro vittoria sulle nubi e sulla notte, sia quelli imprevisti e temuti come il fulmine, gli uragani, la tempesta (v. Kuhn, 1886). Ma, dopo che i popoli si sono dispersi e le lingue separate (fase dialettale), le parole cessano d'essere trasparenti a coloro che le adoperano; l'uomo non comprende più le loro significazioni primitive di forze fisiche concepite come potenze viventi e spontaneamente espresse nelle parole sotto la forma di ‛verbi sostantivi'. I nomi propri di figure mitiche individualizzate prendono il posto degli antichi vocaboli, di cui non si scorge più il legame diretto con le realtà naturali. Il carattere assurdo e incongruo del mito si spiega così come una sorta di deviazione, di perversione metaforica nello sviluppo della lingua, un'escrescenza morbosa comparsa al suo interno. Nella sua essenza, la mitologia è un discorso patologico che s'innesta e si sviluppa sull'albero del linguaggio, il cui tronco ha le sue radici nell'esperienza originaria dei grandi fenomeni cosmici quali il ritorno regolare del Sole o lo scatenarsi dell'uragano (v. Kuhn, 1886). Il lavoro dello studioso di mitologia comparata consiste dunque nel ritrovare nel dedalo delle etimologie, delle evoluzioni morfologiche, delle interferenze semantiche, i valori primordiali che, prima che il loro senso si obliterasse, traducevano nelle ‛radici' della lingua il contatto con la natura. La spiegazione naturalistica viene così a dare il cambio, se non addirittura a soppiantare, l'analisi del linguaggio. ‟Un buon mitologo - potrà scrivere Decharme - si riconosce dal suo sentimento della natura più che dalla sicurezza del suo senso linguistico" (v. Decharme, 18842, p. 7).

b) Mito ed evoluzione sociale: la scuola antropologica inglese

A questa teoria d'insieme, spesso fantasiosa e gratuita nei particolari delle sue ricostruzioni linguistiche e delle sue etimologie dei nomi divini, la scuola antropologica inglese di E. B. Tylor e A. Lang (nella quale possiamo annoverare J. G. Frazer e, tra i grecisti puri, J. E. Harrison, O. Murray, F. M. Cornford e A. B. Cook) non trova difficoltà a opporre un'obiezione capitale: come può accadere che ancora oggi tanti popoli primitivi continuino a raccontare le stesse ‛storie pazze' degli Indiani, dei Greci, dei Romani o dei Babilonesi?

Qui non può trattarsi di controsensi prodotti, come nel caso dell'evoluzione dei rami ariani o semitici, dalla progressiva opacità delle radici primordiali. Il carattere selvaggio dei miti, nelle grandi culture storiche, non può provenire da una degenerazione in rapporto a uno stato anteriore, meglio fondato e più ragionevole, della coscienza linguistica; al contrario, esso è testimone di una sopravvivenza, nelle civiltà progredite, di quella barbarie primitiva della quale alcuni popoli, non essendone ancora usciti, ci forniscono il modello vivente. Nella scuola rivale, l'etnologia comparata occupa quindi il posto che per i discepoli di Max Müller era occupato dalla linguistica. Le ‛bizzarrie' mitologiche degli antichi non corrispondono più a uno sviamento nello sviluppo delle lingue, ma a uno stadio nell'evoluzione sociale e intellettuale dell'umanità, a una tappa che tutti i popoli hanno traversato e nella quale i popoli chiamati arcaici tuttora si trovano. Questo modo di porre il problema comporta due orientamenti, sotto certi aspetti contrapposti. Vestigio dei tempi selvaggi e non più ‛malattia del linguaggio', il mito può essere definito come lo stadio selvaggio del pensiero.

Si sarà quindi indotti, in primo luogo, a insistere sui tratti che distinguono questo pensiero selvaggio dalla nostra intelligenza civilizzata, a scavare tra le due mentalità una distanza che in L. Lévy-Bruhl diventerà un vero fossato. Caratterizzato - secondo Tylor e, sino alla pubblicazione nel 1898 di The making of religion, anche secondo Lang - dall'animismo, dominato secondo Frazer dalla magia simpatica, il pensiero selvaggio è infine relegato dal sociologo francese in una sorta di ghetto, rinchiuso nello stadio del ‛prelogico', allo stesso modo in cui viene internato nel manicomio lo schizofrenico, il cui delirio è sotto vari aspetti affine alla mentalità primitiva. Interamente dominato dall'affettività, ignaro del principio di non-contraddizione, insensibile alle sequenze causali, scarsamente in grado di distinguere il soggetto dall'oggetto, governato da una legge di partecipazione che assimila tra loro le cose più diverse, il pensiero selvaggio operante nel mito non soltanto è diverso dal nostro sistema concettuale, ma ne costituisce, in quanto prelogico e mistico, il contrario, il rovescio, allo stesso modo in cui la demenza non è soltanto diversa dalla ragione, ma segna il suo antipodo.

Cionondimeno, il punto di vista antropologico dischiude nello stesso tempo, riguardo al mito, una via d'approccio ben diversa, che sarà esplorata sino agli estremi confini dagli studiosi contemporanei, ma di cui già Lang presenti e indicò la direzione. Raffrontati con i miti di tutti i popoli primitivi, i racconti dei Greci perdono, insieme con la loro singolarità, una parte della loro stranezza: non presentano più il carattere discordante, sorprendente, che discendeva dal loro status marginale nel contesto d'una civiltà dotta come quella della Grecia. Essi si integrano ormai in un piu vasto mondo spirituale, in quell'universo del mito che ha la sua unità, la sua costanza, la sua omogeneità da un capo all'altro del pianeta. Da questo punto di vista, si avvia un mutamento di prospettiva del quale soltanto oggi possiamo misurare tutte le conseguenze. L'irrazionalità di un modo di espressione e di una forma di pensiero così universalmente diffusi, così regolarmente riprodotti, non potrebbe avere se non una portata relativa: ‟Tutto ciò che, nelle mitologie civilizzate, noi consideriamo come irrazionale, fa parte, per i selvaggi contemporanei, di un ordine di cose accettato e considerato come razionale" (v. Lang, 1886, p. 57). In quella che lo stesso autore chiama una ‟metafisica selvaggia" e nella quale vede di conseguenza una costruzione a suo modo sistematica rappresentante una visione globale del mondo, ci sarebbe dunque, se la consideriamo dal di dentro, una sorta di razionalità, ancorchè irrazionale ai nostri occhi. Ma dove situare e come definire questa coerenza incoerente del mito? Per rispondere a questo problema, che è ancor oggi il nostro, la scuola antropologica inglese non aveva nè i modelli concettuali nè gli strumenti analitici necessari. Essa restava attaccata a un certo numero di presupposti teorici che ne limitavano singolarmente l'orizzonte.

Il credere in una successione di stadi evolutivi - valorizzando la nozione di sopravvivenza, cui si faceva svolgere un ruolo fondamentale nell'interpretazione dei fatti religiosi - induceva a porre l'esistenza di uno stato primitivo al quale, in ultima analisi, bisognava riferirsi qualunque fosse il livello di sviluppo della civiltà studiata. Nel caso di una religione evoluta, di una cultura raffinata come quella dei Greci, la spiegazione non potrà essere, quindi, che riduttiva. Comprendere significherà sempre ritrovare, dietro ai fenomeni complessi, le forme primordiali e semplici in cui compaiono con chiarezza il giuoco delle illusioni animistiche, le operazioni della magia simpatica o le confusioni della mentalità prelogica. La coerenza del mito non è ricercata nell'ordine intellettuale, al livello di una precisa architettura dei testi orali e scritti; essa è postulata dall'assimilazione globale del pensiero selvaggio a una logica dell'affettività, i cui meccanismi sarebbero paragonabili a quelli della passione e che, al pari di questa, resterebbe impermeabile all'esperienza, cieca a ciò che con buona ragione, cioè dal nostro punto di vista, rischierebbe di contraddirla.

Mettendo così l'accento, piuttosto che sull'organizzazione intellettuale, sulle emozioni e sugli affetti che dominano il comportamento e il pensiero dei primitivi, gli antropologi della scuola inglese si sono mostrati inclini, circa i fatti religiosi, ad accordare la priorità al rituale. Il mito è considerato come secondario: esso duplica, sul piano della lingua, il procedimento del culto, il solo veramente importante dal punto di vista dei bisogni collettivi, del quale costituisce la giustificazione o il commento orale. Rendere conto di un mito significa trovare il rituale al quale corrisponde.

D'altra parte, l'evoluzionismo non ricorre soltanto all'espediente di un costante appello alla categoria della sopravvivenza; ma autorizza anche l'uso, nei confronti di civiltà e religioni diverse, di un comparativismo globale. Riti, figure divine e sequenze mitiche vengono staccati dal loro contesto religioso, culturale e sociale. Astraendo dai loro tratti distintivi, vengono assimilati gli uni agli altri con l'espediente di categorie abbastanza generali e confuse perché si applichino un po' dovunque, senza mai essere rigorosamente pertinenti: mana, totem, culti di fecondità, dee madri, spirito della vegetazione. I discepoli di Tylor e di Lang hanno fatto infine ricorso, sotto una forma diversa da quella della mitologia comparata, a spiegazioni di tipo naturalistico. In luogo del Sole o dell'uragano, sono i rapporti dell'uomo con la Terra, da cui trae la sua sussistenza, quelli che ancorano l'esperienza religiosa arcaica al vivo della realtà naturale. Vita e morte della vegetazione, ritorno delle forze primaverili e, per la Grecia antica, ἐνιαυτός δαίμων formeranno, attraverso i riti di rinnovamento di cui sono l'occasione, il nucleo originale attorno al quale, si ritiene, si organizzeranno pantheon e mitologie.

c) Mito e storia letteraria: la filologia storica

In opposizione a queste due correnti le quali, dischiudendo gli studi greci tradizionali ad altre discipline come la linguistica e l'antropologia e ampliandone l'orizzonte ad altre culture, rinnovavano, ciascuna a suo modo e con i suoi limiti, lo studio del mito, la nuova scuola storico-filologica tedesca segna, nel corso di questa stessa svolta della fine dell'Otto e degli inizi del Novecento, il ripiegarsi della filologia su se stessa e la sua volontà di confiscare gli studi di mitologia classica. Mentre ha contribuito a raccogliere la documentazione in strumenti di lavoro ancor oggi indispensabili, questa scuola ha imposto, nella sua presentazione dei fatti, una visione generale e una metodologia così angustamente positivistiche che i problemi fondamentali del mito, nel caso greco, si sono trovati messi tra parentesi. Uno dei capigruppo della scuola, O. Gruppe, ne ha chiaramente definito lo spirito e le tecniche (v. Gruppe, 1921). Il metodo è storico e genetico ; esso mira a stabilire, con la filologia e la cronografia, l'esatto stato civile di un mito, la sua origine e la sua carriera: donde viene, dove è apparso, quando si è costituito, quali forme successive ha rivestito, che cosa si può sapere della sua prima versione documentata, quale dev'essere considerato il suo archetipo. L'onomastica svolge un ruolo di primo piano: e attorno ai nomi propri, attraverso le loro associazioni, la loro diffusione geografica, che si elaborano i miti. Per fissare il punto di partenza di un mito, di cui si seguirà poi il cammino di regione in regione, di città in città, di autore in autore, bisogna precisare sulla carta i luoghi in cui sono apparsi per la prima volta i nomi degli eroi e le epiclesi degli dei.

Una tale riduzione dell'analisi mitica alla ricerca cronologica e topografica conduce infine, con il ripudio di ogni specifica ricerca del senso, ad assimilare il mito alla storia. Se l'archetipo di un mito compare in un certo luogo, in un certo momento, si supporrà ch'esso traduca un certo evento storico: migrazioni di popoli, conflitti tra città, rovesciamenti di dinastie, ecc. Come caso limite, si cade nella spiegazione evemerista: ‟Uno dei risultati della ricerca nello studio delle religioni antiche dopo l'inizio del secolo - non esiterà ad affermare J. Bérard è stato quello di mettere in luce il sostrato di realtà storica che spesso soggiace alle leggende". Ma tutto l'interesse del mito non deriva proprio dalla straordinaria distanza tra l'evento, che crediamo talvolta di poter situare alla sua origine, e il ciclo dei racconti cosi come ci sono pervenuti?

A un siffatto misconoscimento della specificità del mito è legato il secondo aspetto dei lavori della scuola filologica: l'analisi puramente letteraria dei testi. Le diverse versioni di un mito sono studiate in funzione del tipo letterario, del genere di opera, della personalità degli scrittori che le hanno utilizzate. Così in C. Robert l'interesse verte sull'elaborazione e la trasformazione dei miti nella letteratura e nell'arte. Al limite, la mitologia sembra rientrare nello stesso tipo d'analisi e appartenere allo stesso ordine di fenomeni della creazione estetica, poetica, intellettuale : è nei grandi scrittori e nei filosofi che, secondo U. von Wilamowitz-Möllendorff, bisogna cercare le manifestazioni più alte e più autentiche della religione.

Il positivismo storico di questa scuola orienta ancora, nell'essenziale, l'opera di M. P. Nilsson, summa e modello della storia religiosa e mitologica della Grecia. I lavori dello studioso svedese, la cui autorità continua a pesare fortemente su questo genere di studi, sono tipici di un atteggiamento mentale molto caratterizzato, di un procedimento intellettuale molto risoluto sia riguardo ai miti che riguardo ai fatti religiosi.

Lo studio della religione greca non è affrontato con un orientamento che permetta di discernere le strutture portanti del pantheon, le diverse forme di raggruppamento che associano o oppongono le potenze divine, le articolazioni del sistema teologico; lo studio è condotto in funzione del carattere fondamentalmente composito, sincretico, ‛eteroclito' della religione classica, concepita non come un tutto organico, ma come un aggregato di dei riuniti dalle vicissitudini della storia piuttosto che da una qualche logica intema. Si finisce così con lo stabilire una galleria di ritratti singoli, il cui ordine di successione potrebbe essere alfabetico, come in un dizionario: le componenti di ciascuna figura divina le quali, in questa prospettiva segmentante, sembrano male accordarsi le une con le altre, sono spiegate per mezzo di processi di fusione tra elementi di origine differente, che avrebbero avuto l'occasione di incontrarsi. Così, il Dioniso greco deriva per Nilsson dalla combinazione di un genio asianico della vegetazione con il culto orgiastico di una divinità trace. Il problema fondamentale resta tuttavia quello dello status del Dioniso greco, arcaico e classico, del suo posto nelle pratiche, nelle credenze, nei miti, della sua posizione all'interno di una coscienza religiosa che nulla sapeva di un'eventuale dualità d'origine, delle funzioni del dio e della sua religione nel sistema globale cui appartiene da lunghissimo tempo (il che diminuisce l'importanza relativa dei problemi d'origine), dato che il suo nome figurava, sembra, già nelle tavolette della Pilo micenea e in ogni caso le sue feste preesistevano alla colonizzazione ionica nell'Asia Minore.

Lo stesso carattere disparato è attribuito alla mitologia, che raccoglierebbe tre strati sedimentari radicalmente eterogenei. Abbiamo anzitutto spiegazioni causali o eziologiche: brevi frasi formulate in luoghi e momenti diversi per render conto di pratiche cultuali e che si presentano nel disordine naturale della loro produzione storica. Ci sono poi i depositi lasciati dalla storia nella leggenda. I miti di combattimenti sostenuti da un dio, come quelli di Apollo contro Pitone e Delfine a Delfi, rispecchiano le lotte reali sostenute per la diffusione del culto del dio. Tutta la leggenda eroica rinvia parimenti all'epoca micenea e alla sua particolare storia. Su questo piano, il mito riveste la forma di una pseudopreistoria o di una pseudostoria. Ci sono infine elementi ‛immaginari', cioè elementi che lo storico non iiesce a ricondurre alle dimensioni dell'evento e nei quali, non potendo scoprirvi il rispecchiamento del reale, presuppone, secondo l'espressione di Nilsson, ‟un gratuito giuoco dell'immaginazione". Una tale costruzione immaginaria, libera e spontanea, trova espressione nelle fiabe popolari; e attorno a certi brani di racconti si organizzano talvolta cicli mitici più nutriti. Anche Nilsson, quindi, se respinge le tesi della scuola antropologica, ammette però, per render conto di quest'ultimo aspetto del mito, l'esistenza di un fondo di credenze primitivo e originario: superstizioni popolari e contadine, vicine alla terra ‟che è la fonte di ogni religione e da cui escono anche i grandi dei". In questa religione immanente alla vita di campagna, l'immaginazione popolare riempie la natura intera - boschi, monti, sorgenti, fiumi, campi, strade - di una folla di démoni, geni, ninfe, spiriti del grano e dei campi, somiglianti a quelli che sopravvivono nel folclore dell'Europa del Nord e a quelli che, nella Grecia antica, alimentano di sé le animate fantasie della creazione mitica. Circa questo punto, Nilsson è debitore a W. Mannhardt di un'interpretazione dei fenomeni religiosi e mitici dal punto di vista del folclore.

Tra la concezione di un pantheon scarsamente strutturato, disperso, sincretico e quella di una mitologia come amalgama di dati disparati c'è una stretta solidarietà. Come scrive E. Will, la religione greca offre ‟una somma sorprendente di contraddizioni e di paradossi che solo difficilmente i miti locali permettono di risolvere. Sembra evidente che è questa infinita diversità nell'unità, questa confusione che caratterizza tutti i pantheon e sistemi locali di culto, ciò che ci ha privato di grandi testi sistematici, come quelli tramandatici dall'India o dall'Iran" (v. Will, 1967, p. 452).

Nella linea e nella logica di una certa filologia tradizionale, ogni tentativo di decifrare la religione e la mitologia dei Greci rischia così di apparire come un'impresa disperata. Come pretendere di cercare un ordine in ciò che, per sua natura, sarebbe un guazzabuglio incoerente?

La tradizione classica, chiudendosi in se stessa, fa esplodere in tutta la sua forza il paradosso implicito sin dall'inizio nell'opposizione di μῦθος e λόγος, così come ci è stata trasmessa dall'antichità: lo stesso popolo, la stessa civiltà in cui si sarebbero incarnate le virtù di chiarezza, di rigore e d'ordine sul piano intellettuale, sarebbero invece vissuti, sul piano della religione e del mito, in una sorta di caos.

d) L'orizzonte intellettuale delle ricerche sul mito

Sebbene le tre correnti di pensiero che segnano gli inizi di una moderna scienza dei miti si combattano tra di loro, polemizzando talvolta duramente, le loro contese si svolgono, se così possiamo dire, in campo chiuso, nel quadro di uno spazio intellettuale che le delimita tutte allo stesso modo e del quale è possibile, ad onta delle profonde divergenze teoriche e metodologiche, definire le linee maestre e scorgere i comuni limiti.

1. Sotto forme diverse, anzi opposte, la prospettiva resta sempre fondamentalmente genetica e la ricerca orientata verso la scoperta dell'‛origine'. Le differenti tappe della formazione del linguaggio, gli stadi successivi dell'evoluzione sociale e intellettuale, le trasformazioni storiche di un tema mitico si riferiscono tutti allo stesso modo, come principio di spiegazione, a uno stato primitivo o a un archetipo primordiale.

2. Non si fa ancora luce l'idea che religione e miti formino un sistema organizzato, del quale bisogna cogliere la coerenza e le articolazioni molteplici. Ciascun mito, ciascuna versione, ciascuna divinità è studiata isolatamente. Nella linea seguita, ad esempio, nell'opera classica di L. R. Farnell, The cults of the Greek States (1896-1909), si affronta volta a volta lo studio di ciascun dio, con la sua particolare mitologia, come se un pantheon, somma di entità individuali, potesse essere ritagliato in segmenti.

3. Il mito è trattato riduttivamente. Anziché vedervi una forma specifica d'espressione, una lingua da decifrare, esso viene piuttosto ricondotto ora a un accidente, a un controsenso nello sviluppo del linguaggio, ora a una pratica rituale, ora a un evento storico. Se si fa al mito la grazia di concedergli un sovrappiù rispetto alle realtà sulle quali s'innesta e che costituiscono il suo basamento, quest'aggiunta vien considerata come un nulla, come un giuoco gratuito, una fantasia pleonastica, sprovvista di significato intrinseco.

4. La nozione di simbolo religioso, in mancanza di un'appropriata analisi linguistica e sociologica, è adoperata nella sua accezione letteraria, metaforica, sia che si riallacci il simbolo mitico a quel fondo primitivo e originario del quale ogni religione, si crede, è espressione (forze della natura, rapporti con la terra, vita e morte della vegetazione), sia che lo si assimili alle ‛fantasie immaginative' dei poeti e dei filosofi.

5. Racchiuso in questo quadro, lo studio del pensiero mitico dei Greci oscilla tra due poli estremi: o si tenta di farlo rientrare in una mentalità primitiva, sempre somigliante a se stessa, sempre allo stesso modo contrapposta alla nostra (animismo, magia simpatica, pensiero prelogico); oppure gli si applicano le nostre proprie categorie, come se il ‛buon senso' del grecista contemporaneo fosse, come la ragione cartesiana, la cosa più universalmente diffusa al mondo. In nessuno dei due casi la ricerca riesce a essere realmente storica, a riconoscere la specificità del caso greco in rapporto ad altre forme di espressione mitica, così come non arriva neppure a render conto, sul piano sincronico, dell'architettura d'insieme di questi sistemi di pensiero.

4. Il mito oggi

È nel periodo tra le due guerre che l'orizzonte degli studi mitologici si trasforma ed emerge una problematica nuova. I mutamenti si verificano in molteplici direzioni, secondo diversi angoli visuali e a partire da discipline disparate: filosofia della conoscenza, psicologia, sociologia, etnologia, storia delle religioni, linguistica. Le ricerche hanno però in comune la caratteristica di prendere il mito sul serio, di accettarlo come una dimensione irrecusabile dell'esperienza umana.

Si respingono i limiti angusti del positivismo del secolo precedente, con la sua ingenua fiducia in un'evoluzione delle società in continuo progresso dalle tenebre della superstizione verso i lumi della ragione. Nello stesso tempo si mettono in questione, in seguito a una miglior conoscenza delle altre culture, le particolari forme di razionalità che l'Occidente ha serbate e sviluppate. L'interesse va ora a quella parte d'ombra che l'uomo conserva entro se stesso, a quel che essa può comportare di autentico e d'essenziale. Sotto diversi aspetti s'avvia, in questa prospettiva, una riabilitazione del mito. La sua ‛assurdità' non è più denunciata come uno scandalo logico, ma è sentita come una sfida all'intelligenza scientifica, che è tenuta ad accettarla per comprendere quel ‛diverso' che è il mito e incorporarlo nel sapere antropologico.

Si potrebbe forse, riprendendo una classificazione di E. Leach, distinguere in questa serie di approcci alcune linee essenziali, le quali, incrociandosi e talvolta mescolandosi, hanno condotto a tre grandi tipi di teorie attorno alle quali si raggruppano oggi le ricerche sui miti: le teorie simbolistiche, funzionalistiche, strutturalistiche.

a) Simbolismo e funzionalismo

Continuando Creuzer e Schelling, la riflessione sul simbolismo del mito, in quanto modo di espressione diverso dal pensiero concettuale, è uno degli elementi principali del problema che gli studiosi moderni si pongono circa il senso e la portata delle creazioni mitiche.

È stato certamente E. Cassirer che, su questa via, ha spinto l'analisi più lontano e nella forma più sistematica. Ma nella psicologia del profondo, in Freud e Jung, nella fenomenologia religiosa di un G. van der Leeuw e di un W. F. Otto, nell'orientamento francamente ermeneutico di storici delle religioni come M. Eliade e di filosofi come P. Ricoeur, la nozione di simbolo costituisce come il filo conduttore del pensiero, e questa unità tematica lega gli uni agli altri, ad onta di orientamenti talvolta opposti, questi diversi approcci al mito. Possiamo dunque tentare di definire la colorazione comune, conferita a questi molteplici punti di vista da un'illuminazione la cui sorgente è in ciascun caso sempre la stessa: la nozione di simbolo.

Il simbolo s'oppone al segno del linguaggio concettuale su tutta una serie di piani. Il segno è arbitrario nel suo rapporto con ciò che significa (o più precisamente, per dirla con i linguisti, il segno è duplice, ha due facce: significante e significato; il legame tra questi due aspetti, almeno per ciascun segno preso isolatamente, è interamente arbitrario). Il segno fa riferimento a una realtà ad esso esterna, cui rinvia come a un oggetto di conoscenza (referente). Un segno non ha valore significante se non in forza dei suoi rapporti con altri segni, della sua inclusione in un sistema generale; in quest'insieme strutturato, quel che era significato a un certo livello di astrazione può funzionare come significante a un altro livello, più elevato. Il segno è determinato, circoscritto; si presta a operazioni precise; come caso limite, nelle lingue tecniche e scientifiche esso è semplice, univoco, trasparente; vien definito dalla serie di operazioni alle quali si presta, dalla loro logica, dall'assi omatica che governa le loro combinazioni. Il simbolo comporta al contrario un aspetto ‛naturale' e ‛concreto'; esso aderisce in parte a ciò che esprime. Questa ‛co-naturalità' del simbolo e del suo contenuto proviene, secondo l'interpretazione dei simbolisti, dal fatto che il simbolo non si riferisce a un oggetto esterno, come si verifica in un rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. E in questo senso che il simbolo mitico può esser detto ‛tautegorico': non rappresenta un'altra cosa; si pone, afferma se stesso. Non è un sapere riguardante un oggetto, è presenza a se stesso. Non appartiene quindi, come il segno, all'ordine dell'intellezione, ma a quello dell'affettività e del volere, le cui reazioni fondamentali e aspirazioni più profonde non sono soltanto vissute soggettivamente nell'intimità di ciascuno, ma si proiettano e si oggettivano al di fuori, esprimendosi nelle forme dell'immaginario, nelle configurazioni mitiche, le cui strutture di base (gli archetipi, in senso junghiano) avrebbero la stessa costanza e la stessa universalità dei quadri del pensiero logico. Naturalmente, questa concezione del simbolismo si presta a due interpretazioni contrarie del mito, a seconda che si collochi il simbolo al di sotto o al di sopra del concetto.

Nel primo caso viene assimilato, come in Freud, ad altre forme di espressione ‛sintomatica' di desideri inconsci; viene accostato ai prodotti delle pulsioni affettive così come si manifestano nelle immagini del sogno, nei fantasmi di certe nevrosi, con i loro processi di condensazione, di spostamento, di figurazione simbolica degli oggetti della libido. Nel secondo viene invece collocato al di sopra del concetto - il quale, si sottolinea, non si applica validamente se non alla conoscenza del mondo dei fenomeni - e lo si accosta, con Jung e Kerènyi, con van der Leeuw, Otto ed Eliade, allo sforzo per tradurre ciò che, nell'esperienza intima della ‛psiche' o nell'inconscio collettivo, sorpassa i limiti del concetto e sfugge alle categorie dell'intelletto, ciò che a rigore non può essere conosciuto, ma può essere ‛pensato', riconosciuto attraverso forme d'espressione nelle quali si manifesta l'aspirazione umana all'incondizionato, all'assoluto, all'infinito, alla totalità, vale a dire - per dirla nel linguaggio della fenomenologia religiosa - all'apertura verso il sacro. Ma il fatto che il simbolo, nel suo rapporto con il pensiero concettuale, venga interpretato come inferiore o superiore riguarda la filosofia personale dei vari autori, senza modificare le condizioni che una lettura simbolica impone all'analisi concreta dei miti. Il simbolo è definito come elemento fluido, diffuso, indeterminato, complesso, sincretico. All'ideale di univocità proprio del segno, esso oppone la propria polisemia, la propria capacità inesauribile di caricarsi di nuovi valori espressivi. Alla precisa delimitazione dei segni e delle classi di segni, alla loro funzione distintiva, alla regolarità delle loro combinazioni, si oppone la duttilità e la libertà dei simboli, i quali possono slittare da una forma all'altra e fanno confluire in una stessa struttura dinamica le sfere più diverse, cancellando le frontiere tra i differenti settori del reale e traducendo in un giuoco di specchi di molteplici corrispondenze l'interpenetrazione dei fatti umani, delle realtà sociali, delle forze naturali e delle potenze sovrannaturali (nonché le loro consonanze reciproche), mentre i concetti isolano e determinano tutti questi elementi appunto per distribuirli in classi separate. Il segno non ha senso se non in relazione al sistema di cui è un elemento ; un simbolo autentico invece vale per se stesso, per la sua dinamica interna, per la sua potenzialità di indefinito sviluppo, per la sua capacità di mettere un aspetto dell'esperienza umana in risonanza con la totalità dell'universo. E questa forza espansiva del simbolo che gli dà la vocazione di tradurre, in una forma sempre necessariamente limitata, ciò che sfugge alla limitazione: la totalità e l'infinito. Il simbolo, quindi, non è mai nè in equilibrio nè in riposo. C'è in esso un costante movimento, un mirare verso qualcosa che sta al di là di ciò che esprime.

Questa tensione del simbolo verso un indefinito superamento del suo contenuto specifico lo qualifica come espressione del sacro, del divino, e spiega a un tempo la vita permanente dei miti, che si caricano incessantemente di nuovi significati, s'incorporano commentari, glosse e interpretazioni per aprirsi su altre dimensioni da esplorare e riscoprire.

Questa presentazione del simbolo ha il merito di porre con forza il problema del linguaggio mitico, della sua specificità nel suo rapporto con il senso stesso dei racconti. Essa accoglie però come cose evidenti tutta una serie di affermazioni almeno contestabili. La funzione del mito, di tutti i miti, è forse esclusivamente quella di mirare, attraverso l'espressione simbolica, al sacro, al divino, all'incondizionato? Ciò significa presupporre tra mito e religione intendendo qui religione nel senso datole da una certa tradizione spirituale - un rapporto di identità che molti mitologi non potrebbero accettare sotto questa forma (v. Kirk, 1970). La nozione di simbolo d'altra parte, allo stato attuale delle discipline che concorrono al suo studio - psicologia, sociologia, linguistica - pone più problemi di quanti non ne risolva. Si è in diritto di opporre, in modo così netto, il linguaggio del mito, simbolico e immaginoso, alle altre lingue di segni, di ordine concettuale? Il mito adopera la lingua comune, quella di tutti i giorni, pur servendosene in modo diverso. Sarebbe facile mostrare le continuità esistenti tra simboli e segni, e sottolineare ciò che l'uso del termine simbolo (per es. simbolo matematico) comporta ancora di equivoco e di incerto. Si noterà soprattutto, riguardo ai problemi più specifici del mito, che gli orientamenti simbolistici sostituiscono al paziente lavoro di decifrazione per mezzo dell'analisi delle strutture del racconto una lettura immediata, intuitiva, che agli specialisti appare sempre gratuita e il più delle volte erronea. Affermando che la mitologia mette in opera un materiale simbolico costante, avente valore universale, archetipico, ci si astiene da ogni riferimento al contesto culturale, da ogni ricerca di ordine sociologico o storico. Si corre il serio rischio di lasciarsi ingannare da una pretesa ‛familiarità' dei simboli e di sfociare in controsensi o anacronismi. Del repertorio, proposto da Jung, dei simboli archetipici - la Grande Madre, il Vecchio Saggio, il Fanciullo Divino, il Sole, l'Animus e l'Anima, il Sé, la Croce, il mandala, ecc. - la presenza dei quali si ritroverebbe ovunque, il meno che si possa dire è che non convince. Del resto, dopo che gli studi linguistici hanno mostrato l'esistenza, tra i gruppi di lingue, di profonde differenze di organizzazione fonologica, morfologica e sintattica, è difficile ammettere senza l'ombra d'una dimostrazione l'unità del linguaggio simbolico, concepito non come un sistema articolato a più livelli, ma come un vocabolario universale, di cui basterebbe inventariare gli elementi separatamente per identificarne i valori significativi.

I funzionalisti, e in primo luogo B. Malinowski, non hanno quindi dovuto faticare per sottolineare la distanza esistente tra le interpretazioni di tipo simbolistico e il ruolo che i miti effettivamente svolgono nel contesto sociale e istituzionale dei popoli nei quali sono rimasti vitali. Per l'antropologo che lavora sul terreno, il mito è una parte, un aspetto frammentario di un insieme più vasto: la vita sociale, in quanto sistema complesso di istituzioni, di valori, di credenze e di comportamenti. In questa prospettiva, il mito cessa di apparire come portatore di una verità ‛metafisica', di una rivelazione religiosa o anche di una semplice spiegazione astratta; esso non ha un contenuto teorico, né una capacità di insegnamento spirituale. Solidale con il rito - poiché racconto orale e pratica gestuale costituiscono le due facce di una sola e medesima espressione simbolica - il suo ruolo è quello di rinforzare la coesione sociale, l'unità funzionale del gruppo, presentando e giustificando, in una forma codificata e gradevole da ascoltare, facile da tenere a mente e da trasmettere di generazione in generazione, l'ordine tradizionale delle istituzioni e dei comportamenti. Il mito risponde così, su un duplice piano, alle esigenze della vita collettiva: soddisfa il bisogno generale di regolarità, di stabilità e di perennità delle forme di esistenza, bisogno che caratterizza la socialità umana, e permette inoltre agli individui, all'interno di una particolare società e d'accordo con le procedure e le regole usuali, di adattare le proprie reazioni gli uni verso gli altri, di sottomettersi alle stesse norme, di rispetta- re le gerarchie.

Nella loro opposizione, funzionalismo e simbolismo si presentano come il dritto e il rovescio della stessa medaglia; ognuno cela o ignora ciò che l'altro riconosce e descrive. I simbolisti s'interessano al mito per la forma particolare del racconto, ma senza illuminarlo attraverso il contesto culturale; pur lavorando sull'oggetto stesso, sul testo in quanto tale, essi non vi ricercano però il sistema, ma gli elementi isolati del vocabolario (v. Sperber, 1968). I funzionalisti dal canto loro vanno, è vero, alla ricerca del sistema che conferisce al mito la sua intelligibilità ; ma, anziché cercarlo nel testo, nella sua organizzazione manifesta o nascosta, cioè nell'oggetto, essi lo situano altrove, nei contesti socio-culturali nei quali i racconti si presentano, cioè nelle modalità d'inserzione del mito all'interno della vita sociale. Il mito perde così, in essi, la sua specificità e le sue capacità di assumere un significato: esso non parla d'altro se non della vita sociale stessa e, di conseguenza, non ci sarebbe nient'altro da dirne se non che, come tutti gli altri elementi del sistema sociale, permette alla vita del gruppo di funzionare. Neppure un siffatto ottimismo finalistico arreca una valida spiegazione dei fenomeni mentali e sociali o delle realtà biologiche. Come osserva Lévi-Strauss: ‟Dire che una società funziona è un banale truismo; ma dire che tutto, in una società, funziona è semplicemente assurdo" (v. Lévi-Strauss, Anthropologie..., 1958; tr. it., p. 25).

b) Nuovo approccio: da Mauss a Dumézil

È un'altra via quella che s'annunzia nell'opera di M. Mauss, M. Granet e L. Gernet (un antropologo, un sinologo e un grecista): tutti e tre sono egualmente legati alla scuola sociologica francese e vogliono di comune accordo modificare le teorie durkheimiane per integrare in esse, ai fini dello studio del mito, i contributi della storia, della linguistica e della psicologia. Assai significativa, a questo proposito, è la critica che sin dal 1908 Mauss formula contro certe tesi di Wundt. Per lo studioso tedesco il mito, essendo soggetto alle fluttuazioni dell'affettività popolare, è meno oggettivo della lingua e meno legato di questa alle condizioni e alle costrizioni sociali. Da buon durkheimiano, Mauss non si accontenta di opporre a Wundt il carattere istituzionale del mito, l'aspetto costrittivo dei suoi temi, anche di quelli in apparenza più gratuiti, il suo valore di norma per un gruppo; egli accosta il mito al linguaggio per farne un sistema simbolico che permette la comunicazione all'interno di una collettività. Strappato da quella zona di confusione affettiva, di spontaneità fantasiosa nella quale l'aveva collocato Wundt, il simbolo mitico si definisce quindi in forza del suo doppio riferimento alla costrizione sociale da una parte e alla regola linguistica dall'altra. Il mito non è una vaga espressione di sentimenti individuali o di emozioni popolari: è un sistema simbolico istituzionalizzato, un comportamento verbale codificato il quale veicola, al pari della lingua, modi di classificare, di coordinare, di raggruppare e di contrapporre i fatti, di avvertire simultaneamente rassomiglianze e dissomiglianze: in breve, modi di organizzare l'esperienza. Nel mito e per mezzo del mito, così come nella lingua e per mezzo della lingua, il pensiero si modella esprimendosi simbolicamente; esso si pone e s'impone a un tempo. Quest'insieme di norme classificatorie, di categorie mentali messe in opera dal mito forma come l'atmosfera intellettuale generale delle società arcaiche, delle quali regola tanto l'etica o l'economia quanto le pratiche propriamente religiose. Possiamo dire in questo senso che, per Mauss, in ogni simbolismo mitico c'è una forma d'espressione ‛globalizzante' che traduce l'uomo totale, anche se i diversi sistemi mitici, nelle loro particolarità, restano legati a condizioni socio storiche variabili.

Nella sua esplorazione del mondo leggendario dell'antica Cina, Granet non ha mai dissimulato il suo debito nei confronti di Mauss. Se ha potuto scrivere che, nel caso di una civiltà come quella cinese, la leggenda è in un certo modo più vera della storia, è perché vi decifra gli stessi fondamentali fatti di pensiero dei quali la lingua è a un tempo il veicolo e lo strumento: quadri spazio-temporali, rapporti tra microcosmo e macrocosmo, organizzazione logica del pensiero e concezione dell'universo secondo la stessa polarità riscontrabile tra i grandi principi opposti come lo yin e lo yang. Attraverso la leggenda, Granet va alla scoperta delle realtà sociali e delle strutture intellettuali che, nel loro intreccio, costituiscono il fondamento istituzionalizzato della mentalità cinese.

Al lavoro di Granet è paragonabile, nel settore degli studi greci, quello di Gernet, per la stretta solidarietà che questi riconosce tra simboli mitici, pratiche istituzionali, fatti linguistici e strutture mentali. La sua tesi del 1917, Recherches sur le développement de la pensée juridique et morale en Grece, d'ispirazione ancora fortemente durkheimiana, reca già come sottotitolo: Étude sémantique.

Si tratta forse, sotto l'aspetto di una ricerca sul passaggio di pratiche religiose - che mettono in opera simbolismi mitici - a una regolamentazione giuridica, del primo tentativo di semantica strutturale. Sono studiati i significati dei termini, il loro uso in momenti diversi della storia, i valori inizialmente mitici di parole come δίκη, ὕβρις, αἰδώς ecc., e poi la loro specializzazione nel corso dell'evoluzione semantica, i costrutti sintattici nei quali tali termini sono adoperati, la comparsa di nuovi vocaboli a partire da radici antiche, i rapporti di associazione e di contrasto: in breve, l'analisi di un campo semantico e delle sue trasformazioni sfocia in uno studio delle rappresentazioni e delle pratiche collettive. Non c'è frattura tra il linguistico, l'istituzionale e il concettuale. Quando s'imbatte in nozioni o temi mitici, la ricerca si muove costantemente su tutti e tre i piani contemporaneamente. Da questo punto di vista il mito viene riabilitato. Esso ha un senso, e un senso specifico; questa specificità non recide però i suoi legami con gli altri fatti linguistici o con le altre strutture intellettuali, e neppure con il contesto sociale. Il mito non è confusione affettiva, fantasia individuale, gioco gratuito dell'immaginazione o oscura rivelazione di una gnosi segreta; esso rinvia al sistema istituzionale e mentale del quale è un'espressione particolare. Tre tratti caratterizzano la concezione che Gernet ha del mito e dei modi di analizzarlo: 1) come Mauss e Granet, egli vi vede un esempio di ‛fatto sociale totale', corrispondente ai tipi di società in cui le categorie dell'economico, del politico, dell'etico e dell'estetico non si sono ancora dissociate, restando come incluse nella loro espressione simbolica. Nel caso della Grecia, ciò che, nel corso successivo della storia, si presenterà sotto forma di funzioni differenziate, si trova ancora, nel mito, ‛più o meno confuso'. Il pensiero mitico ‟tende a essere totale; interessa tutt'insieme economia, religione, politica, diritto, estetica" (v. Gernet, 1968, p. 131). Esso è quindi segnato in modo fondamentale dalla polivalenza e dalla polisemia; 2) una mitologia, scrive Gernet, è una specie di linguaggio. ‟Ispirandoci alla lezione dei linguisti, dovremo tener conto da una parte delle connessioni tra momenti o elementi della stessa storia, e dall'altra delle associazioni in virtù delle quali un episodio, un motivo o un'immagine evocano un senso analogo. Connessioni e associazioni aiutano a comprendere, ma non bisogna essere frettolosi" (ibid., p. 100); 3) il linguaggio del mito fa appello a immagini concrete piuttosto che a nozioni astratte, senza però che tra immagini e nozioni ci sia una frattura radicale, ma soltanto differenze di livelli d'astrazione. In una società data, il giuoco delle combinazioni d'immagini obbedisce a delle regole e, quando un autore greco tardo riprende e trasforma un modello mitico, egli non è interamente libero di rifoggiarlo a suo talento. Senza saperlo, ‟egli lavora nella linea dell'immaginazione leggendaria". ‟Nell'immaginazione, anche se ormai non lavora che per il piacere, le associazioni tradizionali continuano a funzionare". Certo, la narrazione dei mitografi ‟comporta sempre, in qualche misura, una ricostruzione, i nessi della quale, però, non sono interamente rimessi alla discrezione del narratore o delle sue fonti letterarie: vi si può sempre riconoscere una tradizione, persino nelle connessioni che sarebbero inventate" (ibid., p. 120).

Sulla stessa via, Dumézil fa un altro passo avanti. Se certi critici hanno potuto credere ch'egli riprendesse gli studi di mitologia indoeuropea comparata, screditata dagli eccessi di Max Müller e dei suoi discepoli, ciò è dovuto a un vero malinteso circa l'orientamento di lavori che in realtà associano, in una ricerca di storia delle religioni, la linguistica comparata di un Meillet e di un Benveniste alla sociologia storica di Mauss e di Granet. Appunto attraverso la collaborazione di queste discipline, adoperate in modo rigoroso, è possibile raggruppare i differenti sistemi religiosi dei popoli indoeuropei in un solo campo di studi, entro il quale l'analisi comparata mette in luce dietro significative divergenze generali di orientamento e di configurazione riguardanti, come li chiama Dumèzil, i campi ideologici, profonde analogie strutturali.

1 . Il modello di tripartizione funzionale, che costituisce la chiave di volta dell'architettura dei diversi pantheon e delle diverse mitologie indoeuropee (sovranità, nel suo duplice aspetto magico e violento, giuridico e pacifico; potenza guerriera e forza fisica; fecondità, nutrimento, prosperità del gruppo umano), comporta un significato propriamente intellettuale. In effetti, la concordanza tra un sistema religioso e l'altro non è soltanto d'ordine linguistico e teologico, ma coinvolge un insieme articolato e coerente di concetti.

2. Più che un giuoco dell'immaginazione, sia pur sotto- posto a regole, un sistema religioso implica ciò che possiamo chiamare un'ideologia. Tale ideologia non informa soltanto il rituale e i miti: essa governa pure l'ordine del discorso anche all'interno di generi apparentemente del tutto diversi, come la poesia epica o l'annalistica romana. Proprio nella misura in cui ricerca strutture di pensiero, lo studioso di mitologia comparata può trovare quanto gli occorre in opere letterarie. Ma il rapporto è ora rovesciato. Si procede dall'ideologia religiosa agli scritti letterari anziché trattare letterariamente fenomeni religiosi e tradizioni mitiche. I problemi di trasformazione o di trasposizione del mito verso l'epopea o il romanzo si pongono in termini affatto diversi.

3. Le strutture che lo studioso di mitologia comparata ha il compito di mettere in luce sono di ordine mentale : riguardano i grandi quadri del pensiero, i modi di rappresentazione dell'universo, umano e divino, l'organizzazione della società nell'equilibrio delle sue componenti necessane; esse non si rapportano a eventi storici e neppure a dati sociali di cui sarebbero l'espressione diretta o il semplice riflesso. Nella sua ricerca, lo studioso di mitologia comparata non può pretendere né di fabbricare storia né di ricostruire uno stato primitivo delle società. Tra l'ideologia che informa le tradizioni mitiche di un gruppo umano e la sua organizzazione sociale possono esserci distorsioni, differenze fortemente marcate. Nell'analisi d'una società, bisogna quindi tener conto dei suoi molteplici piani, ciascuno dei quali ha la propria specificità, la propria relativa autonomia di sviluppo, la propria dinamica e la propria logica, il proprio tipo di temporalità. La perennità o la durata assai lunga dei fatti linguistici, delle ideologie religiose e delle tradizioni mitiche può contrastare con la successione rapida e brusca degli eventi politici e militari, con il ritmo ora lento ora accelerato del mutamento delle istituzioni sociali.

Con G. Dumézil si libera così il terreno per un'analisi che rispetti a tutti i livelli la specificità del mito, che l'affronti dall'interno, considerando il corpus dei testi come un universo oggettivo che bisogna trattare in se stesso e per se stesso; i riferimenti al contesto hanno infatti la funzione di isolare o illuminare i valori semantici di certi elementi del racconto, e non di ridurre l'insieme del mito a un ordine di realtà ad esso esteriore ed estraneo, si tratti di pulsioni affettive, di pratiche rituali, di fatti storici, di strutture sociali o d'una esperienza dell'assoluto.

c) Lo strutturalismo di Lévi-Strauss

È Lévi-Strauss colui che, dopo la seconda guerra mondiale, doveva riprendere in modo sistematico questa linea di ricerca, mettendo a confronto la riflessione teorica sui problemi del mito con l'analisi concreta - continuata in quattro volumi successivi - di un vasto complesso di miti amerindiani tramandati oralmente. Quest'opera, che estende al campo della mitologia i principi e i metodi dell'analisi strutturale, segna a un tempo una continuità, una frattura, un punto di partenza.

Una continuità in quanto, nella linea di Mauss, il mito è visto come un sistema di comunicazione di cui bisogna identificare le categorie e le strutture; con Gernet, e più ancora con Dumézil, l'analisi precisa del testo, attenta alle connessioni interne tra gli elementi del racconto e alle associazioni tra gli episodi e le diverse versioni, ricerca nel mito un'armatura intellettuale, un insieme articolato di concetti, un coerente assortimento di opposizioni.

Ma segna anche una frattura - nel senso in cui si parla, dopo Bachelard, di frattura epistemologica - la quale si manifesta su vari piani. Il modello adoperato per la decifrazione del mito è ormai quello linguistico; più precisamente è quello della linguistica strutturale, il cui oggetto di studio è la lingua, distinta dalla parole, vale a dire le regole del giuoco, il quadro formale di un linguaggio, non gli atti linguistici dei diversi soggetti parlanti. Analogamente, Lévi-Strauss distingue nel mito, accanto al senso ordinario, così come risulta immediatamente dal filo della narrazione, con la sua apparenza di balordaggine, di futilità o addirittura di assurdità, un senso diverso, nascosto, che non è presente alla coscienza allo stesso modo del primo. Questo secondo senso, non più narrativo, è quello cui mira il mitologo, così come il linguista, dietro al flusso delle parole, mirava alle strutture stabili della lingua. In effetti, il mito non è soltanto un racconto che svolge la propria catena sintagmatica secondo l'asse diacronico di un tempo irreversibile, a quel modo in cui le parole si susseguono nel discorso di un soggetto parlante: esso è anche, come la lingua, un assetto regolare di elementi che formano insieme un sistema sincronico, un ordine permanente, che costituisce lo spazio semantico a partire dal quale si produce il racconto senza che gli utenti del mito ne abbiano coscienza più di quanto abbiano coscienza delle regole fonologiche e sintattiche di cui si servono spontaneamente parlando una lingua. Ci sono quindi nel mito due livelli di lettura: un livello narrativo manifesto e un livello più profondo, che l'analisi può attingere individuando tra gli ‛elementi' costitutivi del racconto (brevi frasi che condensano in una relazione semplice le sequenze narrative essenziali, chiamate da Lévi-Strauss mitemi) rapporti d'opposizione e d'omologia indipendenti dall'ordine narrativo, cioè dalla loro posizione e dalla loro funzione nella catena lineare del racconto. Per far apparire questa struttura permanente, che forma la base del testo, si distribuiscono le frasi-relazioni o mitemi su due assi, l'uno orizzontale, che segue l'ordine stesso del racconto, e l'altro verticale, che raggruppa in colonne tutti i mitemi suscettibili di classificazione nello stesso gruppo a causa delle loro affinità tematiche. Così nel mito di Edipo, che Lévi-Strauss ha scelto per illustrare, con un esempio universalmente noto, il suo modo di procedere, l'insieme dei mitemi si dispone in quattro colonne: nella prima si ordinano quelli che, sotto una forma o l'altra, traducono la sopravvalutazione dei rapporti di parentela (Cadmo abbandona tutto per cercare la sorella; Edipo sposa la madre; Antigone seppellisce il fratello Polinice, nonostante il suo tradimento e il divieto di sepoltura che colpisce il suo cadavere); nella seconda, quelli che traducono la sottovalutazione o la svalutazione dei rapporti di parentela (Edipo uccide il padre e maledice i figli; Polinice ed Eteocle, fratelli, si uccidono a vicenda); nella terza, quelli che negano l'autoctonia degli uomini, la loro relazione genealogica con la Terra (Cadmo uccide il dragone ctonio; Edipo trionfa sulla Sfinge); nella quarta, quelli che al contrario evocano il radicarsi dell'uomo, al modo d'una pianta, nel suolo materno (il piede gonfio di Edipo e tutte le anomalie delle gambe o dell'andatura nella stirpe dei Labdacidi). È questa disposizione in colonne che dà ai mitemi il loro vero senso, facendoli apparire non come elementi isolati, ma come gruppi di relazioni, che si oppongono o si corrispondono. Si constata in realtà che, se si oppongono la prima e la seconda colonna, e la terza e la quarta, in questa doppia opposizione c'è un'omologia formale: la quarta colonna sta alla terza come la prima sta alla seconda. Questo rapporto di proporzionalità, che costituisce in modo peculiare la struttura del mito, gli conferisce il valore di una sorta di strumento logico che permette di operare una mediazione tra termini esclusivi, tra situazioni contraddittorie: nell'esempio edipico, si tratterà per un verso della credenza nell'autoctonia dell'uomo (attestata nei miti di emergenza dalla Terra-Madre) e, per l'altro, della sua nascita dall'unione di un uomo e di una donna (come esige tutto il codice sociologico della filiazione). Soggiacente al mito ci sarebbe dunque una sorta di problema di ordine logico, implicito nella stessa architettura del testo, con il suo dispositivo a quattro colonne: rapporti di parentela sopravvalutati, poi sottovalutati; autoctonia ripudiata, poi affermata. Formulata in modo esplicito, la domanda cui l'armatura del mito risponde sarebbe del tipo: l'identico nasce dall'identico (l'uomo dall'uomo) o dal diverso (l'uomo dalla Terra)? Stabilendo che la ‟sopravvalutazione della parentela di sangue sta alla sua sottovalutazione come lo sforzo di sfuggire all'autoctonia sta all'impossibilità di riuscirci" (v. Lévi-Strauss, Anthropologie..., 1958; tr. it., p. 242), la struttura mitica, per il fatto stesso di situare i termini adoperati dal racconto nelle loro posizioni relative di esclusione e di implicazione, segna l'impossibilità d'una soluzione sia su un versante che sull'altro, e di conseguenza la necessità di un equilibrio mediatore tra affermazioni reciprocamente in- compatibili.

Non essendo Lévi-Strauss uno specialista di mitologia greca, la scelta del mito di Edipo per illustrare il suo metodo aveva qualcosa di gratuito. Egli stesso, a questo riguardo, ha parlato di una scelta da imbonitore: si tratta di una ‛dimostrazione' simile a quella di un venditore che voglia far comprendere facilmente al pubblico il modo d'uso e i vantaggi degli strumenti che si appresta a smerciare. Ma un tale esercizio di stile, se aveva i vantaggi della chiarezza, non andava esente da inconvenienti. Da una parte esso poteva far supporre che la decifrazione d'un mito non esiga preliminarmente una conoscenza approfondita della civiltà nella quale è apparso e che il mito non abbia altro contesto fuori di quello ch'esso stesso offre; e d'altra parte la segmentazione delle sequenze del racconto e la distribuzione dei mitemi nella matrice in funzione delle loro affinità tematiche non potevano non apparire, agli occhi di un grecista, egualmente arbitrarie. È un atto di forza, o almeno una forzatura (fondata, ma non giustificata da alcune osservazioni di M. Delcourt), quello che permette di radunare l'uccisione del dragone a opera di Cadmo e la vittoria di Edipo sulla Sfinge sotto la stessa specie semantica di un ripudio dell'autoctonia, e il piede gonfio e la claudicazione dei Labdacidi sotto la specie inversa e simmetrica di un radicamento ctonio originario. Infine e soprattutto, prendendo questo testo alla lettera e dandogli una portata universale, la maggior parte degli interpreti ha creduto di poterne inferire che ogni mito deve esser trattato come uno strumento logico di mediazione tra contraddizioni insolubili al livello del vissuto, e che un siffatto ruolo mediatore, per lo strutturalismo, definiva la funzione esclusiva e costante della mitologia.

Nello stesso anno in cui pubblicava l'Anthropologie structurale, Lévi-Strauss dava con La geste d'Asdiwal non più una trattazione estrosa di un mito ad hoc, ma una dimostrazione rigorosa dei suoi procedimenti, applicati a diverse versioni di un mito degli Indiani Tsimshian della Columbia britannica, la cui vita sociale e materiale, grazie ai lavori degli antropologi, e tra le meglio conosciute. In questo testo che bisogna prendere come punto di partenza - Lévi-Strauss si muove qui nel suo campo la suddivisione del mito in segmenti, l'attribuzione a tali segmenti di valori semantici senza rapporto diretto con l'ordine del racconto, la distribuzione di questi valori su una serie di assi, su una moltitudine di piani di significazione in cui operano simultaneamente: tutte queste operazioni, miranti a mettere in luce l'armatura mitica, cioé la rete di opposizioni e di parallelismi governanti in omologia e simultaneamente una pluralità di codici, sono rese possibili soltanto dalla conoscenza precisa e completa del contesto culturale ed etnografico; sono i dati della geografia (fisica e umana), l'ecologia, gli spostamenti stagionali, le realtà tecniche ed economiche, le strutture sociali, le istituzioni, i rapporti di parentela, le credenze e le pratiche religiose che costituiscono l'orizzonte semantico del mito, fondano ai differenti livelli le opposizioni pertinenti, permettendo cosi di rintracciare i molteplici codici operanti nel messaggio: codice geografico, tecnoeconomico, sociologico, cosmologico.

Allo stesso modo le Mythologiques hanno raccolto, analizzato, interpretato innumerevoli dati riguardanti la flora, la fauna, l'astronomia, le tecniche, il vestiario, gli ornamenti, ecc., coinvolti nei miti amerindiani. Senza un siffatto minuzioso inventario, che mostri come, in questa società, siano classificati gli animali, le piante, gli oggetti, gli eventi, i gruppi umani, sarebbe stato impossibile situare gli uni in rapporto agli altri, dal punto di vista dei loro legami semantici, quegli importanti personaggi del mito che sono la lince, il gufo, il serpente, il formichiere, il giaguaro, il miele, il tabacco, la luna, le Pleiadi..., per non parlare del figlio, del nipote, dei genitori, dello zio.

Nondimeno le Mythologiques, rispetto alla Geste, segnano, se non una svolta, almeno un orientamento più deciso verso i problemi dei rapporti che i miti intrattengono gli uni con gli altri. Certo, sin dall'inizio Lévi-Strauss aveva sottolineato che è nella natura dei miti il fatto di comportare varianti. La diversità delle varianti non è un ostacolo che bisognerebbe eliminare cercando un prototipo unico, la versione autentica, e scartando quindi le altre come derivate e insignificanti. Tutte le versioni si equivalgono per il mitologo: lo stesso dispositivo mentale è all'opera in ognuna e, il più delle volte, è confrontando versioni molteplici e attraverso le loro differenze che si può rintracciare una struttura comune e isolare l'armatura del mito. Ma le Mythologiques vanno più innanzi: la ricerca tratta l'insieme dei miti raccolti nel corpus e considera forse, al di là, la totalità dei miti reali e possibili come costruzioni mentali ottenute per mezzo di un giuoco di trasformazioni, di regole di permutazione che, almeno in linea di principio, si presterebbero a un trattamento di tipo logico-matematico. Si è così potuta osservare, in Lévi-Strauss, l'esistenza di due teorie sovrapposte del mito (v. Sperber, 1968). Secondo la prima, ogni mito rientra in due livelli di analisi e obbedisce a una doppia regolamentazione: anzitutto, al livello della struttura mitologica profonda, a quella del sistema dei codici inclusi gli uni negli altri; e poi, al livello dell'espressione linguistica, a quella della forma narrativa che una tale armatura logica riveste nel corso del racconto. In base alla seconda teoria, un mito è un discorso congegnato in modo tale che vi si possono applicare delle regole generali di trasformazione, l'insieme dei miti essendo appunto prodotto dal giuoco ditali trasformazioni. In questo senso, possiamo dire che non sono tanto gli uomini a pensare i loro miti quanto piuttosto i miti a pensare reciprocamente se stessi.

Lévi-Strauss ha anticipatamente respinto questa ambiguità teorica che gli era stata imputata. Egli ha sottolineato che la suddivisione di un mito in segmenti sovrapponibili, di cui è possibile mostrare come costituiscano delle variazioni a partire da uno stesso tema, e la sovrapposizione di un mito intero ad altri, considerati come trasformazioni di uno stesso modello, rappresentano le due facce o i due momenti di un'identica operazione. ‟Si tratta ogni volta di sostituire a una catena sintagmatica un insieme paradigmatico, con questa differenza: nel primo caso tale insieme è tratto dalla catena, mentre nel secondo è la catena a trovarvisi incorporata. Ma sia che l'insieme venga costruito con frammenti della catena o che la catena stessa vi si inserisca come un frammento, il principio resta il medesimo. Due catene sintagmatiche o frammenti d'una stessa catena che, considerati isolatamente, non offrivano nessun senso certo, ne acquisiscono uno per il solo fatto di opporsi" (v. Lévi-Strauss, 1964; tr. it., p. 404).

Che si accetti questo punto di vista ovvero lo si rifiuti, mettendo in dubbio la pertinenza, nel caso del mito, del modello strutturalista dei due assi paradigmatico e sintagmatico - o più generalmente la validità di un trasferimento puro e semplice degli schemi linguistici alle strutture del mito (il quale non è una lingua, ma un modo di adoperare una lingua già costituita) - si sarà d'accordo nel riconoscere che, né sul piano della teoria nè su quello del lavoro concreto di decifrazione, la situazione è rimasta dopo Lévi-Strauss quella che era in precedenza.

La sua opera segna una svolta e un punto di partenza. Per i suoi avversari come per i suoi discepoli, e per coloro che lavorano su una linea parallela, la ricerca mitologica non si trova soltanto ad affrontare questioni nuove; si deve anche dire che non è più possibile porre nei medesimi termini i vecchi problemi.

d) Interpretazioni e problemi del mito

Il primo ordine di quesiti concerne i rapporti tra il livello narrativo del testo, il suo senso linguistico immediato, e la sua architettura strutturale, il suo senso mitico. Come si articolano questi due piani? Delle due l'una, si direbbe. O si ammettono tra i due livelli rigorosi rapporti d'implicazione e si pongono allora i problemi: 1) di determinare le regole che permettono di passare dalla struttura al racconto; 2) di situare tali regole nell'economia del modello linguistico al quale in linea generale si è fatto riferimento. Oppure, al contrario, si ammette una sorta di gratuità della fabulazione, del canovaccio discorsivo in rapporto alla struttura profonda (il che spiegherebbe la possibilità indefinita di varianti) e non si ricercano nel testo se non gli elementi del codice, i pezzi dell'armatura logica permanente, trascurando la trama narrativa, considerata quindi come in se stessa insignificante. Ma a questo proposito i linguisti avanzeranno le loro obiezioni. Essi faranno osservare che il mito, come ogni racconto, obbedisce a rigorose regole narrative che bisogna tentare di definire e formalizzare. Proprio perché si svolge in un tempo lineare, un racconto implica una situazione iniziale e la trasformazione di questa alla fine del discorso narrativo; tale mutamento si verifica attraverso ‛imprese' compiute da ‛attanti' o ‛soggetti', dotati di qualità o caratteri tali da metterli in grado di realizzare le imprese o di subirne il contraccolpo. È possibile redigere le tavole formali dei tipi di imprese e delle modalità di mutamento coinvolte nella narrazione mitica, e di conseguenza proporre una sorta di logica generale di questo genere di racconti. A queste osservazioni il mitologo aggiungerà che, poiché la forma narrativa costituisce una delle caratteristiche essenziali del mito, una decifrazione che la facesse scomparire procedendo, per isolare la strutturamitica, alla disarticolazione o distruzione preliminare delle strutture narrative non potrebbe render conto del fenomeno nella totalità delle sue dimensioni. E un filosofo come Ricoeur rincarerà la dose: pur concedendo che il metodo di Lévi-Strauss sia una tappa necessaria per far emergere la semantica profonda del mito che una lettura di superficie si fa sfuggire, si deve rifiutare la sua pretesa di esaurire l'intelligenza del mito. Nell'ottica di Lévi-Strauss, il mito non deve esser compreso, ma decodificato. Non si tratta, partendo da un codice noto, di decifrare un messaggio per restituirne il senso; ma, partendo da un messaggio dato, in sé insignificante o assurdo, di trovare il codice segreto sul quale si fonda e che ha sovrinteso alla sua emissione. Rifiutando in tal modo al mito la qualità di messaggio, con ciò stesso gli si nega la capacità di dire qualcosa, di formulare un'asserzione, vera o falsa che sia, sul mondo, sugli dei o sull'uomo. Nessun mito in sé direbbe nulla e nulla potrebbe dire su un qualsiasi ordine di realtà. Soltanto tutti insieme i miti mettono in giuoco regole di trasformazione strutturale analoghe a quelle che presiedono all'organizzazione di altri insiemi strutturati, come i sistemi di alleanze matrimoniali, degli scambi tra gruppi sociali, dei rapporti di dominazione e subordinazione politica.

Posto così in tutta la sua ampiezza, questo dibattito, che tocca oggi il cuore della problematica sul mito, solleva una serie di altri problemi, strettamente associati. Se i miti attingono gli uni dagli altri il proprio significato, le strutture che in essi si possono scoprire rientrano in una logica delle categorie inscritta nell'architettura della mente; in essa il mondo e l'uomo non figurano se non a titolo di mezzi del discorso: essi rappresentano ‟la materia e lo strumento, non l'oggetto della significazione" (v. Lévi-Strauss, 1964; tr. it., p. 446). Il dispositivo mitico svolge quindi il ruolo di un quadro formale, di uno strumento di pensiero. Ci si domanderà subito se un tal quadro, un tale strumento, inscritti nel dispositivo simbolico, non possano essere adoperati altrettanto bene per esprimere e trasmettere, in una forma narrativa diversa dagli enunciati astratti del filosofo o dello studioso, un sapere circa la realtà, una visione del mondo, ciò che Dumézil chiama un'ideologia. Il linguaggio di cui il mito si serve è esso stesso, in forza della sua organizzazione sintattica e semantica, una segmentazione del reale, una forma di classificazione e di messa in ordine del mondo, una prima regolamentazione logica: in breve, uno strumento di pensiero. Ed esso è parimenti adoperato, nella comunicazione, per trasmettere messaggi e dire qualcosa ad altri; attraverso la riflessione di Aristotele, questo strumentario linguistico inconscio accede persino allo status di sapere teorico. L'esempio, sul quale abbiamo già insistito, di un'opera come quella di Esiodo, in cui la materia mitica tradizionale si trova ripensata e riorganizzata, testimonia di questa utilizzazione del simbolismo mitico al fine di elaborare un insegnamento, comunicare un sapere riguardante l'ordine divino, cosmico, umano sotto la forma di racconti teogonici, cosmogonici, antropogonici. Bisognerà quindi distiguere molteplici forme e livelli di espressione mitica, la cui decifrazione richiede metodi affini ma non identici.

Si noterà a questo proposito che Lévi-Strauss lavora su un corpus di racconti orali che offrono un gran numero di varianti. La materia stessa della ricerca richiede una comparazione sistematica dei racconti per serbarne gli elementi formali che si corrispondono, di mito in mito, secondo rapporti di omologia, d'inversione e di permutazione. In pari tempo viene esclusa un'analisi filologica approfondita di ciascuna versione. Diverso è il problema nel caso di una grande opera scritta, fortemente strutturata ed elaborata, come la Teogonia o Le opere e i giorni. Non può trattarsi qui di privilegiare gli elementi che si ritrovano, più o meno trasformati, in altre versioni. Ci si deve sforzare di dare del mito, nei particolari della sua configurazione testuale, un'analisi esaustiva. In linea di principio, non c'è una sequenza, non un termine del racconto di cui non si debba dar conto. La ricerca deve prendere in considerazione, a un primo livello, l'ordine narrativo così come si presenta attraverso l'analisi del modo di composizione, i rapporti sintattici, i legami temporali e di successione presenti nel racconto. Non sarebbe però sufficiente isolare, nella trama del testo, l'articolazione degli episodi, le connessioni interne delle sequenze. Si tratta di mettere in luce quella che i linguisti chiamano la grammatica del racconto, la logica della narrazione, mostrando secondo qual modello funzioni il giuoco delle azioni e reazioni, quale dinamica presieda ai mutamenti che formano l'intreccio nello svolgersi della favola.

Si dovrà allora passare a un altro tipo di analisi, mirante ai contenuti semantici, e distinguere nello spessore stesso del testo diversi livelli di significazione, stabilendo le molteplici reti di opposizione e di omologia tra tutti gli elementi messi in opera nel mito (luoghi, tempi, oggetti, agenti o soggetti, imprese o azioni, condizioni di partenza e rovesciamenti di situazioni). Si porrà allora il problema di definire il legame di congruenza tra il quadro formale costituito dalla grammatica del racconto e i contenuti semantici concreti, disposti su piani diversi. Si noterà del resto che la grammatica del racconto, al pari di certi fatti sintattici nella lingua, può comportare degli aspetti semantici e che i contenuti semantici, in seguito agli effetti di multicorrispondenza, di polisemia, di ambiguità, si dispongono a loro volta secondo un certo ordine di relazioni logiche. Un siffatto studio interno del testo presuppone già, per poter identificare tutti gli strati di significazione dei diversi termini, le loro mutue implicazioni ed esclusioni, che ci si riferisca ad altri testi, versioni simili e anche gruppi di miti differenti, nei quali si presentano costellazioni semantiche analoghe. La completa decifrazione del mito richiede tuttavia un terzo elemento; bisogna intraprendere, ampliando il corpus così da poter scorgere il contesto culturale in cui il mito si inscrive, l'esplorazione dello spazio semantico a partire dal quale il racconto, nella sua specifica forma, ha potuto essere a un tempo prodotto e compreso: categorie di pensiero, quadri di classificazione, segmentazione e codificazione del reale, grandi sistemi di opposizioni (v. Detienne, 1972; v. Vernant, 1974, p. 191). È il riferimento a quest'armatura categoriale e alle combinazioni logiche cui essa si presta ciò che permette all'interprete moderno di dare al mito la sua piena intelligibilità mettendolo ‛in situazione', inserendolo al suo posto in una storia mentale e sociale.

Un tale modo di procedere condurrebbe forse a proporre certe risposte a talune delle difficoltà da noi già menzionate, e a formularne di nuove. Piuttosto che supporre, con P. Ricoeur, una sorta di frattura nell'universo dei miti, una parte dei quali soltanto rientrerebbe nell'analisi strutturale di Lévi-Strauss, mentre l'altra le sfuggirebbe (quella dell'area semitica, greca, indo-europea, cui la nostra civiltà si riallaccia), faremo osservare che il pensiero mitico comporta ovunque delle fasi, e che i documenti di cui disponiamo - appartengano essi all'una o all'altra area culturale - non si situano tutti allo stesso livello. Non è un caso, notava Ricoeur, che gli esempi di Lévi-Strauss siano tratti dall'area geografica nella quale gli antropologi della generazione precedente avevano localizzato i fatti di totemismo: si tratterebbe di popolazioni la cui attività mentale eccelle nelle distinzioni e nelle classificazioni di ogni specie, dal campo delle realtà naturali a quello dei rapporti di parentela e di scambio; e un tale orientamento verso la tassonomia si ritroverebbe nei loro miti. Si porrebbe allora il problema di sapere se l'approccio strutturalistico non abbia trovato, nell'area ‛totemica', un tipo di mito per il quale opposizioni e correlazioni, nella loro funzione distintiva, sono più importanti dei contenuti semantici. Affatto diverso sarebbe il caso, all'altra estremità del ventaglio mitico, della tradizione dei Semiti, dei Greci, degli Indoeuropei. Alla debolezza dell'organizzazione sintattica e delle strutture classificatorie essi opporrebbero una ricchezza semantica che, in contesti socio-storici modificati, permette incessanti reinterpretazioni e rinnovamenti di senso. Si spiegherebbe così un altro contrasto tra le due forme di mitologia: il diverso rapporto con il tempo e con la storia.

Nelle società ‛fredde', senza dimensione temporale marcata, i miti, come le istituzioni, hanno un'estrema coerenza sincronica cui corrisponde una fragilità diacronica, giacché ogni fatto nuovo, ogni mutamento rischia di distruggere il vecchio equilibrio. Al contrario, all'altro capo del ventaglio, il mito sarebbe esso stesso aperto su una prospettiva temporale in virtù delle incessanti riprese alle quali si presterebbe. L'interpretazione, quindi, dovrebbe necessariamente tener conto della dimensione diacronica.

Ci si può chiedere se sia possibile oggi mantenere questa netta separazione tra società ‛fredde', irrigidite nel loro immobilismo, e società ‛calde', immerse nella storia. Tutte le società conoscono margini più o meno grandi di mutamento, ai quali i loro miti reagiscono, integrandoli o assorbendoli a loro modo. E ben vero che una tradizione mitica come quella dei Greci si è prestata incessantemente a rifusioni e reinterpretazioni. Ma la molteplicità delle varianti di uno stesso mito, le trasformazioni, talora le inversioni di un mito in un altro nelle popolazioni studiate da Lévi-Strauss testimoniano di un medesimo ordine di fatti: i miti si richiamano gli uni gli altri e la comparsa di una versione o di un mito nuovo avviene sempre in funzione di quelli già esistenti in precedenza, che avevano corso nel gruppo o appartenevano a popolazioni vicine.

Quando i nostri documenti sono databili e quindi comportano indici di lontananza storica, noi parliamo di variazioni; quando ci vengono forniti tutti insieme, nel momento stesso in cui sono raccolti, parliamo di varianti. Ma, dal punto di vista del pensiero mitico, il fenomeno non è dissimile.

A questo proposito, sembra più valido opporre tradizione orale e letteratura scritta. Nelle culture orali i miti sono stati raccolti dagli antropologi senza riguardo alla successione temporale, alla rinfusa, in un ordine il più delle volte frammentario e disperso, così come si presentavano. Non si vede altra maniera di trattarli se non quella adottata da Lévi-Strauss. E l'armatura categoriale, il giuoco dei codici ch'egli isola sono d'un tipo analogo a quelli che, in un altro registro, sono veicolati dalle fiabe e dai racconti del folclore. Nella letteratura scritta, invece, accanto a documenti simili, dello stesso livello, troviamo grandi costruzioni d'insieme, sistematiche, le cui parti si integrano in un messaggio unificato che dà un'interpretazione dell'universo e risponde a quegli stessi problemi che, in un altro registro, tenterà di porre e di risolvere la filosofia. Vi sarebbero dunque, a un tempo, una continuità e una serie di rotture tra il racconto orale, il mito, o meglio i diversi piani del mito, e la filosofia.

Le vere aporie sono altrove. La prima è ben nota e può essere formulata nel modo seguente: qual è il legame tra lo spazio semantico, identificato dall'analisi strutturale come quadro intellettuale del mito, e il contesto socio-storico nel quale è stato prodotto? Come si articolano, nel concreto lavoro di decifrazione, una ricerca in sincronia, in cui ciascun elemento si spiega per mezzo dell'insieme delle sue relazioni con il sistema, e una ricerca in diacronia, in cui gli elementi, inseriti in serie temporali, si spiegano per i loro rapporti con gli elementi che li hanno preceduti nelle sequenze così definite? La risposta consisterebbe senza dubbio nel mostrare che, nella ricerca storica come nell'analisi sincronica, non si incontrano elementi isolati ma sempre strutture, più o meno fortemente legate ad altre, e che le serie temporali riguardano dei rimaneggiamenti - piùo meno estesi - di strutture all'interno di quei medesimi sistemi ai quali mira l'analisi strutturale.

La seconda aporia è meno ovvia. Il mito non si definisce soltanto per la sua polisemia, per l'inclusione di codici differenti gli uni dentro gli altri. Tra i termini stessi che il mito distingue o oppone nella sua armatura categoriale, esso predispone anche, nello svolgimento narrativo e nella segmentazione, campi semantici, passaggi, slittamenti, tensioni, oscillazioni, come se i termini, pur escludendosi, in un certo modo anche s'implicassero. Il mito mette quindi in giuoco una forma di logica che, in contrasto con la logica di non-contraddizione dei filosofi, possiamo chiamare logica dell'ambiguo, dell'equivoco, della polarità. Come spiegare o anzi formalizzare quest'altalena che rovescia un termine nel suo contrario pur mantenendo, sotto altri punti di vista, i due termini a distanza l'uno dall'altro? Spetta al mitologo, in conclusione, di rimediare a questo stato di carenza e di rivolgersi quindi ai linguisti, ai logici, ai matematici perché gli forniscano lo strumento che gli manca: il modello strutturale d'una logica che non sia quella della binarità, del sì e del no, una logica diversa dalla logica del logos.

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