Mito

Universo del Corpo (2000)

Mito

Romolo Rossi
Piera Fele

Il termine deriva del greco μύϑος, il cui significato originario è "parola, notizia, novella", oppure "cosa", e indica una storia tradizionale di carattere generale che fonda e narra l'origine di vari aspetti della realtà naturale e umana. Successivamente, con l'introduzione del λόγος, inteso come racconto caratterizzato dal pensiero razionale e riflessivo, il concetto di mito viene ad assumere, per contrasto, un carattere fantastico e fabulatorio. Entrambi i termini corrispondono, sebbene in modo diverso, all'intento di conoscere e interpretare il mondo. Nel 19° secolo, nell'ambito della linguistica comparata, rifiorirono gli studi sulla mitologia antica e l'osservazione delle somiglianze tra racconti mitologici antichi e costumi dei popoli di interesse etnologico indusse gli studiosi a considerare i miti un elemento irrazionale e 'selvaggio' del pensiero umano. La nozione del mito, dunque, come forma 'primitiva' di pensiero, distinta dal pensiero logico e scientifico e dotata di autonomia conoscitiva ed espressiva, è alla base delle varie teorie interpretative elaborate in sede filosofica, storico-religiosa, antropologica e psicologica. In quest'ultimo ambito prevale l'interpretazione psicoanalitica, secondo la quale il mito sta a rappresentare la proiezione dell'inconscio e costituisce l'espressione dell'attività autonoma della psiche. La rappresentazione del corpo nel mito è caratterizzata da molteplici trasformazioni: le narrazioni di metamorfosi, frequenti nella mitologia antica e moderna, possono essere interpretate come l'espressione di un malessere psichico manifestato per via somatica.

La metamorfosi nella mitologia

La mitologia greca è ricca di metamorfosi somatiche. Notissimo è, per es., il mito di Apollo e Dafne: la giovane ninfa, consacrata a Diana, ha fatto voto di rinunciare all'amore, ma Apollo se ne innamora e cerca invano di convincerla a cedergli; Dafne fugge, Apollo la insegue, ma quando sta per afferrarla essa, dopo aver invocato l'aiuto del padre, si trasforma in alloro, che diverrà la pianta sacra al dio. Dafne perdendo le sue sembianze umane preserva la sua purezza, e Apollo, nella sventura del suo amore, arriva a trascenderlo. Le arti figurative hanno illustrato spesso questo mito (basti pensare al famoso gruppo di G.L. Bernini), che ha avuto una notevole risonanza anche in ambito letterario. Riprova della sua diffusione è, per es., il riferimento di Empedocle, quando sostiene che per un uomo virtuoso possono esserci solo due destini felici dopo la morte: essere trasformato in alloro o in leone. La descrizione più completa e suggestiva è comunque quella contenuta - in ambiente latino - nelle Metamorfosi di Ovidio, il quale nel suo poema riporta altri affascinanti racconti incentrati sul tema del cambiamento e della trasformazione sotto l'influsso di forze sovrannaturali. Abbondano soprattutto le metamorfosi in piante di creature nel pieno della giovinezza, che segnano il passaggio da una forma bella a una altrettanto bella, a indicare la sublimazione della sofferenza.

Fra le altre metamorfosi famose della mitologia greca, si possono ricordare: quelle di Adone ucciso dal cinghiale e dal cui sangue nasce l'anemone; di Eco che perde l'abbondanza e l'iniziativa del linguaggio per aver parlato troppo; di Narciso che si sottrae alla legge universale non acconsentendo ad amare nessuno e assume la forma di fiore; di Io amata da Giove e tramutata in giovenca per evitare le ire di Giunone; di Siringa che per sfuggire a Pan prega la terra di trasformarla in un letto di giunchi, usati poi dal dio per fabbricare la sua zampogna; di Callisto mutata in orsa da Artemide, adirata per la sua bellezza. E ancora: Aretusa diviene una fonte, Driope e Lotide si trasformano in fiore di loto. Nella mitologia latina, l'Asino d'oro di Apuleio narra la metamorfosi di Lucio in asino e, dopo ogni sorta di peripezie e travagli, il suo ritorno alle sembianze umane per intervento di Iside, al cui culto egli si consacra. Tutti questi miti possono essere letti in chiave di rappresentazione della tragicità della condizione umana, che insegue un bene che si sottrae sempre, oppure di metamorfosi del desiderio, che passa da forme materiali e sensuali all'essenza ideale, alla bellezza assoluta e alla sublimazione dal terreno al divino, o ancora possono essere interpretati quale modo di esprimere un'intollerabile sofferenza psichica, come nel caso di Niobe, pietrificata dopo la morte dei figli.

La trasformazione somatica permea anche la mitologia più moderna: tuttavia, oggi il riferimento non va più al sovrannaturale e al divino, ma rimane ancorato al corpo stesso, vissuto come veicolo di espressione del malessere. La metamorfosi è dunque la rappresentazione esteriore di una modificazione interna, psicologica o biologica. A questo proposito, l'esempio più significativo è quello della Metamorfosi di F. Kafka, dove la trasformazione del protagonista in insetto repellente è il portato delle angosce del soggetto, ma soprattutto del meccanismo di identificazione proiettiva della madre, che con il suo odio modifica concretamente il corpo del figlio. Il corpo trasformato diviene, dunque, il veicolo per rappresentare le modificazioni interiori, come avviene nel caso dei disturbi della cenestesi, sensazioni soggettive di sofferenza corporea in senso lato, di solito localizzate in una regione o in un organo, e senza causa organica, e nei disturbi somatoformi, costituiti da sintomi fisici che suggeriscono una malattia fisica in condizioni in cui non è dimostrabile alcuna patologia organica. Il meccanismo di base è la tendenza a esprimere e a comunicare sentimenti e sensazioni come disturbi fisici: il sintomo rappresenta dunque una modalità aspecifica di espressione della sofferenza conflittuale, mediante la quale i conflitti profondi vengono neutralizzati con la trasformazione in espressione corporea. In effetti, la manifestazione per via somatica di sentimenti ed emozioni è una modalità di comunicazione arcaica, che risale a quel momento storico, presente nella vita di ogni individuo, in cui l'emozione non è mentalizzata.

Anche nell'antichità, il mito del corpo è caratterizzato soprattutto dall'assenza della mente. Ciò è evidente, per es., nella lirica di Saffo, A me pare uguale agli dei, che descrive l'amore e la gelosia della poetessa, esclusa dall'incontro tra un uomo e una donna. Mentre si dovrebbero trovare espressi contenuti mentali, emozioni, tormento, dolore psichico, la mente risulta completamente assente e campeggia solo il corpo con le sue funzioni: "[...] il cuore si agita nel petto [...] la voce si perde sulla lingua inerte [...] un fuoco sottile affiora rapido alla pelle [...] buio negli occhi [...] rombo del sangue alle orecchie [...] tutta in sudore [...] tremante [...] come erba patita scoloro [...]". La poesia descrive, cioè, solo una serie di manifestazioni corporee: turbe della frequenza e del ritmo cardiaco, turbe del linguaggio, turbe vasomotorie, deficit del visus, acufeni, alterazione cenestesica, un quadro, insomma, vicino all'attacco di panico. Soprattutto colpisce come si tratti di un quadro interamente somatico, e come in nessuna parte di questa poesia d'amore compaiano riferimenti metaforici al mentale, allo psichico, all'emotivo: ogni parola serve a descrivere precisi fenomeni del corpo, soggettivi od obiettivi, ma unicamente somatici.

L'interpretazione psicoanalitica

Una grande espressione di trasformazione corporea è quella descritta da S. Freud in Una nevrosi demoniaca nel secolo decimosettimo (1923), in cui Freud trattò come materiale analitico il manoscritto che si riferiva a un pittore vissuto nel 17° secolo, affetto da nevrosi demoniaca, manifestatasi con convulsioni in chiesa e con apparizioni del diavolo sotto forma di drago. Il pittore, il cui defunto padre si era opposto alla sua vocazione di artista, avrebbe stretto il patto con il diavolo perché, depresso, non riusciva a lavorare e si sarebbe impegnato a essere suo figlio per nove anni; viene così espresso il conflitto tra la nostalgia del padre e la sfida, la paura nei suoi confronti in quanto severo e castratorio. La tesi di Freud è che i draghi, i demoni e i diavoli che li sottendono siano espressione del mondo interno, rappresentando pulsioni rimosse. Inoltre il drago, o il demone teriomorfo, è perturbante, cioè estraniante e terrorizzante al tempo stesso: l'apprensione e il turbamento ineffabili nascono dal fatto che qualcosa che era familiare, domestico, non lo è più. Il drago infernale libera proiettivamente dai sensi di colpa, oppure ne allevia fortemente la pressione, scorporandoli e concretizzandoli all'esterno: "I demoni sono, a nostro avviso, desideri cattivi, ripudiati, che derivano da moti pulsionali che sono stati respinti o rimossi. Noi non facciamo nulla di più che eliminare la proiezione nel mondo esterno ipotizzata dal medioevo a proposito di tali entità psichiche; noi riteniamo che esse abbiano avuto origine nella vita intima dei malati dove in effetti dimorano" (Freud 1923, trad. it., pp. 525-26). In Totem e tabù (Freud 1912-13), l'animale totemico simboleggia il padre, e i due tabu a esso connessi (non uccidere il totem e non avere rapporti sessuali con donne appartenenti a lui) coincidono con i delitti edipici e con i desideri primordiali del bambino; in questo senso, il totemismo, inteso come metamorfosi del padre, origina dalle condizioni del complesso edipico: "L'atteggiamento emotivo ambivalente, che caratterizza ancor oggi nei nostri bambini il complesso paterno e si prolunga spesso nella vita dell'adulto, si estenderebbe altresì a quel sostituto del padre che è l'animale totemico" (trad. it., p. 145). Il padre diviene totem per placare il senso di colpa che deriva dal desiderio di ucciderlo e per soddisfare la fantasia infantile di ottenere da lui protezione, cura e indulgenza, impegnandosi in cambio a tutelare la sua vita, non tentando di eliminarlo. Allo stesso modo, il pasto totemico, che coincide con l'uccisione del totem, ma che permette l'identificazione con esso e l'appropriazione dei suoi attributi, è accompagnato dall'atmosfera festosa che caratterizza l'infrazione solenne del divieto, ma anche dal lutto e dal compianto. Diviene evidente, così, perché il desiderio incestuoso di possedere la donna del totem-padre sia pervaso, nei miti, dal senso di colpa, per cui i giovani amanti delle dee madri sono destinati a una vita breve e a punizioni castratorie da parte degli dei padri, che assumono sembianze animali, come Adone e Attis.

Mitologia personale e metafore somatiche

Come si è accennato precedentemente, la trasformazione corporea, così frequente nei miti, può essere considerata il portato della sofferenza psichica, derivante dai conflitti profondi e dai sensi di colpa edipici. D'altronde, se si considera il problema dal versante opposto, è possibile rilevare che sovente i pazienti utilizzano il linguaggio del corpo per esprimere un dolore mentale e che la narrazione della mitologia personale spesso si serve di metafore somatiche. Per es., la nostra lingua è ricca di metafore che coinvolgono il cuore come organo per indicare un investimento emotivo intenso; il dolore toracico può così assumere una dimensione comunicativa, diventare cioè una modalità narrativa del proprio mondo interno e, da evento somatico, divenire un mezzo di comunicazione simbolica delle emozioni. Questo processo corrisponde alla tendenza a palesare e sperimentare dolore e sintomi somatici, non confermati da dati obiettivi, attribuendoli a malattie fisiche e a cercare aiuto per questo. Ogni sintomatologia cardiaca ha la sua peculiare espressività: la contrazione dei muscoli facciali o di quelli sternocleidomastoidei, il portare le mani al petto per indicare la costrizione precordiale, o al collo per riferire il senso di soffocamento e così via. Ma, nel caso del cuore, anche le espressioni metaforiche usate per simbolizzare il dolore sono molteplici: il cuore stretto nella morsa dell'angoscia; essere colpito al cuore; avere male al cuore; il cuore che si spezza a causa di una separazione intollerabile o di una vera e propria rottura somatica; oppure il cuore che si intenerisce, espressione intrisa di elementi nostalgici; e ancora il cuore che batte veloce nella rabbia, è pesante nella tristezza ecc. Tutte queste sono espressioni simboliche di emozioni mentali. Nel caso del dolore toracico, il sintomo non è solo espressione di un'emozione, ma diviene una struttura espressiva dell'unità psiche-soma, una sorta di equivalente affettivo il cui significato può sfuggire al paziente. In questo senso, il sintomo somatico può essere considerato uno stile espressivo, una modalità soggettiva per comunicare con gli altri. In sintesi, il dolore viene di solito espresso in termini simbolici e mentali, e questo consente di evitare lo scarico somatico; d'altro canto, quando la metafora mentale fallisce nel comunicare la sofferenza, il dolore diviene somatico. Per es., è possibile che il simbolismo del dolore di cuore, del crepacuore, del peso al cuore, espresso in genere in termini mentali, divenga estremamente concreto quando manca la possibilità di mentalizzare; in altre parole, il dolore emotivo può entrare nella mente come dolore mentale consapevole, oppure diventare esterno, come dolore somatoforme. Esistono dunque due modi di manifestare la sofferenza psichica: uno primitivo, esterno, come dolore d'organo; l'altro mediato dalla formulazione verbale, quale sintomo espresso come metafora del dolore mentale. Nella mitologia, nella quale non esisteva la metafora della mente, il malessere psicologico poteva essere espresso e scaricato solo mediante la via somatica e la trasformazione corporea. Allo stesso modo, in ognuno di noi, quando la mente fallisce nella sua funzione di attenuatrice del dolore, avviene una sorta di metamorfosi, nella quale il corpo viene modificato ed esperito come malato.

Bibliografia

Dictionnaire des mythes litteraires, éd. P. Brunel, Monaco, éditions du Rocher, 1994 (trad. it. Milano, Bompiani, 1995).

G. Fossi, R. Rossi, Mito, religione e pensiero analitico, Roma, CIC, 1992.

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Id., Eine Teufelneurose im siebzehnten Jahrhundert, "Imago", 1923, 9, 1, pp. 1-34 (trad. it. in Id., Opere, 9° vol., Torino, Boringhieri, 1977, pp. 521-58).

J.P Vernant, P. Vidal-Naquet, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Paris, Maspero, 1972 (trad. it. Torino, Einaudi, 1976).

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