Mobbing

Diritto on line (2018)

Mariapaola Aimo

Abstract

Viene esaminato il tema del mobbing, partendo dalla nozione giuridicamente rilevante di tale condotta, costruita dalla giurisprudenza in mancanza di una definizione e di una disciplina legislative, e analizzando le norme dell'ordinamento costituzionale e civile che offrono tutela al lavoratore vittima di mobbing, attraverso strumenti di prevenzione e di riparazione del danno patito.

La definizione e le tipologie di mobbing

La parola mobbing (dal verbo inglese "to mob", che significa accerchiare, assalire) trova origine negli studi intrapresi negli anni Ottanta dallo psicologo svedese Leymann (a sua volta debitore delle ricerche di etologia del premio Nobel Lorenz) e portati in Italia negli anni Novanta dallo psicologo tedesco Ege: ad essi si deve infatti la prima definizione biomedica del mobbing come una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso (secondo un andamento a fasi successive, puntualmente enumerate e descritte), in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni a contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in una posizione gerarchica superiore, inferiore o di parità, con lo scopo e/o l'effetto di provocare alla vittima danni di vario tipo e gravità.

Ancora grazie a tali studi il fenomeno è stato consegnato all'attenzione dei giuristi ed in particolare dei giudici che, a partire dal leading precedent rappresentato dalla sentenza Trib. Torino, 16.11.1999 (in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 102 ss., ove è stato riconosciuto il danno psicologico subito da una lavoratrice costretta dal capo reparto a operare in ambiente ristretto senza possibilità di contatti umani e dal medesimo sistematicamente trattata in modo arrogante e incivile), ne hanno via via costruito, in mancanza di una definizione legislativa, la nozione giuridicamente rilevante, appunto attingendo dalle scienze mediche e sociali. Secondo la giurisprudenza, di merito e di legittimità, ordinaria e amministrativa, il mobbing si sostanzia in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati – secondo l'orientamento prevalente – da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (v., ad es., tra le più recenti: Cass., 27.1.2017, n. 2142, e Cons. St., 27.10.2016, n. 4509; in dottrina, tra i tanti, v. i contributi raccolti in Tosi., P., a cura di, Il mobbing, Torino, 2004).

Già da questa definizione viene in evidenza come la fattispecie mobbing si componga di alcuni elementi fondamentali (su cui si rinvia infra, § 2) e possa manifestarsi attraverso diverse tipologie, a seconda dei soggetti che lo pongono in essere. A questo proposito, si usa comunemente distinguere, benché le tipologie possano anche mescolarsi tra loro, tra mobbing «verticale», qualora la condotta cd. mobbizzante sia realizzata dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima, «orizzontale», se perpetrata da un collega di pari livello, o «ascendente», se – cosa più rara – si muove dal basso della gerarchia aziendale verso l'alto.

Pur in assenza di una tipizzazione legislativa della figura del mobbing (va infatti ricordato che la l. reg. Lazio 11.7.2002, n. 16, che ne introduceva una definizione e un'esemplificazione, è stata dichiarata incostituzionale da C. cost., 19.12.2003, n. 359, per contrasto con l'art. 117 Cost.), nell'ordinamento non mancano le norme da invocare come fondamento e garanzia della tutela del lavoratore (v. Malzani, F., Ambiente di lavoro e tutela della persona, Milano, 2014, 299 ss.; Pellecchia, R., Il Mobbing: fattispecie e tutele, in Natullo, G., a cura di, Salute e sicurezza sul lavoro, Torino, 2015, 966 ss.). Oltre alle norme costituzionali contenute negli artt. 2, 3, 4, co. 1, 32, e 41, co. 2 (alle quali viene da aggiungere, almeno, l'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea), un ruolo centrale, come si vedrà, gioca l'obbligo di protezione di cui all'art. 2087 c.c., letto congiuntamente alle norme che garantiscono la dignità dell'individuo nell'ambiente di lavoro (tra cui l'art. 2103 c.c. e l'art. 15. l. 20.5.1970, n. 300, insieme alla disciplina antidiscriminatoria) e quelle che tutelano la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro (in primis il d.lgs. 9.4.2008, n. 81, o t.u. sulla sicurezza); inoltre, limitandosi alle norme di diritto civile, assumono particolare rilievo gli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché il principio del neminem laedere disposto dall'art. 2043 c.c.

Tornando al versante definitorio, almeno un accenno va infine fatto alle varie definizioni di mobbing formulate, nel settore del lavoro privato e pubblico, dalla contrattazione collettiva e dai codici etici o di condotta di fonte unilaterale, le quali, seppur utili in funzione di sensibilizzazione e di prevenzione del fenomeno, non risultano certo vincolanti ai fini della ricostruzione giurisprudenziale della fattispecie (cfr. Boscati, A., Mobbing e contrattazione collettiva nel settore privato e pubblico, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2006, 29, 201 ss.).

Le componenti del mobbing

L'astensione regolativa in tema di mobbing, proseguita negli anni nonostante le molte proposte legislative presentate sul punto in Parlamento, ha comportato un evidente protagonismo giudiziario (ed un conseguente sforzo di sistemazione ad opera della dottrina). Le numerose sentenze pronunciate in materia servono dunque, in primo luogo, a individuare gli elementi che compongono il mobbing e a descrivere, in maniera inevitabilmente non esaustiva, la multiforme fenomenologia delle condotte cd. mobbizzanti.

Sotto il profilo della qualificazione, un primo requisito considerato costitutivo del mobbing, sul piano materiale e oggettivo, è rappresentato dai caratteri di molteplicità, sistematicità e durata che devono presentare gli atti nel complesso vessatori posti a danno del lavoratore (commissivi e/o omissivi, illeciti e/o eventualmente anche leciti uti singuli). Il mobbing ha cioè bisogno di una ripetizione delle condotte persecutorie per un protratto lasso di tempo – la cui quantificazione non può che essere lasciata al prudente appezzamento del giudice in relazione alle circostanze del caso concreto –, in modo da dar corpo, secondo una valutazione d'insieme, a una strategia unitaria di emarginazione (v., tra le tante, oltre a una nutrita giurisprudenza di merito, Cass., 19.4.2017, n. 2142, Cass., 24.11.2016, n. 24029, e Cons. St., 28.1.2016, n. 284; v. già, ad es., Cass., 9.9.2008, n. 22858, e Cass., 6.3.2006, n. 4774).

Non vi è invece completa uniformità di vedute tra gli interpreti sulla natura caratterizzante o meno dell'elemento soggettivo (e sulla sua intensità), vale a dire l'animus nocendi o l'intenzionalità lesiva del soggetto agente. La giurisprudenza e la dottrina prevalenti considerano requisito costitutivo del mobbing l'«intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi», almeno sotto forma del dolo generico, come volontà del mobber di arrecare danno al lavoratore-vittima, se non addirittura – come richiedono alcune sentenze – sotto forma del dolo specifico, come volontà di isolarlo o espellerlo dall'ambiente di lavoro (v. ad es. le sentenze citate sopra e, per una sintesi delle posizioni dottrinarie, Pasqualetto, E., Intenzionalità del mobbing e costrittività organizzativa, in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 63 ss.). Minoritari sono invece gli autori che accolgono la cd. “tesi oggettiva”, ritenendo sufficiente che la condotta risulti oggettivamente diretta, e dunque idonea, a ledere la dignità del lavoratore, analogamente a quanto la legge dispone a proposito della discriminazione (cfr. per tutti Scognamiglio, R., A proposito del mobbing, in Riv. it. dir. lav., 2004, I, 489 ss.; Meucci, M., Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma, 2012). La differenza tra le due impostazioni, soggettiva e oggettiva, risulta peraltro ridimensionata dalle posizioni giurisprudenziali che pongono l'accento – spostandosi sul delicato fronte probatorio (v. infra, § 5.1) – sul fatto che l'elemento intenzionale «non necessiti di una dimostrazione ab intrinseco, ma possa desumersi anche ab extrinseco dall'uso abnorme del potere direttivo e dalle altre circostanze del caso concreto, quando possa evincersi che esso è indirizzato a un fine diverso da quello tutelato dalla norma, assumendo quindi carattere di illiceità (così Cass., 4.1.2017, n. 74; v. anche i casi riportati da Bonora, C.T.-Imberti, L.-Ludovico, G.-Marinelli, F., Il mobbing nella giurisprudenza, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2006, 29, 122 ss.).

Oltre alla presenza dei suddetti requisiti, la giurisprudenza richiede, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per mobbing, la ricorrenza di un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente e la sussistenza del nesso eziologico tra le condotte del mobber e il pregiudizio subito dalla vittima (su cui v. infra, § 5.2). La riconduzione giurisprudenziale di plurimi atti gestionali alla fattispecie unitaria del mobbing (in primis a fini di massimizzazione del risarcimento) trova infatti un necessario punto di raccordo nell'effetto dannoso che tali condotte esplicano nei confronti di uno o più beni fondamentali della persona tutelati dall'ordinamento (in virtù delle norme richiamate supra, § 1).

La casistica giurisprudenziale formatasi nel corso del tempo ha anche permesso, come si è già detto, di individuare in via esemplificativa una ricca fenomenologia di condotte che, travalicando le normali conflittualità e tensioni sul lavoro, possono configurare il mobbing: le critiche continue immotivate e/o esagerate, le sistematiche calunnie, molestie o minacce, l'isolamento, il collocamento in postazioni di lavoro inidonee, il demansionamento o il sovra-mansionamento, il trasferimento illegittimo, l’esercizio illegittimo del potere disciplinare e/o di controllo, l’esclusione immotivata da benefici e incarichi, il rifiuto ingiustificato di permessi ecc. Già da questi esempi emerge, anzitutto, che molti di tali atti configurano di per sé illeciti contrattuali (si pensi ad es. a un demansionamento, un trasferimento o un provvedimento disciplinare carenti dei requisiti di legge), i quali potranno anche dar luogo, se sussumibili entro la medesima strategia vessatoria di cui si è detto, ad un'illecita condotta di mobbing; d'altra parte, qualora invece atti e comportamenti risultino di per sé neutri o legittimi (si pensi ad es. al ritiro di un benefit, al diniego di un permesso o all'effettuazione di visite mediche di controllo), essi potranno, solo se uniti ad altri e in presenza dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, configurare una condotta mobbizzante e dunque illecita.

Le fattispecie illecite limitrofe e lo straining

Nell'inquadramento giuridico del mobbing riveste una posizione centrale l'art. 2087 c.c., in via autonoma o in combinato disposto con altre norme: nell'applicazione giurisprudenziale una condotta mobbizzante rappresenta infatti, anzitutto, una violazione dell'obbligo di protezione del datore di lavoro.

Ciò peraltro non significa che le vessazioni subite sul luogo di lavoro, per assumere la rilevanza giuridica dell'inadempimento del suddetto obbligo, debbano necessariamente presentare i connotati del mobbing indicati dalla giurisprudenza.

La Corte di cassazione ha sul punto più volte sottolineato che il giudice del merito – in presenza di condotte asseritamente lesive della salute, della personalità morale o della dignità di un lavoratore – è tenuto a valutare se tali comportamenti, pur in assenza degli elementi che connotano il mobbing, «possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro» (V. Cass., 5.11.2012, n. 18927, e Cass., 3.3.2016, n. 4222). La giurisprudenza ha ad esempio ravvisato una violazione dell'art. 2087 c.c. e della normativa a tutela della salute e sicurezza sul lavoro a fronte di condotte cd. stressogene realizzate intenzionalmente dal datore di lavoro o dai suoi preposti (quindi in posizione gerarchica superiore) attraverso azioni ostili isolate o comunque limitate nel numero, e dunque in assenza dei connotati di molteplicità, sistematicità e durata propri del mobbing, purché causative di un danno all'integrità psico-fisica e/o alla personalità morale; i giudici hanno ricondotto tali azioni al fenomeno che la scienza medica indica con l'espressione straining (anche noto come stress forzato sul posto di lavoro o mobbing attenuato), pur osservando che, ai fini giuridici, «ciò che conta è l'accertata esistenza di una condotta intenzionale, mossa da motivazione discriminante, da cui è nata una situazione di stress lavoro-correlata» (Cass., 19.2.2016, n. 3291; v. già, ad es., Trib. Bergamo, 20.6.2005, in Foro it., 2005, I, 3357 ss.).

Gli strumenti di prevenzione

A ulteriore specificazione dell'ottica prevenzionistica propria dell'art. 2087 c.c., l’art. 28 del t.u. sulla sicurezza ha arricchito l'originaria nozione dell’obbligo del datore di lavoro di valutare «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori» formulata dal d.lgs. 19.9.1994, n. 626 specificando che tra i rischi particolari da considerare debbano rientrare, per quanto qui interessa, anche quelli «collegati allo stress lavoro-correlato» (SLC). Va osservato che il fatto che la norma sull’obbligo di valutazione contenga ora l'espressa menzione, a scopo meramente esemplificativo e insieme ad altri rischi, dello SLC – species del genus «rischio psico-sociale» (RPS) – non ha determinato il venir meno del cd. principio di onnicomprensività dei rischi oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro (anche sancito da C. giust., 15.11.2001, C-49/00, Commissione c. Repubblica italiana, nella sentenza che ha condannato il nostro paese per non aver imposto al datore di lavoro di valutare tutti i rischi professionali) e dunque si può sostenere che vi si debba leggere l'obbligo, ancora per quanto qui interessa, di prendere in considerazione i RPS intesi nella loro dimensione più ampia, comprensiva del mobbing (v., per tutti, Calafà, L., Il diritto del lavoro e il rischio psico-sociale (e organizzativo) in Italia, in Lav. dir., 2012, 262 ss; Nunin, R., La prevenzione dello stress lavoro-correlato, Trieste, 2012, 43 ss.). Anche grazie a queste specificazioni sulla latitudine dell'obbligo in parola il legislatore persegue il più ampio obiettivo della realizzazione di forme di organizzazione del lavoro che, attraverso l’eliminazione/riduzione dei RPS e di altri rischi, auspicabilmente con l’apporto della contrattazione collettiva, possano contribuire al cd. benessere organizzativo, che integra dunque la nozione di ambiente salubre.

A questo proposito, in virtù della contrattazione collettiva di comparto, nel settore del lavoro pubblico sono stati da tempo istituiti organismi collettivi di prevenzione, in particolare i Comitati per le pari opportunità (dal 1992) e i Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing (dal 2002), mentre nel settore privato organismi negoziali di prevenzione dei RPS sono quasi assenti. I suddetti comitati operanti nelle p.a. sono stati peraltro unificati, a seguito della modifica legislativa apportata all'art. 57 del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, dall'art. 21 della l. n. 183/2010, nel Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG); da allora ogni amministrazione pubblica ha l'obbligo legale di costituire un CUG, che riunisce su di sé la funzioni già assegnate ai preesistenti comitati, vale a dire compiti propositivi, consultivi e di verifica rispetto a situazioni di discriminazione e/o di mobbing, in attuazione del dovere, di garantire «un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo» e dell'impegno di «rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale e psichica» (previsti dal novellato art. 7, co. 1, d.lgs. 30.3.2001, n. 165; cfr. Corazza, L., Art. 21, in Nogler, L.-Marinelli, M., a cura di, La riforma del mercato del lavoro. Commento alle disposizioni della l. n. 183/2010, Torino, 2012, 143 ss.).

La tutela del lavoratore «mobbizzato»

Profili di responsabilità e oneri probatori

Non intendendo in questa sede analizzare la tutela che il diritto penale può garantire al lavoratore vittima di mobbing (e dunque le fattispecie di reato applicabili a seconda dei casi), il discorso sarà limitato alle forme di tutela previste dall'ordinamento sul piano civile.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie, come si è già detto, riconducono le concrete fattispecie di mobbing ad una violazione dell'art. 2087 c.c., che, imponendo al datore di lavoro l'adozione di misure «necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale» dei lavoratori, è fonte di responsabilità contrattuale del datore stesso qualora egli abbia direttamente posto in essere le condotte vessatorie oppure non abbia adeguatamente prevenuto e/o vigilato (v. ad es. Cass. n. 4222/2016 e Cass., 29.1.2013, n. 2038). Al carattere contrattuale dell’illecito consegue l'applicazione delle relative regole codicistiche in tema di risarcimento del danno e prevedibilità dello stesso (cfr., rispettivamente, gli artt. 1223 e 1225 c.c.), di prescrizione) (decennale, ex art. 2934 c.c.) e di prova (ex art. 1218 c.c.). Più in particolare, grava sul lavoratore l'onere di provare i comportamenti datoriali che realizzano un inadempimento dell'obbligo di protezione e il nesso causale tra le condotte vessatorie e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro l'onere di dimostrare – per superare la presunzione legale di colpa gravante sul medesimo ex art. 1218 c.c. – di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (la cd. prova liberatoria) (v. ad es. Cass., 19.3.2012, n. 4321; v. anche Cass. n. 4222/2016). Parte della dottrina ha osservato che questo regime probatorio risulta in sostanza incompatibile con la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing che richiede alla vittima di provare il dolo del mobber (v. Cass., 8.1.2016, n. 158, secondo cui l’onere probatorio deve ritenersi assolto quando sia stata offerta la prova dell’«esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio», su cui cfr. supra, § 2), sottolineando che l'eventuale dimostrazione del dolo sarebbe invece rilevante solo ai fini del superamento del limite della prevedibilità del danno di cui all'art. 1225 c.c. (v. ad es. Giubboni, S.-Borelli, S., Discriminazioni, moleste, mobbing, in Marazza, M., a cura di, Contratto di lavoro e organizzazione, in Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, Trattato di diritto del lavoro, vol. IV, tomo II, Padova, 2012, 1897). A parziale superamento di tale obiezione si può citare il già richiamato orientamento giurisprudenziale che alleggerisce sotto questo profilo l’onere probatorio del lavoratore, non richiedendogli di fornire la prova del dolo (generico o addirittura specifico) del mobber, bensì soltanto la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, pretestuosità e permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori (v. per tutte Cass. n. 74/2017; è comunque sempre fatto salvo, e qui particolarmente utile e rilevante, il ricorso alla prova per presunzioni).

In alcuni casi, soprattutto quando il mobber è un soggetto diverso dal datore di lavoro, i comportamenti mobbizzanti sono invece stati ricondotti dai giudici alla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (congiunta o meno a quella ex contractu), con conseguente applicazione delle relative regole, in primis sulla ripartizione dell'onere probatorio, secondo cui incombe sul lavoratore-vittima l'onere di provare, oltre al fatto, al danno e al nesso eziologico, anche il dolo o la colpa del danneggiante. Più in particolare la giurisprudenza ha prospettato soluzioni eterogenee: ad es. ammettendo il concorso tra l’azione di responsabilità contrattuale nei confronti del datore di lavoro e quella aquiliana nei confronti del dipendente autore materiale o istigatore dei comportamenti vessatori (v., ad es., Trib. Roma, 18.1.2017, e TAR Lazio, Roma, 25.6.2004, in www.dejure.it), talvolta riconoscendo anche l'applicabilità del regime di responsabilità più favorevole, a scelta del dipendente (v., ad es., Trib. Tivoli, 7.11.2006, in www.dejure.it); oppure affermando la natura extracontrattuale della responsabilità del datore di lavoro laddove il lavoratore abbia fatto valere una generica violazione dell'art. 2043 c.c. e non uno specifico inadempimento datoriale degli obblighi inerenti il rapporto di lavoro (v., ad es., Cons. St., 1.10.2008, n. 4738, e TAR Lombardia, Brescia, 9.6.2011, n. 860, in www.dejure.it).

Il risarcimento del danno

In caso di mobbing il rimedio assolutamente dominante nella prassi giurisprudenziale è com'è noto quello risarcitorio (risultando nei fatti del tutto secondari, oltre che per diverse ragioni difficoltosi, i rimedi civilistici inibitori e ripristinatori).

I danni conseguenti a condotte di mobbing possono avere natura patrimoniale (nelle due forme comunemente note e variamente articolate del danno emergente e del lucro cessante, presente e futuro) e/o natura non patrimoniale. Concentrandosi sulla seconda e più controversa categoria di danno va ricordato che – grazie ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. che salva la «tipicità" dei danni risarcibili ivi sancita riconoscendone la configurabilità anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge purché conseguenti alla lesione di specifici diritti fondamentali protetti dalla Costituzione (v. C. cost., 11.7.2003, n. 233) – il danno non patrimoniale è stato considerato dalla giurisprudenza una figura unitaria, che aggrega tutte le diverse categorie di danno alla persona del lavoratore (cfr. almeno le quattro storiche sentenze delle Sezioni Unite cd. di San Martino: Cass., 11.11.2008, nn. 26972-26975). Nell'area del danno non patrimoniale sono, dunque, ricompresi tali diversi pregiudizi che, pur non configurando autonome voci di danno risarcibili, possono rivelarsi utili ai fini dell'integrale ristoro secondo il criterio della personalizzazione del danno: vale a dire il danno biologico (che si traduce in patologie psichiche e/o fisiche, anche temporanee, suscettibili di valutazione medico-legale), il danno morale soggettivo (che si traduce nella sofferenza e nel dolore del danneggiato) e il danno esistenziale (che si traduce nella lesione delle attività realizzatrici, delle abitudini di vita e degli assetti relazionali della persona umana ancorabili a valori costituzionalmente protetti).

Una o più di tali «voci» di danno non patrimoniale potranno quindi, a seconda dei casi concreti, essere risarciti al lavoratore mobbizzato, purché, come si è già detto, siano allegati e provati dalla vittima. Per quanto concerne i mezzi di prova, non essendo stata accolta l'impostazione del danno in re ipsa, se per il danno biologico si richiede l'accertamento medico-legale, per gli altri pregiudizi non patrimoniali si potrà invece far ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva (v. Cass., 24.3.2006, n. 6572).

Una particolare attenzione viene dedicata dalla giurisprudenza al danno esistenziale conseguente a condotte di mobbing, il cui riconoscimento risponde anche all'esigenza di garantire una tutela alla vittima a prescindere dall'insorgenza di un danno alla salute (v., ad es., Trib. Tivoli, 23.1.2007 e Trib. Milano, 30.9.2006, in www.dejure.it) e che è andato via via assumendo parte della funzione precedentemente assolta dal danno alla professionalità (di carattere più propriamente patrimoniale). Sul versante probatorio, la giurisprudenza sottolinea che il danno esistenziale, essendo legato indissolubilmente alla persona, necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita (v. Cass., 23.11.2015, n. 23837); ciò non toglie che l'utilizzo del meccanismo presuntivo di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. ai fini della prova abbia assunto particolare rilievo e si sia radicato in giurisprudenza, fermo restando l'onere del danneggiato di provare tutti gli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio (cfr. Cass., 9.9.2015, n. 17832; v. anche, ad es., TAR Calabria, Catanzaro, 21.3.2013, n. 299). Quanto alla liquidazione del risarcimento del danno esistenziale la ricerca di criteri adeguati rappresenta ancora nell'applicazione giudiziaria un punto dolente: nel composito panorama giurisprudenziale risulta comunque prevalente il ricorso al criterio equitativo, che, pur presentando il vantaggio di permettere al giudice di adeguare il quantum del risarcimento al caso concreto, dà giocoforza origine a forti divergenze nelle soluzioni adottate.

La tutela previdenziale

Almeno un accenno – data la complessità e specificità del tema – meritano infine gli spazi di tutela dei lavoratori vittime di mobbing che si possono aprire grazie all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Le conseguenze patologiche del mobbing – qualora presenti e nei limiti di cui agli artt. 3 e 211 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124, e art. 13 d.lgs. 23.2.2000, n. 38 – sono considerate riconducibili alla nozione di tecnopatia cd. non tabellata accolta nel nostro ordinamento con l'intervento additivo della sentenza della Corte costituzionale del 18.2.1989, n. 178, poi recepito sul piano legislativo dall'art. 10 d.lgs. n. 38/2000 (v., ad es., App. Roma, 12.12.2011, in www.personaedanno.it). Ciò in quanto si ritiene che, entro l'ambito di applicazione del d.P.R. n. 1124/1965, qualsiasi caratteristica morbigena della lavorazione svolta, e dunque anche una situazione di costrittività organizzativa sul lavoro, può essere provata ai fini dell'accertamento dell'eziologia professionale di una malattia (v. Giubboni, S., Mobbing e tutela previdenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2006, 29, 173 ss.; contra v. Ludovico, G., L'INAIL e il mobbing, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 1042 ss.). Va ricordato che l'elaborazione del concetto di costrittività organizzativa e l'elencazione delle principali forme in cui essa si estrinseca (quali marginalizzazione, svuotamento di mansioni, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo ecc., coincidenti con le più frequenti modalità di manifestazione del mobbing) si devono in particolare alla nota e discussa circolare n. 71/2003 dell'INAIL, con cui l'ente chiarì anche che la «causa» lavorativa propria della nozione di malattia professionale può ricomprendere la nocività «riconducibile all'organizzazione aziendale delle attività lavorative». Tanto la suddetta circolare quanto il successivo d.m. 27.4.2004 che la recepì (ricomprendendo le patologie psichiche e psicosomatiche ricollegabili a costrittività organizzativa nell'elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia in quanto di probabile o possibile natura professionale) sono stati però annullati dalla giurisprudenza amministrativa (v. TAR Lazio, Roma, 4.7.2005, n. 5454, in Foro it., 2005, I, 704 e Cons. St., 17.3.2009, n. 1596). Nonostante tali articolate vicende giudiziarie, e anche in considerazione del fatto che i successivi d.m. di aggiornamento degli elenchi di cui sopra (tra cui il d.m. 10.6.2014) hanno continuato a prevedere un identico riferimento alle malattie da «disfunzioni dell'organizzazione del lavoro o costrittività organizzativa», la giurisprudenza ha seguitato ad affermare che, una volta che il lavoratore provi l'origine lavorativa del suo disturbo, «la malattia ben può essere definita professionale, tanto più se si tratta di patologia oggi comunque ritenuta di probabile (ancorché limitata) origine lavorativa» (in virtù dell'inclusione nel suddetto elenco), con conseguente condanna dell'INAIL al pagamento dell'indennizzo, in capitale o in rendita, ex art. 13 d.lgs. n. 38/2000 (v., ad es., Trib. Larino, 12.10.2010, in Dir. rel. ind., 2011, 1095 ss.).

Fonti normative

Artt. 2, 3, 4, co. 1, 32, e 41, co. 2, Cost.; artt. 1175, 1218, 1223, 1225, 1375, 2043, 2059, 2087, 2103, 2727, 2729, 2934 c.c.; artt. 3 e 211 d.P.R. 30.6.1965, n. 1124; artt. 10 e 13 d.lgs. 23.2.2000, n. 38; artt. 7 e 57 d.lgs. 30.3.2001, n. 165; art. 28 d.lgs. 9.4.2008, n. 81.

Bibliografia essenziale

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