MONACHESIMO
Monachesimo cristiano
di Vito Fumagalli
sommario: 1. Lo spirito del monachesimo. 2. Il monachesimo orientale cristiano. 3. Il monachesimo occidentale. 4. L'evangelizzazione e la colonizzazione ad opera dei monaci. 5. L'apogeo del monachesimo. 6. L'agricoltura monastica. 7. Le riforme monastiche. □ Bibliografia.
1. Lo spirito del monachesimo
Il fenomeno monastico appartiene, sotto forme diverse, all'intera storia della civiltà, costituendo un atteggiamento mentale mai tramontato e una corrispondente attitudine pratica volti alla scelta del vivere appartati, al rifiuto delle regole comuni della vita sociale ponendosi al di sopra delle medesime, e in generale alla lotta contro gli istinti e gli impulsi della carne, le sue debolezze e prevaricazioni. Non vi è religione positiva che non ne sia stata segnata, e spesso in profondità, così come lo sono stati i contenuti e la prassi dei culti cosiddetti popolari o folklorici. Nessun'altra storia, tuttavia, ne è stata altrettanto marcata quanto quella del Tibet, che arriva a configurarsi come un mondo quasi interamente monastico nella cultura, nella società, nelle istituzioni. Tuttavia, le differenti attuazioni del monachesimo (dalla parola greca μόνοϚ, solo), esplicatesi in molteplici regioni e in numerosi periodi storici, non hanno mai ignorato la sostanziale identità del contenuto cardine: la vita solitaria, di élite, potremmo anche aggiungere, che lo ha sempre contrassegnato.
2. Il monachesimo orientale cristiano
Alle origini, nel territorio dell'Asia dove nacque il monachesimo occidentale, in quel
Dopo quegli inizi - di Paolo, Malco, Antonio - certo l'eremitismo non venne meno, pur traducendosi in forme aggregative magari limitate nel numero dei partecipanti, spesso costituite da piccoli nuclei di persone che non vivevano lontane le une dalle altre, anche se separate.
La prassi che meglio concretizzò lo spirito del monachesimo cristiano orientale fu indubbiamente quella degli stiliti, anacoreti che trascorrevano l'intera vita su di una colonna. In condizioni fisiche e psicologiche di grave disagio, essi davano la forma più alta all'ideale di esistenza eroica che costituiva la sostanza più caratteristica di quel monachesimo. Uno stile, un modo, un'esperienza monastici che però davano talvolta adito a fenomeni di esibizionismo e, più spesso, di clamorosa, disumana superbia. Nei primi secoli di vita monastica tale pratica ebbe particolare vigore e diffusione, e i suoi adepti furono circondati da profondo rispetto e da sentimenti di timore. Il cenobitismo, che andava affermandosi sempre più con il passare del tempo, iniziò naturalmente a considerare con un senso di diffidenza, se non di estraneità, l'esperienza degli stiliti, come in genere le esperienze penitenziali più rigide. Le Vite dei Padri del deserto rappresentarono, però, per tutto il Medioevo una delle letture preferite dei monaci, e non solo di questi, proprio per lo spirito eroico che le contraddistingueva: Malco, Paolo, Antonio lottano da soli contro le grandi difficoltà di un ambiente ai limiti della vivibilità e nello stesso tempo contro il demonio. Famose le tentazioni di sant'Antonio, quell'Antonio abate che
Lo spirito eroico portò anche a un altro modo di intendere la condotta degli eletti, cioè alla scelta di vagare solitari, affrontando pericoli di ogni genere e affidandosi unicamente alle proprie forze e all'aiuto divino. I sarabaiti, i famosi monaci vaganti, furono un grave problema sia per la salvaguardia di un certo modo d'intendere correttamente la vita monastica evitando esibizioni individualistiche e anarchiche, sia per i riflessi negativi che queste ingeneravano nei laici. La stabilità nel monastero, uno dei punti che maggiormente caratterizzarono le regole di Pacomio, Basilio e Atanasio, era diretta proprio contro i monaci girovaghi, restii a precetti e a regole, e nemici per eccellenza del cenobitismo. Eppure l'attrazione per il viaggio e la vita errabonda, lo sradicamento, restò nel profondo a sollecitare, di tanto in tanto, gli animi dei fratelli, soprattutto quando la vita comunitaria entrava in crisi perché contaminata con la vita del mondo, intrecciata con il potere o troppo presa dalle ambizioni della cultura. Insomma le grandi riforme, in Occidente e in Oriente, ebbero come precedenti fenomeni di ritorno sia dello stile di vita monastico individuale ed eroico, sia di quello, spesso legato al primo, che portava a scegliere un'esperienza fuori dalle mura del chiostro, alla ricerca di se stessi e di altri compagni, lontano da ogni comunità, religiosa o civile che fosse.
3. Il monachesimo occidentale
Dopo inizi ancora timidi nella loro configurazione, l'obbligo del lavoro fisico andò enucleandosi progressivamente come specifico impegno e severa, scientifica competenza, dovuta alla preparazione scolastica dei monaci, molti dei quali erano persone colte. Di qui nacque un intreccio profondo tra l'attività e la sapienza monacali: i grandi orti alimentari e farmaceutici ebbero origine dalla fusione tra detta attività e la conoscenza dei principî teorici dell'agricoltura. Non è, dunque, un caso se per tutto il Medioevo (ed entro certi limiti anche dopo) molti dei maggiori agronomi furono monaci. Il viridarium (verziere) divenne laboratorio di un'agricoltura sempre più sofisticata, come ci testimoniano in numero progressivamente crescente fonti scritte e iconografiche. Il legame con la società si poneva quindi, ormai quasi d'obbligo, nella proposizione di modelli agronomici monastici che non tardarono molto a entrare nella vita dei laici attraverso, o meno,
4. L'evangelizzazione e la colonizzazione ad opera dei monaci
Rievangelizzare, ricolonizzare o colonizzare per la prima volta vasti territori dell'Europa furono esiti di incisivo rilievo nella storia monastica dei primi secoli del Medioevo e già del periodo tardo-antico. Tuttavia anche dopo, pur senza lo slancio e le dimensioni di allora, il monachesimo non dimenticò tale sua funzione. Soprattutto nell'Europa centrosettentrionale e orientale molte diocesi e archidiocesi nacquero o rinacquero da insediamenti monastici, si trattasse di abbazie, priorati o semplici, piccole dipendenze (cellae). Nella
Ogni monaco aveva la sua funzione nell'espletamento di tutti i compiti che una cittadella autosufficiente o quasi richiedeva: la stabilitas monastica aveva avuto la sua sanzione anche economica, definitiva nella volontà degli organizzatori. Al vertice della comunità l'abate, non solo nel grande ordine benedettino, sovrintendeva all'intero complesso delle esigenze dei suoi confratelli, anche se per molte di queste non agiva direttamente ma attraverso l'operato dei monaci a lui soggetti. Tra questi i compiti erano rigorosamente distribuiti, dal bibliotecario all'ortolano, dotato di una funzione primaria perché i monaci dovevano attenersi a una dieta che imponeva loro un alto consumo di erbaggi, e al cellerario, sovrintendente ai magazzini e custode del vino e dell'olio, ingredienti ambedue preziosissimi per l'alimentazione e il culto. L'olio era destinato, oltre che al condimento delle vivande (si pensi all'alto consumo dei prodotti dell'orto), a illuminare la chiesa e il resto degli edifici e dimore. Sarebbe troppo lungo elencare compiti e responsabili nella complessa organizzazione di un monastero: basti ribadire che questo assomigliò sempre di più, con il passar del tempo, a una cittadella, dove la popolazione subí un aumento per noi oggi quasi incredibile, dall'VIII secolo in poi, quando in una sola sede potevano esservi alcune centinaia di monaci e altrettanti o più servi domestici (o praebendari) con le loro famiglie. Gli atti pubblici (rapporti con altre sedi monastiche, dipendenti o meno, grandi e piccole; con chiese, capellae o plebes; con le autorità civili ed ecclesiastiche) erano stipulati dall'abate in persona. Anche quelli di natura privata (acquisti e affitti di immobili, terre e case, permute, donazioni e altro) erano contratti dallo stesso abate, a dimostrare l'organicità e l'unità di conduzione della grande, non di rado sterminata, azienda monastica. Sino al XII secolo i più grandi monasteri avevano proprietà su scala regionale e spesso interregionale, quando non addirittura internazionale, come l'abbazia di Tours che a cavallo dell'anno 800 aveva possedimenti sul
Ma già prima era necessario disporre di un personaggio potente ed esperto, che tutelasse una proprietà molto vasta e dislocata in regioni anche molto lontane. San Colombano di Bobbio nella seconda metà del IX secolo possedeva celle, luoghi di accoglienza (ξενοδοχεῖα, hospitalia), terre coltivate, boschi, foreste e paludi in molti luoghi dell'Italia settentrionale, dal
5. L'apogeo del monachesimo
Al di là delle Alpi, particolarmente in Francia e nei territori germanici (si pensi a
Se a San Vincenzo possiamo ammirare l'incontro delle diverse esperienze artistiche (e anche, ovviamente, sociali e istituzionali), è a
Meno conflittuale rispetto alla gerarchia ecclesiastica e al potere civile, il monachesimo orientale ebbe anche modo di svilupparsi in un'autonomia superiore e di realizzare all'interno del chiostro una maggiore perfezione, un maggiore distacco dal mondo. Ciò non significa affatto che questo distacco fosse totale, ma soltanto che i monaci orientali, o comunque i monaci ispirati alle loro esperienze religiose, svilupparono nei confronti della società una riflessione critica innegabilmente più forte, non di rado più efficace, di sicuro molto meno contaminata. Un'interiorità più profonda volle dire la difesa salda dei principî del monachesimo - quando non dell'eremitismo, più diffuso e sentito che nell'Occidente - ed ebbe come contropartita una presenza sociale e materiale meno incisiva, non dandosi esempi di cenobi dotati delle sterminate proprietà fondiarie di quelli d'Occidente. Nel contempo il monachesimo di stampo orientale subì un coinvolgimento politico e sociale più morbido, si mantenne più puro, nei limiti concessi dalle vicende, spesso turbinose, del Medioevo e delle epoche successive. Esso tuttavia spesso non esitò a contrastare anche clamorosamente il potere, sia laico che ecclesiastico: basti l'esempio di Cassiodoro e dei suoi rapporti con la monarchia gota.
6. L'agricoltura monastica
Una cultura tradizionale più scaltrita ebbe per il monachesimo orientale ripercussioni notevoli sull'economia, in particolare quella agricola: sono famosi gli orti del monastero calabro di
L'orticoltura e l'agricoltura, nata dalla prima, sono un fenomeno tipicamente urbano e appunto da ciò deriva l'impulso maggiore che esse ebbero agli inizi in aree dove la presenza della città si mantenne, tra tardo-antico e primo Medioevo, sostanzialmente vitale, ma anche in seguito, nelle zone dove l'afflusso di popoli dell'Europa settentrionale e delle steppe asiatiche incoraggiò l'insorgenza di pascoli, boschi e villaggi, che facevano parte del costume di vita di quei popoli. Piante alimentari, erbe medicinali e alberi ornamentali (molto più numerosi quelli provenienti dall'Oriente) si unirono alle nostre colture, dando vita a un'agricoltura ricchissima nella concentrazione delle specie vegetali degli orti, che in Occidente è venuta meno solo da alcuni decenni e non dovunque. La tendenza a privilegiare la coltura di maggior rendimento e minor costo è una politica economica che inizia con la nascita della grande proprietà fondiaria, già nel primo Medioevo. Gli stessi grandi monasteri non ne andarono esenti: basti pensare all'estensione delle colture cerealicole su spazi sempre più ampi, che assicurava un prodotto di primaria necessità e dalla commercializzazione anche allora tutto sommato agevole. Tuttavia una tecnologia agraria molto meno agguerrita imponeva la varietà delle coltivazioni, che poteva assicurare la riuscita di qualcuna di esse anche nel caso di avversità climatiche.
7. Le riforme monastiche
Il monachesimo fu attraversato, per tutto il Medioevo e oltre, da scosse riformatrici che, se da un lato erano volte a ristabilire lo spirito della sua genesi originaria, dall'altro si proponevano l'adeguamento ai tempi nuovi. Queste due componenti non concorsero sempre in eguale misura alle cosiddette riforme monastiche, che videro prevalere l'una o l'altra, a seconda dei luoghi e dei tempi. Esse furono, comunque, costantemente unite e il richiamo alle origini e al Vangelo non venne meno in alcuna circostanza. Nella prima metà del IX secolo l'aristocratizzazione del
La sollecitazione al ritorno alle origini, con un'accentuazione singolare della solitudine, dell'appartarsi, segnò le riforme dei camaldolesi e dei vallombrosani, insieme alla reazione, principalmente dei primi, a una società che, a cavallo del Mille, andava 'mondanizzandosi', e allo stesso monachesimo che ne subiva, con il clero secolare, l'influenza. Da ciò la scelta di luoghi solitari sui versanti montani tra l'Emilia e la Toscana. Non vi fu estraneo, certamente, il risorto anelito all'eremitismo, che tuttora caratterizza fortemente l'esperienza spirituale dei monaci camaldolesi. Tutto questo in un clima sia di rigorismo (si pensi a papa Silvestro II e all'imperatore Ottone III), sia di incipiente conflitto tra potere civile e potere ecclesiastico, alle soglie della lotta per le investiture. Ma, al di là di tutto ciò, nel dar vita a questi e ad altri movimenti riformatori contò anzitutto il cambiamento che investì, anche se in diverse misure e forme, la società dopo il Mille, nel passaggio dall'alto al pieno Medioevo. Un clima di fermenti cominciò a incrinare il mondo feudale, pur giunto a quell'epoca (XI e XII secolo) alla sua massima affermazione: rinascita vigorosa delle città, deciso enuclearsi delle autonomie nelle comunità rurali, rafforzarsi e dilatarsi dei traffici, vigoreggiare dell'artigianato, primo saldo imporsi delle monarchie feudali, e lo stesso radicarsi nel territorio della nobiltà, soprattutto al nord delle Alpi, dove essa si andava cristallizzando nelle forme della signoria bannale, contrassegnata da rapporti sempre più rigidi con i propri soggetti. Non ultimo, certamente, il riaccostarsi, ben più influente che nel passato, alla civiltà araba e bizantina. Le stesse crociate favorirono questi contatti e concorsero, per il tramite soprattutto del mondo islamico, all'ingresso incisivo nell'Occidente delle culture orientali e delle specifiche discipline coltivate dagli Arabi. È innegabile che una forte componente di razionalismo prese allora la via dell'Occidente: la Spagna musulmana, tra XI e XII secolo, ne fu l'espressione primaria, in cui si incrociarono le culture araba, cristiana ed ebraica. Ciò avveniva in un periodo in cui si sentiva un bisogno notevole di arricchimento scientifico, nella temperie nuova in cui le mentalità e le culture dotte si evolvevano verso l'approfondimento della conoscenza non solo filosofica, ma anche matematica e fisica. Il monachesimo prese posizione nei confronti di queste e altre novità e, nonostante chiusure forse più formali che sentite, in molti casi ne fu certo influenzato. I cistercensi, con la loro esigenza di ordine geometrico sia nell'apprestare i propri insediamenti che nell'organizzare il loro sapere e le stesse aziende fondiarie, dovettero molto, fra XII e XIII secolo, al sapere trasmesso, rielaborato o creato dalla cultura islamica. (V. anche Cristianesimo e Chiese cristiane; Religione).
bibliografia
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Monachesimo nelle religioni orientali
di Francesco Sferra
sommario: 1. Introduzione. 2. Le regole monastiche. a) Le scuole buddhiste. b) La comunità jaina. c) Le sette induiste. d) Il taoismo. 3. I monasteri. a) I monasteri buddhisti. b) I monasteri indù. c) L'organizzazione della comunità jaina. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il monachesimo è presente in misura diversa in quasi tutte le più importanti esperienze religiose e culturali orientali: nell'induismo, nel taoismo, nel bon e soprattutto nel buddhismo e nel jainismo, che sono religioni essenzialmente monastiche e sulle quali pertanto soffermeremo maggiormente la nostra attenzione.
È difficile determinare in quale momento il fenomeno monastico abbia avuto origine, poiché da fonti antiche sappiamo che eremiti e comunità di asceti, come quella degli Ājīvaka, erano presenti in India prima della predicazione del
La storia del buddhismo, in particolare, è legata alla crescita della comunità monastica, alla sua organizzazione e al suo rapporto con la società. Le trasformazioni del monachesimo buddhista, che si è diffuso da Ceylon al
Nonostante il ruolo politico e culturale sostenuto dal monachesimo in alcuni paesi e contesti storici, non bisogna dimenticare che alla vita monastica si riconosce una funzione essenzialmente morale e spirituale. Il monaco è sì nel mondo, ma sta in esso "come la goccia d'acqua sul loto" (Suttanipāta, 392), con il suo esempio e con l'insegnamento trasmette al mondo i valori etici e spirituali sui quali i laici sono chiamati a basare la propria esistenza. Da questo punto di vista l'influenza del monachesimo nella società è rilevante ed è testimoniata, ad esempio, dal fatto che in certi paesi buddhisti (
In Oriente esiste un rapporto di reciproca dipendenza tra i laici e i monaci: i primi manifestano riconoscenza e devozione nei confronti dei secondi rispettando l'antica usanza indiana di provvedere ai bisogni materiali (cibo, vesti, ecc.) dei monaci e degli asceti di tutte le tradizioni spirituali, permettendo loro di non lavorare per vivere e di dedicarsi a tempo pieno allo studio e all'ascesi. In effetti, bhikṣu (pāli, bhikkhu), la parola sanscrita che traduciamo con 'monaco', significa letteralmente 'mendicante'. In cambio i laici accumulano meriti spirituali e ricevono insegnamenti. Ciononostante, esistono alcune sette che con il tempo hanno riconsiderato questo aspetto della disciplina: i monaci della setta viṣṇuita Svāminārāyaṇa, ad esempio, vivono dei propri guadagni; molti abati pongono grande attenzione ai loro investimenti, cercando di dipendere sempre meno dalla generosità via via minore dei devoti, mentre all'interno del buddhismo, la tradizione cinese Ch'an (giapponese, zen) prevede espressamente il lavoro manuale come elemento indispensabile del cammino spirituale. In ossequio alla prima regola enunciata da Pai-chang (720-814): "Un giorno senza lavorare è un giorno senza mangiare", i monaci zen svolgono per lo più lavori nei boschi, nei campi, nelle fattorie, ecc., senza riguardo per il proprio livello gerarchico.
2. Le regole monastiche
Tra gli strumenti che favoriscono la crescita spirituale tutte le tradizioni religiose attribuiscono un posto di grande rilievo alla regola monastica. Essa in primo luogo cerca di conservare il più possibile alto il livello della moralità di tutti gli appartenenti alla comunità: la vita dei monaci è fissata nei minimi particolari per garantire la disciplina dei singoli mediante la disciplina collettiva, favorendo tra l'altro il mutuo sostegno ed evitando situazioni di scandalo. La regola costituisce un fattore di coesione all'interno della comunità: non è un caso, ad esempio, che sin dagli inizi - e ancora oggi in alcuni paesi - i monaci buddhisti residenti in uno stesso luogo manifestino la loro unione celebrando insieme il rito dell'uposatha (sanscrito, upoṣadha) (v. Dutt, 1924, pp. 107-108) a ogni cambiamento di luna (due volte al mese). Dopo una predica rivolta ai laici dal più qualificato dei religiosi, tale rito prevede che questi ultimi si riuniscano tra loro per recitare la regola monastica e per procedere alla confessione pubblica (alla quale non è escluso che nei primi tempi partecipassero anche i laici). Nei giorni dell'uposatha, inoltre, si raccomanda ai laici di digiunare come i religiosi, di andare ad ascoltarne gli insegnamenti e di rispettare alcune restrizioni: rinunciare all'uso di profumi, di unguenti, di ghirlande, ecc. e non assistere a spettacoli di danza, di canto e teatrali.
a) Le scuole buddhiste
La regola delle scuole buddhiste è codificata nel Vinayapiṭaka ('Canestro della disciplina'), la prima delle tre raccolte di testi in cui è suddiviso il Canone. Non si può determinare con esattezza il momento in cui la
Il Vinayapiṭaka ebbe molte versioni codificate in un arco di tempo piuttosto ampio e oggi possediamo, completi o in frammenti, i codici monastici di sei scuole (v. Dutt, 1960, pp. 77-79), che tuttavia non differiscono sostanzialmente tra loro. Solo il vinaya dei Theravādin, che è stato redatto in pāli nel I secolo a.C. a Śrīlaṅka (ma che è stato elaborato oralmente in un tempo molto antico), ci è pervenuto nella sua interezza in lingua originale, mentre degli altri possediamo frammenti o antiche traduzioni in tibetano o cinese.Il nucleo più antico del Vinayapiṭaka, il Pāṭimokkha (sanscrito,
A parte i cinque precetti comuni a tutti i buddhisti (non uccidere, non rubare, non mentire, non commettere adulterio e non fare uso di sostanze intossicanti), è prescritto che i monaci pratichino il celibato e la castità, rinuncino ai piaceri del mondo, come la partecipazione a feste e spettacoli, osservino la povertà (di norma posseggono solo tre abiti, una ciotola, un rasoio, un ago e un filtro per l'acqua) e si nutrano in genere una sola volta al giorno (entro le dodici) del cibo che viene donato loro dai laici. L'offerta di cibo e, secondariamente, di vesti, d'alloggio, di mobilio, di fiori, ecc. costituisce per i laici un impegno inderogabile e, come si è accennato, un merito; i monaci, da parte loro, contraccambiano con il dono della predicazione della dottrina, considerato ben più prezioso. Nel corso dei secoli, specie nel Sudest asiatico, la vita dei monaci è rimasta pressoché fedele alle regole austere fissate dal Vinayapiṭaka. A tale proposito è interessante la testimonianza di
Il Vinayapiṭaka dei Theravādin è diviso in tre parti: la prima, detta Suttavibhaṅga, illustra appunto le regole del Pāṭimokkha destinate ai monaci e alle monache (rispettivamente nel Bhikkhuvibhaṅga e nel Bhikkhunīvibhaṅga), descrive i fatti che determinarono storicamente la nascita delle singole regole e le situazioni nelle quali sono previste delle attenuanti per chi viene meno alla disciplina. La seconda parte, detta Khandaka, è divisa a sua volta in due sezioni, il Mahāvagga e il Cullavagga, e può essere considerata come una continuazione o un supplemento alla precedente; vi è inserito un certo numero di racconti edificanti sulla vita del Buddha, una narrazione (probabilmente aggiunta in un secondo momento) dei concili di Rājagṛha e Vaiśālī e vi sono descritti gli eventi che hanno portato alla formazione del Saṅgha e le norme generali che regolano la vita dell'istituzione monastica: le cerimonie, le azioni da svolgere quotidianamente, l'abbigliamento, i medicamenti, le procedure di riappacificazione tra i monaci, i principî igienici da osservare meticolosamente e i criteri di ammissione nell'ordine. In merito a questi ultimi è interessante notare che la vita monastica è da sempre aperta a tutti, tranne a coloro che potrebbero turbare l'ordine della comunità, come i criminali, o che sarebbero incapaci di seguire la regola, a coloro che hanno gravi malattie nervose (epilessia, ecc.) o della pelle e ai bambini non autorizzati dalla famiglia. Si diviene novizi (śrāmaṇera, navaka) dopo aver preso rifugio (śaraṇa) nel Buddha, nel
Grande importanza riveste anche il Vinaya dei Mūlasarvāstivādin, che ci è pervenuto per gran parte nella versione originale redatta in sanscrito e integralmente in traduzione tibetana (la sua traduzione in cinese, avvenuta tra il 700 e il 712 d.C., è incompleta). Esso non solo fu alla base di moltissime scuole del buddhismo Mahāyāna, che si diffuse soprattutto nell'India del nord e nella Cina, ma fu anche l'unico codice monastico ad essere tradotto in tibetano, tra l'VIII e il IX secolo d.C. Non è un'opera omogenea, ma un aggregato di testi appartenenti a epoche diverse e successivamente riuniti. È probabile che sia molto antico, forse addirittura precedente al regno di Kaniṣka I (144-167 d.C.), e sembra contenere elementi che lo farebbero ritenere precedente ai Vinaya di altre correnti (v. Gnoli, 1977, pp. XX-XXI).Ci sono pervenute opere molto antiche composte in sanscrito, connesse al Vinaya di alcune scuole dell'antico buddhismo indiano; tra questi testi (mai tradotti in tibetano) ricordiamo, ad esempio, il Mahāvastu, l'Abhisamācārikā, il Bhikṣunīvinaya dei Lokottaravādin, lo Śrīghanācārasaṃgraha (di cui possediamo anche una Ṭīkā o 'commento') e il Prātimokṣasūtra dei Mahāsāṅghika. Le opere più importanti per quanto riguarda la disciplina Ch'an a noi pervenute sono il Ch'an men kuei shih del 1004 e il Ch'an yüan ch'ing kuei del 1103, entrambe in cinese. L'ultima, in modo particolare, è importante per il carattere sistematico con cui tratta l'argomento e perché fece da modello per tutti i codici successivi, cinesi e giapponesi (v. Collcutt, 1983, p. 168).
b) La comunità jaina
La regola monastica jaina, detta kalpa o sāmācārī, tramandataci da fonti antiche come i Mūlasūtra e i Chedasūtra (v. Deo, 1960, pp. 6-9), stabilisce che i monaci osservino in modo assolutamente radicale e incondizionato i cinque 'grandi voti' (mahāvrata). I primi quattro, analoghi a quelli osservati dai buddhisti, sono
Il risultato fu che ai monaci venne concesso di possedere pochissime cose: tra queste una ciotola per raccogliere il cibo elemosinato, un pezzo di stoffa per filtrare l'acqua, un bastone da viandante e, talvolta, un libro che simboleggia il maestro assente. Vi sono alcuni oggetti che caratterizzano in modo particolare i monaci jaina e che mostrano come l'ahiṃsā sia per loro il principale dei mahāvrata: una scopa detta rajoharaṇa, con cui vengono rimossi i piccoli insetti che potrebbero essere calpestati durante il cammino (con il buio i monaci non possono neanche spostarsi per paura di nuocere loro), e una piccola mascherina detta mukhavastrikā, che evita l'ingestione delle piccole creature.
Le regole disciplinari fanno sì che nella giornata del monaco nulla sia lasciato al caso. Il praticante di stretta osservanza, ad esempio, non può dormire per più di tre ore (e può farlo solo steso in terra o su una superficie dura), non può avere cura del proprio corpo, non può accendere il fuoco, può muoversi solo a piedi, può mangiare solo alcuni cibi vegetariani ricevuti in elemosina, che siano avanzati a laici fedeli alla dottrina jaina e che non siano stati preparati appositamente per lui, deve ispezionare le sue vesti per liberare eventuali piccoli insetti, ecc. Nell'Uttarajjhāyā (XXVI, 12 ss.) leggiamo: "Nella prima parte del dì il monaco deve studiare, nella seconda meditare, nella terza andare in giro per la questua, e nella quarta di nuovo studiare. Nel primo quarto della prima parte del dì deve ispezionare le sue cose, riverire il superiore, indi dedicarsi allo studio senza lasciarsi turbare da nulla. Nell'ultimo quarto della prima parte deve ispezionare la sua scodella [...] la sua pezzuola [...] il suo vestito. Nella terza parte del dì deve mendicare cibo e bevanda [...] Nella quarta parte del dì deve riporre la sua scodella, indi dedicarsi allo studio che rivela ogni cosa esistente. Nell'ultimo quarto della quarta parte del dì deve riverire il maestro [...], indi ispezionare il suo alloggio. Il monaco zelante deve anche ispezionare il luogo dove evacuare e orinare; di poi praticare il kāyotsarga [meditazione silenziosa] fino a che il sole tramonta, senza lasciarsi turbare da nulla. Deve poi riflettere metodicamente sulle trasgressioni che ha commesso durante il giorno in rapporto alla conoscenza, alla fede, alla condotta [...] Deve ordinatamente confessare le colpe commesse durante il giorno. Nella prima parte della notte il monaco deve studiare, nella seconda meditare, nella terza dormire, nella quarta di nuovo studiare. Nell'ultimo quarto della quarta parte della notte deve riverire il superiore [...] praticare il kāyotsarga [...] riflettere sulle trasgressioni commesse durante la notte [...] confessare le colpe" (cit. in Della Casa, 1962, p. 74). Le monache (che vivono separate dai monaci) devono osservare regole più severe di quelle a cui sono sottoposti gli uomini, poiché si ritiene che la loro natura le renda più esposte alle tentazioni e meno capaci di fronteggiarle. I digambara addirittura non accettano le monache, la cui nudità considererebbero scandalosa; essi stessi, alla presenza di altri, usano coprirsi con un cencio.I cinque mahāvrata sono accompagnati da altre prescrizioni, che nell'insieme rappresentano la disciplina preparatoria all'ascesi. Si tratta del controllo (gupti) delle attività di corpo, parola e mente, dell'attenzione scrupolosa (samiti) a non nuocere ad alcun essere vivente, dell'osservanza dei dieci doveri (dharma) propri dei monaci, tra cui pazienza, povertà, ecc., della riflessione (anuprekṣā) sulla transitorietà dell'esistenza e sulla via per la liberazione, della sopportazione (parīṣahā) di pene e disagi e, infine, della retta condotta (cāritra). L'ascesi si presenta in due forme: una interiore, che presuppone degli esercizi yogici di concentrazione progressiva, che permettono l'accesso a stati superiori di coscienza, e una esteriore, che comporta, tra le altre cose, l'assunzione per tempi più o meno lunghi di posizioni scomode (vietate alle donne) e il digiuno temporaneo. Una pratica caratteristica e piuttosto comune, la cui esecuzione è però lasciata allo zelo individuale e sottomessa all'approvazione del maestro, è il suicidio per inedia, la saṃlekhanā, l'unica forma di morte volontaria ammessa.
Ogni giorno i monaci e i laici debbono recitare sei formule, dette āvaśyaka, che contengono il voto di evitare ogni atto riprovevole, la lode dei 24 Tīrthaṃkara (Mahāvīra e i suoi predecessori) e del proprio maestro, la confessione, l'introduzione alla meditazione silenziosa e, infine, la rinuncia a cibi e bevande non indispensabili. Fu Mahāvīra a rendere obbligatoria la confessione (pratikramaṇa), ancora facoltativa nella comunità fondata da Pārśvanātha, e a raccomandare la nudità come mezzo di mortificazione. Contravvenire alle regole comporta una punizione che viene impartita dal capo della comunità; essa può consistere nella privazione di cibo, nello svolgimento di esercizi supplementari e, nei casi più gravi, nella retrocessione (paryāya) nella gerarchia monastica o addirittura nell'esclusione dalla comunità.
Anche nel jainismo l'accesso alla comunità monastica è molto facile e non vigono limitazioni di casta o di razza. È necessario aver compiuto sette anni e mezzo, avere un fisico capace di affrontare le difficoltà di una vita di sacrificio, essere mentalmente sani e privi di impedimenti esterni, come la mancata autorizzazione dei genitori o del tutore, oppure debiti in sospeso con la giustizia. Il noviziato dura quattro mesi, durante i quali in assoluta obbedienza si è al servizio di un monaco più anziano, detto 'maestro' (guru), che ha il compito di istruire il discepolo (śiṣya) nella disciplina e nelle Scritture. La consacrazione, che viene impartita fuori dal centro abitato dopo una processione, consiste nella rinuncia agli oggetti personali, nella tonsura (cūḍākarma; anticamente vigeva lo strappo dei capelli secondo l'esempio di Mahāvīra), nell'assunzione di un nome nuovo e, infine, nel giuramento di osservare i cinque mahāvrata, ai quali se ne aggiunge talvolta un sesto: non bere né mangiare dopo il tramonto. Al buio, infatti, come ricorda Hemacandra (1088-1172), un famoso poligrafo e monaco jaina, potrebbero ingerirsi inavvertitamente dei piccoli insetti (Yogaśāstra, III, vv. 48-54).
c) Le sette induiste
Nell'induismo l'esperienza monastica si inserisce nell'ambito più ampio dell'ascetismo ed è propria di numerose sette viṣṇuite, śivaite e śākta. La figura dell'asceta (sādhu) non presenta caratteristiche fisse: egli può essere un monaco che vive in comunità e osserva la castità e la povertà, così come può essere sposato, vivere nomade o solitario. Anche se la vita itinerante è tenuta in maggior considerazione dai codici monastici di tutte le sette, la scelta tra vivere senza una fissa dimora e risiedere in un monastero o altrove (muovendosi solo eccezionalmente per pellegrinaggi o altri motivi religiosi) è riservata al sādhu al momento dell'iniziazione. I monasteri sono luoghi aperti ai visitatori laici e religiosi, in essi si può risiedere continuamente o recarsi solo di passaggio. Qualunque tipo di vita scelga, ogni sādhu è tenuto comunque ad osservare regole comuni a tutti gli asceti: deve compiere atti di purificazione, come la pratica del digiuno in determinati giorni dell'anno, e atti di adorazione, deve studiare le Scritture e accrescere la propria conoscenza della letteratura settaria, deve consolare gli afflitti, diffondere una cultura religiosa con la parola e l'azione e impegnarsi nel servizio sociale aprendo scuole e ospedali e aiutando i poveri e i bisognosi (v. Tripathi, 1978, pp. 16-17).
Tra le diverse sette e tra gli individui stessi ricorrono atteggiamenti differenti nei confronti di alcuni aspetti della disciplina: per esempio, nonostante la maggior parte delle scuole segua una dieta vegetariana, alcune non ne riconoscono la necessità (v. Tripathi, 1978, pp. 138-139; v. Briggs, 1973², p. 45); taluni asceti fanno uso di sostanze intossicanti come la cannabis indica, il tabacco e gli alcolici; alcuni si lasciano crescere i capelli e la barba, altri si radono completamente (anche le ascelle e la regione pubica); la raccolta dell'elemosina può avvenire mediante una richiesta passiva o sotto forma di compenso per un'azione compiuta (canto, insegnamento, ecc.) o, in rarissimi casi, per mezzo di un'estorsione (v. Tripathi, 1978, p. 101).
Osservando gli asceti si può riconoscere la loro setta di appartenenza dalla veste e dagli ornamenti indossati (collane, bracciali, orecchini, ecc.). In generale, i viṣṇuiti portano vestiti bianchi, o gialli se osservano il celibato; gli ścivaiti hanno una veste color zafferano, mentre gli śākta, gli Svāminārāyaṇa e gli Ānandamārga indossano un abito rosso. Come i digambara jaina, coloro che osservano la nudità totale usano coprire i genitali quando si presentano in società. Un segno di riconoscimento caratteristico delle scuole induiste è costituito dai disegni colorati (tilaka) che gli asceti sono soliti dipingersi sulla fronte: gli aderenti alle scuole viṣṇuite presentano linee verticali, quelli delle scuole ścivaite orizzontali (in entrambi i casi sono possibili molte varianti).
d) Il taoismo
Nell'ambito del taoismo l'istituzione monastica non è mai divenuta la regola e ha riguardato invece solo una piccola parte del clero. I 'dignitari del Tao' (taoshih) infatti furono, per la grandissima maggioranza, dei laici e obbligatoriamente sposati. Il monachesimo rappresentò "un'eccezione che, in quanto tale, ci permette di constatare che, più importante del modo di vita, è la funzione liturgica a definire la situazione del tao-shih, il suo ruolo in quanto specialista dei riti in seno alla società. Essere dignitari del Tao è anzitutto una funzione sociale" (v. Schipper, 1982; tr. it., p. 72). Non mancarono tuttavia scuole che raccomandarono la vita monastica, per esempio quella del Ch'üan-chen, che, originaria della Cina del nord, estese la sua influenza su tutto
3. I monasteri
Era costume in tutta l'India che i religiosi, monaci ed eremiti, fossero itineranti e che solo nel periodo delle piogge (giugno-settembre) conducessero una vita sedentaria e spesso comunitaria. I monaci jaina, ad esempio, originariamente potevano soggiornare in un medesimo luogo da uno a cinque giorni e, solo in casi eccezionali, potevano restarvi un mese o due. Con l'andar del tempo, quasi in tutte le scuole si ebbe il passaggio graduale dalla vita errabonda a quella sedentaria e comunitaria secondo un processo simile a quello che avvenne nel monachesimo egiziano ad opera di Pacomio.
Una delle principali ragioni che condussero alla
a) I monasteri buddhisti
I vihāra in cui inizialmente si riunivano le comunità buddhiste non erano ancora dei veri e propri cenobi, ma piuttosto delle capanne, o luoghi di rifugio, che venivano erette in un parco (ārāma) il più delle volte messo a disposizione da un laico benestante o da un re; il parco veniva spesso recintato e tenuto in ordine da un sovrintendente, detto ārāmika, pagato dal donatore. Con l'andar del tempo questi luoghi divennero sempre più grandi per rispondere alle esigenze dell'accresciuta comunità; in genere comprendevano una sala per la meditazione e una per le riunioni, gli alloggi per i monaci e, naturalmente, i locali necessari alla vita comunitaria: cucine, magazzini, refettorio, biblioteca, piscine, bagni, pozzi, ecc., nonché sale per l'insegnamento, una pianta di Ficus religiosa che richiamava l'Albero del Risveglio del Buddha e talvolta un'infermeria, cappelle e santuari (caitya) in cui venivano adorate le immagini del Buddha e uno stūpa, un tumulo contenente reliquie, che simboleggiava la presenza del Maestro. Il ripresentarsi di questi elementi fissi non implica che la fisionomia del monastero fosse rigidamente determinata: nella disposizione dei vari ambienti e nella loro conformazione architettonica si osservano delle variazioni nel tempo, da luogo a luogo e anche da monastero a monastero. Si pensi, ad esempio, che a Ceylon alcuni cenobi moderni sono sprovvisti dello stūpa (v. Bareau, 1957, p. 11), che pure costituisce l'oggetto primario del culto buddhista. La maggior parte dei monasteri edificati in India furono distrutti e depredati dai musulmani nel XIII e XIV secolo; ma di alcuni, come quelli di
Il passaggio alla vita cenobitica ha comportato una notevole trasformazione sia nell'organizzazione interna della comunità, sia nella relazione tra questa e la società. Durante i primi secoli dell'era cristiana i principali monasteri indiani cominciarono a effettuare il prestito a interesse e l'affitto dei beni di proprietà: terre, campi, botteghe, ecc. Simili attività vennero intraprese anche in altri paesi buddhisti. In Corea, ad esempio, i cenobi del X e dell'XI secolo erano veri e propri centri commerciali specializzati, tra l'altro, nella produzione del tè e nella distillazione dei liquori. In Cina, i monasteri accumulavano ricchezze anche attraverso le vendite all'asta di beni e le lotterie. Questa disponibilità economica ha permesso il sostentamento delle comunità monastiche, l'ampliamento e l'abbellimento di monasteri e santuari e ha reso possibile la realizzazione di capolavori artistici di grande bellezza (come i dipinti di Ajaṇṭā, le statue di Buddha a
Non c'è dubbio che l'accrescimento del potere economico dei monasteri si accompagnò in taluni casi a un indebolimento del vigore spirituale dei monaci e determinò conflitti di interesse sul piano politico. Il fasto raggiunto, ad esempio, durante la dinastia Tang (618-907 d.C.) da molti monasteri, che avevano impoverito le riserve auree e di altri metalli dello Stato cinese, la sottrazione di manodopera al lavoro dei campi per destinarla alla realizzazione dei monasteri e opere d'arte e la necessità di impedire che la popolazione ricorresse all'ordinazione religiosa per sfuggire al fisco, al servizio di leva e alle corvées furono i motivi principali che spinsero nell'845 d.C. l'imperatore Wu-tsung a perseguitare la comunità buddhista e a ordinare la confisca dei beni e la distruzione della maggior parte dei circa 4.600 monasteri e 40.000 istituzioni minori presenti sul suo territorio. Nel Tibet in un primo momento i monasteri entrarono in contrasto soprattutto con le antiche famiglie feudali che sentivano minacciato il loro predominio. In effetti, dopo la fondazione dell'importante monastero di bSam-yas e soprattutto sotto il regno di Ralpa-can (815-838 d.C.), che stabilì che ogni monaco dovesse essere mantenuto da sette famiglie, i monasteri buddhisti acquistarono grandi privilegi e accrebbero sia il loro numero sia la loro influenza in campo economico e politico. Oltre alle rendite dei terreni agricoli, delle mandrie e delle greggi, i monasteri beneficiavano delle donazioni. A questo si aggiunga che anche in Tibet essi erano esenti dal pagamento dei tributi e che i monaci non dovevano prestare servizio militare. Con la seconda diffusione del buddhismo, e in particolare a partire dal XIII secolo, gli scontri politici in Tibet coincisero di fatto con la lotta tra le diverse scuole in cui si era divisa la comunità buddhista. Dal XVII secolo in poi si assistette all'egemonia della setta dei Ge-lugs-pa, guidata dai Dalai Lama, che fu sottomessa con violenza nel 1959 dai Cinesi. L'ordinamento politico di questa scuola prevedeva che il Dalai Lama fosse coadiuvato da un gabinetto di quattro membri (tra i quali almeno un monaco), che nelle province ogni funzionario laico dovesse essere affiancato da uno religioso, che i problemi economici, giudiziari, ecc. riguardanti i monaci fossero trattati da un'amministrazione distinta da quella civile, alla quale avrebbe dovuto essere affidata anche la nomina dei funzionari religiosi e l'amministrazione dei tesori dello Stato.I monasteri svolsero (e in alcune zone svolgono tuttora) un ruolo fondamentale anche dal punto di vista della promozione culturale. Talora si trattò di veri e propri centri di attività ecumenica, dove si studiavano sia le dottrine buddhiste sia quelle eterodosse, si diffondevano opere e idee nuove, si traducevano, copiavano e conservavano manoscritti. Nelle lamasserie tibetane, per esempio, furono intraprese importanti opere di traduzione e di catalogazione delle Scritture e dei loro commenti. Nel XIII secolo a sNar-thang, un monastero del Tibet centrale fondato nel 1153, fu realizzata un'imponente raccolta di testi buddhisti, quasi tutti tradotti dal sanscrito, suddivisi nei due grandi gruppi del bKa'-'gyur (Kanjur), contenente le opere ritenute espressione della parola del Buddha, e del bsTan-'gyur (Tanjur), contenente trattati esegetici e filosofici, testi liturgici, mistici, ecc. L'opera svolta a sNar-thang fu alla base dell'enorme lavoro di revisione e ordinamento dei testi del Canone buddhista tibetano, portato a termine da Bu-ston (1290-1364), celebre storico e abate del monastero di Zha-lu.
L'insegnamento che veniva impartito nei centri indiani di Nālandā, Vikramaśīla, Odantapura, ecc. era destinato ai novizi e ai giovani (anche i laici in certi casi ne potevano beneficiare) e abbracciava i più svariati campi del sapere. Il monastero di Nālandā, che fu fondato durante il regno di Kumāragupta I (ca. 414-455 d.C.) e distrutto agli inizi del XIII secolo, fu la prima e la più famosa delle università buddhiste: ad essa giungevano studenti da tutta l'Asia, specie dalla Cina, e vi studiarono maestri celebri come Dharmakīrti (VI secolo d.C.) e Śāntideva (VIII-IX secolo d.C.). Hsüan-tsang, un pellegrino cinese che visitò l'India nel VI secolo d.C., osservò: "Vi sono migliaia di istituzioni in India, ma nessuna paragonabile in grandezza a Nālandā. Vi sono ivi diecimila studiosi che studiano non solo la letteratura buddhistica in tutte le sue ramificazioni, ma anche altre opere, quali i Veda (compreso l'Atharvaveda), la logica, la grammatica, la medicina, la filosofia del
Per secoli i monasteri (specie quelli ubicati nelle città e nei villaggi) furono gli unici centri ad assicurare servizi sociali e culturali di primaria importanza. In essi avvenivano i contatti e gli scambi tra i dotti, si praticava la medicina e la farmacia, si custodivano
b) I monasteri indù
Intorno al X secolo d.C. anche i monasteri indù, diffusi in tutta l'India, assunsero una grande importanza non solo come centri di spiritualità, ma anche come istituzioni sociali che si prendevano cura dei bisognosi e come luoghi di cultura. I monasteri dei tre ordini dello Śaivasiddhānta, che presero il nome dal loro luogo di origine, furono i centri di formazione di molti precettori reali. Dall'ordine degli Āmardaka, la cui sede principale era a Ujjayinī, provennero i precettori della dinastia dei Kākatīya del regno di
Uno dei primi a riorganizzare la vita ascetica indù in forma monastica fu Śaṅkarācārya (788-820 d.C.), famoso maestro dell'Advaitavedānta e capo dei dieci ordini di asceti detti Dashnami (v. Ghurye, 1964², pp. 82-97). Egli fondò personalmente quattro monasteri (maṭha): lo Śṛṅgerimaṭha, nell'odierno Stato del
La setta tantrica dei Kānphaṭayogin, i seguaci del famoso maestro śivaita Gorakhnāth (XI secolo d.C.), possiede numerosi monasteri, alcuni molto importanti, che spesso occupano luoghi in cui già anticamente risiedevano comunità di religiosi. In questi cenobi si può trovare un tempio dedicato a
La vita all'interno del monastero comprende l'adorazione delle reliquie, l'insegnamento e la meditazione. Molto tempo viene dedicato alla conversazione e di rado si ricorre alla questua, poiché in generale le donazioni spontanee di cibo e le rendite del monastero garantiscono la sussistenza. I discepoli più anziani si occupano di insegnare ai seguaci più giovani gli elementi della dottrina e della pratica. L'abate dirige le varie attività del monastero, istruisce gli yoghin sullo yoga e sulla disciplina ascetica, amministra e salvaguarda i beni della comunità. La carica di abate può acquistarsi per decisione di un concilio, per autorità o per successione ereditaria; nell'ordine gerarchico seguono poi il guru o maestro, lo yoghin e i novizi.
c) L'organizzazione della comunità jaina
Anche la comunità jaina era, ed è, organizzata in modo piuttosto articolato al suo interno. Essa viene denominata caturvidhasaṅgha ('comunità quadripartita'), poiché comprende quattro gruppi di persone: monaci, monache, laici e laiche. La direzione spirituale è affidata ai monaci che, depositari della dottrina, svolgono il loro ufficio di insegnamento esponendo e commentando le Scritture con prediche all'aperto o negli upāśraya, centri in cui la comunità si rifugia durante il periodo delle piogge. L'insegnamento letterale spetta all'upādhyāya (o paṇḍita presso i digambara), mentre quello approfondito all'ācārya (o pravartinī presso le monache). Ogni aggregato di credenti riconosce in una di queste figure l'autorità competente non solo nell'interpretazione di luoghi difficili e controversi della dottrina, ma anche nelle questioni disciplinari.I laici assumono un potere e un'importanza maggiori che nel buddhismo. Essi riconoscono ai monaci una preminenza negli uffici propriamente religiosi (come il diritto di presiedere ai riti più solenni) e nell'impartire l'insegnamento, ma si riservano di controllare l'attività e la moralità dei fratelli consacrati, eventualmente allontanandoli dalla comunità. In alcuni casi, essi possono praticare la saṃlekhanā (v. sopra, cap. 2) e, esercitandosi in determinate pratiche ascetiche, possono accedere attraverso undici gradi detti pratimā a uno stato considerato meritorio, simile a quello monastico, ma più esposto alle tentazioni del mondo.
Il jainismo non è mai uscito dall'India, dove si è diffuso molto presto. Già al tempo di Bhadrabāhu sembra che comunità jainiche fossero presenti nel Bengala e nell'Orissa. Il Dekkan fu occupato soprattutto dai digambara, mentre il Gujarat e le zone dell'Ovest dagli śvetāmbara. Entrambe le scuole si compiacciono di menzionare tra i propri adepti molte principesse e molti regnanti, tra cui anche Aśoka Maurya (268-233 a.C.), che favorì enormemente la diffusione del buddhismo. In realtà, sebbene non mancassero re che cercarono di instaurare uno Stato jainico - nel caso di Kumārapāla (1143-1172) nel Gujarat, arrivando ad imporre a tutti i sudditi una dieta strettamente vegetariana e proibendo la caccia e la pesca, in assoluta obbedienza al principio dell'ahiṃsā -, è molto probabile che nella maggior parte dei casi si trattasse della semplice e benevolente tolleranza che i regnanti erano soliti assicurare a tutte le comunità religiose. (V. anche Buddhismo; Induismo; Jainismo; Shintoismo).
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