MONETA

Enciclopedia Italiana (1934)

MONETA (fr. monnaie; sp. moneda; ted. Geld; ingl. money)

Renzo FUBINI
George MONTANDON
Secondina Lorenzina CESANO
Giuseppe CASTELLANI
Gino LUZZATTO

Economia. - Varî autori distinguono, esplicitamente o implicitamente, due specie di contratto: "baratto" e "compravendita". Baratto, per lo più, significa genericamente scambio di un bene con un altro, atto, a giudizio dei contraenti, a fungere in un dato momento da equivalente del primo; compravendita significa solamente lo scambio di un bene con un altro, che ha caratteri ben determinati, per quanto parzialmente variabili, sia pure ai giorni nostri meno di quanto accadeva in altre epoche, nel tempo e nello spazio: la moneta. Si suppone talora che storicamente il baratto abbia preceduto la compravendita, sebbene nulla si sappia di sicuro circa il carattere assunto dal baratto nelle epoche preistoriche; nel corso della storia, quale è a noi noto, si è avuta la prevalenza, ora dell'una, ora dell'altra forma di scambio. Gli economisti, quando discorrono di baratto e di compravendita, non si propongono di fare un'esposizione storica, sia pure schematica, di quanto presumono sia accaduto, ma semplicemente di chiarire la genesi logica della moneta, giovandosi di un metodo che risale ai fondatori della scienza economica.

Da un punto di vista teorico è possibile, e talora opportuno, prescindere dal concetto di moneta: l'economia politica moderna, quale si è venuta costituendo con Ph. Cantillon, i fisiocrati, A. Smith, D. Ricardo e i loro immediati successori, è partita appunto, in parte al fine di reagire alle correnti precedenti di pensiero, dal presupposto che l'essenza del fenomeno economico possa essere chiarita prescindendo dallo studio della moneta. Il fenomeno della moneta, che pur fu esaminato da questi autori con analisi che restano fondamentali è stato da essi considerato come secondario, in condizioni normali, nei confronti di altri fenomeni giudicati essenziali: il processo, cioè, della produzione annua di una certa quantità di beni, atti a soddisfare direttamente i bisogni degli uomini, e quello della distribuzione dei beni stessi tra le varie classi. I fenomeni della circolazione dipendono dai fenomeni di produzione; è questa la posizione dottrinale che prevale tuttora, nonostante che, specie di recente, siano stati avanzati nuovi punti di vista, contrastanti in parte col punto di vista classico, o perché si ritiene che certi fenomeni di produzione dipendano dai fenomeni di circolazione, o perché si vogliono studiare certe variazioni simultanee deì due fenomeni, o perché (V. Pareto, E. Barone) si vuol sostituire al concetto di dipendenza il concetto d'interdipendenza. La posizione dottrinale classica non implica naturalmente un disconoscimento del fatto che l'introduzione del concetto di moneta giova a precisare molti problemi teorici, così come, nell'ordine pratico, ha giovato alla collettività promuovendo uno sviluppo economico-sociale, che, in assenza di tale strumento, sarebbe inconcepibile. Un effetto analogo a quello esercitato dall'introduzione della moneta è stato esercitato dall'introduzione di uno strumento più raffinato, la cui importanza non è però apprezzata in misura identica dai varî economisti: il credito, che ha aumentato ulteriormente il numero e l'ampiezza degli scambî concretamente effettuabili (v. credito). Pur essendovi, in certo senso, una relazione, sia pur grossolana e con molte involuzioni, di successione storica tra economia naturale, economia monetaria ed economia creditizia, tutti e tre i tipi di economia coesistono dappertutto, sia pure in proporzioni diverse nei varî paesi: nelle campagne vi sono delle economie che bastano a sé stesse e non entrano in rapporti di scambio con terzi; nei centri abitati maggiori l'economia creditizia, pur essendo talora sviluppata, oltre a richiedere l'esistenza come fondo di garanzia di una certa quantità di moneta, non è estesa, nelle sue forme più evolute, che a certe classi della popolazione.

La caratteristica economica essenziale della moneta è quella di essere accettata da tutti in pagamento, anche in assenza di qualsiasi forma di coazione giuridica: da tal punto di vista la moneta esiste indipendentemente dall'esistenza dello stato. Si tende a scegliere per la funzione monetaria - nell'ambito entro cui la scelta si può operare in relazione al concorso di altri requisiti - la merce, che, in un determinato momento, è la più vendibile: l'essere poi una data merce stata prescelta a tale scopo da un numero notevole d'individui o di aggregati d'individui ne accresce ulteriormente la vendibilità. Con la moneta, secondo insegna l'esperienza, ai nostri giorni, in un paese progredito, è possibile procurarsi tutto o quasi tutto quello che può normalmente occorrere per il soddisfacimento della maggior parte dei bisogni (cose e servizî personali): tale carattere viene accentuandosi quanto più si accentua il carattere capitalistico di un paese, quanto più, cioè, gli ultimi relitti dell'economia naturale tendono a essere eliminati dalle nuove forme di divisione del lavoro; i rapporti interindividuali tendono a spersonalizzarsi, a obiettivarsi; gli scambî vengono a concernere, in misura più rilevante di quanto accadesse in passato, beni strumentali (aziende agricole e industriali, macchine, ecc.), in relazione al continuo spostamento di una categoria notevole dei produttori da un ramo della produzione all'altro secondo la mutevole convenienza del momento. È in relazione alla detta caratteristica della moneta che la sua introduzione in un ipotetico paese che ne sia sprovvisto permette l'effettuazione di scambî, che, in sua assenza, non sarebbero possibili, e agevola l'effettuazione di altri, che, in sua assenza, avverrebbero imperfettamente; senza di essa ciascuno dovrebbe di continuo andare alla ricerca di persone disposte ad accettare i beni che egli offre e a dargli in cambio beni che gli occorrono e ciò in modo da soddisfare appieno i proprî bisogni nonché quelli dei contraenti con cui entra in rapporto; il che è difficile, anzi impossibile, possa realizzarsi integralmente, anche se ci si vale all'uopo d'intermediarî (baratto indiretto), sia perché i gusti, anche in una società poco differenziata, variano da individuo individuo, da epoca a epoca, da luogo a luogo, sia perché tutti i beni sono imperfettamente divisibili tecnicamente, oltre che economicamente, come nel caso di una seggiola o di un cavallo. In assenza della moneta, la quale deve avere un grado notevole di divisibilità al fine di evitare, nei limiti del possibile, siffatti inconvenienti, la stessa divisione del lavoro risulta limitata se non anche impedita, perché ciascuno deve provvedere alla soddisfazione diretta di diversi bisogni, risentiti da lui o dalle persone al cui sostentamento egli provvede; per altri bisogni deve provvedere, se pur gli è possibile, mediante un complesso di baratti, diretti e indiretti, che implicano un dispendio di tempo oltre che una soddisfazione incompleta dei bisogni. I produttori di una determinata specie di beni possono reagire a tale situazione unendosi e tentando di formare un mercato al fine di vendere a terzi i beni prodotti; ma il mercato è lungi dall'essere perfetto finché non è omogeneo, per tutti i venditori, il bene ottenuto in cambio della prestazione e finché, grazie, tra l'altro, a siffatta omogeneità, le transazioni non avvengono con continuità e sistematicítà, a fine di permettere che gli scambî si susseguano effettivamente finché tutti gli individui, di cui è composta la collettività, non ne ritraggano, nei limiti del possibile, tutto il beneficio di fatto conseguibile in relazione alle condizioni economico-tecnico-sociali del momento.

La moneta ha altre caratteristiche, oltre a quelle suaccennate: di essere accettata da tutti (caratteristica economica) e di essere divisibile in misura notevole (caratteristica tecnico-economica) e ha, quindi, altre funzioni oltre a quella, suindicata, di agevolare o rendere possibili gli scambî: il problema della moneta è complesso, poiché interessa oltre all'economia politica, nel senso scientifico dell'espressione, la storia, la statistica, il diritto, la psicologia sociale, la geologia, la tecnica, l'arte, ecc., e i suoi varî aspetti non sono sempre scindibili: per lo più, anzi, sono intimamente connessi, come risulta dalla stessa ibrida terminologia di cui si valgono gli studiosi, sì che è stata posta in dubbio la possibilità di costruire una teoria puramente economica della moneta. Fattori tecnici esercitano ripercussioni economiche notevoli, facilmente precisabili, però, in una certa misura, con adeguate casistiche; fattori giuridici sono spesso inseparabili dai fattori economici e giovano a spiegare leggi fondamentali (ad es., la legge di Gresham); fattori politici di varia natura possono esercitare ripercussioni non prevedibili adeguatamente, non sempre benefiche, specie quando la loro influenza è troppo rilevante. Per certi fenomeni il fattore della consuetudine sembra avere un'importanza maggiore del fattore economico (ad es., nella determinazione dell'importo o delle varie specie di moneta, che i varî individui giudicano opportuno portare con sé). In relazione all'effettuazione degli scambî, la sua funzione è duplice: contropartita della prestazione e misura della prestazione stessa o anche di una prestazione futura quale può essere predisposta fin d'ora con un contratto. Per quanto concerne questa seconda funzione - misura di valori -, necessaria anche in un'ipotetica società comunista, non occorrerebbe l'esistenza fisica effettiva della moneta, bastando all'uopo l'adozione, di cui si ha qualche esempio storico, di una moneta immaginaria, ideale (moneta di conto o numerario), atta all'esecuzione dei rapporti di valutazione contabile o contrattuali. Questa seconda funzione, a giudizio di qualche autore, è più importante della prima.

L'elemento primo, da cui prende le mosse, esplicitamente o implicitamente, la scienza economica moderna, non è il prezzo (che presuppone il concetto di moneta), ma l'utilità, che per ogni individuo può avere, a suo insindacabile giudizio, una certa massa di beni o l'aggiunta di un'ulteriore unità o la sottrazione di una unità alla massa esistente: il problema economico non si pone, come si pone il problema giuridico, perché esistono più uomini in rapporto tra di loro, ma perché l'uomo, astrattamente considerato, ha determinati bisogni o desiderî a cui deve o vuole soddisfare: nell'ipotesi dell'economia isolata il problema economico è già determinato in tutti gli elementĭ essenziali: l'uomo deve ripartire la propria attività in guisa da soddisfare nel miglior modo possibile ai proprî bisogni. (L'esistenza sul mercato di prezzi già formati non altera sostanzialmente il problema se pur può giovare variamente a precisarlo: in assenza di sufficienti conoscenze merceologiche varî consumatori giudicano talora dei meriti di una merce dal prezzo che ha sul mercato o dalle variazioni di siffatto prezzo). L'utilità soggettiva (desiderabilità), si sottrae però a una determinazione oggettiva, trattandosi di un fenomeno psichico individuale che sfugge a qualsiasi misurazione. Inoltre, l'utilità, che i varî beni hanno per ciascun individuo, muta di continuo in relazione alla quantità di beni d'ogni genere di cui ciascun individuo viene a disporre, oltre che, da un punto di vista dinamico, in relazione al variare dei gusti.

Analogamente a quanto accade per gli altri beni, l'utilità della moneta varia di continuo per ogni individuo, in relazione alla quantità di moneta e di beni di altro genere di cui egli può disporre; varia, però, meno dell'utilità degli altri beni, in quanto la moneta può servire per una quantità di usi, essendo possibile procurarsi per mezzo suo tutto, o quasi, quanto può normalmente occorrere per il soddisfacimento dei bisogni (in termini economici si dice che l'utilità marginale della moneta per un individuo, pur essendo decrescente, almeno oltre un certo punto, come l'utilità marginale degli altri beni, non è quasi mai pari a zero). Si suol chiamare strumentale l'utilità della moneta, e svolgere in base a tale presupposto, esplicito o implicito, la teoria monetaria, perché la moneta non serve a soddisfare direttamente i bisogni, ma li soddisfa indirettamente in quanto ci pone in condizione di acquistare i beni che ci occorrono: non è questa una peculiarità della moneta in quanto, là dov'è sviluppata la divisione del lavoro, quasi tutti i beni hanno un'utilità strumentale per il produttore; essi sono prodotti prevalentemente per essere venduti, non per soddisfare direttamente i suoi bisogni. La moneta ha una vera e propria utilità diretta unicamente per il collezionista o per l'avaro; in un certo senso, però, si può dire che la moneta ha per ciascuno un' utilità diretta latente, previa una certa trasformazione tecnica, in quanto la materia di cui si compone può servire ad altri usi: ove, ad es., la moneta sia composta di metalli può servire come oggetto d'ornamento o di sfoggio di ricchezza o di specificazione sociale, ecc.: usi questi, designati genericamente dagli economisti con l'espressione "usi industriali". L'uso monetario ha normalmente - almeno per l'oro - nella maggior parte dei paesi un'importanza quantitativa maggiore degli usi industriali: passaggi da un uso all'altro avvengono di continuo in relazione alla convenienza del momento, così come avvengono per altri beni. È in parte in ragione di siffatta utilità diretta potenziale, la quale ha un proprio valore di scambio, che il valore della moneta tende a fissarsi attorno a un certo livello: in parte per questa stessa ragione la moneta può servire come mezzo di accumulazione, non soltanto in brevi periodi in attesa di trovare un impiego d'altro genere per i risparmî accumulati, ma anche per lunghi periodi: l'antichità ha avuto una grande abbondanza, difficile a valutarsi, di metalli preziosi, che servivano principalmente come mezzo di accumulazione di ricchezza; qualcosa di analogo si verifica anche attualmente, con una domanda crescente proprio quando il metallo si apprezza (Marshall), nei paesi orientali meno progrediti, la cui conoscenza è fondamentale per uno studio approfondito di cose monetarie; le condizioni di essi, però, stanno ora in parte mutando in relazione alle intense trasformazioni sociali a cui assistiamo. In epoche anormali, in cui, a causa della sfiducia dilagante, i risparmiatori non ardiscono impiegare i risparmî altrimenti che in moneta infruttifera, il tesoreggiamento assume un'importanza sensibile, sia che la moneta fluisca presso le banche, le quali non riescono neppur esse a trovare un altro impiego, sia che resti presso i risparmiatori.

Elemento essenziale dell'elaborazione classica è la considerazione della moneta come una merce, che ha valore in quanto ha un valore la materia di cui si compone, e a cui si possono quindi applicare i principî applicabili alle altre merci: elemento particolare di tale concezione (sorta per chiarire la teoria del commercio internazionale), sviluppato dagli autori successivi, è la tendenza continua a una posizione di equilibrio tra uso monetario e usi industriali. I classici svilupparono anche un altro, diverso, aspetto: la moneta ha un valore, indipendentemente dalla materia di cui è composta, in ragione del fine a cui serve (esecuzione degli scambî). È possibile, senza che si abbiano a temere squilibrî, l'esistenza di una moneta puramente cartacea, che evita alternati processi di monetazione e smonetazione; finché la quantità emessa è adeguata ai bisogni degli scambî non è a temersi una svalutazione (Ricardo). Osservazioni queste, che possono applicarsi, in certo modo, a tutti i beni, e, completate con l'analisi dell'utilità e della domanda di moneta, costituiscono la base della teoria quantitativa. I classici riconobbero però che la circolazione metallica - sia che si tratti di circolazione effettiva, sia che si tratti di scorte metalliche rappresentate da biglietti di banca o da altri titoli di credito - costituisce, anche ove si prescinda dai rapporti internazionali, una garanzia di stabilità, ben difficilmente conseguibile per altra via.

A diversi oggetti, a quanto risulta dalle necessariamente incerte indagini di numismatici e archeologi, si fece ricorso, successivamente o alternativamente, per la funzione monetaria: in un primo tempo più come misura dei valori che come controprestazione. Da materie eterogenee, quali pellicce, pelli, carni animali, conchiglie, buoi, ecc., si passò ai metalli, i quali hanno in misura elevata il pregio tecnico-economico di essere inalterabili, solidi, omogenei, divisibili e durevoli; a tali caratteri si aggiunge per i metalli preziosi, specie per l'oro, la facile trasportabilità. Bronzo e oro, a quanto pare, furono i primi metalli usati all'uopo, seguiti a breve distanza dall'argento, secondo soltanto all'oro per quanto concerne duttilità e malleabilità, ma, a differenza, o, quanto meno, in misura ben maggiore di quest'ultimo, assai di rado puro in natura e, quindi, inutilizzabile per chi non abbia particolari conoscenze tecniche: attualmente esso è un sottoprodotto di varî processi produttivi, che dànno vita a beni eterogenei economicamente, onde la sua produzione non è regolabile con criterî razionali (ad es., negli ultimi anni è stato prodotto in misura cospicua nonostante i gravi deprezzamenti subiti) com'è - o come potrebbe essere - in notevole misura la produzione dell'oro. Oro e argento esistono in quantità notevoli e hanno quindi un mercato ampio e prezzi meno variabili di quanto accada per altri metalli, sebbene taluno tema, su basi un po' incerte, una prossima subitanea scarsità d'oro, per vero meno temibile d'un tempo, dati i grandi sviluppi degli strumenti creditizî. In epoche più recenti rame e ferro, meno trasportabili dei metalli preziosi, furono adibiti per la funzione monetaria: il primo serve tuttora per la fabbricazione degli spiccioli. La coniazione, di poi istituita, giova, oltre che a scopi di prestigio politico, sempre presenti in tutti gli atti di politica monetaria, a garantire il valore intrinseco della moneta e, quindi, se non a completare, a perfezionare tale strumento: in altre epoche è giovata pure ai principi, grazie a falsificazioni celate o a diritti di signoraggio percepiti apertamente, procurando loro proventi fiscali, fonte questa preziosa in un'epoca che non conosceva gli odierni organici sistemi tributarî. La coniazione deve essere uniforme in ragione dei fini cui serve: la zecca deve perciò godere di un monopolio; da un punto di vista logico ognuno dovrebbe essere libero di fabbricare moneta - s'intende, almeno, moneta avente valore intrinseco (moneta vera o reale); ciò non essendo ammissibile in pratica, la zecca dovrebbe essere sempre disposta a coniare prontamente, senza imporre oneri particolari (oltre alle spese di coniazione e, eventualmente, di affinamento), i metalli che le vengono portati dai privati (direttamente o indirettamente per mezzo della banca di emissione). Alla coniazione pubblica può aggiungersi - e normalmente si aggiunge - il corso legale: nessuno può cioè rifiutare di accettare in pagamento la moneta così come può rifiutare un assegno o una cambiale.

La massa monetaria non è omogenea (sia per carattere, sia per velocità di circolazione), né nei paesi evoluti, né in quelli arretrati, così come non è omogenea la massa dei titoli di credito, perché varie sono le abitudini, ereditarie o acquisite, e varî i bisogni, veri o presunti tali dagli interessati, delle diverse categorie: varia quindi nello spazio così come nel tempo: la distinzione più nota è tra moneta per i grandi pagamenti e moneta, di metallo più vile (argento, nichel, rame, alluminio, ecc.) e meno trasportabile, circolante spesso a un valore superiore al contenuto di fino (non si deprezza fin che è adeguata al fabbisogno che se ne ha), per i piccoli pagamenti (moneta divisionaria o spicciola). Nei sistemi monometallici un solo metallo può essere coniato liberamente e in misura illimitata (gli altri sono considerati una merce qualsiasi o sono utilizzati per la fabbricazione della moneta divisionaria); nei sistemi bimetallici due metalli circolano contemporaneamente come moneta tipo, vale a dire possono essere coniati liberamente e in misura illimitata. Ai nostri giorni, dopo secolari evoluzioni, tende sempre più a prevalere il monometallismo aureo, instaurato in Inghilterra fin dal 1816: in pochi paesi meno ricchi (orientali) è adottato il monometallismo argenteo, che, a quanto pare, sta per essere abbandonato del tutto. Ebbe un tempo fortuna il bimetallismo - e qualche contemporaneo, preoccupato delle possibili conseguenze di una presunta futura scarsità d'oro, propugna un ritorno a tale sistema - ma fu abbandonato più per forza di cose che per volere di uomini. La legge infatti può stabilire un rapporto di scambio tra oro e argento, che dovrebbe valere per sempre, o che, quanto meno, pur potendo esser modificato, non può esserlo a ogni istante, laddove i prezzi dei metalli tipo mutano di continuo, sia pur in misura minore di quanto accade per altri beni: se la divergenza tra rapporto legale e rapporto di mercato non è eccessiva, la banca di emissione - ove un complesso di condizioni d'ordine internazionale lo consenta - può, talora, agendo sul mercato, far funzionare meccanismi riequilibratori, ma quando le oscillazioni superano un certo limite il sistema non può più reggersi. Così accadde in Francia, la quale, nel 1803, seguendo l'esempio degli Stati Uniti d'America (1792: rapporto 1/15, di poi mutato), decretò la moneta bimetallica al rapporto 1/15,50, adottato di poi dal Belgio (1832), dalla Svizzera (1850) e dall'Italia (1862) e, nel 1874, dopo di essere ricorsa a varî provvedimenti, si vide costretta, insieme con i paesi che ne avevano seguito l'esempio, a sospendere la coniazione dell'argento, trasformato così praticamente in moneta divisionaria: onde il nome di bimetallismo zoppo che fu dato allora al nuovo regime. L'ultima legge monetaria francese (25 giugno 1928) instaura formalmente il monometallismo aureo; nello stesso senso si era già espressa la precedente legge italiana (21 dicembre 1927).

Nella maggior parte dei paesi i biglietti di banca hanno corso legale e in molti (Italia, Francia, Germania, ecc.) sono tuttora lo strumento di circolazione piò diffuso: sono emessi inizialmente dalla banca di emissione in connessione alle normali operazioni commerciali, quali sconti e anticipazioni, condotte con privati, o direttamente (come avviene in misura abbastanza notevole in Italia e in Germania) o indirettamente attraverso la mediazione delle banche ordinarie, che si rivolgono alla banca d'emissione per chiederle risconti e anticipazioni (come avviene in misura particolarmente notevole nei paesi, in cui prevale l'idea che la banca d'emissione non debba far concorrenza alle banche ordinarie, ma trattare esclusivamente con esse e, eventualmente, con altri istituti di credito, assumendo unicamente il ruolo di "banca delle banche").

Tali biglietti, in definitiva, sono destinati a tornare alla banca di emissione alla scadenza di siffatte operazioni, per lo più a breve termine, salvo a essere da questa rimessi in circolazione in connessione ad altre analoghe operazioni, che possono talora anche assumere la forma di "proroga" dell'iniziale concessione di credito, per far poi ritorno di nuovo a essa e così via per un periodo indefinito: il pubblico, nella sua grande maggioranza, si è ormai abituato a considerarli come vera e propria moneta - analogamente a quanto tende ad avvenire, specie in qualche paese, limitatamente a determinati pagamenti e a certe categorie della popolazione, per gli assegni e certe cambiali particolarmente sicure - e, per lo più, non ne avverte neppure l'origine bancaria: non si rende conto, né della natura delle condizioni che hanno dato loro origine e ne determineranno le sorti, né del complesso carattere loro di titolo di credito: la loro natura si rende palese al gran pubblico unicamente nelle epoche di crisi. Il biglietto di banca si distingue dalla carta moneta circolante a corso forzoso, per essere questa del tutto inconvertibile, o inconvertibile a un rapporto fisso, comunque prestabilito, in metallo o in divise di un paese che abbia la moneta ancorata al metallo, o per essere stata sospesa o limitata la libera coniazione del metallo tipo, oppure, più semplicemente, per essere stato sospeso o limitato comunque il commercio libero di quest'ultimo, sì da porre un sensibile ostacolo agli ordinarî spostamenti del metallo dall'uso monetario agli usi industriali o viceversa. L'adozione di siffatte misure può mirare semplicemente a evitare determinati squilibrî, già verificatisi o anche semplicemente temuti (provocati, ad es., da un improvviso panico che porta a una subitanea continuata esportazione o fusione della specie metallica), e teoricamente è talora possibile, come mostra pure l'esperienza, che, anche in assenza dei normali correttivi spontanei, quali si hanno quando la moneta è ancorata, direttamente o indirettamente, al metallo, la carta moneta non si deprezzi nei confronti del metallo o che i deprezzamenti, o in genere le oscillazioni dei corsi, siano di lieve entità, grazie anche ad adeguate manovre dell'istituto d'emissione: basta all'uopo che la carta moneta sia appena appena adeguata ai bisogni degli scambî. Per lo più però, siffatta carta moneta non è emessa, così come sono emessi i consueti biglietti di banca, al fine di agevolare le normali operazioni commerciali o di adeguarla prontamente a un previsto incremento, permanente o periodico, di siffatte operazioni, bensì al fine di permettere allo stato, o a qualche azienda pericolante, di eseguire pagamenti a terzi, che non può o non vuol eseguire per altra via, non essendo giudicati sufficienti all'uopo i proventi di cui può disporre, o quelli che può procurarsi con prestiti e imposte: la banca d'emissione o lo stato (talvolta lo stato emette egli stesso tale carta moneta anzi che darne mandato alla banca d'emissione) permette così a certe categorie della popolazione di godere di una capacità di acquisto maggiore di quella che comporta il reddito della comunità, il quale reddito risulta, per la collettività, dall'insieme dei beni prodotti, e, per ogni singola categoria, è pari al potere d'acquisto dei beni da essa prodotti. Tali emissioni, analogamente a quanto accadrebbe - ed è talora accaduto - in seguito a un'eccessiva emissione di moneta divisionaria, dànno luogo anzitutto a una diminuzione del potere d'acquisto della moneta, correlativa alla maggior richiesta di beni, che, grazie alle emissioni stesse, può provenire dalle categorie beneficiate senza che nel frattempo risulti necessariamente aumentata l'offerta dei beni stessi nei confronti dell'offerta che si sarebbe determinata per forza propria in condizioni normali. Qualcosa di simile accade quando si scopre una miniera del metallo tipo con la differenza che, in tale ipotesi, l'aumento dei prezzi si estende a tutti i paesi, il cui sistema monetario è basato su quel dato metallo (oro o argento) e non ne intacca naturalmente la base monetaria, pur dando luogo a bruschi spostamenti nelle posizioni reciproche delle classi sociali, né dà necessariamente origine a particolari squilibrî nei rapporti internazionali, quali si hanno nell'ipotesi d'introduzione del corso forzoso e d'inflazione cartacea in un singolo paese (v. cambio; inflazione). L'emissione cartacea eccessiva, per l'azione della legge di Gresham, fa scomparire dalla circolazione il metallo - tesoreggiato o fuso o esportato - che cessa di essere, come avviene per lo più in condizioni normali, oggetto di domanda e offerta soltanto a opera di pochi specializzati e dà luogo a complessi problemi, che non possono risolversi automaticamente, così come si risolvono automaticamente i problemi monetarî, nella loro grande maggioranza, là dove la moneta è sana: non vi è alcuna forza spontanea che possa ridurre la massa cartacea.

Finché adempie alla funzione di strumento di circolazione si può dire in certo senso, che la carta moneta costituisca moneta effettiva, sebbene non adempia a certe funzioni proprie della moneta vera (misura dei valori, garanzia di operazioni di credito, strumento di accumulazione) o le adempia meno bene: il concetto di moneta, alla pari di altri concetti economici - specie di quelli che hanno stretta attinenza con l'attività politica - è un concetto non ben determinato, in quanto è soltanto in relazione a singoli problemi o a singoli aspetti di problemi complessi presi in esame che si possono far rientrare nella categoria "moneta", oltre alla moneta metallica, varî titoli di credito circolanti liberamente (biglietti di banca, vaglia cambiarî, ecc.) e strumenti circolanti coattivamente (carta moneta a corso forzoso, gettoni usati per singole categorie di atti di scambio) e che si possono o meno far rientrare in tale categoria, accanto alla moneta accettata da tutti in pagamento, varî titoli di credito, che sono accettati in pagamento unicamente da certe categorie della popolazione oppure che sono accettati esclusivamente ove concorrano circostanze particolari, o, infine, che sono accettati soltanto, in parte per ragioni di convenienza in parte per ragioni abitudinarie, in relazione all'effettuazione di particolari atti di scambio. Attualmente, sebbene non manchino voci discordanti, ogni paese aspira, nei limiti del possibile, a mantenere il proprio sistema monetario ancorato al metallo - e a tale scopo si sottopone spesso a sacrifici non indifferenti - in quanto tale sistema appare ai più preziosa garanzia di stabilità, sia nei rapporti interni sia nei rapporti internazionali: vi è però stata una complessa evoluzione, che, nelle grandi linee, ha avuto il medesimo carattere in tutti i paesi, per cui il riferimento alla merce-moneta (metallica), pur essendo conservato, è sempre più indiretto (limitato in gran parte alle prescrizioni legislative o consuetudinarie sui rapporti fra circolazione cartacea e scorte metalliche) onde, in vista di determinati fini scientifici e pratici, può considerarsi moneta quel qualsiasi strumento che serve alla esecuzione degli scambî anche se non adempie del tutto, o adempie meno bene, le altre funzioni tradizionalmente attribuite alla moneta, a cui possono in parte giovare altri strumenti.

Si giustifica quindi, in tal modo, da un punto di vista storico, la concezione di coloro che ritengono essenziale alla definizione di moneta unicamente il concetto di potere liberatorio e prescindono quindi, nel precisare tale definizione, dai caratteri tecnico-economici, che lo strumento, considerato "moneta", in concreto possa avere. Siffatta concezione è stata accolta, e variamente sviluppata, dallo Knapp in Germania, con l'intento di contrapporla alla concezione metallica, e, con maggior finezza economica, dal Hawtrey in Inghilterra. Quest'ultimo autore prende le mosse dal concetto di debito e di credito, che gli appare essenzialmente un elemento primo nei confronti della complessa struttura dei sistemi concreti, e inverte l'elaborazione classica, pur senza infirmarla, considerando la moneta un surrogato dello strumento di credito, anziché, come si fa comunemente, considerare lo strumento di credito un surrogato della moneta.

Resterebbe a considerare il problema del valore della moneta, che ha dato luogo a interessanti analisi critiche da un centinaio d'anni a questa parte. Per vero, la soluzione di tale problema è implicita nella stessa definizione che si dà di moneta: in via generica può affermarsi semplicemente che valgono, per quanto concerne il valore della moneta, le stesse norme che valgono per il valore degli altri beni. Tale valore risulta dal giuoco della domanda e dell'offerta: le varie formule proposte (teoria quantitativa, dell'utilità marginale, del costo di produzione, dei rapporti del valore nel tempo, dei rapporti tra i redditi, ecc.) non colgono che punti particolari, meritevoli certo di specifico rilievo, e possono quindi agevolmente ricondursi all'analisi della domanda e dell'offerta di moneta, risultante la prima dei beni in movimento, la seconda dei varî mezzi atti a effettuare siffatto movimento.

Bibl.: Oltre ai classici, quali Ph. Cantillon (Essai sur la nature du commerce en général, Parigi 1755; rist., Londra 1931), Hume, i fisiocrati, A. Smith, D. Ricardo, J. Stuart Mill, Cairnes, Senior, ecc.; alle opere di F. Ferrara (Introduzione al vol. 6° della serie 2ª della Biblioteca dell'Economista e Introduzione al vol. La moneta di T. Martello, Firenze 1883), e di A. Messedaglia (La storia e la statistica dei metalli preziosi, ecc., e La moneta e il sistema monetario in generale, in Opere scelte di economia e altri scritti di A. M., II, Verona 1921), valutate criticamente da A. de' Stefani (Gli scritti monetari di Francesco Ferrara e di Angelo Messedaglia, Verona 1908) e ai migliori trattati di economia e di politica monetaria, quali, per l'Italia, quelli di E. Barone (1921), A. Cabiati (1929), G. Del Vecchio (1932), U. Gobbi (1923), A. Graziani 81925), E. Leone (1921), A. Loria (1928), M. Pantaleoni (rist. 1931) e V. Pareto (Cours, 1896; Manuale, 1906: completati in questo punto dal volume di E. Barone, Hallesismo, Roma 1924), vedi soprattutto: W. S. Jevons, Money and the mechanism of exchange, Londra 1875; rist., Londra 1923 (ed. it., Milano 1876); T. Martello, La moneta, Firenze 1883; L. Walras, Théorie de la monnaie, Losanna 1887; A. Loria, Il valore della moneta, Torino 1901; M. Fanno, Le banche e il mercato monetario, Roma 1912; A. C. Pigou, Exchange value of legal tender money, in Quarterly Journal of Economics, 1917; A. Marshall, Money, credit and commerce, Londra 1923; L. Mises, Theorie des Geldes und der Umlaufsmittel, Monaco 1924; K. Menger, Principii fondamentali di economia politica, Bari 1925; F. v. Wieser, Geld, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften, IV, Jena 1927; R. G. Hawtrey, Currency and credit, Londra 1928; G. Cassel, Money and foreign exchange after 1914, New York 1927; D. H. Robertson, Money, Londra 1928; J. M. Keynes, Treatise on money, Londra 1930 (trad. it., Milano 1932); F. A. Hayek, Prices and production, Londra 1931; G. Del Vecchio, Ricerche sopra la teoria della moneta (raccolta di studî pubblicati dal 1909 al 1932), Milano 1932.

Per gli scrittori preclassici da Aristotele e Smith vedi: C. A. Conigliani, Saggi di economia politica e di scienza delle finanze, Torino 1903, e A. E. Monroe, Monetary theories before Adam Smith, Cambridge (Mass.) 1923.

Per le relazioni tra gli aspetti economici e gli aspetti giuridici vedi particolarmente: G. F. Knapp, Staatliche Theorie des Geldes, Monaco 1921; G. Simmel, Philosophie des Geldes, Monaco 1922; T. Ascarelli, La moneta, Padova 1928.

Per le discussioin relative ai fattori determinanti i valore della moneta vedi, oltre alle opere precedentemente ricordate, A. De Viti de Marco, Moneta e prezzi, Città di Castello 1885 (l'A. è il più rigido fautore della teoria quantitativa); I. Fisher, The purchasing power of money, New York, 1912; B. M. Anderson, The value of money, New York 1926; L. Laughlin, Money, credit and prices, Chicago 1930.

La moneta presso i primitivi.

Non esiste popolazione per quanto primitiva i cui membri non facciano scambio di prodotti o tra loro o con altre popolazioni (v. commercio). Dalle forme primitive di scambî deriva il mercato vero e proprio; lo sviluppo delle relazioni dà origine, in seguito, al commercio a distanza, ma già il mercato locale con le sue maggiori possibilità ha bisogno della moneta. Senza parlare dei paesi a civiltà superiore, l'istituzione del mercato è sviluppatissima in Africa e nella Melanesia, mentre è quasi del tutto sconosciuta nell'America Meridionale. Nelle culture inferiori ogni genere di prodotto viene usato come moneta; questa viene distinta, secondo lo scopo secondario del prodotto stesso, in: moneta ornamentale (conchiglie, perle, denti), moneta a uso di vestiario (pelli, stoffe), alimentare (sale, tè, cacao, mais) o utilitaria in genere (asce, coltelli, sbarre metalliche). La miglior classificazione tuttavia è quella comprendente ogni caso, che distingue: 1. la mancanza di moneta; 2. la moneta naturale, che può essere: a) utilitaria, allorché conserva la sua funzione primitiva; b) simbolica, quando il suo uso originale è perduto; 3. la moneta civile, che appartiene alle popolazioni superiori.

Vi sono dunque popolazioni che non hanno una moneta determinata e queste popolazioni occupano tre grandi dominî: l'Australia, la Polinesia e buona parte dell'America Meridionale, nella quale ultima il fenomeno corrisponde alla mancanza dei mercati. In passato, vi era anche una quarta regione priva di moneta, la regione artica: soltanto in seguito ai contatti avuti con le popolazioni europee le genti artiche hanno cominciato a considerare le pellicce non già soltanto come oggetti di scambio, ma come una vera moneta utilitaria di valore determinato.

Considerando il fenomeno dal punto di vista dei cicli culturali (v.) si riscontra, e il fatto è come di solito più marcato nell'Oceania, che le culture primitive, come quella del bumerang e del totem, sono prive di moneta. Essa pare aver origine nella cultura delle due classi: consiste allora di corone di dischi tagliati nelle conchiglie: l'area di diffusione di queste collane corrisponde all'incirca, ma non esattamente, al dominio tipico della cultura delle due classi nella Melanesia. Le monete-conchiglie devono naturalmente esser poste in relazione con le conchiglie-ornamento, siano le prime derivate dalle seconde o viceversa. La cultura quinta, o ciclo dell'arco, sembra possedere, come monete caratteristiche, difese di cinghiali e denti di cane. Per quanto riguarda la cultura polinesiana, va notato come essa abbia abbandonato l'uso specifico della moneta, come ha perduto, d'altra parte, numerosi altri elementi della civiltà maleo-polinesiana.

Le varietà di monete sono straordinariamente numerose. La cartina qui riprodotta non indica che le più importanti e più caratteristiche fra quelle che hanno una certa diffusione. Quasi un terzo dell'Africa è dominio di una moneta civile, derivante dalla civiltà europea, ma oggi usata soltanto da popolazioni africane: il tallero di Maria Teresa. Prima della guerra mondiale esso veniva coniato a Trieste per l'Etiopia e sempre col millesimo 1780, poiché le popolazioni dell'area in questione rifiutavano o ammettevano con grande difficoltà i talleri abissini di Menelik o altri conî d'argento. I prismi di sale, usati come moneta divisionaria del tallero di Maria Teresa, sono in uso anche fuori del dominio di questo.

Nel terr. torio desertico dancalo-somalo sono in circolazione palle di tabacco; nella regione del Nilo, come pure presso numerose altre popolazioni africane, perle di vetro, diverse a seconda delle tribù. Nella parte meridionale del dominio del tallero di Maria Temsa si usano anche sbarre di ferro che ritroviamo in molte altre parti dell'Africa negra: sono ferri di qualsiasi forma, ferri di lancia, zappe, ecc., che talvolta possono essere ancora usati come tali, ma che hanno, nella maggior parte dei casi, soltanto un valore monetario. Nel Katanga, ricco di rame, le sbarre di ferro sono sostituite da sbarre di rame. Ma la moneta più diffusa dell'Africa è la conchiglia detta cauri (v.), la Cypraea moneta, che viene pescata nelle isole Maldive e portata in Africa o direttamente per mezzo dei commercianti indù e arabi, oppure passando per Londra, donde i commercianti inglesi la fanno pervenire nell'Africa occidentale. Dalle Maldive i cauri si sono diffusi nell'Asia meridionale fino al Siam e alle Filippine. Nell'epoca preistorica essi si sono spinti anche nell'interno e lungo le coste delle contrade occidentali, fino all'Inghilterra e alle rive del Baltico. Il cauri è certamente la moneta che ha avuto più vasta diffusione.

Dai Balcani alle Indie regna oggi la moneta delle popolazioni civili, ma spesso usata anche come ornamento. Fra le popolazioni pastorali il capo di bestiame serviva da base monetaria (è dal latino pecus, bestiame, che deriva pecunia, l'argento monetato). I Mongoli e i loro vicini dell'interno usano ancora le mattonelle di tè compresso, che si possono spezzare per l'uso divisionario. Nella Cina, in tempi però anteriori alla nostra era, si usavano le placche di bronzo: asce, coltelli, campanelle, perfettamente riconoscibili per la forma, ma praticamente inutilizzabili, servivano da denaro contante. La principale moneta attuale dell'Indocina e dell'Insulindia, il gong di metallo, si avvicina del resto alle antiche placche cinesi: molti proprietarî di questa regione investono di frequente tutta la loro ricchezza in gong. Presso i Karen, dove il gong di metallo è divenuto un tamburo metallico, questo esercita pure l'uso di moneta. Ma l'Insulindia presenta numerose altre monete: per i Daiaki di Borneo sono bocche da cannone di bronzo, di peso enorme; a Mindanao e a Ceram sono piatti e vassoi di porcellana cinese; da Flores a Tenimber e alle isole Kei e Aru sono denti di elefante. Le isole Palau, le più occidentali della Micronesia, hanno, come divisa monetaria, pietre levigate non originarie del paese, le quali, insieme con altre usanze, quali il prestito con interesse praticato fino nella penisola della Gazzella (Nuova Britannia), fanno pensare a un'influenza araba del Medioevo. Infine, in una delle isole meridionali delle Palau, si fabbrica la moneta più curiosa del mondo: sono masse discoidali di pietra (aragonite), forate nel centro, che misurano da due a quattro e più metri di diametro. Queste monete non sono usate sul posto, ma sono trasportate su zattere all'isola di Yap (fra le Palau e le Caroline) dove hanno l'ufficio di moneta. Nelle Marianne vien fatto uso di scaglia di tartaruga, probabile imitazione dei dischi di conchiglia, alcuni esemplari dei quali sono stati ritrovati nella Micronesia orientale, dove rappresentano una propaggine settentrionale dell'area principale di diffusione propria della Melanesia.

Monete di conchiglia si ritrovano nell'America Settentrionale; sulla Costa del Pacifico, sono usate a tale scopo le conchiglie dette Dentalium; nella regione atlantica sono piccole conchiglie cilindriche infilate a corona o applicate come ricamo, designate col nome indigeno di wampum. Le regioni dell'America che conoscono il metallo (v. metallurgia), cioè il NO., il Messico e la regione andina, utilizzavano come moneta contante placche o utensili metallici. Chicchi di mais e fave di cacao servivano da moneta divisionaria nel Messico.

Bibl.: R. Andree, Ethnographische Parallelen und Vergleiche, I, pp. 221-250, Stoccarda 1878; F. Graebner, Handel bei den Naturvölkern, in Andree Geogr. des Welthandels, I, 1909; W. A. Du Puy, The Geography of Money, in The National Geogr. Magazine, LII, 1927; W. Foy, Zur Geschichte der Muschelgeldschnüre in der Südsee, in Ethnologica, II, 1913: J. T. Medina, Monedas usadas por los Indios de América, al tiempo del descubrimiento, in XVII. Congr. Intern. des Amer. à Buenos Aires, 1910; O. Schneider, Muschelgeld-Studien, Dresda 1905; H. Schurtz, Grundriss einer Entstehungsgeschichte des Geldes, Weimar 9108; R. E. C. Stearns, Ethnoconchology, a Study of primitive Mosey, in Rep. of the U. S. Nat. Museum, 1887; G. Thilenius, Primitive Geld, in Archiv für Anthropologie, n. s., XVIII, 1920.

La moneta nell'antichità.

La moneta è stata, per l'antichità, lo strumento sociale più perfezionato e sicuro degli scambî, adottato dalle società più progredite in un determinato momento del loro sviluppo, seguito alle fasi dello scambio per materia e con metalli a peso. L'invenzione della moneta non è però da considerarsi per nessun paese l'opera di un giorno o il ritrovato di un uomo di genio, ma il risultato di una lenta evoluzione del mezzo di scambio metallico, determinato dall'estendersi e dal complicarsi delle relazioni commerciali e dalle sue trasformazioni, l'ultima delle quali è rappresentata dall'innovazione per cui lo stato ne monopolizza l'emissione, dando alla moneta fissità di tipo, di lega, di peso e corso forzoso.

Nel mondo ellenico tale definitiva fase di sviluppo si compì nel sec. VII a. C., e pare contemporaneamente presso i re della Lidia e presso le principali città dell'Egeo, Cuma, Lesbo, Cizico, Focea, Efeso, Samo, Nasso, Egina, ecc., donde l'uso si propagò con rapidità in tutte le colonie greche del bacino occidentale e orientale del Mediterraneo: cosicché al principio del sec. VI tutte ne sono provviste; alquanto più tardi Roma ne eredita l'uso, che trasmette ai paesi dell'occidente e del nord dell'Europa, rimasti fuori dell'influenza ellenica.

Come ai nostri giorni, così pure nell'antichità i principali metalli adottati ovunque, come strumento principaie degli scambî, furono: l'oro, l'argento e il bronzo. Di questi l'argento, perché piu diffuso dell'oro e meno ingombrante del bronzo, fu, quasi ovunque, il vero metallo-moneta. Esso costituì infatti la moneta del periodo dell'autonomia greca e poi della repubblica romana, laddove l'oro, più ricco e raro e rappresentativo, costituì la monetazione delle grandi monarchie, a cominciare da quelle della Lidia e della Persia, poi delle dinastie macedoni, tolemaiche e seleucidiche, infine dell'impero romano e bizantino. Il bronzo nel mondo greco fu coniato solo nel periodo seriore, della decadenza e della soggezione a Roma, mentre fu il vero solo metallo monetato presso le popolazioni italiche e sicule; nel sistema monetario romano rappresentò costantemente una parte preponderante, anche nell'età imperiale.

Insieme con l'oro va ricordato l'elettro, lega varia di oro e di argento, naturale e artificiale, che costituì la monetazione primitiva di molte città dell'Asia Minore, e fu coniato in grande abbondanza, e molto a lungo, a Sardi, Mileto, Cizico, Focea, Lesbo, e più tardi ancora a Cartagine. Mentre quasi dovunque, nel mondo ellenico e poi nel mondo romano, l'oro fu coniato purissimo, variando la lega o meglio l'impurità del metallo in minime proporzioni, la grande variabilità della lega dell'elettro, che si prestava a illeciti guadagni e ne rendeva troppo incerto il valore intrinseco, ebbe per effetto di farne presto sospendere quasi dovunque la coniazione, sostituendovi l'oro.

Anche la moneta di argento si presenta nell'antichità greca di ottima lega e fissa; lo stesso può dirsi della moneta di Roma repubblicana e del primo impero; ma di poi s'inizia una graduale alterazione della sua lega, progressiva e irrefrenabile, che muta la moneta di argento prima in un pezzo di biglione (lega varia di argento, stagno e piombo), poi di rame argentato e anche di stagno, di valore minimo, così da restarne intaccata tutta l'economia dello stato, che culmina nella ben nota crisi finanziaria della seconda metà del sec. III dell'impero.

Monete di vero e proprio biglione furono coniate da Roma, deliberatamente, dal principio dell'impero, ad Antiochia di Siria: tetradrammi col valore di tre denari e con l'intrinseco equivalente; e ad Alessandria d'Egitto, tetradrammi del valore di 1/25 di aureo; in questi due casi la lega rispondeva al valore dei pezzi. Ma così le une come le altre serie alterano col tempo la lega, assecondando il peggioramento dell'argento monetato di Roma.

Se può dirsi che in genere la lega metallica della moneta antica non venne alterata abusivamente - a eccezione del grandioso esperimento dell'impero romano - l'antichità conobbe un altro genere di frode monetaria, adottata molto estesamente: le monete suberate. Sono queste le monete composte di un'anima di metallo d'infimo valore, rame, ferro, stagno, e ricoperte di una pellicola di argento e qualche volta anche di oro. Esse quindi non si differenziano, all'apparenza, dalle monete di vero argento e di vero oro.

Si ritrovano monete suberate sino dal più arcaico periodo della moneta greca, e in tutte le serie: sono da considerarsi in parte opera di falsi monetarî, ma nella maggior misura opera dei governi, in momenti di bisogno e di difficoltà finanziarie. Vi ricorsero Policrate di Samo (Herod., III, 56), che pagò una grossa somma agli Spartani con piombo dorato, Perdicca III di Macedonia (Polien., Strat., IV, 10, 2) per pagare il soldo all'esercito nella guerra contro i Calcidesi; Pausania e ancora Atene nel periodo più critico della guerra del Peloponneso (Aristoph., Ran., 730 e seguenti); gl'inventarî del tesoro del Partenone ricordano per quel periodo un'offerta di stateri dorati. La stessa cosa si constata per il periodo repubblicano a Roma a partire dall'età annibalica. Sappiamo anzi che la legge di M. Livio Druso, del 91, stabiliva che un ottavo di ogni emissione di argento dovesse essere di monete suberate. Le gravi difficoltà apportate alla circolazione e all'economia pubblica e privata da simile espediente condussero alla deliberazione del pretore M. Gratidiano, dell'84, per cui erano istituiti uffici di verifica per il ritiro da parte dello stato dei pezzi suberati; la riconoscenza pubblica per il pretore fu grandissima, ma più grande ancora fu l'espiazione fattagli subire dal partito sillano al potere, che, con la legge Cornelia testamentaria, imponeva nuovamente il corso forzoso di quelle serie. La pratica delle suberate continuò durante l'impero, sino al momento in cui vi supplì la degenerazione della lega, cioè circa sino alla riforma di Caracalla.

Con l'alterazione ufficiale della moneta da parte dello stato va connessa la teoria della moneta di valore nominale.

Inventori della moneta, e i primi a darle il maggiore sviluppo, i Greci ne compresero il carattere di materia di scambio con il potere di rappresentare il valore delle cose (Arist., Polit., I, 6, 14-16; Plat., De Rep., III, p. 371). Nessuno scrittore del tempo dell'autonomia greca accenna all'altra teoria, che vede nella moneta un segno convenzionale degli scambî in mano dello stato, segno che non ha bisogno quindi di avere esso stesso un proprio valore in rapporto a quello che gli vien dato nella circolazione, ma che solo per l'impronta ufficiale acquista il suo valore convenzionale. Nel suo insieme la moneta greca è stata sempre di ottima qualità: puro il metallo, esatto il peso, dunque di valore reale corrispondente a quello nominale, di corso. A tale dottrina monetaria, che implica la fabbricazione di un'ottima moneta di valore, i Greci addivennero e si mantennero sia per il loro carattere filosofico e nel contempo pratico, sia per l'istinto commerciale, che intuiva i danni che sarebbero provenuti dalla teoria contraria, sia infine per la costituzione prevalente della città-stato, che dava carattere municipale alla moneta. La moneta invero costituiva per ogni singolo stato una risorsa e un orgoglio, e per la coesistenza di numerosi piccoli stati sovrani, ognuno con la sua propria moneta, in concorrenza con quella degli altri su ogni mercato, una qualsiasi alterazione avrebbe comportato con il discredito anche il fallimento. Il primo e considerevole esempio di alterazione della moneta di stato si presenta in alcune serie dei re persiani, quando, per impedire la scomparsa per esportazione dell'argento, essi ne alterarono la lega, rimedio che apportò la confusione nella circolazione, e fece trionfare nuovamente la vecchia abitudine dello scambio a peso dei metalli. Un secondo esempio ce lo offre l'Egitto tolemaico, privo di libertà comunali, chiuso alle monete straniere, dove presto i monarchi ricercarono illegittime risorse finanziarie nell'alterazione della moneta.

Roma ricevette dalla Grecia, con l'uso della moneta, anche la tradizione della vera natura di essa, e questa nozione conservò nella dottrina dei giureconsulti ancora lungo tempo dopo che nella pratica era stata dimenticata. La definizione di Paolo nel Digesto però pare adattarsi così alla teoria della moneta-merce come a quella della moneta-segno del valore, la quale ebbe invece a Roma la sua prevalenza già nella repubblica con la pratica delle suberate; fu legge con Silla e nell'impero ebbe la sua massima applicazione con la degenerazione dell'argento, che, correndo in masse enormi sul mercato e rappresentando, a un certo momento, tutto il circolante, fu causa ed esponente insieme fra i più evidenti della crisi che scosse dalle fondamenta la vita economica dello stato, ne pose a repentaglio la stabilità e sicurezza, e solo venne arginata dalle profonde riforme di Diocleziano e di Costantino. Ancora Cassiodoro ci ha tramandato la bella formula della cancelleria imperiale per l'istituzione dei procuratori della moneta, che comprende un nobile principio di giustizia e lealtà, ma che nella realtà ebbe un'attuazione precaria e risultati poco duraturi: "omnino monetae integritas debet quaeri, ubi vultus noster imprimitur; quidnam erit tutum, si in nostra peccetur effigie?" (Variae, VII, 32).

A eccezione dei paesi, dove invalse l'uso del bronzo al suo reale valore, cioè la penisola italica, Roma, l'Egitto dei Tolomei e Cartagine, dovunque altrove la fluttuazione dei valori reciproci dell'argento e del bronzo ebbe minima importanza dal punto di vista monetario, giacché la moneta di bronzo ebbe carattere di moneta di conto, di scarsa circolazione, e rappresentò minimi valori. Tutto il contrario si deve dire nei riguardi dell'argento e dell'oro, al cui valore si riattaccano i valori di tutte le merci, tutto il meccanismo degli scambî e tutta l'economia finanziaria. Fu quindi principale preoccupazione degli stati quella della natura delle relazioni da stabilire fra le monete di oro e di argento, dal punto di vista del loro valore intrinseco e di quello nominale. Due sistemi e due mezzi furono escogitati nell'antichità.

Il primo risale alle abitudini della circolazione del metallo a peso nell'Asia Minore. Partendo dalla proporzione esistente fra i valori dei due metalli, si tagliò l'unità di oro e quella di argento su di una misura diversa, in modo che la prima valesse un numero di volte esatto la seconda, cioè, ad es., che una moneta di oro valesse 20 monete d'argento. Così si fece nella Lidia, nelle città elleniche dell'Asia Minore, nell'impero degli Achemenidi. Nell'età seguente le città greche soggette all'impero persiano dovettero tagliare il loro argento in misura che fosse in un rapporto esatto con l'oro del re, che esse dovevano ricevere alla pari; sistema comodo per piccoli pagamenti, finché rimaneva inalterato, quasi, il rapporto dei due valori sul mercato, ma che doveva dar luogo a gravi inconvenienti in caso contrario. Gli Achemenidi ebbero invero la pretesa nell'età della decadenza di mantenere legalmente, contro ogni regola economica, al loro oro un valore che esso più non aveva di contro all'argento; ne risultò un'esportazione in massa di questo metallo dall'impero, dove rimase solo l'oro deprezzato.

Con il loro profondo istinto commerciale gli Ateniesi concepirono un'altra soluzione del problema. Come tutti i Greci d'Europa, a base della loro moneta essi avevano adottato l'argento, ma l'oro abbondava sul loro mercato, apportato dal commercio, in sbarre, in specie straniere. Quest'oro essi non monetarono, ma lo lasciarono nelle mani del commercio, come merce, di cui la banca fissava il corso liberamente; e quel poco che essi monetarono in speciali occasioni, lo tagliarono sullo stesso piede dell'argento, onde esso era piuttosto un peso d'oro che non una moneta, accettato in qualsiasi momento per il suo valore intrinseco e di cui lo stato garantiva il peso e la lega. La stessa cosa fece Alessandro, dando all'oro, coniato in masse enormi, lo stesso peso che al suo argento; onde venne al suo sistema tanta elasticità, che le sue monete ebbero il più vasto corso, nello spazio e nel tempo, e ancora correvano ed erano imitate un secolo dopo la scomparsa del re, secolo che pure aveva vedute le maggiori fluttuazioni nel valore reciproco dei due metalli, e in paesi dove certo era stata ben diversa nel contempo la loro relazione.

Durante la repubblica i Romani coniarono l'oro solo in casi eccezionali, benché tutti i grandi affari si regolassero, ivi come già dovunque altrove nel mondo antico, con l'oro in lingotti o in specie straniere. Gli aurei di Silla, quelli di Pompeo e poi di Cesare sono pezzi di un determinato peso, di una determinata frazione di libbra. Quando Augusto inaugura la sua moneta, pare abbia inteso inaugurare un sistema bimetallico oro-argento, avendo egli dato alle due monete un valore intrinseco pari al nominale e un rapporto fisso fra di esse: 1 aureo = 25 denari d'argento; Nerone nella sua riforma diminuisce nel contempo il peso della moneta d'oro e quello della moneta d'argento, per cui permane tale rapporto. Quando però al principio del sec. II s'inizia l'alterazione della lega dell'argento, alla moneta sopravviene in effetti un valore di corso superiore ogni giorno di più a quello intrinseco, onde si realizza un sistema monometallico, base l'oro, che allora si rarefa nella zecca e sul mercato in, misura tanto maggiore quanto aumenta la massa della moneta fiduciaria a corso forzoso che giunge a costituire fino i 9/10 della circolazione stessa.

Bibl.: Fr. Lenormant, La monnaie dans l'antiquité, Parigi 1897, I-III; E. Babelon, Origines de la monnaie, Parigi 1897; id., Traité, I, i, Parigi 1901; A. Segrè, Metrologia, Bologna 1928.

La moneta nel Medioevo e nell'età moderna.

La storia della moneta nel Medioevo e nell'età moderna può dividersi in grandi periodi corrispondenti all'apparire di nuove specie monetarie; di essi però non è possibile fissare esattamente i limiti di tempo, perché la transizione dall'uno all'altro avviene lentamente e non contemporaneamente in tutti i luoghi. Si può bene affermare che essi finiscono per coincidere con le grandi divisioni della storia, a cominciare dalla caduta dell'impero romano, o meglio dalla divisione di questo in occidentale e orientale, avvenuta dopo la morte di Teodosio (395).

Il sistema monetario dell'impero era monometallico a base aurea, unità il soldo d'oro (solidus) che era anche effettivo, tagliato a 72 pezzi per libbra, con le frazioni della metà (semissis) e del terzo (tremissis). Le monete d'argento e di bronzo servivano soltanto come mezzo di scambio per le piccole transazioni. La moneta d'oro nell'impero d'oriente subì qualche variazione di tipo; e maggiori nel tipo e nel taglio ne subirono quelle d'argento e di bronzo (v. costantinopoli, XI, p. 627). La moneta imperiale era veramente internazionale, perché non solo correva in tutto il vasto territorio, ma era anche, si può dire, l'unica conosciuta e accettata dai barbari confinanti. Quando questi irruppero nelle varie parti dell'impero occidentale, era naturale che continuassero a servirsi delle monete trovate e a loro già note.

I Vandali, passati nel 418 dalla Spagna nell'Africa settentrionale, coniarono monete proprie d'argento e di bronzo nella zecca dì Cartagine, imitando pedissequamente i tipi romani fino al 534 anno in cui vennero sconfitti da Belisario. Gli Svevi, entrati in Spagna con gli Alani e i Vandali nel 409, quando questi ultimi passarono in Africa, stabilirono un regno nella provincia Lusitanica e fecero monete proprie coi tipi immobilizzati e deformati nelle leggende degl'imperatori Onorio e Avito fino al 456, quando furono cacciati dai Visigoti. Di Alarico II loro re a Tolosa (484507) si sa che fece monete d'oro coi tipi di Anastasio, di titolo molto basso; lo stesso fecero i suoi successori, contraffacendo e deformando quelle di Giustiniano. Leovigildo (572-586) pose il proprio nome sui tremissi d'oro, unica moneta che venne coniata durante il suo regno e quello dei successori, fino al re Rodrigo (710-711), in numerose officine e di titolo assai scadente, specialmente sotto gli ultimi sovrani.

Odoacre, re degli Eruli (476), fece coniare a Roma e a Ravenna monete d'oro col nome degl'imperatori Zenone e Anastasio, e su quelle d'argento e di bronzo pose anche il proprio nome o il monogramma. Con Teodorico e il regno dei Goti in Italia, le monete d'oro, d'argento e di bronzo non si scostano dal tipo e dalla misura di quelle romane e portano sia il nome degl'imperatori, sia quello per esteso o in monogramma dei re goti.

Anche la monetazione dei Franchi consiste da prima in imitazioni servili dei soldi e tremissi imperiali, ma Clodoveo I (481-511) aggiunge qualche segno particolare sui tipi conformi a quelli di Anastasio, mentre sulle monete d'argento e di bronzo si affacciano i nomi dei re franchi. Teodeberto I (534-548) pone addirittura il proprio nome anche sui pezzi d'oro, non imitato in questo dai successori che seguitarono a porvi quello degl'imperatori. Il sistema monetario romano venne riconosciuto e sanzionato dalla legge salica del 486 con queste misure: soldo di 40 denari, tremisse di 13 denari e 1/3, denaro d'argento, che a quell'epoca corrispondeva all'incirca alla mezza siliqua bizantina. L'oro tendeva a emigrare verso l'Oriente; ma il tremisse, sia pure ridotto di titolo e dì peso, rimase la moneta caratteristica dei Merovingi fino alla loro scomparsa, nonostante la divisione in regni ostili fra loro e l'uso dei popoli dell'Austrasia che tenevano come moneta di conto l'antico denaro romano (saiga), equivalente a tre denari franchi. Sotto i Merovingi presero grande sviluppo i monetieri e le loro organizzazioni. Essi ponevano il loro nome, con e anche senza quello reale, sulle monete e diedero origine a un numero stragrande di officine e a una produzione non meno grande di monete, non sempre di giusto peso e intrinseco.

Prima dei Franchi, anche i Borgognoni segnarono con le sigle dei loro re Gondebaldo, Sigismondo e Gondemaro II (473-534), soldi, tremissi e monete d'argento coi tipi imperiali.

Gli Anglosassoni, conquistatori dell'Inghilterra, per un periodo che va dalla metà del sec. V a tutto l'VIII, ebbero una monetazione analoga a quella merovingica, costituita da soldi e tremissi d'oro, denari d'argento (sceatta) e spezzati di bronzo (styca), in cui sono imitati e deformati i tipi romani, ora senza leggenda e ora con leggende frammiste di caratteri latini, runici e merovingi.

Anche i Longobardi in Italia adottarono il sistema monetario trovato e continuarono a produrre soldi e tremissi d'oro di tipo imperiale. Ebbero poi anche monete d'argento e di rame, ma se ne conoscono pochissime. Nei loro prodotti si avvertono alcune novità di tipo e di tecnica: dischi sottili con impronte che si riproducono sulla superficie opposta e cerchio rilevato all'intorno; alle rozze effigie dei primi prodotti si sostituisce la croce e una specie di stella a otto raggi; le leggende spesso consistono in sole aste senza significato, mentre l'insieme diventa alle volte assai nitido e regolare.

Anche l'impero d'Oriente, minacciato dai barbari come quello d'Occidente, ebbe la Siria e la Palestina occupate dagli Arabi (632). Il califfo Omar (634-644) conservò nelle proprie monete di bronzo (fals) il tipo bizantino di Eraclio con gli emblemi cristiani: ma questi a poco a poco vengono trasformati in segni inintelligibili, mentre nelle leggende vengono introdotte parole arabe. ‛Abd al-Malik (685-705) sostituisce la propria effigie a quella imperiale, ma poi si libera anche da quest'ultima servitù d'imitazione e crea monete d'oro (dīnār) e d'argento (dirham), con sole leggende arabe orizzontali e circolari. Per la loro forma comoda ed elegante e per la bontà del metallo, queste monete ebbero subito larga diffusione e vennero in seguito imitate anche dai cristiani. Nell'Africa e nella Spagna, occupate più tardi, gli Arabi seguirono lo stesso procedimento: con questa variante, che le leggende furono dapprima latine con la soppressione delle vocali.

Meno adunque qualche indizio di cambiamento da parte dei Visigoti, dei Longobardi e degli Arabi, la moneta di questo primo periodo, che possiamo chiamare barbarico, si mantiene aderente al sistema e al tipo romano, che, per opera di artefici inesperti, subisce le più curiose trasformazioni e deformazioni sia nelle figure, sia nelle leggende. Ma la diversità della moneta di conto, col rarefarsi dell'oro, fece sì che a poco a poco l'argento prendesse il sopravvento e che la moneta d'oro, per opera soprattutto dei monetieri specialmente nel regno di Francia, decadesse in maniera tale da rendere necessaria la misura presa da Pipino (752-768) di proibirne la coniazione.

Carlomagno (768-814), nei primi anni del regno, conservò i sistemi dei varî luoghi che veniva conquistando, finché prese la decisione di unificare, modificandolo, il sistema monetario. Questo divenne monometallico a base argentea: da una libbra d'argento si dovevano tagliare 240 denari di cui 12 formavano un soldo e 20 soldi una libbra o lira; lira e soldo rimasero nominali e di conto; moneta effettiva e reale soltanto il denaro. Il diritto di battere moneta apparteneva al sovrano e vennero abolite le numerose officine che coniavano per proprio conto. Questa riforma segna l'origine delle monete veramente medievali e moderne, perché con essa veniva abolita quasi totalmente l'imitazione delle impronte romane, di cui qualche lieve ricordo si ha nei profili imperiali di alcune rare produzioni delle zecche del nuovo impero, mentre generalmente le impronte consistono soltanto in leggende circolari e orizzontali e in monogrammi. Da essa derivano anche i sistemi moderni con la divisione in lira, soldo e denaro, nomi che giungono fino ai nostri giorni. Il nuovo sistema venne imposto a tutti i paesi del ricostituito impero, e, nonostante qualche contrasto, in progresso di tempo fu adottato anche dai paesi confinanti, sicché il denaro divenne in realtà la moneta internazionale dell'Europa occidentale. Esso infatti dava forma reale al sistema di conteggio dei popoli germanici, e, attraverso a questi e all'Inghilterra, penetrò nelle terre polacche e nella Scandinavia, le cui prime monete sono imitazioni di quelle carolinge. Quasi dovunque poi troviamo come moneta effettiva anche il mezzo denaro (obolo, medaglia).

Non si deve però credere che l'adozione ufficiale del sistema argenteo carolingio escludesse la circolazione dell'oro, che vigeva ancora nell'impero d'Oriente, nei regni degli Arabi e nei luoghi che avevano più strette relazioni con essi. Oltre ai tremissi di Carlomagno col tipo longobardo, si hanno anche denari d'oro col suo nome, coniati a Uzès, del peso e tipo di quelli d'argento, nei quali si volle da alcuni riconoscere la realizzazione del soldo equivalente a 12 denari argentei, venendo così a stabilire il rapporto di 1 a 12 fra i due metalli. Di Ludovico il Pio (814-840) non sono infrequenti i soldi d'oro di fabbrica germanica.

Il papato segnò una prima deroga all'esclusività assoluta del diritto monetale e i nomi dei pontefici romani apparvero sui nuovi denari di Roma insieme con quello di Carlo e dei suoi successori. Il sistema feudale, già introdotto dai Longobardi, mantenuto e accresciuto con l'allargarsi dell'impero, lo restrinse ancora con le numerose concessioni di coniare agli enti ecclesiastici, vescovati e abbazie, e a grandi feudatarî. Appena due secoli dopo la riforma monetaria, esse erano divenute generali e si estesero anche ai comuni, alcuni dei quali ebbero quel diritto dai concessionarî, altri se l'aggiudicarono di propria autorità. Dalla schiera così numerosa degli emittenti, aggiungendo le diversità di misura imposte il più delle volte dalla stessa concessione e quella delle unità di peso varianti a seconda dei luoghi, si può argomentare quale babelica molteplicità di monete venisse a sostituire quella unica dell'impero, pure conservandone le denominazioni. Un fenomeno costante segna questo periodo e proseguirà anche nei successivi: l'aumento progressivo del valore di acquisto del metallo argento, che ebbe per conseguenza immediata una diminuzione corrispondente del peso del denaro che, nel terzo secolo dall'introduzione, conservava appena un terzo del peso originario ed era ridotto a una sottilissima lamina d'argento, così che per renderlo maneggiabile e sensibile al tatto si ricorse all'espediente di accrescere la lega che si era sempre usata nella lavorazione dell'oro e dell'argento. Così ebbero origine le monete di mistura (billon in francese), delle quali si hanno esempî fino dall'epoca del basso impero romano, che furono causa di tanti guai nella circolazione per opera di sovrani e zecchieri poco scrupolosi. Dal denaro ridotto a tanta sottigliezza, che le impronte si ripetevano su ambo i lati - esempio primo le frazioni di siliqua attribuite a Pertarido e i denari larghi degli ultimi carolingi e dei re d'Italia - derivarono le cosiddette bratteate che divennero in seguito e per un certo tempo quasi l'unica moneta di gran parte della Germania, dell'Inghilterra e della Scandinavia.

L'impicciolirsi del denaro di fronte all'accrescersi dei traffici condusse necessariamente alla creazione di una specie di maggiore peso e valore, che fu il denaro grosso, che teoricamente doveva valere 12 denari allora in corso rappresentando il soldo della lira di conto. Il primo apparve in Italia tra il 1194 e il 1200 e fu il grosso o matapane di Venezia, istituito per i traffici del Levante, di tipo e aspetto bizantino, di argento buono (titolo 965), taglio 109 1/3 per marca (grammi 2,18): e ad esso fu dato un valore di corso di 26 piccoli veneziani, ossia di 13 denari piccoli imperiali. A poca distanza di tempo e alcune anche contemporaneamente, le altre zecche italiane ebbero il loro grosso. In Francia, Luigi IX, al suo ritorno dalla Terrasanta, riformò la moneta istituendo nel 1266 il grosso tornese detto anche soldo. Tanto il matapane quanto il grosso tornese ebbero largo corso e numerose imitazioni e la loro misura, ossia il soldo, venne realizzata in Inghilterra, Germania, Spagna, Polonia e anche nella Scandinavia, con la creazione dello skilling o soldo d'argento.

L'introduzione del grosso è indizio evidente della decadenza del sistema argenteo con l'unità denaro che non rispondeva più ai bisogni della circolazione e al volume dei traffici, aumentato col risvegliarsi delle attività produttive dopo l'avvento dei comuni trafficanti e navigatori sempre a contatto coi paesi dove ancora vigeva il sistema aureo. I sovrani della Spagna, della Sicilia e dell'Italia meridionale sotto la pressione degli Arabi, ne imitavano già le monete. A quanto pare, Genova, sul cadere del sec. XII o sui primi del XIII, coniò una prima moneta d'oro, la mezza quartarola, del valore di un soldo o 12 denari d'argento, equivalente a metà del tareno o tarì aureo arabo, che corrispondeva all'incirca al quarto del soldo d'oro bizantino. A questa moneta, che conosciamo con nome di frazione, seguì l'intero o genovino, che però venne in certo modo a trovarsi in seconda linea di fronte al contemporaneo fiorino di Firenze creato nel 1252, che ebbe immediatamente accoglienza tanto favorevole da essere imitato dovunque e divenne moneta internazionale insieme col ducato d'oro di Venezia, apparso nel 1284. Le due denominazioni "fiorino" e "ducato" divennero sinonimi e servirono anche a indicare il genovino. Identici la bontà e il peso delle tre monete. L'introduzione della nuova specie aurea, però, non poteva avvenire con la rinunzia contemporanea al sistema argenteo, vigente e accettato nei luoghi stessi dove essa sorgeva: e però si ricorse all'espediente di stabilire un ragguaglio di valore tra la nuova moneta e quella già esistente. A Firenze prima, a Genova poi, il fiorino equivaleva alla lira d'argento che da moneta di conto diveniva reale in oro; a Venezia invece il ducato venne ragguagliato a lire due e otto soldi della moneta veneziana. Il bimetallismo segna il principio del terzo e ultimo periodo della storia medievale della moneta.

L'oro e l'argento, per il solo fatto di essere coniati come monete, non perdono la loro qualità di merce soggetta alle fluttuazioni prodotte dalla domanda e dall'offerta, e così avvenne che, appena poco tempo dopo l'emissione e relativa determinazione del rapporto tra le due specie, questo si alterasse nelle transazioni effettive, creando enormi difficoltà che sono la sostanza principale della storia monetaria di tutti i secoli, dimostrando la debolezza ingenita del sistema bimetallico, basato sull'erronea supposizione della durata costante del rapporto fra i due metalli, fissato dalla volontà del legislatore. La nuova moneta e le conseguenti difficoltà accrebbero la molteplicità delle specie emesse dai numerosi stati e staterelli, ristretti nel confine di un'economia chiusa, che cercavano nel variare di forme e di misura una soluzione, sia pure transitoria, dei molti problemi che il frazionamento delle autorità legiferanti e le collisioni d'interessi creavano a ogni momento. Impedire la circolazione delle monete altrui con proibizioni, favorire l'espandersi della propria con ogni mezzo più o meno lecito, era studio quotidiano, quando, anzi che esaurirsi in vani e dannosi sforzi di concorrenza, non si veniva con migliore consiglio a stipulare convenzioni che permettessero la libera circolazione reciproca delle monete nei territorî degli emittenti. Si giunse anche a stabilire la fabbricazione di monete aventi la stessa bontà, peso e valore, con impronte somiglianti, pure conservando esse i nomi delle singole parti contraenti. I più antichi esempî di tali convenzioni monetarie sono quelle tra i comuni di Ravenna e di Ancona, stipulata nel 1249, e l'altra sottoscritta a Cremona nel giugno del 1254 tra i comuni di Cremona, Bergamo, Brescia, Parma, Pavia, Piacenza e Tortona. Notizie di simili accordi posteriori non mancano per i Paesi Bassi e la Germania, dove furono numerosi e importanti nei secoli successivi. Nei paesi dove si erano costituite monarchie egemoniche, provvedevano queste a fare sì che i minori stati si uniformassero nel taglio e nella bontà alle monete proprie; ma sempre con risultati scarsamente rispondenti alle intenzioni che venivano defraudate dalla volubilità del pubblico e, più ancora, dalle leggi non scritte che regolano la circolazione monetaria.

In questo periodo, le monete che, specialmente in Italia, avevano già assunto un aspetto più regolare come tecnica e come disegno, cominciano a interessare la storia dell'arte. Alle monotone ripetizioni di motivi che il credito già acquisito non aveva consentito di variare, succedono le rappresentazioni agiografiche e araldiche e anche l'effigie dei sovrani: primo e splendido esempio veramente artistico, gli augustali di Federico II; più tardi le altre effigie dei varî principi incise sulle bellissime monete della seconda metà del sec. XV. In quest'epoca infatti, cominciano ad apparire i testoni, detti così dalla testa che ne occupava il dritto: pezzi d'argento di spessore più grande assai di quello fino allora in uso nelle monete, rappresentando in generale il valore della lira d'argento, che diventava così moneta effettiva e segnando un primo passaggio di forma da quella medievale a quella moderna. Sul cadere del secolo e precisamente nel 1484, si ebbe nel Tirolo la prima di quelle grosse monete d'argento che, col nome di talleri, scudi e ducati, formano la caratteristica della monetazione moderna, dovuta in origine alla scoperta di nuove miniere d'argento nel Tirolo, poi in Sassonia, e, in seguito, all'abbondanza di questo metallo proveniente dall'America.

Con la comparsa di queste grosse monete d'argento, si accompagna la monetazione del rame puro o in lega di bronzo. Si è già accennato come venissero introdotte nella circolazione monete di mistura, per ovviare all'esiguità di quelle d'argento: perché anche queste, perdurando il fenomeno del crescere di valore dell'argento, si riducevano a proporzioni microscopiche, per conservare un certo rapporto d'intrinseco con le maggiori monete reali e di conto. Di qui la necessità di abolire quella poca quantità di metallo nobile che vi si conteneva, fabbricandole di puro rame: acquistavano così maggiore peso e consistenza e rispondevano anche al migliorato sentimento artistico, permettendo di riprodurvi i simboli o le immagini dei sovrani e altre figurazioni che rendono assai interessanti questi ritorni alla moneta di rame scomparsa del tutto con l'introduzione del sistema carolingio. Di pari passo con questa riapparizione del rame, avviene la sparizione quasi totale delle piccole monete, obolo e denaro, alle quali vengono sostituite altre frazioni dell'unità lira o soldo, come sesini e quattrini, multipli del denaro che diventa soltanto moneta di conto.

Con l'entrare nell'epoca moderna, il campo visuale della storia monetaria è assai più vasto e indeterminato, mancando un punto comune di riferimento. Finora si è seguito come linea generale il sistema prevalente: all'entrare nell'età moderna, il bimetallismo prevale in quasi tutta l'Europa occidentale; nell'Oriente invece, anche dopo la caduta dell'impero bizantino e l'avvento dei musulmani vige quello a base aurea. Ma l'argento occidentale è già entrato nella circolazione con i principati cristiani creati dalle crociate, con i possedimenti delle repubbliche italiane e dei Franchi e per via del commercio, assai attivo anche in monete. Il bimetallismo però non segue più un modo uniforme di esplicazione, ma ne assume diversi tanto nel ragguaglio tra l'oro e l'argento quanto nel taglio e nell'intrinseco delle monete e soprattutto nelle unità monetarie. Non si riesce più a trovare il comune denominatore, che era ancora il denaro, se non attraverso una serie laboriosa d'indagini linguistiche e di calcoli. D'altronde, anche il sistema politico ha subito e sta subendo trasformazioni profonde. L'impero, che rappresenta un centro unitario per quanto diminuito d'importanza, è in lotta con gli stati che si emancipano dalla sua dipendenza; non solo, ma deve badare alle dissensioni che travagliano la compagine federale su cui poggia. Non può quindi servire più da regolatore della moneta. Questa segue piuttosto le correnti commerciali che alla loro volta subiscono cambiamenti di direzione, per l'affacciarsi di nuovi e potenti stati che si dànno al traffico e allo sfruttamento del mondo vecchio e nuovo e per le scoperte di nuovi passaggi e nuove terre che sposteranno il centro del movimento dal Mediterraneo agli oceani, causando lotte continue per il primato e la libertà dei mari. Oltre a ciò, la differenza fra gli stati è tale che, mentre i più progrediti hanno già introdotto sistemi moderni di monetazione altri sono appena ai primi passi e, come sistema e come arte, sono ancora in pieno Medioevo. Conviene quindi limitarsi ad accennare soltanto alcuni dei fenomeni più generali che caratterizzano questo periodo che, dagli ultimi anni del sec. XV, va sino alla fine del XVIII.

Moneta d'oro predominante era ancora il fiorino o ducato: ma, per la sua bontà conservatosi sempre uguale, nonostante una lievissima diminuzione di peso, veniva rapidamente scacciato dalla circolazione per opera di altre monete d'oro, che nel frattempo avevano acquistato credito e diffusione, benché fossero di lega inferiore, l'ongaro cioè e lo scudo d'oro del sole. Era quello il ducato del regno di Ungheria a circa carati 23; questo, moneta francese a carati 22. Le zecche italiane non erano più in grado di emettere quantità sufficienti ai bisogni internazionali, ora che il mercato dell'oro, dalla loro esclusiva dipendenza, si era trasferito principalmente nella Spagna che aveva il monopolio delle ricche miniere del Nuovo Mondo. È evidente il danno derivante da questo moltiplicarsi di specie della stessa apparenza, ma diverse di valore intrinseco che costringeva a calcoli complicati per ragguagliarle, senza contare che la malafede degli emittenti, specie degl'imitatori, faceva sì che da un pezzo all'altro fosse diversa la quantità del fino contenuto. Né diversamente andavano le cose per quanto riguarda l'argento. Abbiamo già veduto come la scoperta e lo sfruttamento di nuove miniere avesse portato molta abbondanza di tale metallo in Europa, abbondanza che crebbe straordinariamente con l'apporto dei prodotti delle miniere americane. In Germania fu creato il tallero, grossa moneta d'argento corrispondente al valore del ducato d'oro (gülden); fino dall'origine esso fu di due specie, il Güldengroschen e lo Joachimsthaler, quest'ultimo di bontà minore. La nuova moneta si diffuse rapidamente e con essa il principio di creare specie d'argento equivalenti in valore a quelle d'oro, quindi gl'innumerevoli ducati e scudi d'argento che, per la costante variazione del rapporto fra i due metalli, subirono presso che infiniti cambiamenti di titolo e di peso dando origine, come per l'oro, a una varietà incalcolabile di pezzi d'argento, sia grossi sia piccoli per le frazioni.

Il formarsi di grandi stati la cui moneta acquista più larga diffusione, costringe i piccoli stati a mettersi sulla via d'imitare e contraffare le monete più accreditate, per non rinunziare alla propria operosità di coniazione che costituisce per essi una non piccola sorgente di reddito, per alcuni anzi è l'unico reddito del sovrano. Quindi le numerose imitazioni, contraffazioni e anche vere e proprie falsificazioni, che sono una delle caratteristiche di questo periodo moderno e anche uno dei maggiori mali della circolazione monetaria. Gli stati più danneggiati cercarono di porre rimedio al male avvertito dalle popolazioni tutte e in modo speciale dai commercianti, facendo fare dei saggi delle monete che si trovavano in circolazione, per stabilire la bontà del metallo che vi si conteneva e, in base a questa, attribuire a ognuna un prezzo di ragguaglio con la moneta corrente dello stato, escludendo affatto quelle che avessero un titolo troppo basso per consentirne una valutazione ragionevole rispetto al valore che pretendevano di rappresentare. I dati così raccolti venivano pubblicati per mezzo di bandi e tariffe per norma dei cittadini. Siccome poi a ogni tratto uscivano nuove monete o variavano i valori di quelle emesse e anche di quelle che dovevano servire di confronto, si vedrà quale enorme lavoro richiedesse dai governi il mettere in guardia i sudditi. Su tali bandi si compilavano poi le guide o manuali per il cambio e il corso delle monete, abbastanza numerose in Italia, numerosissime nei Paesi Bassi, in Germania e in Francia e un po' dovunque; fonti numismatiche di somma importanza, perché ci dànno notizia di monete sconosciute e la spiegazione di alcune che rimanevano incomprensibili, non solo, ma anche notizia certa del peso e della bontà delle monete e anche del loro aspetto esterno, per quanto alle volte deformato dalla poca bravura degli artisti che le riproducevano col disegno. Questi provvedimenti, se potevano servire a mettere in guardia i cittadini, non valevano affatto ad arrestare o diminuire l'attività criminosa dei falsificatori, perché non si trattava soltanto di volgari delinquenti che rischiavano le pene più gravi fino a quella capitale sancita da quasi tutte le leggi, ma bensì di signori più o meno potenti che avevano legittima autorità di coniare monete. Essi avevano al loro servizio artisti abilissimi nell'operare le richieste falsificazioni, rese facili dalla tecnica primitiva della maggior parte delle officine, anche dei grandi stati, e dall'ignoranza delle popolazioni cui erano offerti i prodotti non genuini. Si ricorse a proibizioni, sequestri, trattative diplomatiche e anche processi, ma con poco o nessun frutto, perché i veri rei sfuggivano il più delle volte a ogni responsabilità. Negli archivî italiani vi sono molti documenti dai quali emerge simile scorrettezza di tanti signorotti.

I miglioramenti e perfezionamenti introdotti nella tecnica della coniazione, per quanto ostacolati e ritardati dappertutto dalle tradizioni e dagl'interessati, ridussero alquanto la possibilid delle imitazioni e delle contraffazioni, perché i piccoli principi che si dedicavano a tale speculazione non potevano fare gl'impianti costosi delle zecche maggiori, che, a cominciare dalla metà all'incirca del sec. XVII, emettevano le loro monete perfettamente rotonde e regolari e anche con lo spessore ornato o inciso sia in rilievo, sia in cavo tanto da rendere quasi impossibile la minore industria delittuosa del tosare le monete che era una delle piaghe della vecchia circolazione.

Da questo perfezionamento materiale trasse qualche vantaggio l'arte del conio, che dalle opere veramente belle dei secoli XV e XVI era andata decadendo, un po' per la corruzione del gusto e molto per la trascuratezza degl'incisori, specie dove questa carica era ereditaria. La monetazione spagnola era divenuta veramente brutta e aveva influito in tale senso anche sulle zecche dipendenti di Milano e di Napoli, dove però la genialità di qualche artista riuscì a evitare in parte la sciatteria delle monete spagnole, che venne del tutto ignorata da quelle di Francia, dei papi, della Toscana e di altri stati che ebbero alle loro dipendenze artisti valentissimi e coscienziosi. Però in tutte le monete del secolo XVIII, con la rotondità perfetta e con la maggiore precisione delle impronte, comincia ad affermarsi una vera povertà e freddezza d'arte, con la semplificazione delle figurazioni, preludente alla voluta semplicità delle monete che diventa la caratteristica del sec. XIX.

La facilità di accrescere le rendite dello stato fabbricando monete di poco o nessun valore alle quali se ne attribuiva uno assai maggiore, porta per conseguenza la rarefazione e sparizione della moneta buona che viene riconiata in altrettanta scadente con notevole guadagno, il rialzo del costo di tutti i generi e quindi la svalutazione e il deprezzamento delle monete, producendo quelle che si sogliono chiamare crisi monetarie, le quali succedono ordinariamente ai periodi di turbamenti e di guerre, nei quali appunto si fece ricorso agli espedienti accennati. Si può affermare che nessuno degli stati moderni sfuggì a tali crisi, cui andarono soggetti anche quelli più oculati e aderenti a sani principî di onestà nel fabbricare le monete, come Venezia, Firenze e Roma. In Inghilterra e in Germania si ebbero dal secolo XVI al XVII; in questo poi e nel successivo sono notevoli quelle della Spagna, della Russia, della Svezia, della Polonia e della Francia, dove è da ricordare il famoso esperimento del Law per l'abolizione della moneta metallica, finito disastrosamente.

Il moltiplicarsi delle specie, il variare continuo del titolo e del peso e del rapporto fra l'oro e l'argento portarono per necessità a diverse maniere di calcolare la moneta di conto che serviva di base alle transazioni. A Venezia che, per quanto in decadenza nel sec. XVIII, pure vantava le migliori tradizioni in fatto di commercio e di banca, si ragionava a moneta lunga quando si trattava di calcolare le monete al prezzo corrente sulla piazza, a moneta corta o alla parte invece se al prezzo ufficiale sancito da una parte del senato; c'era poi la moneta di banco, che equivaleva al ducato da lire 6,4 aumentato del 20%, nominale anche questo perché poteva contrattarsi a moneta lunga o corta. Quel che avveniva a Venezia si ripeteva con varie denominazioni in tutte le piazze commerciali, complicando anche di più le difficoltà della circolazione e creando un vero disagio monetario sentito da tutti gli stati europei e anche extraeuropei. La scienza economica cerca di determinarne le cause molteplici e di varia natura; all'osservatore però che prescinda da quelle puramente economiche e varianti da luogo a luogo, una se ne presenta, insita nel sistema: la difficoltà di far circolare monete di valore instabile, perché basate su un rapporto fra i due metalli che può variare da un momento all'altro. Questa incertezza di valore era accresciuta dall'inflazione (usiamo la parola moderna), a cui ricorse la maggior parte degli stati con l'emissione di cartamoneta di poco o nessun valore e con abbondantissime coniazioni della cosiddetta moneta erosa e di quella di rame che formarono la vera piaga di tutti gli stati nel sec. XVIII.

Questa era la situazione poco confortante della circolazione allo scoppiare della rivoluzione francese, che tante conseguenze doveva portare, anche nel campo monetario, con l'introduzione del sistema metrico decimale. La depauperazione di tutte le nazioni per le guerre continue condusse a un disordine di cui noi, testimonî di fatti quasi consimili e in scala più vasta, possiamo benissimo renderci conto. Dopo i tentennamenti inevitabili nel trovare rimedio a uno stato di cose veramente disastroso, Napoleone I fece adottare da tutto il suo vasto impero la moneta decimale. L'innovazione durò poco, perché nel 1815 gli stati risorti, meno la Francia. vollero tornare all'antico; ma il seme era gettato e la facilità e semplicità del sistema finì col prevalere, se non in tutto il mondo, in gran parte di esso.

Questo periodo contemporaneo che si apre con i grandiosi avvenimenti della fine del sec. XVIII e del principio del XIX, vedrà da un lato diminuire il numero degli stati che emettono moneta con l'unificazione della Germania, dell'Italia e della Svizzera, e dall'altro aumentare con gli stati sorti dallo smembramento dell'impero ottomano e più ancora con quelli autonomi del nuovo mondo. Fino ad ora infatti le cinque nazioni europee che avevano possedimenti nelle altre parti del mondo provvedevano con monete proprie, sia pure ragguagliate coi valori d'uso locale, al fabbisogno dei luoghi posseduti, quindi con vere e proprie monete coloniali. Ma ora non sarà più così e i nuovi stati emancipatisi dalla tutela europea, primi gli Stati Uniti dell'America, emetteranno monete proprie e verranno a pesare con tutto il valore delle loro giovani energie sui mercati della vecchia Europa. Oltre a ciò, le cresciute facilità di comunicazioni e l'aumentato volume dei traffici faranno convergere sul mercato universale anche le valute dei vecchi imperi dell'Asia e dell'Africa che erano quasi ignorate.

Il bimetallismo sanzionato dalla riforma napoleonica, dopo la caduta dell'impero, non teneva più il primato e molti stati si trovavano in regime monometallico, sia aureo sia argenteo, e anche quelli che avevano adottato il bimetallismo metrico decimale tornarono agli antichi sistemi ingenerando non poca confusione. Quindi numerosi provvedimenti per il ritiro delle specie soppresse e una fioritura di tariffe e di manuali per facilitare il conguaglio delle nuove monete con quelle del sistema napoleonico ancora in circolazione, non meno numerosa di quella apparsa quando queste soppiantarono le vecchie. Un senso di disagio però si manifestava in tutti per le continue fluttuazioni di prezzo dei metalli nobili che si ripercuotevano tanto nella circolazione monometallica, quanto in quella bimetallica. A questa nel 1816 venne recato un grave colpo dall'Inghilterra che l'abbandonò, rendendo effettiva la lira sterlina di conto con un pezzo d'oro a carati 22 del peso di grammi 7,988 e facendone la propria unità monetaria col nome di sovereign (sovrana), detta però nell'uso comune sterlina, che tanta parte doveva avere nel commercio del mondo intero. La nuova moneta tanto tecnicamente, quanto artisticamente per opera del bolognese Benedetto Pistrucci, riuscì perfetta, tanto che il tipo rimase immutato fino a oggi.

Poco prima della sterlina, sul cadere del sec. XVIII, era comparso il dollaro americano d'argento, derivazione del colonnato spagnolo, unità monetaria della nuova repubblica, che doveva pur essa avere tanta influenza nell'economia monetaria mondiale, di cui divise con la sterlina il dominio e, con l'andare del tempo, si trasformò essa pure in moneta aurea a tipo monometallico.

L'esempio dell'Inghilterra suscitò in quasi tutti il desiderio di imitarla, tanto più che una scuola economica propugnava l'adozione generale del tipo aureo con l'abbandono del bimetallismo, del quale nella prima metà del secolo apparivano sempre più gravi gl'inconvenienti. Tale misura non conveniva alla Francia, che aveva conservato il sistema metrico decimale bimetallico. Questo venne ripristinato dal Belgio nel 1831, dalla Svizzera nel 1848, conservato dal regno di Sardegna e da questo con la conseguita unificazione politica venne trasmesso al nuovo regno d'Italia. Questi stati confinanti soffrivano degli stessi malanni refrattarî ai rimedî escogitati, come il dazio sull'esportazione dell'argento, pensato ma non applicato in Francia, o il ribasso del titolo delle monete frazionarie adottato dalla Svizzera e dall'Italia, che si disponevano a non coniare più i pezzi da 5 franchi rimasti al titolo di 900; infatti la legge monetaria italiana del 1862, base della nostra monetazione, disponeva che essi venissero fabbricati soltanto su domanda e per conto dei privati. Il Belgio, di fronte a questi provvedimenti, domandò la convocazione di una conferenza internazionale dei quattro stati interessati; questa ebbe luogo nel 1865 a Parigi dove le tre potenze Belgio, Italia e Svizzera erano proclivi a risolvere la questione adottando il tipo aureo. Il governo imperiale francese si mostrò riluttante ad alterare le basi del suo sistema monetario, quantunque il presidente, francese, della conferenza fosse fautore del tipo unico, e allora si venne in via di transazione alla stipulazione di quella che fu detta "Unione monetaria latina". Le quattro potenze s'impegnarono a non emettere né permettere l'emissione di monete non conformi in titolo, peso, valore e forma a quelle determinate dalla convenzione stessa, corrispondenti in tutto a quelle prescritte già dalla legge italiana del 1862. Le monete d'oro e quelle d'argento da 5 franchi avrebbero corso legale in tutti e quattro i paesi e sarebbero ricevute senza limite nelle casse governative, mentre per le monete divisionarie d'argento vennero fissati limiti di emissione in quantità non superiore a lire 6 per abitante e limiti di quantità nei pagamenti sia nello stato emittente sia negli altri, con obbligo all'emittente di effettuarne il ritiro contro valute d'oro o pezzi d'argento da 5 lire. Questa convenzione parve rialzasse un po' il prestigio del sistema bimetallico; a essa aderì la Grecia; la Spagna, pure non aderendovi con trattato speciale, uniformò le proprie alle norme da essa stabilite, ciò che fece anche l'Austria per le sole monete di oro. Con qualche modificazione suggerita dalle circostanze, e cioè da notevoli variazioni di prezzo dell'oro e dell'argento, l'unione monetaria latina ebbe durata maggiore dei 15 anni che si era prefissi e continuò a essere in vigore per tutto il secolo XIX e anche nei primi anni del XX, costituendo il fatto più importante della storia monetaria di questo periodo. Essa vide parecchi altri stati d'Europa e d'America adottare le proprie misure per le loro monete e d'altra parte vide anche altre monetazioni bimetalliche trasformarsi in monometalliche a tipo aureo, tra cui le più importanti quella dell'impero germanico nel 1871, e degli Stati Uniti d'America nel 1873.

Tecnicamente le monete di questo periodo si possono dire quasi perfette; artisticamente per molto tempo si uniformarono a un tipo povero di motivi e di esecuzione fredda, o, come si suole dire, accademica, ereditata dal risveglio di arte classica dei tempi di Napoleone, che divenne assai misera cosa, quando dalle mani di artisti eletti passò in quelle di mediocri; ma negli ultimi anni del sec. XIX e nei primi del XX ebbero un felice cambiamento, sia nei motivi variati, sia nell'esecuzione affidata ad artisti scelti e specialmente preparati.

Poi venne la guerra mondiale, che turbò le più salde economie e capovolse addirittura i valori. La monetazione del periodo bellico porge materia di studio al numismatico, ma più ancora agli economisti, pochi dei quali previdero che le conseguenze del cataclisma finanziario, oltre ai fenomeni constatati durante e immediatamente dopo la guerra, si sarebbero manifestate con maggiore violenza parecchi anni dopo, attaccando valute giudicate invulnerabili, quali il dollaro e la sterlina, che sole, con alcune poche monete di stati neutrali, erano sfuggite al tracollo. Non è il caso di riassumere in poche linee vicende complesse che stanno ancora maturando e delle quali non si può prevedere l'esito. Certo, fin da ora, si può ritenere l'abbandono di ogni sistema bimetallico e l'adozione della sola base aurea. Le cosiddette stabilizzazioni delle monete di conto deprezzate, ossia, in altri termini, la riduzione dell'intrinseco contenuto in quelle effettive ad esse corrispondenti, sono finora avvenute riferendosi soltanto all'oro. Il pezzo da 100 lire o franchi dell'Unione latina pesava g. 32,258; ora invece in Italia per la legge 21 dicembre 1927-VII, pesa g. 7,919 e in Francia per la legge 25 giugno 1928, g. 6,55. L'argento rimane in uso per le monete minori sussidiarie senza avere valore nei rapporti internazionali. Ma la crisi è ancora in corso di svolgimento e non certo dalla sola moneta può aspettare la soluzione; il campo dei traffici è troppo vasto e la moneta effettiva rappresenta appena una minima frazione della massa ingente degli scambî, perché possa realmente sanarne i mali come alcuni mostrano di credere. Alla moneta non si può domandare più di quello che essa è e può dare: la misura del valore; l'altro elemento più importante assai è la fiducia e questa può dipendere soltanto in piccola parte dalla moneta, in quanto cioè sia misura veramente esatta e non alterata.

Le monete delle nazioni principali. - Italia. - Soldi e tremissi d'oro, silique d'argento, follari e frazioni di bronzo dei Goti, dei Bizantini e dei Longobardi segnano il primo periodo storico della moneta che possiamo dire barbarico. Questo dura più a lungo nell'Italia meridionale, dove anche i Longobardi adottano le forme bizantine, le quali prevalgono nei ducati greci e si ripetono anche sotto i Normanni. Della riforma carolingia abbiamo i denari e gli oboli imperiali con qualche loro più notevole variazione e assistiamo, per l'accennato frazionamento del diritto monetale, al fiorire delle zecche vescovili, comunali e delle signorie, alcune delle quali daranno origine alle più cospicue e durevoli serie della monetazione italiana; da ricordare fra tutte quella della Casa di Savoia, che, ininterrotta nei secoli, si riannoderà al nuovo regno d'Italia. Senza seguire però nel loro sviluppo le singole serie ci contenteremo di vederne esempî sporadici dei periodi successivi. A poca distanza dal denaro appare il grosso o meglio i grossi, perché a seconda della misura su cui si crearono, essi sono da uno o più soldi. Contemporaneamente, si può dire, col grosso rientra l'oro nella circolazione. Anche di questo periodo si hanno manifestazioni più tarde nel meridionale, a eccezione dell'oro che vi appare anche prima coi dīnār arabi e le loro imitazioni. Esso si chiude con la comparsa della lira che diventa moneta effettiva verso la metà del sec. XV e prende il nome di testone, perché porta la testa del sovrano, come la portano i quarti di ducato che assumono lo stesso nome. Questi sono i precursori veramente artistici della moneta moderna, che si affermerà col moltiplicarsi delle specie auree e delle grosse monete d'argento destinate ad avere valore uguale a quelle d'oro e anche con le monete di rame per le írazioni minime, senza contare le innumerevoli di mistura che vanno a prendere il posto di quelle d'argento. Ma di tutte queste varietà presso che infinite abbiamo soltanto una visione saltuaria, dove troviamo pure qualche esempio delle imitazioni e contraffazioni e delle monete coniate per i possedimenti e anche per il commercio col Levante. Altrettanto breve e saltuaria la visione delle monete del sec. XIX e di quelle contemporanee che sono conosciute da tutti. Di queste ultime i due pezzi da lire cento con l'indicazione del loro peso segnano la variazione subita dalla lira come moneta di conto rispetto all'oro nel periodo postbellico.

Penisola Iberica. - Alle prime monete di tipo bizantino dei Visigoti succedono quelle degli Arabi, che imitano anch'essi le bizantine per adottare poi forme e tipi proprî. I varî regni cristiani in cui si divise la penisola, si servirono del sistema argenteo carolingio coniando denari e grossi, senza abbandonare però la moneta aurea ereditata dagli Arabi, che cercarono d'imitare e trasformarono poi in tipi originali. Il tempo della maggiore prosperità della Spagna, riunita in un regno solo sotto Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia, s'inizia con la bella moneta d'oro excelente de la Granada, corrispondente al doppio ducato d'oro. Non è possibile tenere dietro alle numerose variazioni della moneta spagnola nel corso dei secoli dell'epoca moderna, accresciute dalle specie coniate per i vasti possedimenti di oltremare, dai quali ritraeva abbondantemente i metalli preziosi che la resero per un certo tempo arbitra dei mercati europei. Di queste vediamo un solo esempio come uno solo della monetazione del sec. XIX quando riformò il proprio sistema uniformandolo a quello dell'Unione latina, senza però farne parte.

Francia. - I Merovingi fanno monete di puro stile e sistema bizantino, alle quali, attraverso all'innumerevole produzione senza legge dei monetieri, succede il sistema unitario a base argentea dei Carolingi, che viene alla sua volta quasi sopraffatto dalle zecche numerose dei feudatarî ecclesiastici e civili. Di queste, che continuarono la loro attività anche sotto la dinastia dei Capetingi, finché vennero assorbite dal regno che si formava e afforzava rapidamente, abbiamo qualche raro esempio. Vediamo anche i tipi dei due denari: il parisis e il tornese, che si divisero per lungo tempo il dominio del mercato francese e anche straniero con un rapporto di 5 a 4 fra le due specie. Luigi IX il Santo coniò per primo il grosso tornese di poco posteriore a quello veneziano e che, come questo, ripete l'origine dalle crociate ed ebbe larga diffusione e fu imitato in molti luoghi. Lo stesso sovrano coniò anche il denaro d'oro, che, con la penetrazione e le imitazioni del fiorino, segnò quel terzo periodo storico che si chiude con la comparsa del testone, avvenuta sotto Luigi XII. Merita di essere veduto il prototipo dello scudo d'oro del sole, che ebbe poi tanta fortuna nella circolazione universale, al quale succederà più tardi il luigi d'oro, altra moneta fortunata. Sorvolando con un solo esempio sulle monete coloniali, arriviamo alla moderna monetazione metrico-decimale che, introdotta in Francia durante la repubblica, ebbe per massimo propagatore l'impero napoleonico e dura tuttora: ci limitiamo a vederne uno degli ultimi e artisticamente migliori esempî di anteguerra.

Inghilterra. - I primi re dei sette regni (Eptarchia) in cui gli Anglosassoni divisero il territorio dell'Inghilterra abbandonato dalle legioni romane, usarono il denaro d'argento, derivazione del denarius dei romani che essi chiamavano sceatta. Monete simili coniarono i vescovi e le altre autorità ecclesiastiche che esercitavano anche il diritto di moneta nei loro possedimenti. Sistema monometallico a base argentea, meno qualche rara imitazione dei dīnār d'oro arabi, al quale lentamente per necessità subentrò quello bimetallico. Enrico III (1216-1272) fu il primo sovrano inglese a coniare una moneta d'oro equivalente a 20 pennies o sterlini, ma fu tale l'opposizione a questa novità che non poté entrare nella circolazione. Con Edoardo III invece entrarono nella monetazione britannica il grosso e il fiorino d'oro; questo da allora venne sempre coniato regolarmente con variazioni di peso e di taglio, per mantenerlo in corrispondenza con la valuta d'argento, della quale apparvero più tardi i grossi pezzi, corone, che caratterizzano il periodo moderno. Molte le monete coniate per i possedimenti coloniali di cui noi vediamo un solo esempio di origine privata, come con un esempio solo additiamo anche la monetazione moderna a base aurea che dura tuttora con la doppia sterlina o sovrana di Giorgio V.

Paesi Bassi. - Ad alcune monete del sistema argenteo carolingio subentrò il bimetallico del quale, oltre a un ricordo della dominazione spagnola, abbiamo le caratteristiche monete delle Provincie Unite e cioè il tallero detto d'Olanda, imitato e contraffatto anche da qualche signorotto italiano, e il ducato o fiorino detto anche ongaro, che pure ebbe largo corso e numerose imitazioni. Una piccola moneta di rame ci ricorda la Compagnia delle Indie Orientali, e un'altra di nichel il sistema metrico decimale adottato dal regno del Belgio, che fece parte dell'Unione monetaria latina.

Svizzera. - Vi sono esempî delle monete vescovili e cantonali che arieggiano prototipi tedeschi, francesi e italiani fino a una modesta moneta frazionaria moderna che ricorda l'adozione del sistema metrico decimale e la conseguente adesione all'Unione monetaria latina.

Germania, Austria, Boemia e Ungheria. - Il campo è di una vastità che richiederebbe trattazione e documentazione grafica troppo ampia. I primi abitanti delle regioni germaniche, alcune delle quali fanno ora parte della Francia, dei Paesi Bassi e della Svizzera, ebbero, come vedemmo, un loro sistema monometallico argenteo derivato dal denaro romano dentellato o serrato, che essi chiamarono saiga (sega). Questo sistema prevalse nella Gran Bretagna e nella Francia per le intense migrazioni di popoli d'origine germanica (Anglosassoni e Franchi). I popoli rimasti nel territorio germanico conservarono questo sistema comune ed ebbero per conseguenza una sola unità di moneta fino al sec. XII, in cui la parte più orientale adottò la moneta bratteata. La corona imperiale, passata sul capo dei sovrani di stirpe tedesca, non riuscì a mantenere questa unità per le concessioni ai feudatarî ecclesiastici e laici, le quali furono, si può dire, innumerevoli e diedero origine a una tale varietà di tipi e di officine, che diventa impossibile anche soltanto enumerarle in un breve articolo. Si pensi che alle volte e non di rado nella stessa località c'era più di una zecca, cioè quella locale o del feudatario o del comune, e quella imperiale. Qui basti avervi accennato. Tutte però risentirono più o meno sollecitamente e intensamente i cambiamenti di forme e di sistemi che si venivano introducendo per le necessità dei traffici. Quindi anche nella Germania il grosso d'argento viene coniato sotto Enrico VII (1308-1313) e la moneta d'oro nella forma moderna del ducato ricompare con Ludovico il Bavaro (1314-1347). In questa parte d'Europa, come abbiamo già veduto, si ebbero i primi esempî delle grosse monete d'argento, dovute all'abbondanza del metallo bianco prodotto dalle miniere tedesche, che serviva ai principi che le possedevano per fare concorrenza all'oro con pezzi che avevano valore di corso uguale a questo. Sebbene l'impero esercitasse una certa influenza moderatrice, gli stati tedeschi non andarono esenti dai disordini monetarî dovuti all'inflazione, ossia all'abbondanza del numerario di valore scadente. Frequenti variazioni e non meno frequenti regolazioni, che il più delle volte restavano lettera morta senza diminuire gl'inconvenienti della doppia circolazione. Negli ultimi tempi, dopo la bufera napoleonica, che lasciò poche tracce numismatiche in Germania, i varî stati cercarono di uniformare le loro monete a un tipo comune, finché, con la costituzione del nuovo impero germanico, il bimetallismo fu abbandonato e si venne al sistema monometallico a base aurea, che però non riuscì a salvare la Germania dalle disastrose conseguenze della guerra mondiale. Dopo questo cenno sommario si comprende la povertà della dimostrazione iconografica nella quale figurano pochi dei numerosissimi tipi dei varî stati: essa però serve a dare un'idea del cammino percorso e delle forme più caratteristiche assunte in essi dalla moneta.

Scandinavia. - La moneta appare nei tre regni della penisola scandinava contemporaneamente all'introduzione del cristianesimo, semplice imitazione dei denari o pennies inglesi, modificata poi da qualche influenza bizantina e dall'introduzione di simboli nazionali e dell'alfabeto runico. Le prime monete conosciute sono quelle di Sven Tveskaeg re di Danimarca (985-1014), di Haakon Jarl re di Norvegia (989-996) e di Olof Skotkonung re di Svezia (995-1021), tutte di tipo anglosassone; il sistema era comune: il marco (g. 216) era diviso in 8 öre e 24 örtug e se ne tagliavano 240 denari o pening. Per il noto fenomeno dell'aumento di valore dell'argento, il denaro diminuì gradatamente di peso fino a ridursi a una lamina sottilissima con molta lega con una impronta sola che si ripeteva sulle due facce (bratteate), senza leggende (tipo muto) e, per un certo periodo, fu questa l'unica moneta circolante. Si comprende benissimo come sia difficile distinguere le monete coniate dai sovrani da quelle dei vescovi e delle abbazie, che anche qui avevano ed esercitavano il diritto della moneta. Nel sec. XIII si torna alle monete con doppia impronta e con leggenda e in Svezia si ha il denaro bianco (örtug), che equivale in certa maniera al grosso delle monetazioni latine. L'oro viene introdotto da Cristiano I d'Oldenburgo re di Danimarca e Norvegia (1448-1481) col noble di tipo inglese, al quale fece seguito il fiorino d'oro, sesto del noble con la regolazione fatta da Cristiano II (1513-1523), il quale fece anche il fiorino d'argento, grossa moneta di valore uguale a quello d'oro. Fu più tarda la Svezia nel produrre monete d'oro e talleri e mezzi talleri d'argento, mentre invece emise enormi quantità di monete di rame per valorizzare i prodotti delle miniere locali. Ricordiamo le platmint, grandi lastre di rame contromarcate che rappresentavano il valore di corso del metallo che vi si conteneva: se ne conoscono di pesi diversi che vanno da 160 grammi a 20 chilogrammi. Abbiamo accennato alle disastrose conseguenze di queste emissioni. Sorvolando sulle variazioni subite dalla monetazione dei tre stati veniamo alla convenzione del 1872, con la quale essi adottarono il sistema monometallico a base aurea e a misura metrica decimale: unità monetaria la corona d'oro, peso del pezzo da 20 corone g. 8,9606; l'argento circola come merce e viene accettato nei pagamenti solo per 20 corone.

Polonia, Russia e regni minori degli Slavi meridionali. - Anche qui ci troviamo di fronte a tante varietà e mutazioni di regimi e di sovrani che diventa presso che impossibile riassumerne in poche righe la storia monetaria. Le prime monete polacche sono quelle di Miecislao I (964-992), rozze imitazioni dei denari carolingi con qualche introduzione di elementi anglosassoni e bizantini che continuano a coniarsi in quantità limitate fino a Casimiro il Grande (1333-1370), che emise il grosso d'argento o mezzo kwartnig. Sigismondo I regolò definitivamente la monetazione introducendovi l'oro e le grosse monete d'argento.

In Russia le prime monete sono quelle del principato di Kiev col nome di Vladimiro I (998-1015); sono esse d'oro e d'argento di evidente imitazione bizantina con un tipo speciale al rovescio che è soggetto a varie interpretazioni. Prima di arrivare alla moneta del grande impero russo che compare relativamente assai tardi, si hanno quelle delle città libere come Novgorod e dei varî principati e ducati in cui si divideva il territorio: stato di Pskov, granducati di Tver′, di Rjazan′, di Moscovia, ecc. Quest'ultimo si rannoda all'impero perché il granduca Ivan IV divenne il primo zar (1547), ma la circolazione monetaria lasciò molto a desiderare e si ebbero gravi crisi finché Pietro il Grande (1689-1725) mise un termine al disordine adottando eome unità monetaria il rublo che dal valore di due talleri venne ridotto a uno. Pochi esempî ci ricordano queste vicende, come due sole monete stanno a ricordare i vecchi regni di Bulgaria e di Serbia.

Tre monete ci ricordano gli effimeri principati creati dalle crociate nell'Oriente Latino e una serve a far vedere come i musulmani imitavano o contraffacevano le monete dei cristiani.

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Il diritto monetario dall'antichità ai giorni nostri.

Nell'antichità, come nei tempi moderni, il diritto di batter moneta e di disciplinare la circolazione monetaria è considerato come un attributo esclusivo della sovranità. Perciò le vicende del diritto monetario sono sempre strettamente legate con quelle della sovranità. Presso i Greci, le città che avevano raggiunto non solo l'autarchia, ma tutti i diritti dello stato sovrano, coniavano tutte o facevano coniare le monete col proprio nome, accompagnato talvolta da quello del magistrato che presiedeva alla monetazione, e che aggiungeva così la sua garanzia personale a quella ufficiale dello stato. A proposito di ciò si afferma da molti storici della moneta che, nei primi tempi, l'impronta dello stato sulle monete ch'esso faceva coniare non rappresentasse una garanzia del loro peso. È dubbio però che in questi casi si possa parlare di una vera moneta; nonostante l'impronta dello stato, l'oro, l'argento o le varie leghe circolavano piuttosto come una semplice merce di cui si dovevano determinare, di volta in volta, il peso e il valore.

Nella grande varietà delle monete cittadine l'egemonia di Atene tentò di introdurre una maggiore unità imponendo la propria moneta alle città soggette; ma il tentativo non riuscì che in parte, e la moneta attica non diventò mai la moneta comune a tutta la Grecia, come lo fu più tardi quella romana. Negli stati invece che erano retti a forma monarchica, come in Macedonia, circolavano soltanto le monete coniate in nome del re, e non se ne trova alcuna che porti il nome di una città. Come sola eccezione, Filippo concesse alla città da lui fondata e che portava il suo nome, il diritto di emettere una moneta autonoma, mentre lo tolse a tutte le città greche che egli aveva conquistato. Nei grandi imperi, come la Persia, per il carattere stesso della costituzione, che ha qualche cosa di feudale, il principio generale subì molte deroghe: accanto alla moneta ufficiale dello stato, si riconobbe ad alcune città il diritto di conservare le proprie monete, e si concesse anche ai satrapi il diritto di battere moneta col proprio nome. Lo stesso sistema viene, press'a poco, continuato da Alessandro Magno e dai suoi successori: la moneta regia era ormai la moneta di tutto l'impero, ma le autorità municipali delle città, dov'essa veniva coniata, le davano una particolare garanzia locale, imprimendovi il nome o il simbolo della loro città; mentre altre città, che, assoggettandosi all'impero, avevano conservato le loro franchige, potevano includere fra queste anche la zecca autonoma, e si stipulavano anche delle particolari convenzioni monetarie fra gruppi di città soggette allo stesso re. Quando Roma iniziò la conquista d'Italia essa non poté imporre a città molto più progredite la sua rozza moneta di rame e dové valersi della zecca di Capua per la coniazione di monete d'argento che potessero circolare nel Mezzogiorno, e tollerò perciò che molte delle vecchie zecche cittadine continuassero la loro attività autonoma. Ma pochi decennî più tardi, verso la metà del sec. III a. C., sebbene non sia rimasta notizia di un provvedimento legislativo che sancisse il monopolio della monetazione, le zecche meridionali si chiusero una dopo l'altra. Non sembra però che di questo monopolio di fatto, e forse anche di diritto, la repubblica si sia valsa per imporre alle città soggette l'accettazione delle monete al loro valore nominale, ritraendo, come farà più tardi l'impero, un sensibile vantaggio finanziario dalle frequenti riduzioni dell'intrinseco. Quando poi Roma estese le sue conquiste fuori d'Italia, essa non lasciò alle città conquistate che diritto di battere monete divisionali di bronzo, e fece un'eccezione soltanto per alcune città, che si trovavano in una situazione economica particolarmente importante, come Atene, Tiro, Sidone, concedendo ad esse di seguitare a coniare anche monete di argento; la stessa concessione venne estesa, eccezionalmente e per breve tempo, anche a qualche provincia, come la Macedonia. La sovranità esclusiva sulla moneta, che già si era decisamente affermata negli ultimi tempi della repubblica, si consolidò anche più ai tempi dell'impero, sia per ciò che riguarda l'emissione, sia per la disciplina della circolazione; e se ad alcune città di prim'ordine, come Alessandria, Antiochia, Cesarea, Efeso e Tarso, si concesse ancora il diritto di coniare monete, non solo di bronzo, ma anche di argento, questo privilegio non, infirma l'esclusività del diritto imperiale, perché anche quelle monete dovevano portare il nome e l'effige dell'imperatore regnante.

Nel Medioevo l'unità e il monopolio statale della monetazione, che si mantennero inalterate nell'impero d'Oriente, subirono invece nell'Occidente le stesse vicende a cui fu sottoposta l'autorità dello stato. La tradizione romana sopravvisse per più di tre secoli negli stati barbarici, nei quali, dopo qualche deviazione, determinata dall'indebolimento del potere centrale, la piena sovranità venne riaffermata, per l'Italia longobarda, da Rotari e anche più decisamente da Liutprando, che limitò la coniazione alle sole zecche riconosciute e autorizzate, secondo un rigido regolamento e con tipi prescritti. Per i paesi d'oltralpe e poi per la stessa Italia longobarda i diritti sovrani dello stato, non solo per ciò che riguarda l'emissione, ma anche la determinazione del valore delle monete, trovarono una sanzione anche più esplicita da parte di Carlomagno, il quale impose che tutte le monete, anche se fossero coniate da principi vassalli, portassero il nome del re e dovessero essere accettate al loro valore nominale in tutti i paesi soggetti. Ma pochi decennî dopo la morte di Carlomagno s'inizia quel movimento di disgregazione dell'autorità statale, che trova appunto nel moltiplicarsi delle zecche locali una delle sue espressioni più tipiche. Fra le varie regalie che formano oggetto delle carte d'immunità concesse a chiese, monasteri, signori e finalmente alle città, quella della moneta è l'ultima di cui il sovrano si decida a spogliarsi; e in questa rinuncia alla piü gelosa delle sue prerogative esso procede per gradi. In un primo tempo esso concede bensì a qualcuno dei suoi fedeli il diritto di batter moneta; ma la concessione si limita al vantaggio fiscale che può derivare dalla zecca, mentre le monete seguitano a essere coniate in nome del re o dell'imperatore, con le norme e i tipi prescritti da questo per tutto lo stato. In un secondo tempo invece le concessioni, che si moltiplicano dopo il Mille, assumono un'ampiezza molto maggiore e riconoscono il diritto ai poteri locali di battere moneta propria, fuori da ogni controllo e da ogni norma uniforme. Anche dopo queste concessioni larghissime il principio della sovranità monetaria è però formalmente salvaguardato, perché il diritto di batter moneta è subordinato a una particolare licenza dell'autorità statale, e le monete dei concessionarî non possono circolare, a valore legale, che entro il territorio sottoposto alla loro giurisdizione, mentre le monete del sovrano devono, o almeno dovrebbero, circolare liberamente entro tutto lo stato. Ma nella realtà, in quei paesi in cui le autonomie locali si rafforzano in modo da assumere, in tutto o in parte, il carattere di stati sovrani, anche quelle ultime sopravvivenze finiscono per scomparire: molte volte principi territoriali e città maggiori si arrogano il diritto di battere moneta propria senza chiedere alcuna licenza, ed escludono dal proprio territorio le monete del sovrano non meno di quelle delle varie zecche locali.

Poiché la moltiplicazione eccessiva delle zecche autonome e la pretesa delle singole signorie locali o delle singole città di trarne un vantaggio fiscale, imponendo alle monete un valore legale molto superiore all'intrinseco, opporrebbero un ostacolo intollerabile al commercio interregionale ed internazionale, si arriva al punto che il male stesso suggerisce il rimedio: per le necessità del commercio internazionale si creano, in alcune grandi città mercantili, e più tardi in alcuni stati, delle monete che possano essere accettate dovunque in pagamento per la bontà e la costanza del titolo e del peso; oppure si diffonde il sistema di accettare le altre monete, non per il loro valore nominale, ma per il loro valore di mercato in rapporto alle monete più pregiate, in modo che il diritto di fissare arbitrariamente il valore delle monete, secondo il cosiddetto principio nominalistico o, per dirla con Tommaso d'Aquino, del valor impositus, limita la sua efficacia - e non mai in maniera completa - alla sola circolazione interna.

In tal modo, fin dal sec. XIII, le necessità del commercio impongono, anche in quei paesi dove il frazionamento della sovranità aveva raggiunto il livello più alto, il riconoscimento di una o di alcune monete che si spingano molto al di là dei limiti dei singoli staterelli. È questo appunto il caso dell'Italia e della Germania, dove il fiorino di Firenze o di Colonia, i ducati di Venezia o di Genova acquistano il carattere di monete universali a cui si ragguagliano le monete locali. Nello stesso tempo, a mano a mano che il potere di un signore o di una città si estende a tutta una regione, egli afferma su questa la sua sovranità monetaria in modo che, seppure non sopprime le vecchie monete locali, ne disciplina la coniazione e la circolazione, limitandola ai soli bisogni del piccolo commercio interno delle rispettive città, e imponendo per tutto il resto la propria moneta come moneta di tutto lo stato territoliale.

Ma in misura assai più decisiva questa tendenza all'unità e alla riaffermazione dell'esclusiva sovranità dello stato in materia monetaria si manifesta in quei paesi dove lo stato non aveva mai abdicato totalmente di fronte ai poteri locali e dov'esso riacquista a poco a poco, tra il secolo XIII e il XVII, tutti gli attributi della sovranità. Tale in prima linea è il caso dell'Inghilterra, dove la corona aveva sempre mantenuto gelosamente questa sua prerogativa; tale poco dopo quello dei regni di Aragona, di Castiglia, del Portogallo, degli stati scandinavi, e finalmente della Francia. Ancora una volta cioè la storia del diritto monetario ritorna ad essere la manifestazione più evidente della piena sovranità riacquistata dallo stato unitario. Canone dello stato moderno è quello di eliminare ogni particolarismo, ogni residuo di autonomia in materia monetaria e di sostituirvi il più rigido ed esclusivo controllo statale: monopolio che, non solo nella coniazione, quanto e più nella determinazione ed imposizione del valore legale della moneta, è suggerito dapprima da bisogni fiscali, ma finisce poi per ispirarsi in primissima linea alle necessità della circolazione.

Bibl.: G. Salvioli, Moneta (Diritto monetario), in Enciclopedia giuridica italiana; A. Luschin von Ebengreuth, Allgemeine Münzkunde und Geldgeschichte des Mittelalters und der neueren Zeit, 2ª ed., Monaco 1926; A. Segrè, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1928; T. Ascarelli, La moneta, considerazioi di diritto privato, Padova 1928.

Per il diritto monetario nella vigente legislazione italiana v. monopolio. Per la falsificazione delle monete, v. falsificazione (da un punto di vista storico e tecnico) e falso (per la repressione esercitata dalla legge contro i falsi monetarî).

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