Monetarismo

Dizionario di Economia e Finanza (2012)

monetarismo

Giuseppe Marotta

Scuola di pensiero in macroeconomia, associata soprattutto ai lavori di M. Friedman (➔), A. Schwartz, K. Brunner e A.H. Meltzer negli anni 1960 e primi anni 1970, e interpretata come alternativa all’approccio di matrice keynesiana, associata ai nomi di F. Modigliani (➔) e J. Tobin (➔).

Le tesi di Friedman e dei suoi seguaci

Le principali tesi di Friedman e della sua scuola sono le seguenti. In primo luogo, la moneta è neutrale nel lungo periodo (➔ moneta, neutralità della), ma non nel breve, quando si manifestano effetti temporanei su prodotto e occupazione di misure di politica monetaria, a causa del lento aggiustamento, con rigidità verso il basso, nella formazione dei prezzi. Per es., l’adeguamento lento dei prezzi fa sì che variazioni nei tassi d’interesse (➔ p) nominali decisi dalla banca centrale possano modificare i tassi reali, al netto dell’inflazione (➔ p). Ancora, nel lungo periodo la curva di Phillips (➔ Phillips, curva di) è verticale, ovvero la politica monetaria non può sfruttare l’alternativa (➔ trade-off) tra due obiettivi come tasso di disoccupazione (➔ disoccupazione, tasso di) e di inflazione per cambiare il reddito di equilibrio, che dipende solo dalle condizioni del mercato dei fattori produttivi e dalla tecnologia. Di conseguenza, l’inflazione, considerando sia il suo livello sia la sua variabilità, e dunque l’incertezza che ne deriva, genera significative perdite di benessere. Operatori economici razionali distinguono, nel prendere le loro decisioni, tra tassi previsti d’interesse nominali e reali, ovvero aggiustati per l’inflazione attesa. L’inflazione, secondo Friedman, è un fenomeno prevalentemente monetario. L’andamento del livello generale dei prezzi può variare solo in relazione a quello dell’offerta di moneta, se si accetta, nell’approccio monetarista, la validità della teoria quantitativa della moneta  e la stabilità della domanda di moneta, nel senso che i parametri numerici che la legano a poche variabili economiche, stimati con metodi statistici, non variano nel tempo. Una politica monetaria ottimale deve seguire una regola di crescita, bassa e stabile nel tempo di un qualche aggregato monetario ampio (➔ M1,M2,M3; moneta p), coerentemente con gli obiettivi di soddisfare la domanda di moneta per finanziare le transazioni reali e di un tasso d’inflazione basso e stabile (secondo Friedman, una crescita della moneta tra il 3 e il 5% annuo, data una crescita normale del prodotto, sarebbe compatibile con un’inflazione positiva ma bassa).

Dal vecchio al nuovo monetarismo

L’influenza del m. declinò dalla fine degli anni 1970, soprattutto perché con le innovazioni finanziarie, che si diffusero da quel periodo, la domanda di moneta si rivelava instabile e, sul piano metodologico, l’approccio delle aspettative razionali rimpiazzava quello, tipico di Friedman, fondato su argomentazioni di equilibrio parziale e generalizzazioni empiriche. Alcune delle proposizioni del m. confluirono comunque nello schema interpretativo più diffuso in macroeconomia: distinzione tra variabili monetarie e reali (➔ neoclassica, economia) neutralità della moneta nel lungo periodo ma non nel breve, curva di Phillips inclinata positivamente nel breve termine e verticale nel lungo, maggiore rilevanza della politica monetaria rispetto a quella fiscale ai fini della stabilizzazione dell’economia nel breve periodo, preferibilità di un’inflazione bassa e stabile. L’attenzione agli aggregati monetari come obiettivo intermedio per le banche centrali è venuta invece meno, a favore dei tassi d’interesse, a eccezione che nel caso della UEM (➔). Uno dei due pilastri per l’analisi e per le scelte sui tassi d’interesse è, infatti, costituito dalla cosiddetta analisi monetaria, che si concentra sull’andamento degli aggregati monetari in relazione a un obiettivo di crescita normale della moneta nella definizione M3. È da notare, tuttavia, che l’importanza di questo pilastro, mutuato dall’esperienza della Deutsche Bundesbank (➔), si è ridotta nel tempo.

Il cosiddetto nuovo m., la cui nascita risale alla fine degli anni 1970, si distingue da quello precedente per l’enfasi pressoché esclusiva sui meccanismi sottostanti il funzionamento di un’economia monetaria e sulle caratteristiche fiscali del sistema economico, che possono influenzare gli effetti della politica monetaria. Un esempio riguardo all’ultimo aspetto è costituito dalla cosiddetta ‘spiacevole aritmetica monetarista’ (1981) di T.J. Sargent (➔) e N. Wallace, secondo la quale un debito pubblico troppo alto, e dunque a rischio di inadempienza, dati gli avanzi primari di finanza pubblica attesi, condiziona la credibilità di una politica monetaria sul controllo dell’inflazione, perché, appunto, vi è l’incentivo per una crescita dei prezzi come modo per ridurre in termini reali il debito pubblico. L’aspetto che più caratterizza il nuovo m. è però quello di concentrarsi sulle funzioni di mezzo di scambio e di pagamento finale della moneta per ridurre gli ostacoli agli scambi tra i soggetti economici. Le tematiche più analizzate sono dunque quelle dell’intermediazione bancaria e finanziaria, del sistema dei pagamenti (➔ sistemi di pagamento), della creazione di liquidità (➔) da parte delle banche e dei potenziali canali di propagazione di instabilità finanziaria (➔ stabilità finanziaria; stabilità monetaria), date le caratteristiche dei contratti finanziari.

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