MONTAGGIO

Enciclopedia del Cinema (2004)

Montaggio

Pietro Montani

Con il termine montaggio si intende in genere l'operazione tecnica che consiste nel selezionare e combinare segmenti più o meno estesi di pellicola impressionata secondo diversi criteri di scelta e concatenazione. Sotto questo profilo il m. è anzitutto un processo di articolazione e ricomposizione del materiale audiovisivo effettuato attraverso tagli e giunture, la cui funzione primaria è quella di organizzare il flusso delle immagini in un testo dotato di partizioni riconoscibili. La discontinuità introdotta dal m., infatti, fa in modo che il flusso delle immagini assuma un prevalente tenore 'discorsivo' e che lo spettatore vi possa discernere i segni delle articolazioni (tagli e giunture, appunto) che gli forniscono una strutturazione testuale, e in primo luogo narrativa. Il m., così, coopera potentemente all'organizzazione di quell'attività, verosimilmente cooriginaria all'esperienza umana del tempo, che consiste nel 'seguire una storia'. Questo modo di intendere il m., tuttavia, solleva numerose difficoltà. Come giudicare, per es., un film costituito da un unico piano-sequenza come Russkij kovčeg (2002; Arca russa) di Aleksandr Sokurov? Si tratta di un film 'non-montato' oppure il m. vi compare in una forma diversa e non riconducibile al modello dell'articolazione materiale? In che conto bisogna tenere, inoltre, la percettibilità dei tagli e dei passaggi? Il cosiddetto découpage hollywoodiano, di cui si è approfonditamente occupato André Bazin, mi-rava a renderli quanto più possibile inavvertiti, fino a creare l'impressione che il racconto, per così dire, si facesse da solo. Per contro, il cinema delle origini, soprattutto nel decennio che precede l'invenzione del sonoro, ha spesso affidato alla percettibilità del m. le sue significazioni fondamentali. Il m., infine, e a evidenza, non ha solo la funzione di guidare lo spettatore nell'attività del 'seguire una storia' ma si carica di numerose altre funzioni nelle quali la correlazione tra immagini interrompe o commenta o dirotta l'ordine narrativo, quando non lo revoca addirittura in dubbio o non mira a sovvertirlo, come accade in molto cinema 'moderno', da Orson Welles a Jean-Luc Godard, da Andrej A. Tarkovskij a David Lynch. Queste difficoltà inducono a deporre la considerazione tecnico-materiale da cui si sono qui prese le mosse e ad affrontare il problema in termini al tempo stesso più formali e più flessibili. Da questo punto di vista, allora, ci si potrà riferire al m. come a un principio compositivo molto generale che, in quanto tale, risulta applicabile a diversi materiali espressivi, ma assume nel cinema un particolare rilievo che una buona teoria dovrebbe essere in grado di spiegare.

Quest'ultima tesi va ricondotta all'opera di Sergej M. Ejzenštejn, di certo l'autore che al m. ha dedicato le osservazioni teoriche più profonde e chiarificanti. Resta il fatto, tutt'altro che secondario, che le origini storiche del m. sono strettamente connesse con le caratteristiche materiali del mezzo cinematografico e con le sue peculiari modalità di ricezione. In realtà, fu proprio in rapporto a un'emergenza tecnica e a un'esigenza concreta (la capienza limitata di un caricatore) che il m. cinematografico si dimostrò capace di trasformare in una formidabile risorsa espressiva un procedimento imposto da necessità materiali patrocinando l'invenzione di figure compositive largamente originali, non solo sul piano dell'organizzazione spaziale e della configurazione temporale dell'immagine, ma anche sul piano della progettazione delle risposte percettive e interpretative in carico allo spettatore. Le notevoli soluzioni narrative escogitate da David W. Griffith all'inizio del 20° sec. e da Lev V. Kulešov un decennio più tardi ‒ per limitarsi ai nomi dei due principali pionieri dell'arte del m. ‒ sono indissociabili da questo sfondo tecnico-materiale. In entrambi c'è la scoperta che l'immagine cinematografica può essere scomposta e ricomposta e che la correlazione tra immagini non corrisponde mai alla loro mera somma; ma in entrambi, soprattutto, c'è la scoperta che nel cinema la comprensione di ogni singola immagine dipende dalla successione di quelle che la precedono e che il flusso così stabilito finisce per organizzare la stessa percezione dello spettatore coincidendo in larga misura con la sua coscienza e i suoi processi interpretativi. È rimasto celebre, sotto questo profilo, l'esperimento che va in genere sotto il nome di 'effetto Kulešov': alla medesima inquadratura di un volto caratterizzato dalla mancanza di un'espressione definita vengono sistematicamente attribuiti significati espressivi molto precisi e molto diversi in ragione dell'inquadratura che la precede. Così in quel volto lo spettatore riconoscerà a colpo sicuro un'espressione di dolore o di fame a seconda che il m. l'abbia correlato con l'immagine di un funerale o con quella di una tavola imbandita. Kulešov comprese che non c'era nulla di 'psicologico' in questa attribuzione di senso, la quale infatti si fonda su un processo immaginativo del tutto necessario, ossia sulla relazione che l'immagine attuale stabilisce in via di principio con la traccia mnestica della precedente (negli anni Trenta Walter Benjamin sarebbe tornato su questo aspetto tecnico del cinema, sottolineandone l'importanza decisiva per un'estetica della riproducibilità). In realtà, se è vero che in assenza di tracce ritenzionali la percezione e la medesima coscienza non disporrebbero di alcuna continuità e noi, semplicemente, non potremmo orientarci nel mondo, è anche vero che questa continuità si fonda su una più originaria discontinuità e che il m. cinematografico non fa altro che materializzare, grazie a un procedimento te-cnico, un tratto strutturale della nostra immaginazione per ricavarne effetti di senso.

La questione del m., in definitiva, mette in gioco un notevole numero di problemi che eccedono di gran lunga l'ambito circoscritto del cinema, anche se il cinema sembra avere la facoltà di farli emergere con particolare rilievo e di ricondurli, sistematicamente, al difficile rapporto tra arte e tecnica. È su questo insieme di problemi, dunque, che bisognerà soffermarsi per affrontare in tutta la sua ampiezza il tema del m. cinematografico. In particolare: se la tecnica del cinema è in grado di orientare in modo così vistoso i processi interpretativi traendo uno specifico vantaggio dalla sua capacità di esibire un dispositivo essenziale dell'immaginazione e della coscienza, che cosa ci si dovrebbe aspettare dall'arte del cinema? Questa domanda costituisce uno dei fili conduttori della fondamentale riflessione sul m. sviluppata da Ejzenštejn. Il terreno della sua elaborazione prende le mosse da una teoria generale del m. e solo in seconda battuta si indirizza a una teoria del m. cinematografico. Soltanto a queste condizioni, infatti, Ejzenštejn riteneva che fosse possibile evidenziare le peculiari potenzialità del m. cinematografico, e in particolare di quello audiovisivo.

Una teoria generale del montaggio

Il rapporto tra arte e tecnica è per più versi centrale nella teoria del m. di Ejzenštejn. È proprio il m., infatti, a garantire un uso creativo del procedimento tecnico che costituisce il fondamento materiale del cinema. Il paradigma ejzenštejniano, da questo punto di vista, è tanto semplice quanto efficace: l'arte può cominciare solo là dove la relazione riproduttiva e fotografica venga destituita a vantaggio di un processo costruttivo che trova nel m. la sua forma canonica. Ejzenštejn introduce, a questo proposito, un'importante distinzione di livelli: egli definisce "rappresentazione" (izobraženie) la semplice riproduzione dell'esistente, e "immagine" (obraz) ciò che risulta dalla sua scomposizione e ricomposizione. Per intendere meglio la questione si può far riferimento a uno degli innumerevoli esempi addotti da Ejzenštejn: vi sono infinite possibili rappresentazioni di una barricata, ma una buona immagine di una barricata sarà quella che restituisce sul piano della configurazione sensibile qualcosa di fondamentale del suo contenuto ideale. Per ottenere questo risultato, però, è necessario decostruire il dato rappresentativo e rimontarlo in modo nuovo. Per es.: in una barricata l'insegna di una panetteria, che di solito si trova in alto, starà in basso e rovesciata. La rappresentazione, in tal modo, ha incorporato il senso di un rivolgimento nell'ordine abituale delle cose e lo esibisce, lo fa vedere, ce ne fa fare esperienza: per questo è un'immagine. Grazie a un processo di decostruzione e ricomposizione, dunque, la mera datità dell'esistente si è convertita in una configurazione ricca di senso. Il nucleo generativo del m. cinematografico è già tutto in questo procedimento che corrisponde ‒ sia pure secondo una peculiare estetica della processualità ‒ al classico concetto di composizione.

Questo semplicissimo esempio richiede alcuni commenti. In primo luogo Ejzenštejn si mantiene intenzionalmente sul piano della più grande generalità. L'esempio, infatti, può essere illustrato da un disegno (come accade nelle pagine di Montaž 37; trad. it. in Teoria generale del montaggio, 1985), ma potrebbe avvalersi di un fotogramma o di una descrizione verbale. Ciò significa che l'operazione costruttiva che converte una rappresentazione in un'immagine è in prima battuta indipendente dai materiali espressivi su cui si esercita. È rilevante, tuttavia, che Ejzenštejn abbia scelto un disegno. In che senso, infatti, si è ancora autorizzati a utilizzare il concetto di m. di fronte a una rappresentazione grafica? La risposta è che quella rappresentazione porta i segni del processo che l'ha generata e che l'occhio dell'osservatore, perlustrandola via via secondo il percorso che la composizione gli suggerisce, non si limita a identificarla ma vi riconosce i passaggi essenziali di quel processo (nella fattispecie: la posizione dell'insegna) realizzandone infine la natura di immagine. Da questo punto di vista, allora, si dovrà ancora osservare che l'immagine è tale in quanto coordina un elemento narrativo (l'insegna divelta dalla sua sede naturale e adibita a un uso imprevisto) con un elemento concettuale o riflessivo (il sovvertimento dell'ordine). Oppure, in termini ancora più generali, si dirà che un'immagine è sempre qualcosa di intimamente duplice, in quanto è sempre il m. di almeno due elementi.

Nella sua semplicità, l'esempio di Ejzenštejn è molto istruttivo. Esso consente di dire che uno smontaggio e un rimontaggio sussistono anche nelle forme espressive non temporali (come il disegno o la pittura), di estendere senza difficoltà questo tratto alla composizione dell'inquadratura e di concludere che un'articolazione per discontinuità ‒ e dunque una forma peculiare di m. ‒ è operante anche all'interno di un flusso privo di tagli materiali (come nel caso, fatto all'inizio, di un film materialmente 'non montato'). A questo punto si dovrà solo aggiungere che nelle forme temporali (come la letteratura e il cinema) il processo può aspirare a una maggiore efficacia. Si tocca qui un tema cui Ejzenštejn annetteva la più grande importanza. Come si deve intendere, infatti, questa "maggiore efficacia"? La risposta di Ejzenštejn è che le forme temporali hanno la proprietà di orientare la ricezione sul processo stesso che converte la rappresentazione in immagine. La scrittura letteraria e quella cinematografica, cioè, possono introdurre il lettore e lo spettatore all'interno di un processo formativo in atto e coinvolgerli totalmente in questa formatività. La letteratura si è spinta molto avanti in questo genere di esperienza comunicativa, e il romanzo joyciano, secondo Ejzenštejn, segna il punto più avanzato della ricerca. Con J. Joyce, tuttavia, la forma letteraria avrebbe toccato i suoi confini, ed è precisamente al di là di questi che si aprirebbe il territorio autonomo del cinema. Il cinema come arte, infatti, può rivolgersi a modalità molto più complesse di m., prima fra tutte la forma audiovisiva. L'articolato rapporto tra tecnica e arte torna dunque in primo piano ponendo la questione capitale del racconto cinematografico e delle sue peculiari e non generalizzabili potenzialità.

Ma se la teoria generale di Ejzenštejn autorizza a estendere la forma-montaggio a tutte le arti, che cosa, precisamente, caratterizzerebbe il m. cinematografico? L'originale risposta di Ejzenštejn è la seguente: il cinema può coinvolgere nell'insieme delle operazioni che convertono il dato rappresentativo in immagine significante la più grande eterogeneità di piani espressivi. Il m. cinematografico, dunque, non è una combinatoria sequenziale di elementi visivi (come troppo spesso si è creduto, e come Ejzenštejn rimproverava a Kulešov, Vsevolod I. Pudovkin e Dziga Vertov). È più radicalmente e profondamente, un grande lavoro di scomposizione e ricomposizione di molti piani. In altre parole: il m. cinematografico (e quello audiovisivo in particolare) porta al pieno dispiegamento un principio che nelle altre arti può valersi solo di risorse limitate. Infatti, nessun'altra forma artistica può com-porre (alla lettera: mettere insieme) un quoziente così alto di dati sensibili come fa il cinema, nessun'altra forma può far lavorare l'immaginazione dello spettatore su registri altrettanto molteplici. Lungi dal limitarsi al registro visivo, il cinema può coinvolgere nell'azione che trasforma il dato sensibile in un elemento ricco di senso l'intero apparato immaginativo dello spettatore, facendolo lavorare su qualunque stimolo.

Un ultimo aspetto dev'essere adeguatamente posto in risalto. Si è parlato fin qui della conversione della rappresentazione in immagine (cioè del m. nella sua più ampia e indeterminata latitudine) come di un processo formativo, aggiungendo che il suo pregio è quello di marcare un passaggio dal dato al senso. Ma che cosa significa, propriamente, questo passaggio? La risposta di Ejzenštejn è che si tratta di un'esperienza nel corso della quale il dato percettivo si coordina con molti concetti (e si pensi, di nuovo, all'esempio della barricata in cui l'istanza narrativa si avvale intimamente di un momento concettuale e riflessivo). Ora, se si pone attenzione al fatto che una tale coordinazione del sensibile con l'ideale è precisamente il lavoro che caratterizza l'immaginazione, si potrà concluderne che il m. non è altro, per Ejzenštejn, che immaginazione al lavoro e che il tratto distintivo del cinema consiste precisamente nella sua incomparabile capacità di coinvolgere in questo processo l'intera estensione del sensibile, nella sua piena eterogeneità e senza porsi preclusioni di sorta o ricorrere a gerarchie precostituite.

Quando, nel suo primo testo teorico di rilievo ‒ che risale al 1923 ed è ancora riferito al teatro ‒, Ejzenštejn parlava di un Montaž attrakcionov (trad. it. Il montaggio delle attrazioni, in Il montaggio, 1986, pp. 219-25), sostenendo che vi si dovessero coinvolgere senza alcuna esclusione tutti gli elementi del teatro, dal testo drammatico fino al "colore della calzamaglia della primadonna", l'ampia concezione del m. che si è qui appena esposta era già formulata nel suo nucleo essenziale: il m. non risponde solo a un'esigenza di articolazione del materiale drammaturgico o narrativo, risponde anche alla volontà di garantire la più estesa e pervasiva coordinazione di stimoli sensibili e processi di pensiero. Esso è innanzitutto un analogo dell'immaginazione al lavoro, e solo in seconda battuta (ma l'esperienza cinematografica avrebbe rafforzato questa deriva) il dispositivo principale di un'immaginazione narrativa, una tecnica orien-tata verso l'invenzione di forme complesse di racconto.

I vantaggi della teoria generale del m. di Ejzenštejn sono evidenti. In primo luogo, essa fornisce un quadro unitario di grande perspicuità sul cui sfondo il m. cinematografico assume rilievo innanzitutto per la sua capacità di far lavorare, nella simultaneità e nella successione, molti piani espressivi. In secondo luogo, e conseguentemente, essa offre una via d'accesso privilegiata per affrontare la questione del racconto cinematografico e delle sue risorse specifiche, che consistono nell'integrare in via di principio l'istanza narrativa con un parallelo dispiegamento di processi concettuali, cognitivi e riflessivi. In terzo luogo, infine, questa teoria si dimostra in grado di inserire coerentemente l'innovazione tecnica nel suo paradigma di base: l'innovazione, infatti (e si pensi ai casi canonici del sonoro e del colore), non sarà da intendere come un semplice perfezionamento della fedeltà riproduttiva del cinema bensì come un'occasione per estendere la materia espressiva coinvolta nel grande gioco costruttivo del montaggio. Il progresso tecnico, in altri termini, sarà fin dall'inizio assunto sul piano dell'immagine e in nessun caso su quello della rappresentazione. Ma se l'immagine, come si è detto, è qualcosa di intimamente duplice, questo significa che dall'innovazione tecnica ci si dovrà aspettare la capacità di far lavorare tale duplicità orientandola verso soluzioni creative sempre più complesse (in conclusione si tornerà su questo punto accennando ad alcuni problemi generati dall'immagine elettronica e dalle tecnologie digitali).

Una 'storia' del montaggio? ‒ Prima di lasciare la teoria generale del m. di Ejzenštejn è opportuno riferire in breve sulla storiografia specifica cui essa è collegata. Ejzenštejn, che scrive nel 1937, distingue tre fasi nell'evoluzione del montaggio. Nella prima, che riguarda la nascita del cinema, il m. si organizza essenzialmente all'interno dell'inquadratura fissa e corrisponde al profilo compositivo offerto alla perlustrazione di uno sguardo, proprio come accade in pittura. Nella seconda prevale, fino all'ipertrofia, la discontinuità: qui l'immagine sorge dal confronto e dalla comparazione tra diverse inquadrature. Questa fase coincide con le grandi scoperte effettuate da Griffith e da Kulešov, cui si è già accennato, e con gli anni di straordinaria creatività nei quali il cinema, ancora muto, cominciava a scoprire sé stesso come una grande macchina narrativa. La terza fase, infine, è inaugurata dall'introduzione del sonoro in cui si registra un salto di qualità perché il m. audiovisivo, per Ejzenštejn, non ha soltanto l'effetto di 'negare' (in senso dialettico) la fase precedente, ripristinando forme particolari di continuità, ma ha anche la capacità di portare allo scoperto le radici più profonde della forma-montaggio in generale.Interessa qui richiamare l'attenzione sulla logica 'dialettica' (di esplicita ascendenza hegeliana) che guida Ejzenštejn nel determinare i criteri di intelligibilità della sua partizione storica. Se la distinzione ha un senso, infatti, la ragione è che essa ritrova la continuità (terza fase) dopo un passaggio attraverso la discontinuità (seconda fase) che l'aveva negata. Sia ben chiaro: il m. è in via di principio dominio della discontinuità, e dunque le definizioni di Ejzenštejn in questo caso vanno intese in senso materiale. Il discontinuo, in altri termini, non potrebbe mai venir meno; è vero, piuttosto, che esso evolve, per Ejzenštejn, verso forme sempre più fini (come un "tessuto a trama fitta") e sempre meno materialmente percettibili. Il m. breve, sotto questo profilo, è solo una necessaria fase di passaggio: essa prelude a un'altrettanto necessaria riconquista della continuità che l'innovazione tecnica del sonoro, se correttamente interpretata, è in grado di sottrarre al rischio di una pura e semplice regressione alla fase iniziale, con esiziale rafforzamento delle capacità illusionistiche del cinema. Da questo punto di vista l'immagine (nel senso ampio) del cinema sonoro potrà aspirare a una maggiore fluidità del piano visivo, affidando al sonoro il compito di introdurvi un elemento "contrappuntistico" che la salvaguardi da ogni scadimento naturalistico e riproduttivo. Al di là delle numerose esposizioni teoriche di questo principio (tra le quali si dovranno almeno ricordare i tre saggi raccolti nel 1940 sotto il titolo di Vertikal′nyj montaž; trad. it. Montaggio verticale, in Il montaggio, 1992², pp. 129-216), nella seconda parte di Ivan Groznyj, terminata nel 1946 ma presentata solo nel 1958 (La congiura dei boiardi), e in particolare nella mirabile scena a colori che la conclude, Ejzenštejn avrebbe dato ampia dimostrazione di questa nuova modalità del montaggio.Ci si può chiedere se lo sviluppo delle tecniche di m. abbia dato o meno ragione alla tesi storiografica di Ejzenštejn. La risposta dev'essere in larga misura positiva. Da un lato, infatti, ed è Bazin ad aver colto le direttrici fondamentali del processo con insuperata lucidità, l'istanza della continuità si è effettivamente fatta valere nel découpage hollywoodiano con la radicale diminuzione degli stacchi e l'invenzione di procedure di raccordo volte a renderli impercettibili (ma senza, per questo, privarli della loro decisiva incidenza sul piano dell'articolazione narrativa; la quale è penetrata così profondamente nella comune competenza spettatoriale che se è vero che è possibile ormai seguire un film senza porre particolare attenzione agli stacchi di m., un'opera che invece ne fosse del tutto priva colpisce immediatamente arrivando perfino a creare un senso di disorientamento). Dall'altro ‒ e per Bazin ciò segna la nascita del cosiddetto cinema moderno (v. modernità) ‒ il m. è rifluito all'interno dell'inquadratura (profondità di campo) e del movimento di macchina (piano-sequenza) introducendovi una nuova qualità del discontinuo essenzialmente in linea con le previsioni di Ejzenštejn. Ciò che forse non è stato colto nelle sue grandi potenzialità è proprio il concetto radicale dell'audiovisivo, vale a dire il dialogo e il confronto ininterrotto che il piano ottico può stabilire con il piano sonoro in vista di particolari effetti costruttivi.

Le sorti del m. in realtà sono legate alla tensione esistente tra la vocazione narrativa del cinema e la sua altrettanto forte capacità di contrastarla e di decostruirla. Ed è certo che il cinema moderno, qualunque cosa si debba intendere con questa definizione, ha spesso giocato la carta del m. in vista di un'elaborazione del tempo cinematografico che si oppone alla concezione 'classica' dello sviluppo di una storia. Da questo punto di vista resta essenziale il contributo offerto da Gilles Deleuze in L'image-mouvement (1983) e soprattutto in L'image-temps (1985). C'è da chiedersi, però, se queste forme di contrasto dell'ordine narrativo non possano essere ricomprese in una concezione, al tempo stesso più ampia e più specifica, del narrativo stesso.Le risorse narrative del montaggio. ‒ Tra le molte direttrici che il cinema avrebbe potuto prendere, quella narrativa si è dimostrata, storicamente, di gran lunga dominante. Il rapporto di questo aspetto essenziale del cinema con il m. dev'essere affrontato ora nel modo più adeguato. Anche prendendo le distanze, ove necessario, dalle posizioni teoriche e dalla poetica di Ejzenštejn da cui fin qui ci si è lasciati guidare.

Bisogna riconsiderare una distinzione già segnalata. Il m., si è detto, assolve al compito di guidare lo spettatore nell'attività di 'seguire una storia'. Tuttavia, si è aggiunto, tra le sue funzioni c'è anche quella di incrementare il grado di complessità di questa operazione o addirittura di rimetterla a vario titolo in questione. Vincent Amiel in un ampio studio sul m. (2001), ha proposto una tesi suggestiva: queste due funzioni, egli sostiene, risponderebbero a una logica molto diversa e tale da indurre a far ricorso a due distinte definizioni. Nel primo caso infatti il m. risponderebbe a una logica del découpage, vale a dire a un tipo di scansione volto all'ordinamento progressivo delle azioni, nel secondo a una logica del collage, vale a dire a un tipo di scansione la cui coerenza eccede il narrativo riposando su criteri da determinare di volta in volta. Nel primo caso, quello del découpage, lo scopo del m. consisterebbe nel patrocinare il pieno abbandono dello spettatore allo sviluppo dell'azione; nel secondo, invece, si dischiuderebbe un campo di significazioni al cui flusso non basta più abbandonarsi, orientandosi la ricezione su un'"estetica del frammento" che contrasta con il criterio della composizione narrativa e gioca piuttosto sugli effetti di senso tipici del collage, nei quali il discontinuo prevale sul continuo. Amiel ritiene che sia opportuno parlare di m. in senso stretto solo per questo secondo tipo di articolazione del flusso audiovisivo e propone di interpretare la vicenda specifica del m. cinematografico come un percorso che evolve oscillando tra queste due polarità e iscrivendovi diversi possibili modi di integrazione o di dialogo. Si tratta di una tesi persuasiva e chiarificante, che si può adottare con questa sola, decisiva precisazione (peraltro prospettata dallo stesso Amiel, sia pure in modo non tematico): che ciò che evolve nel campo definito dalle due polarità indicate è proprio il modo peculiare in cui il cinema ha saputo far propria l'esigenza di dare forma narrativa all'esperienza. Per cui, in definitiva, la conclusione di Amiel, secondo cui "la forza e la complessità di molti film 'moderni' risiede proprio nel confronto tra queste due forme, coesistenti, di m.: quella che organizza il flusso [narrativo] e quella che gli resiste" (p. 80), può e dev'essere generalizzata. Non solo, infatti, non è in nessun modo necessario aspettare il cinema moderno per cogliere la pertinenza di un tale confronto, ma il confronto stesso si radica in modo costitutivo nella concezione del m. cinematografico qui esposta riferendosi alle tesi fondamentali di Ejzenštejn. E in particolare a quella, che è stata sviluppata con una certa libertà, secondo cui se il m. è 'immaginazione al lavoro' allora in questo 'lavoro' non può non trovar posto un confronto tra l'ordine del narrativo e ciò che gli oppone resistenza interrompendolo e introducendovi zone autonome di riflessione, se non di pura e semplice visionarietà. Ciò spiega, tra l'altro, un fenomeno fortemente caratteristico del cinema: vale a dire che questo confronto tra il raccontabile e ciò che non lo è assuma esso stesso movenze narrative, arrivando a presentarsi, con una frequenza e una sistematicità meritevoli di attenzione, come uno dei temi privilegiati della narrazione cinematografica. In altri termini: ciò che una corrente teorica e storiografica accreditata tende a spiegare nei termini di una poetica dell'autoriflessività tipica del cinema moderno dev'essere più adeguatamente ripensato come un modo d'essere costitutivo dell'immagine cinematografica e della sua attitudine ad articolare la configurazione narrativa dell'esperienza. Su questo piano il m. assume un nuovo rilievo che si lascia solo in parte delineare nel quadro della teoria generale di Ejzenštejn, per cui, senza abbandonarla, deve essere integrata con un nuovo apporto. Con questo ulteriore passo si procurerà una via d'accesso al problema delle nuove tecnologie digitali e numeriche. Un problema ancora sostanzialmente aperto non tanto perché il m. elettronico introdurrebbe sistemi di elaborazione originali (il che è senz'altro vero, ma per nulla determinante), quanto perché l'immagine di sintesi si trova nelle condizioni di poter prescindere del tutto dalla base riproduttiva e fotografica del cinema.Nella teoria generale del m. di Ejzenštejn l'aspetto riproduttivo del cinema riveste un interesse assai esiguo. L'immagine, infatti, prende forma solo là dove il nesso riproduttivo venga decostruito a vantaggio di una ricostruzione significante. Una limpida formulazione usata per definire i compiti del m. audiovisivo nel primo dei tre grandi saggi di Vertikal′nyj montaž, per es., suona così: "L'arte comincia propriamente solo a partire dal momento in cui l'associazione tra il suono e la rappresentazione visiva non è più semplicemente registrata secondo il rapporto esistente in natura, ma è istituita secondo il rapporto richiesto dai compiti espressivi dell'opera" (trad. it. 1992², p. 137). Il limite di questa posizione consiste nell'identificare senz'altro il tratto riproduttivo del cinema con lo stile e la poetica del naturalismo. Eppure Ejzenštejn aveva sotto gli occhi i testi (visivi e programmatici) di una teoria del m. rilevante almeno quanto la sua, nella quale il momento riproduttivo del cinema, la sua capacità di cogliere la realtà delle cose e di farla parlare, avevano assunto una direzione del tutto incongruente con qualsiasi intento banalmente naturalistico o documentario. Ci si riferisce qui alla concezione del cinema di m. fatta valere da Vertov soprattutto nella seconda metà degli anni Venti e da lui denominata Kinoglaz, "cineocchio", occhio meccanico. Sarebbe un grave errore lasciarsi sfuggire il senso autentico dell'elogio della tecnica così caratteristico dei testi dedicati da Vertov al Kinoglaz confondendolo con un'ingenua apologia della civiltà delle macchine orientata, per così dire, a sinistra. È proprio la teoria vertoviana del m., del resto, a impedire questa confusione. L'occhio meccanico, infatti, non è contrapposto all'occhio umano perché vede di più e meglio. Lo è proprio per la discontinuità radicale (ossia per il m.) che esso può introdurre nel flusso delle immagini riprodotte e, in modo del tutto particolare e meritevole della massima attenzione, per il fatto che questa discontinuità porta allo scoperto un tratto capitale che appartiene, sia pure inavvertitamente, al medesimo occhio umano e 'naturale' e anzi lo qualifica strutturalmente. Vale a dire il suo carattere intimamente sdoppiato: il suo essere al tempo stesso soggetto e oggetto di visione, occhio che vede e occhio che è visto. L'istanza della discontinuità ‒ o dell'"intervallo" nella terminologia di Vertov ‒ viene così a insediarsi all'interno dello sguardo e del suo rapporto con il mondo. Egli fu il primo a capire che l'occhio del cinema poteva dar forma, grazie al m., a questo costitutivo raddoppiamento della visione in cosa vista e atto del vedere, a questo prodursi dello sguardo dall'interno di un mondo visibile di cui esso stesso fa parte.

Vertov non trasse tutte le conseguenze di questa sua notevolissima intuizione. Non sul piano teorico, almeno, perché invece i suoi film ce le restituiscono in modo sistematico, mostrandoci la straordinaria quantità di effetti costruttivi generata dallo statuto duplice dell'immagine. E in primo luogo il dialogo ininterrotto che l'oggetto della visione ‒ la 'realtà' delle cose, impressionata sulla pellicola ‒ stabilisce con l'attività che consiste nel ritagliarla e nel coordinarla con altri frammenti. Quando Vertov, grazie al m., demoltiplica la presunta unità dell'immagine mostrando prima il volto di un bambino che ride e poi quello stesso volto impresso su pellicola, egli non fa che orientare la visione dello spettatore nello spazio intermedio, nell'intervallo che si è sempre già aperto all'interno dell'immagine e che dell'immagine stessa rivela uno dei tratti più intimi e sorprendenti. Ed è evidente, infine, che in questa complessità strutturale dello sguardo si rendono disponibili risorse costruttive che sono della più grande importanza per la destinazione narrativa del m. cinematografico, anche se Vertov non si risolse mai a praticarle restando fedele alla sua poetica delle 'cose stesse', contraria alla fiction in via di principio.È un fatto, però, che la fiction del cinema lavora anche e prevalentemente con le 'cose stesse' e che solo un approccio al m. come quello di Vertov può fornirne la più perspicua chiarificazione. Solo l'impostazione di Vertov, in altri termini, può dar conto, senza incorrere in incredibili fraintendimenti, dell'importanza che nel cinema assume l'irriducibilità del reale riprodotto, la relativa indominabilità che la flagranza delle cose oppone alle operazioni strutturanti che mirano a introdurla in un ordinato sistema di significazioni. Senza questa resistenza, senza gli infiniti negoziati con cui l'immagine la rileva, la patisce e alla fine la accoglie, il cinema non sarebbe quello che è, e lo stesso m. cinematografico disperderebbe una delle sue proprietà salienti: quella di coordinare la forma con ciò che alla forma ostinatamente si sottrae trattenendosi in una condizione residuale (Roland Barthes parlava, a questo proposito, di un "senso ottuso"). Tutte le volte che il cinema lascia che nel testo faccia irruzione l'irriducibile ‒ e questo accade assai più spesso che non si pensi, ben al di là delle poetiche tutt'altro che marginali che ne hanno fatto un elemento distintivo: per non citare solo i casi estremi e conclamati, come quelli di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet o di Daniele Ciprì e Franco Maresco, si pensi a molte opere di Abbas Kiarostami o di Wim Wenders o di Lars Von Trier ‒ la concezione vertoviana del m. mostra la sua eccezionale produttività. Più precisamente, essa denuncia la sua specifica vitalità narrativa, visto che il cinema ha saputo cogliere con gesto sicuro le grandi potenzialità che la natura duplice dell'immagine tiene costantemente in riserva ai fini di una configurazione complessa del racconto.

Da questo punto di vista, ma è un punto di vista tutt'altro che irrilevante, il problema principale posto dalle nuove tecnologie dell'immagine è da vedere nel rischio, del tutto concreto, che il m. debba rinunciare alla funzione costruttiva appena descritta senza saper trovare il modo di sostituirla. L'immagine di sintesi, infatti, è tecnicamente dominabile da cima a fondo e non lascia alcun residuo. Non è certo un caso che dovunque questo modo di produzione dell'immagine si impone su quello riproduttivo si possa anche registrare un crollo della complessità narrativa del testo cinematografico parallelo a un uso eminentemente sensazionalistico dell'immagine e del montaggio. Un cinema destinato però tutto e solo ai sensi verrebbe meno precisamente al principio che, con Ejzenštejn, è stato qui trovato nel nucleo di una teoria generale del m. cinematografico: la volontà di garantire la più estesa e pervasiva coordinazione di stimoli sensibili e processi di pensiero. Grazie a Vertov, si è in grado di dire che la natura riproduttiva del cinema offre a quella coordinazione un apporto inestimabile, orientando il m. a farsene strumento manifestativo e il racconto a trarne inesauribili materiali costruttivi. La conclusione, alquanto inquietante, che se ne deve trarre è che le nuove tecnologie stanno aprendo al m. cinematografico una provincia ignota: quella in cui il 'lavoro dell'immaginazione' può aspirare alla più completa autoreferenzialità, assumendo come oggetto una regione del sensibile integralmente simulacrale e totalmente dominata. C'è da chiedersi, tuttavia, se un tale 'lavoro dell'immaginazione' sia ancora assimilabile a quell''immaginazione al lavoro' in cui Ejzenštejn e anche Vertov vedevano il senso essenziale del m. cinematografico. Se così fosse, ciò che precedentemente è stato definito come il difficile rapporto tra arte e tecnica, attribuendo al m. la capacità di farlo apparire secondo un disegno particolarmente perspicuo, si starebbe orientando verso una risoluzione a vantaggio della tecnica intesa come dominio pieno degli aspetti sensibili, e a svantaggio dell'arte, intesa come interminabile sperimentazione delle modalità con cui il sensibile si coordina con il pensiero. Senza voler negare la possibilità di questa deriva, per la verità annunciata da innumerevoli segnali, in conclusione si tenterà di disegnare uno scenario alternativo prendendo in esame in modo più tematico di quanto non sia stato fatto fino a questo momento la questione del m. audiovisivo.

Il montaggio audiovisivo e i problemi dell'immagine elettronica

Per raccogliere in una formula solo apparentemente paradossale l'intera portata del m. audiovisivo, si potrebbe dire che la prima manifestazione di questo modo di comporre è da individuare nella rappresentazione tragica, la quale, secondo la magistrale ricognizione di F.W. Nietzsche Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872), non è altro che un particolare montaggio di musica (il coro) e immagine (la scena). Il riferimento nietzschiano è autorizzato da Ejzenštejn, che nei suoi testi (raccolti in trad. it. in Teoria generale del montaggio, 1985) lo utilizza a più riprese pur senza citarlo direttamente. Ma interessa qui riproporlo per la sua capacità di gettare luce sulla struttura originaria dello spazio della rappresentazione, il quale, secondo Nietzsche, arriva a costituirsi pienamente solo in virtù di una relazione di scambio, di un nesso reversibile tra due elementi distinti. Per il filosofo, infatti, l'aspetto musicale della tragedia rimanda al dionisiaco, vale a dire alla perdita del principio di individuazione e all'impulso sensibile che lega oscuramente l'uomo alla sua origine animale, mentre l'aspetto immaginale rimanda all'apollineo, vale a dire alla regione della bella apparenza e delle forme definite nella quale ha il suo dominio l'impulso all'ordinamento intelligibile delle cose. Ma se è vero che la tragedia riesce a unificare i due elementi per cui, secondo le parole di Nietzsche, essa si presenta come "coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini" (trad. it. a cura di G. Colli, M. Montinari, 2003²², p. 61), se è vero cioè che in prima battuta lo spazio tragico è il luogo in cui l'irrappresentabile arriva in qualche modo a farsi mettere in immagine, è anche vero ‒ e anzi è il tratto distintivo essenziale della rappresentazione tragica ‒ che la relazione tra i due impulsi deve poter raggiungere la condizione di una piena reversibilità. Per cui, scrive ancora Nietzsche: "Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso". E aggiunge: "Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell'arte in genere" (p. 145). All'origine dell'arte del rappresentare, in definitiva, non c'è un elemento omogeneo (la parola, o l'immagine, o la musica), ma c'è una relazione tra elementi distinti: c'è un atto di montaggio.

Due conseguenze si possono trarre da questa notevole e troppo spesso semplificata posizione nietzschiana. La prima riguarda la posta in gioco, che è, come dice con chiarezza l'ultima citazione, la più alta: ne va infatti del fine supremo dell'arte in genere. Che cosa intendeva dire Nietzsche? Qualcosa che è già capitato di incontrare in questa ricostruzione del problema del m.: il compito dell'arte è quello di aprire il sensibile alla più ampia coordinazione con processi di pensiero. E questo significa che "Dioniso parla la lingua di Apollo". Ma pertiene a pari titolo all'arte che il sensibile vi dimostri un'inesauribile eccedenza rispetto al pensiero che esso provoca e sollecita. E questo significa che "Apollo parla la lingua di Dioniso". Tradotto in termini più concreti, il paradigma dell'audiovisivo, che fa il suo primo annuncio nella peculiare struttura dello spazio tragico, mette in luce un'inesauribile capacità di scambio reciproco tra gli aspetti sensuali e fusionali legati alla musica e gli aspetti intellettuali e individuanti legati all'immagine, e lo scambio è tale che di volta in volta l'uno può trapassare nell'altro e viceversa fino ad assumerne integralmente le funzioni. Riferito al cinema, ciò significa che l'immagine può caricarsi di valori musicali (per es. nel ritmo percettibile del m. o nella fluidità dei movimenti di macchina o anche nell'uso del colore) e la musica può caricarsi di valori rappresentazionali (per es. nelle forme del reperto documentario o nelle diverse modalità di una voce narrativa che guida l'immagine o anche nel silenzio), ma significa, soprattutto, che non sono tanto i singoli termini quanto, piuttosto, lo spazio della loro relazione a dischiudere un territorio espressivo di straordinaria ampiezza e ricchezza. Si comprende bene, così, come Ejzenštejn potesse attribuire al cinema audiovisivo la capacità di interpretare nel modo più appropriato l'idea del Gesamtkunstwerk, vale a dire dell'opera d'arte totale capace di assicurare un pieno coinvolgimento dello spettatore sia sul piano sensuale sia sul piano intellettuale.

Senza voler necessariamente sopportare il peso di un impegno tanto ambizioso, si vede con chiarezza ‒ e questa è la seconda conseguenza ‒ che l'audiovisivo così inteso introduce a un nuovo modo di intendere il m. il quale, a sua volta, apre una preziosa via d'accesso al fenomeno dell'innovazione tecnica. È evidente, per fare un solo esempio, che l'eccezionale duttilità delle tecnologie digitali si espone quasi necessariamente a un incremento del tenore musicale dell'immagine, consentendo spostamenti inediti del punto di ripresa e una fluidità che può aspirare al rifiuto di ogni articolazione percettibile. Ebbene, in questi casi accade che lo spazio audiovisivo tenda, altrettanto necessariamente, a rafforzare i valori rappresentazionali del sonoro, arrivando a trasformarli ‒ e il fenomeno è meritevole della più grande attenzione ‒ in veri e propri elementi di articolazione. È il caso di Russkij kovčeg ‒ cui si è fatto riferimento ‒ in cui la voce fuori campo si innesta, grazie al dialogo che essa intreccia con il personaggio principale, nel bel mezzo del flusso ininterrotto del visibile introducendovi un piano di articolazione che ha l'effetto di sottrarre almeno in parte l'immagine al rischio (o al desiderio) di patrocinare un abbandono totale dello spettatore alla musicalità della corrente visiva e dunque all'essenziale volatilità dell'immagine stessa. Del resto è questo il tema principale del film: cosa ne sarebbe dell'immagine se in essa non fosse depositata una memoria che dev'essere presa in carico da altre forme? L'utilità di questo modo di intendere lo spazio audiovisivo si può misurare non solo dalla sua capacità di render conto in termini di m. di numerosi film 'estremi' (un altro esempio potrebbe essere Blue, 1993, di Derek Jarman, il cui piano visivo è integralmente costituito da una superficie azzurra), ma anche dalla sua capacità di prospettare soluzioni persuasive ai problemi che le nuove tecnologie sollevano a proposito dello statuto dell'immagine. Il fortissimo rischio regressivo connesso con l'iperrealismo dell'immagine elettronica, il potere di fascinazione che questa esercita grazie alla capacità di assorbire totalmente lo spettatore, come in un videogioco, in un ambiente sensibile simulato si spiegano, infatti, con l'indebolimento o addirittura con l'eliminazione del rapporto che l'immagine intrattiene con l'altro da sé, e cioè, in definitiva, con la tendenziale rimozione del suo originario costituirsi nell'ambito di una relazione di montaggio. Ma le vie per ripristinare questa relazione sono ovviamente innumerevoli, e l'immagine elettronica non deve solo cercare quelle che si conformano più direttamente alla sua natura e alle sue grandi potenzialità. Da questo punto di vista si può forse azzardare la previsione che il cinema non riuscirà a rinunciare del tutto alla sua base riproduttiva e che il procedimento foto e fonografico è probabilmente destinato ad assumere un ruolo più esplicitamente costruttivo di quanto non sia accaduto fino a oggi. Ejzenštejn vedeva nella fluidità delle forme (nella "musica del paesaggio", per usare la sua significativa formulazione) l'avvenire del montaggio. Oggi che quella fluidità è non solo raggiunta ma straripante ci si dovrà probabilmente aspettare che il m. audiovisivo sia in grado di contrastarla recuperando in modo innovativo l'istanza decisiva della discontinuità e dello sdoppiamento.

Bibliografia

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