Lamberti, Mosca de'

Enciclopedia Dantesca (1970)

Lamberti, Mosca de'

Umberto Bosco

Uomo politico fiorentino, tra i più autorevoli della prima metà del sec. XIII, appartenente alla potente famiglia ghibellina di cui alla voce precedente. Appare nella Commedia tra i seminatori di scandalo e di scisma, nel suo caso propriamente di discordie (cerchio VIII, nona bolgia; If XXVIII 103-111).

Nacque probabilmente nel terzultimo o nel penultimo decennio del sec. XII: infatti nell'ottobre 1202 era già, insieme col padre Lamberto, tra gl'inviati del comune di Firenze per ricevere il giuramento di fedeltà di Montepulciano; nel 1203 era presente a un atto di cessione di alcuni territori fatta dai Senesi in favore di Firenze. Risale ai primi mesi del 1216 (corrispondenti ai mesi gennaio 1215-aprile 1216 secondo lo stile fiorentino) l'episodio per il quale Mosca appare nel citato episodio dell'Inferno. Avendo Buondelmonte dei Buondelmonti (v.) rotto l'impegno che aveva assunto di sposare una fanciulla della famiglia degli Amidei, la consorteria di cui questo faceva parte, insieme coi L., con gli Uberti e con altri, si riunì per decidere il da farsi. Racconta G. Villani (V 38): " E stando tra loro in consiglio in che modo dovessero offendere, o di batterlo o di ferirlo, il Mosca de' Lamberti disse la mala parola ‛ cosa fatta capo ha ', cioè che fosse morto: e così fu fatto ". Insomma, la consorteria seguì il consiglio di Mosca di rompere gl'indugi, di arrivare senz'altro al fatto compiuto e irreversibile: questo primo atto di violenza fu, secondo la tradizione di cui il Villani e D. stesso si fanno eco, all'origine della partizione di Firenze in guelfi e ghibellini: fu dunque un mal seme per la gente tosca. Negli anni seguenti, troviamo Mosca presente in atti importanti del comune; fu podestà di Viterbo nel 1220-21, di Todi nel 1227; condottiero dei ghibellini nella guerra contro Siena (1229-1235); nel 1234 fu uno dei tre consules militum al consiglio generale di Firenze. Nel 1242 podestà di Reggio, morì in questa città il 27 gennaio 1243.

In Pd XVI 136-147 D. torna diffusamente, per bocca di Cacciaguida, sull'uccisione di Buondelmonte e sulle sue nefaste conseguenze per Firenze: dal disdegno degli Amidei, per quanto giusto, nacque il fleto, il pianto dei Fiorentini, la fine del loro viver lieto: se Buondelmonte fosse annegato nell'Ema la prima volta che traversò quel fiume per venire a Firenze dalla Val di Greve (luogo di origine della famiglia, nel quale questa probabilmente conservava possessi), molti sarebber lieti che son tristi: ma Marte esigeva una vittima, e Buondelmonte fu ucciso ai piedi della sua statua mutila presso il Ponte Vecchio: quel Marte che, sdegnato perché i Fiorentini lo avevano come patrono sostituito con s. Giovanni Battista, sempre con l'arte sua... farà trista la città (If XIII 143-145). Siamo dunque a uno dei puncta dolentia del sentimento politico di D.: ci si potrebbe dunque aspettare che egli proiettasse una luce sinistra sull'uomo che era stato l'origine delle partizioni di Firenze, di cui egli stesso, D., era vittima.

Invece, nella rappresentazione di Mosca predomina la pietà e in certo senso persino la comprensione, anche se questi sentimenti, come avviene in altri casi, son tutt'uno con la severità del giudizio religioso. Riconoscere giusta una punizione non esclude che si possa aver pietà di chi la subisce, specie se si scorgono attenuanti al peccato, o addirittura si avverte che questo possa aver avuto motivazioni non ignobili. In punizione del funesto consiglio, a Mosca un diavolo mozza continuamente le mani, tutte e due: avea l'una e l'altra man mozza; il poeta insiste sulla crudeltà della mutilazione: per parlare a D. che lo guarda dall'alto del ponte che sovrasta la bolgia, e pregarlo di portare di sé novella nel mondo, Mosca non può sollevare che i moncherin: dalle ferite sempre rinnovate cola il sangue, sporcando, nell'aura fosca infernale, il viso sollevato del peccatore: levando i moncherin per l'aura fosca, / sì che 'l sangue facea la faccia sozza. Il gesto di Mosca è certo, come nota il Fubini (Lect. Scaligera I 1009), conforme all'intento narrativo dell'intero canto, nel quale D., come afferma all'inizio (v. 2), vuol dicer del sangue e de le piaghe, e chiama anche gli stessi dannati a metter le loro mutilazioni in evidenza, coi loro gesti e, si aggiunga, con le loro parole. Tuttavia, il seguito dell'episodio conferisce alla prima terzina di esso una particolare sfumatura affettiva che trascende l'impegno di descrizioni sanguinolente. Mosca rievoca il suo consiglio, se ne rammarica (lasso!: è uno dei pochi dannati che confessa il suo rimorso), sa bene che esso fu il mal seme per la città. Non solo per questa in generale, aggiunge D. replicando: fu, in particolare, seme di male per la sua stessa famiglia, che egli avea creduto di difendere insieme alle altre della consorteria: E io li aggiunsi: " E morte di tua schiatta ". Il dannato si allontana senza replicare, quasi fuori di sé per la pena: accumulando duol con duolo, / sen gio come persona trista e matta (il Tommaseo ricorda " mixto... insania luctu " di Aen. X 871): dove i due dolori, che pure sono variamente spiegati, non possono essere, per la coerenza del racconto, che quello per la partizione di Firenze e le sciagure che ne derivarono, e quello per la sorte della sua famiglia. I L., infatti, banditi e ribanditi, nella seconda metà del secolo scomparvero dalla storia di Firenze.

La severità di D. è, nell'episodio, compenetrata di pietà per diverse ragioni. Anzitutto, il disdegno degli Amidei e di Mosca era giusto. Qui il caso particolare va considerato in relazione all'atteggiamento di D. rispetto alla vendetta privata: non per nulla il tema sarà ripreso in altro disteso episodio all'inizio del canto seguente, quello di Geri del Bello (If XXIX 1-36). D. era probabilmente accusato dall'opinione pubblica o da parte di essa (e l'accusa fa propria Forese Donati nella Tenzone) di non aver vendicato un'offesa fatta a suo padre; nel canto XXIX Geri minaccia forte il suo consanguineo D. che, con gli altri parenti, non aveva ancora vendicata la violenta morte di lui; e il poeta comprende e accetta lo sdegno di Geri; anzi, il fatto che questi si porti dentro ‛ nell'Inferno ' il cruccio della mancata vendetta lo fa a lui più pio, aumenta la sua pietà verso di lui. D. dunque è diviso tra l'ossequio alla consuetudine della vendetta privata, rafforzata dal costume, consacrata dalle leggi, e una concezione più moderna e più alta del diritto. Nell'episodio di Mosca, quell'ossequio porta il poeta a essere indulgente verso il capo ghibellino, il quale aveva, sì, agito colpevolmente dal punto di vista religioso, ma in buona fede, credendo di agire secondo giustizia, di adempiere a un preciso dovere familiare e politico. Non prevedeva che il suo consiglio avesse così disastrose conseguenze; e del resto D. sa con s. Tommaso (Sum. theol. I II 20 5c) che " eventus sequens non facit actum malum qui erat bonus, nec bonum qui erat malus ". Costantino con la sua dote al papa (If XIX 116) aveva addirittura dato origine al potere temporale dei papi, cioè aveva originato il disordine fondamentale di tutta l'umanità; per cedere al pastor si era fatto greco (Pd XX 55-57), abbandonando la sua sede naturale e provvidenziale, Roma: ma la sua intenzion, pur se aveva fatto mal frutto, era stata buona: sì che D. non esita a collocarlo in Paradiso. D'altra parte, nell'episodio di Curio, immediatamente precedente e parallelo a questo di Mosca (If XXVIII 91-102), D. ci dà un exemplum uguale e contrario: le buone conseguenze (nientemeno che la fondazione dell'Impero romano), che produce il consiglio di Curio a Cesare di troncare gl'indugi e dare inizio alla guerra civile, non impediscono che egli sia dannato. Anzi, nella sua figura D. fa prevalere la nota della giustizia su quella della pietà umana: è giusto che abbia la lingua tagliata ne la strozza colui che parlando a Cesare era stato così ardito.

Ad attenuare umanamente, nel pensiero di D., la colpa di Mosca (che anche secondo Benvenuto, per evidente influsso dei testi danteschi, era, prescindendo dal consiglio, " vir prudens et probus "), concorrevano altri fattori. I L. erano stati essi stessi, per primi, vittime della discordia cittadina provocata dal consiglio di Mosca: terrenamente, lo avevano pagato. E poi, Mosca è uno di quei Fiorentini delle passate generazioni, del ‛ popolo vecchio ', così diversi dagli attuali, cui va costante l'ammirato ossequio di Dante. Questo ossequio fa sì che il poeta attribuisca a Mosca il rammarico per le conseguenze del suo consiglio: un rammarico che è autopunizione. Tra gli uomini del passato che a ben far avevano posto li 'ngegni, D. (in If VI 79-81) aveva esplicitamente collocato Mosca; e accanto a lui c'era Farinata. Ed è singolare che anche in questo passo tale lode per colui che aveva seminato il male e per l'altro capo che aveva colorata in rosso l'Arbia segue immediatamente le parole dolenti e sdegnose con cui Ciacco aveva stigmatizzato la discordia cittadina.

Del resto, la famiglia degli Uberti e quella dei L. sono in D. costantemente appaiate. Anche nella rievocazione che Cacciaguida fa dell'antica Firenze, esse sono accomunate nella lode e nel rammarico per la loro decadenza: Oh quali io vidi quei che son disfatti / per lor superbia [gli Uberti] ! e le palle de l'oro [i L. son designati con la figura del loro stemma] / fiorian Fiorenza in tutt'i suoi gran fatti (Pd XVI 109-111): dice dunque il poeta con raffinato artifizio stilistico che i L. (ma forse, di là dalla stretta sintassi, pensava anche agli Uberti nominati subito prima) contribuivano, anticamente, a quel fiorire della città in tutte le sue imprese, di cui il nome era stato misterioso presagio ed era vivente testimonianza. Ma soprattutto vicino a Farinata è Mosca nell'episodio di If XXVIII: non solo per il fatto che gli Uberti appartenevano alla medesima consorteria di Mosca e dunque erano stati con lui responsabili dell'uccisione di Buondelmonte, non solo per il ghibellinismo comune alle due famiglie (Gherardo de' L. fu nel 1260 stretto collaboratore di Farinata: v. voce prec.); ma per la somiglianza delle linee degli episodi che concernono i due capi ghibellini. È stato notato che il lasso! con cui Mosca sottolinea il ricordo del suo operato corrisponde al rammarico di Farinata di essere stato forse... troppo molesto alla sua nobil patria (If X 27). Firenze è al centro dell'anima dei due personaggi. Il Crescini (Lett. dant. 561) ha osservato le " botte e risposte, dogliose ed acri " del dialogo con Mosca " che riconducono il pensiero nostro alla scena tra il poeta e Farinata ". Ma soprattutto è da osservare (U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 176-196, spec. 194-195) che Farinata e Mosca hanno in comune il doppio duolo: il dubbio per l'uno, la certezza per l'altro, di essere stato troppo molesto alla città cara sopra ogni cosa; e il dolore per la sorte dei loro discendenti, sorte di dolore di cui essi stessi sono responsabili. La morte della sua schiatta fa ‛ tristo e matto ' l'uno; che i suoi abbiano male appresa l'arte di tornare in patria, tormenta l'altro più che il suo letto infocato (If X 77-78). È il dolore che D. esule soffre in sé e nei suoi figli, esuli con lui. Mosca è un piccolo Farinata senza la fermezza di questo: egli è schiacciato dal suo passato, che l'altro invece non sa rinnegare. La tristezza dell'uno e il tormento dell'altro prolungano nell'Inferno un medesimo problema morale, nell'ambito, insieme, della patria e della famiglia.

Bibl. - Per gli eventi: G. Villani, Cronica V 38; Davidsohn, Storia I 888, 949, 1018, II I 63, 69, 81, 93, 108-109, 241-242, 294, 381; II II 227; IV I 296; Toynbee, Dictionary, sub v.; P. Santini, Sui fiorentini " che fur sì degni ", in " Studi d. " VI (1923) 29-30. Documenti relativi a Mosca de' L. si trovano in P. Santini, Documenti dell'antica costituzione del Comune di Firenze, in Documenti di Storia Italiana, X 93, 132, 194, 195; R. Cardamone, Lettura intorno al XXVIII canto dell'Inferno di D., Torino 1899 (rec. in " Bull. " VIII [1900-1901] 257, a c. di F. Pintor); N. Zingarelli, Bertran de Born e la sua bolgia, in " Rivista d'Italia " XI (1908) 689-714 (rec. in " Bull. " XVIII [1911] 212-213, a c. di F. Maggini); Zingarelli, Dante I 66, 387, 912, 997, 1241.

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