FORMIGGINI, Mosè

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FORMIGGINI, Mosè

Giorgio Montecchi

Nacque a Modena il 21 maggio 1756 da Benedetto e Gioia Levi.

Fin dalla seconda metà del secolo XVII il commercio delle gioie, dell'oro e dell'argento lavorati era l'attività alla quale la famiglia Formiggini, una delle più ricche e più influenti nel ghetto ebraico di Modena, aveva affidato le proprie fortune. Inoltre il gruppo familiare dei Formiggini, che poteva contare anche su notevoli proprietà immobiliari, si era impegnato con profitto nel prestare denaro a interesse.

Nel 1763, alla morte di Laudadio Formiggini, la società per il commercio di gioie da lui fondata passò nelle mani dei figli Benedetto, Emanuele e Flaminio, e nel 1775, alla morte di Emanuele, divenne la Ditta Benedetto e Flaminio Formiggini: con questa denominazione rimase attiva fin verso la fine del secolo, anche dopo che il F. e i suoi fratelli, alla morte del padre (1776), ne presero il posto. Il 21 sett. 1791 Flaminio ritirò i propri capitali dalla ditta, e un mese più tardi, il 29 ottobre, il F. e i fratelli Salomone e Raffaele costituirono una nuova società per il commercio delle gioie col nome di Ditta Benedetto Formiggini e figli. Anche in questa nuova società, come in quella precedente, il F. ebbe la parte maggiore: il 60% del capitale di fronte al 22,86% andato a Salomone e al 17,14% toccato a Raffaele.

Infine, nell'ottobre del 1800, Raffaele ritirò la propria quota dalla ditta di cui rimasero unici proprietari gli altri due fratelli: il F. divenne così titolare della sede di Milano, capitale dell'Italia napoleonica, ormai centro dei suoi affari e della sua attività politica; Salomone invece continuò a gestire la ditta nella sede di Modena. Con questa configurazione la ditta continuò la sua lucrosa attività fino al 1809 quando, alla morte del F., passò interamente nelle mani dei suoi eredi; nel frattempo il viceré Eugenio Beauharnais aveva concesso (1807) al titolare della ditta, a conferma dei suoi meriti e dell'alta qualità del suo commercio, la qualifica di gioielliere della Corona del Regno d'Italia.

Questa società per il commercio delle gioie, una delle più attive del settore sia in età di antico regime sia, soprattutto, in età napoleonica, costituì dunque con la sua vitalità la base su cui il F. costruì - dopo l'arrivo dei Francesi a Modena nel 1796 - le proprie fortune sociali e politiche. Ma non solo su esse. Il possesso e la gestione di beni immobili e il prestito di denaro rimasero attività rilevanti.

Già sotto gli Estensi il F. era la personalità di maggior spicco all'interno del ghetto di Modena: erano state aperte a lui, come del resto già ai suoi antenati, le porte delle più influenti famiglie non solo del Ducato estense ma anche dei territori vicini; ottenne così privilegi, esenzioni e facilitazioni sommamente utili a chi, come lui, si dedicava a una attività di commercio che per sua stessa natura non poteva certo prosperare qualora fosse rimasta limitata agli angusti confini ducali. La consuetudine coi potenti gli permise insomma di alleviare, almeno in parte, il peso delle costrizioni e delle imposizioni alle quali egli, come tutti gli ebrei, era tenuto nella vita quotidiana e nei rapporti con i cristiani.

Quando nel 1796 entrarono in Modena i Francesi, al F., ormai quarantenne e nel pieno delle sue fortune economiche e finanziarie, si aprì la strada verso la carriera politica e verso quei riconoscimenti sociali ai quali sotto l'antico regime non poteva di certo aspirare. Aderì con convinzione al nuovo assetto istituzionale portato dal Bonaparte, e subito vi si impegnò personalmente sia in favore della comunità israelitica, ormai avviata - dopo l'abrogazione delle disposizioni del codice estense contro gli ebrei - verso la completa emancipazione, sia in favore della Comunità cittadina modenese di cui ormai sentiva di far parte a pieno titolo.

Eletto deputato al Congresso di Reggio Emilia della Repubblica Cispadana, che si tenne tra la fine del 1796 e l'inizio del 1797, una delle sue prime preoccupazioni fu quella di facilitare l'integrazione delle comunità ebraiche nella compagine napoleonica. Incontrò non poche difficoltà, poiché i pregiudizi dei suoi concittadini, anche di quelli favorevoli ai principî di fraternità e di eguaglianza, furono duri a cadere. Oltre a versare con i suoi correligionari pesanti contribuzioni in denaro per far fronte all'economia di guerra di quegli anni, il F. si vide costretto, nell'aprile del 1797, a rinunciare (si disse spontaneamente), alla nomina a elettore nei comizi decurionali per non offrire un ulteriore motivo di rancore ai cittadini che guardavano con timore all'emancipazione degli ebrei.

Proprio in quei giorni, per la prima volta e contro una consuetudine ormai inveterata, essi avevano ottenuto il diritto di uscire dal ghetto in occasione della settimana santa: ne erano seguite risse e tumulti sedati dalle truppe francesi, poiché la stessa guardia civica si era rifiutata di intervenire a favore degli ebrei.

Il F., ridotto entro più miti confini l'atteggiamento dei Modenesi verso gli ebrei (nel mese di luglio furono definitivamente abbattute le porte del ghetto), fu eletto deputato di Modena alla Cisalpina. A Milano, ormai centro delle sue attività commerciali e finanziarie (incrementate anche grazie alle nuove entrature politiche), si adoperò con successo presso il Bonaparte perché fosse aperta nell'ex capitale estense la scuola del genio e dell'artiglieria, il primo germe della futura Accademia militare.

Con maggiore difficoltà riuscì a superare le resistenze dei suoi concittadini ancora restii ad arruolare ebrei nella guardia civica, ben convinto, come scrisse il 21 nov. 1797 all'amministrazione modenese, che "è contrario alla legge e alla costituzione che vi siano distinzioni fra i cittadini, quelle distinzioni, massime, che formano corporazioni distinte" (Padoa, 1979, p. 112). La piena integrazione della comunità ebraica non doveva, però, portare né a un rifiuto delle pratiche religiose e dei culti ebraici, né a una mera tolleranza, quanto piuttosto a un loro pieno e completo riconoscimento pubblico: fu suo merito precipuo se la costituzione cispadana (quando era membro dell'Assemblea costituente) aveva permesso agli ebrei "la continuazione del libero e pubblico esercizio del culto per tutto il territorio" (art. 4).

Fin dai primi anni della sua ascesa politica, il F. non aveva trascurato l'attività economica e l'accrescimento del patrimonio familiare; anzi, gli sconvolgimenti politici gli consentirono di compiere spregiudicate operazioni commerciali nel settore delle forniture militari e di entrare in possesso di gran parte dei beni immobili del monastero benedettino di S. Pietro, così che divenne uno dei principali possidenti terrieri del Dipartimento: il lato strettamente speculativo di questo affare non fu però dimenticato e nel 1824 il restaurato duca impose agli eredi del F. la restituzione di parte di quelle terre alle autorità ecclesiastiche.

Dopo la breve parentesi della reggenza austro-russa in Modena (1799-1800), e dopo il consolidamento del potere napoleonico all'inizio del nuovo secolo, il F., che nel frattempo aveva preso fissa dimora a Milano, fu inviato ai Comizi di Lione del 1802 come rappresentante del ceto dei notabili del Dipartimento del Panaro. Per la sua riconosciuta e apprezzata competenza professionale nella vendita dei preziosi e nel prestito di denaro ci fu anche chi pensò a lui come a possibile ministro delle Finanze della Repubblica Italiana. Non se ne fece nulla; tuttavia tra il 1805 e il 1808 occupò un posto di tutto rispetto tra i delegati alla compilazione del codice di commercio napoleonico. Non smise mai di interessarsi alla vita della comunità ebraica: come rappresentante del Dipartimento dell'Olona partecipò all'assemblea degli israeliti di Francia e del Regno d'Italia convocata a Parigi da Napoleone nel maggio del 1806; subito dopo divenne anche membro del gran sinedrio di Parigi che si tenne nella primavera del 1807. In queste assemblee si preoccupò soprattutto dell'educazione della gioventù ebraica, l'unica strada, a suo avviso, che avrebbe potuto portare a una piena emancipazione, reale e non solo formale, della nazione ebraica.

Con questo progetto davanti agli occhi si spense a Milano il 2 dic. 1809.

Fonti e Bibl.: Modena, Bibl. Estense, Archivio Formiggini, cassette 1-5 (se ne veda l'inventario in E. Milano, Archivio familiare, in A.F. Formiggini editore. Mostra documentaria, Modena 1980, pp. 32-65); Raccolta degli atti dell'Assemblea degli israeliti di Francia e del Regno d'Italia e processi verbali e decisioni del Gran Sinedrio, a cura di D. Tama, I-VIII, Livorno 1807; A. Balletti, Gli ebrei e gli Estensi, in Atti e mem. della Deputaz. di storia patria di Modena, s. 5, VII (1913), pp. 161-397, passim; A.F. Formiggini, Archivio della famiglia Formiggini (stampa privata), Modena 1932, ad Indicem; I Comizi in Lione per la costituzione della Repubblica Italiana, a cura di U. Da Como, III, 2, Notizie biografiche dei deputati, Bologna 1940, p. 53 e ad Indicem; La costituzione della Repubblica Cispadana, a cura di G. De Vergottini, Firenze 1946, ad Indicem; L. Padoa, Una lettera di Moisè Beniamino Foà e l'opera di M. F. nell'età napoleonica per un rinnovamento dell'educazione ebraica, in Contributi della Biblioteca municipale Panizzi, II (1978), 3, pp. 71-77; O. Rombaldi, L'economia dei territori dei Ducati Estensi, in Reggio e i territori estensi dall'antico regime all'età napoleonica, Parma 1979, pp. 53-100; L. Padoa, Le università ebraiche di Reggio e Modena nel periodo 1796-1814, ibid. pp. 103-136; Id., La famiglia Formiggini a Modena, in A.F. Formiggini un editore del Novecento, a cura di L. Balsamo - R. Cremante, Bologna 1981, pp. 45-54.

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