Movimento operaio e sindacale

Dizionario di Storia (2010)

movimento operaio e sindacale


L’espressione indica l’insieme delle forme di organizzazione, rappresentanza e tutela assunte dalla classe operaia a difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita sociale, civile e politica. La sua prima origine avvenne in Inghilterra e fu strettamente collegata alla Rivoluzione industriale, con la quale si affermò la divisione netta tra proprietari dei mezzi di produzione (capitalisti) e prestatori di forza lavoro a pagamento (operai) privi di ogni potere decisionale riguardo al processo produttivo. Il movimento si formò poi anche negli altri Paesi dove si realizzò un processo di industrializzazione. All’interno del movimento operaio maturò ben presto la convinzione che il proletariato costituisse una classe con interessi distinti e antagonistici rispetto a quelli anzitutto della borghesia industriale, ma anche degli altri tipi di borghesia. Nella misura in cui ciò avveniva, la difesa degli interessi di classe tendeva a spostarsi dal campo strettamente economico e delle condizioni di lavoro in fabbrica, come avvenne nei primissimi tempi, a quello politico, giungendo già nella prima metà dell’Ottocento a dar vita a teorie (anarchiche o socialiste) che ipotizzavano società di tipo radicalmente diverso da quella aristocratico-borghese, ponendo il lavoro e non la proprietà a base del loro fondamento. Al principio liberale e democratico dell’uguaglianza giuridica tali teorie affiancavano quello dell’uguaglianza economica e sociale, differenziandosi tra di loro solo per le modalità strategiche e tattiche del raggiungimento di tale obiettivo (rivoluzionarie o riformiste-parlamentari o extraparlamentari, ecc.). Nel con­testo di una strategia strettamente  economicistica e di tipo sociopolitico riformista entrò in uso nella seconda metà dell’Ottocento anche l’espressione movimento sindacale, che venne a indicare più specificamente le molteplici forme di organizzazione dell’insieme dei lavoratori (leghe, camere del lavoro, federazioni di mestiere, confederazioni ecc.), nonché le loro proiezioni ideologiche.

Dalle origini alla metà dell’Ottocento

Le prime forme associative furono le società di mutuo soccorso, nate con finalità di tutela in caso di malattia e infortunio, e che, quando si passò alla contrattazione delle condizioni di lavoro con il padronato e allo scontro, sostennero spesso il costo economico degli scioperi operai. Sorto dunque tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento con notevoli discontinuità e difformità tra i diversi Paesi europei, il movimento operaio fu caratterizzato fortemente dalle peculiari radici non solo politiche ed economiche ma anche etico-religiose delle diverse realtà nazionali di appartenenza, nonché dalle specificità professionali e dalla fisionomia dei diversi lavori artigianali. Del movimento operaio fecero infatti parte, specie all’inizio, non solo gli operai della grande industria, ma anche quelli delle imprese artigianali. A livello internazionale esso si omogeneizzò progressivamente nella seconda metà del sec. 19° in seguito al travolgente sviluppo del sistema di fabbrica. I principali modelli del movimento operaio si delinearono in tempi diversi. Il primo a costituirsi ed esercitare funzione di orientamento e di stimolo fu il movimento inglese a partire dal 1792, anno di costituzione della prima Corresponding society. Fortemente influenzato dai principi e poi dalle ripercussioni della Rivoluzione francese, esso attraversò una durissima fase di lotta per il riconoscimento del diritto di esistenza, negato dai Combination acts (1799-1800) che costrinsero per decenni i membri delle società di corrispondenza all’attività illegale e a opporsi, talora con la violenza, all’introduzione delle nuove macchine, in particolare nell’industria tessile e nelle miniere (luddismo, iniziato nel 1802), talaltra con grandi manifestazioni di massa non autorizzate come nel 1819.

Solo nel 1824 quelle leggi furono abrogate e dal 1825 fu riconosciuto il diritto di associazione. Sull’onda dei successi conseguiti, nel 1834 venne fondata la Grand national consolidated trade union che, benché ispirata ai principi oweniani e sansimoniani dell’armonia degli interessi tra operai e industriali, divenne strumento di rivendicazioni e di agitazioni sindacali, in crescente opposizione con il mondo imprenditoriale. Da questo contrasto sociale la Grand union uscì sconfitta e fu poi sciolta d’autorità, segnando la fine dell’influenza di Owen. Tuttavia nacque presto un nuovo movimento a base politico-rivendicativa con peculiari forme di agitazione e di mobilitazione di massa che dalla People’s charter del 1838 prese il nome di cartismo. Esso si poneva una serie di obiettivi dichiaratamente politici, primo fra tutti il suffragio universale. Dal 1842 iniziò un vasto movimento di scioperi di massa che indusse il Parlamento a varare una legge sulle miniere e preparò il terreno sociale e culturale per una legge che fissasse la giornata lavorativa a dieci ore, ottenuta poi nel 1847. Allo scoppio della grande rivoluzione sociale europea del 1848, il movimento operaio inglese aveva elaborato i principali parametri di riferimento per l’azione e per le rivendicazioni di tutto il movimento operaio europeo, rimasti costanti per l’intera fase storica del capitalismo manifatturiero e industriale: l’astensione collettiva dal lavoro (sciopero), con varie modalità di esecuzione, rivolta a premere sui padroni e sullo Stato e insieme strumento di coesione e di identità; l’elaborazione di rivendicazioni economiche (dal salario all’orario) e la richiesta di diritti sociali nell’ambito del rapporto di lavoro, in forma collettiva e «contrattata»; la costruzione di strumenti organizzativi di rappresentanza, di tutela e di direzione del movimento rivendicativo e di lotta, con il fine di generalizzare e stabilizzare le conquiste economiche e normative e di esercitare un controllo sul mercato del lavoro. Non c’era, e non vi fu neppure in seguito, nell’orizzonte rivendicativo economico, sociale e politico del movimento operaio inglese l’obiettivo dell’abbattimento della società capitalistico-borghese, come avvenne invece nei movimenti operai di altri Paesi europei, a partire dalla Francia, anche se proprio dalla londinese Lega dei giusti nacque la Lega internazionale dei comunisti dalla quale nel 1848 fu pubblicato il Manifesto del partito comunista scritto da Marx ed Engels, che segnò un salto di qualità fondamentale nell’analisi «scientifica» del sistema capitalistico, nella crescita della coscienza di classe del movimento operaio e nell’elaborazione di strategie politiche che si ponevano apertamente l’obiettivo dell’eliminazione della società borghese e della creazione di una società senza classi. La politicizzazione rivoluzionaria del movimento operaio fu fenomeno soprattutto dell’Europa continentale, a partire dalla Francia. Anche in Francia il movimento iniziò infatti la sua storia a fine Settecento nel quadro degli sconvolgimenti del periodo rivoluzionario, cosa che non gli evitò il divieto di associazione sindacale con la legge Chapelier (1791). Esso assunse di conseguenza già allora una forte connotazione politica di ispirazione democratico-rivoluzionaria, che culminò nella «congiura degli eguali» del 1795-96 organizzata da G. Babeuf e duramente repressa. Durante l’età napoleonica e quella della Restaurazione, il movimento operaio francese rimase poi su un livello di sviluppo modesto, ma, quando il grande movimento rivoluzionario del luglio 1830 ne riattivò le energie, ciò avvenne subito in forma molto politicizzata. La cospirazione politica e la ribellione sociale dei nuclei operai più consapevoli, ispirati da A. Blanqui, sfociarono nel maggio del 1839 in un tentativo insurrezionale il cui fallimento, insieme all’aggravarsi della situazione economica della classe lavoratrice nel corso degli anni Quaranta, produsse una serie di riflessioni e di proposte teoriche iscritte nell’ambito teorico-ideologico del socialismo utopistico e dell’anarchismo (C. Fourier, P.-J. Proudhon, H. de Saint-Simon). Il movimento operaio francese partecipò poi attivamente alle varie fasi della rivoluzione tra febbraio e giugno 1848. Nel corso di quei mesi, sulla base di un programma politico autonomo ispirato da L. Blanc, venne rivendicato il diritto al lavoro e attuata per la prima volta una politica dell’occupazione da parte del governo attraverso l’istituzione di ateliers nationaux («opifici nazionali»), che tuttavia finirono con un clamoroso fallimento. La successiva pesante sconfitta della rivoluzione gettò il movimento operaio francese in una gravissima crisi, che si tradusse col regime bonapartista in un forte arretramento dell’associazionismo economico-sindacale e nella sua emarginazione a livello politico. Collegato per caratteristiche ideologiche e organizzative all’evoluzione del movimento operaio inglese e francese fu quello tedesco, anche se esso prese vera forza con qualche anno di ritardo. In quei decenni gli Stati tedeschi erano ancora caratterizzati da una marcata arretratezza economico-sociale e dalla mancanza di unità nazionale, cosicché solo nel 1844 scoppiarono le prime lotte dei lavoratori della Slesia, alle quali peraltro nel 1845 si rispose con una legge industriale che confermava il divieto in materia di coalizioni e di scioperi.

Dall’Internazionale alla Prima guerra mondiale

Marx ed Engels negli anni successivi al 1848 diedero un grande contributo alla politicizzazione del movimento operaio sostenendo la necessità della sua organizzazione in partito politico rivoluzionario a livello internazionale. Favoriti in ciò anche dal travolgente sviluppo industriale che investiva ormai buona parte dell’Europa continentale (Belgio, Francia, Germania) e gli USA, nel 1864 diedero vita a Londra all’Associazione internazionale dei lavoratori (➔ Internazionale) alla quale parteciparono, accanto ai sindacati inglesi, al movimento francese e ai nuclei del nascente movimento operaio socialista tedesco, anche le rappresentanze di Paesi a struttura ancora prevalentemente agricola, quali l’Italia e la Spagna, dove il movimento associativo era sotto una crescente influenza anarchica. All’interno dell’Associazione si svolse una dura lotta tra la corrente marxista e quella bakuninista. Per anni si fronteggiarono il progetto marxista dell’imprescindibilità di una ferrea organizzazione partitica del movimento e della conseguente dittatura del proletariato ai fini dell’abbattimento del sistema capitalistico e della società borghese per l’instaurazione della società senza classi, e quello di Bakunin della rivolta spontanea delle masse nel segno dell’ideale anarchico di una libera federazione di comunità autogestite. Lo scontro si risolse con la sconfitta delle concezioni anarchiche, ma anche con la crisi irreversibile dell’Associazione, che nel 1876 si sciolse. Il movimento socialista continuò allora a organizzarsi attraverso partiti rivoluzionari nazionali, che la seconda Internazionale fondata nel 1889 tentò poi di coordinare. Il fenomeno del partito rivoluzionario di diretta o indiretta derivazione ideologica marxista non riguardò il movimento operaio inglese, che fece una scelta di fondo riformista volta al miglioramento delle condizioni di vita e all’allargamento dei diritti civili e politici. Nel 1884 nacquero la Federazione socialdemocratica e la Fabian society e nel frattempo al sindacalismo di operai di mestiere cominciarono ad affiancarsi associazioni di lavoratori non specializzati fino alla costituzione delle General labour unions (1889), che raccoglievano tutte le categorie e i tipi di lavoratori. Con i grandi scioperi del 1889, all’associazionismo sindacale a base ristretta delle Trade unions si aggiunsero le confederazioni generali a struttura verticale e di massa, dal cui sviluppo (specie dopo il 1911) dipese una gran parte del sindacalismo inglese del Novecento. Fu l’organizzazione sindacale all’origine della riorganizzazione del movimento politico dei lavoratori: nel 1893, sotto la spinta del New syndicalism, nacque l’Independent labour party. Il movimento operaio inglese esercitò una fortissima azione rivendicativa nella richiesta di tutela legislativa: in particolare rimangono notevoli le leggi varate tra il 1897 e il 1920 sul sistema pensionistico (Pensionism act, 1908) e sull’assicurazione contro la disoccupazione (Unemployment insurance act del 1912, ulteriormente esteso nel 1920). In Francia e in Germania la costituzione di formazioni politiche del movimento subì in misura maggiore l’influenza della dottrina e delle strategie politiche di ispirazione marxista. In Francia la tradizionale tendenza cospirativa e rivoluzionaria del movimento fu d’ostacolo alla costituzione di un unico partito di classe, mentre la drammatica conclusione della Comune, primo esempio di conquista e di esercizio diretto del potere politico da parte del movimento operaio francese, scompaginò le organizzazioni dei gruppi socialisti. Tra il 1876 e il 1879 si costituì attorno al marxista J. Guesde la Fédération du parti des travailleurs socialistes, che ebbe vita lacerata da scissioni e contrasti. Il movimento operaio francese si consolidò nel 1886 allorché, ancora per ispirazione di Guesde, si formò la Fédération nationale des syndicats, mentre si veniva diffondendo, per iniziativa di F. Pelloutier, una forma di associazionismo economico denominato bourse du travail, che nel 1892 diede vita a un’organizzazione di coordinamento. L’aspro scontro tra i sostenitori del «modello tedesco» (combinazione di attività parlamentare ed economico-rivendicativa) e la tendenza ispirata ai principi dell’action directe (sciopero generale come strumento della rottura rivoluzionaria dell’ordinamento borghese) caratterizzarono il movimento francese, anche dopo la costituzione della Confédération générale du travail (CGT, 1895), al cui interno sarebbero maturate le tendenze del sindacalismo rivoluzionario teorizzate da G. Sorel e tradotte in progetto politico-sindacale nel 1906 al Congresso di Amiens. Nel 1905 le forze politiche socialiste confluirono nella SFIO, sezione francese dell’Internazionale socialista. La Germania era stata il primo Paese ad avere un partito politico della classe operaia, fondato da Ferdinad Lassalle. Nel 1869 era nato il Partito socialdemocratico fondato da W. Liebknecth e A. Bebel. Dopo la repressione seguita anche in Germania alla sconfitta della Comune, i responsabili furono portati a trovare un’intesa e a fondare nel 1875 la Deutsche sozialistische Arbeiterpartei, che elaborò (Congresso di Gotha) un ampio programma di riforme e definì i rapporti tra sindacato e partito, stabilendo l’apoliticità del primo, la sua subordinazione al partito e la necessità di unificare i sindacati in un’unica organizzazione per branca professionale a livello nazionale e locale. Il partito era diviso in diverse correnti; quella di Kautsky riteneva deterministicamente scontata la vittoria del socialismo, quella di E. Bernstein riteneva che il socialismo potesse essere realizzato evoluzionisticamente senza il ricorso alla rivoluzione violenta. Tuttavia nel 1891 al Congresso socialdemocratico di Erfurt furono stabiliti come capisaldi del movimento l’azione legale e l’utilizzo dello sciopero come strumento della lotta di classe, ponendo in secondo piano la tendenza alla rivoluzione anticapitalistica radicale, rapida e violenta. Partito e sindacato divennero in tal modo grandi organizzazioni di massa. Nel 1892 (Congresso sindacale di Halberstadt) si realizzò il sistema delle organizzazioni centrali per professione, coordinate da una commissione centrale e basate su un’elevata quota di adesioni dei lavoratori (il numero degli iscritti salì dai 300.000 di quell’anno agli oltre 2 milioni e mezzo del 1913). Fino allo scoppio della Prima guerra mondiale il Partito socialdemocratico tedesco, per quanto diviso al proprio interno, egemonizzò la seconda Internazionale. Pressoché negli stessi anni il movimento operaio si sviluppava e si organizzava partiticamente nei maggiori Paesi europei ed extra­europei. Nel 1872 nacque il Partito socialdemocratico austriaco. In Belgio il movimento operaio si organizzò, in seguito alla crisi degli anni Settanta, con la fondazione della Cooperative de Gand (1880) e la creazione del Parti ouvrier (1889). Negli stessi anni sorgevano partiti socialdemocratici in Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Paesi Bassi, Svizzera, Ungheria, Serbia, Bulgaria. In Spagna il movimento operaio seguì dapprima tendenze anarchiche (Federación obrera, 1881), quindi diede vita alla Federación nacional de los trabajadores (1890), socialista; di contro, nel 1912 si costituì la Confederación nacional de los sindicatos obreros católicos. Grande rilevanza ebbe il movimento operaio russo, raccolto dagli anni Settanta in grandi unioni regionali e tra i primi a subire una decisa influenza marxista per opera di Plechanov e Lenin. Nel 1898 nacque il Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), che all’interno del proletariato russo, di recente formazione e concentrato in poche isole industriali, sviluppò una struttura organizzativa basata sui soviet («consigli») che ebbero grande rilevanza nella rivoluzione del 1905 e che fin dal febbraio 1917 determinarono quel dualismo di potere su cui avrebbe fatto leva l’insurrezione bolscevica. In Italia il movimento operaio ebbe come iniziale forma organizzativa le poche società di mutuo soccorso, sorte nel Nord della penisola pochi anni prima dell’unità, controllate dai moderati e aventi come iscritti ben pochi operai dell’industria in senso stretto. Nel primo decennio postunitario avevano già preso il sopravvento le società di mutuo soccorso di ispirazione mazziniana, le quali rimanevano comunque lontane da un disegno strategico di contrapposizione di classe, dato anche il ritardo del processo di industrializzazione italiano rispetto a quello di altri Paesi. Negli anni Sessanta e soprattutto Settanta le posizioni politiche mazziniane vennero erose drasticamente dall’anarchismo di Bakunin, che ebbe largo successo un po’ ovunque nelle campagne, e in particolare in Italia meridionale, trovando adepti di spicco come Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. Solo negli anni Ottanta, e non a caso in concomitanza con il primo vero avvio dell’industrializzazione, si fecero strada idee e organismi organizzativi di ispirazione socialista, grazie ad attivisti e teorici come Andrea Costa, Filippo Turati, Antonio Labriola. Nel 1882 fu fondato dunque a Milano il Partito operaio italiano. Questa fu la premessa per la costituzione a Genova nel 1892 del Partito dei lavoratori italiani, che modificò il nome l’anno successivo in Partito socialista dei lavoratori italiani, per divenire infine, nel 1895, Partito socialista italiano. La resistenza da parte dell’anarchismo fu tuttavia forte e lasciò tracce durature nel Partito socialista. All’interno di esso il contrasto tra riformisti e massimalisti fu sempre aspro e il suo pieno inserimento nell’azione riformatrice della sinistra italiana rimase sempre problematico. In quegli anni si diffusero anche organizzazioni di mestiere e sorsero le prime Camere del lavoro su base ancora territoriale, con lo scopo di erogare assistenza e di sottrarre il collocamento all’esoso controllo degli ­intermediari privati. La prima Camera del lavoro vide la luce a Milano nel 1891 per opera di Osvaldo Gnocchi-Viani. Esse costituirono l’ossatura del movimento sindacale italiano, che nel 1906 diede vita al primo coordinamento sindacale italiano su scala nazionale con la fondazione della Confederazione generale del lavoro (CGL). Tuttavia nel 1906 le finalità strettamente assistenziali si erano già da tempo connotate in senso politico. Al Congresso costitutivo del Partito socialista, al quale diede la propria adesione Gnocchi-Viani, le Camere del lavoro erano state dichiarate strumento di lotta sindacale dei lavoratori e non solo di assistenza e tutela. Sin dalla sua nascita quindi la CGL fu su posizioni organicamente vicine alle correnti riformiste del Partito socialista, per cui nel 1912 nacque l’Unione sindacale italiana, collegata invece al sindacalismo rivoluzionario. Accanto a quello socialista nacque allora anche un sindacalismo cattolico ispirato alla Rerum novarum (1891) e nel primo decennio del 20° sec. si diffuse una rete di associazioni professionali che si trasformarono in veri e propri sindacati, ma rimasero estranee alle organizzazioni confederali politicizzate. Un salto storico di enorme portata si ebbe sempre a fine Ottocento con la nascita di un m.o. e s. anche al di fuori dell’Europa, negli Stati Uniti e in alcuni dei principali Paesi latinoamericani, come Argentina e Brasile, investiti questi ultimi da un processo di valorizzazione delle campagne e di modernizzazione e urbanizzazione, più che da una vera e propria Rivoluzione industriale. In Asia il solo Giappone vide la nascita di un sindacato nel 1897, mentre restava del tutto assente qualunque tipo di organizzazione sindacale in Africa. Il collegamento circolare che si stabilì tra il movimento europeo e quello delle Americhe, alimentato dalle gigantesche ondate migratorie e dai flussi di ritorno, contribuì a dare all’espressione movimento operaio e sindacale una dimensione di interdipendenza internazionale. Negli Stati Uniti il movimento operaio si formò inizialmente attraverso organizzazioni sindacali di mestiere (l’associazione dei Knights of labour, fondata nel 1863, la National labor union fondata nel 1866), ma si consolidò durante le lotte degli anni Ottanta, quando nacque l’American federation of labour, organismo per la stipula dei contratti e la difesa delle condizioni di vita più che strumento di lotta sociale e politica. Da questa si separarono i minatori per costituire l’American labour union of the West, socialista, primo nucleo degli Industrial workers of the world, costituito nel 1905, organizzazione rivoluzionaria che si allargò ai non qualificati, ai neri, agli immigrati e subì una durissima repressione durante la Prima guerra mondiale.

Dal primo dopoguerra a oggi

Il richiamo nazionalista, all’origine della Prima guerra mondiale, fu più forte dei valori internazionalisti professati dal movimento operaio, che pure in Europa organizzava ormai buona parte della popolazione lavoratrice (e in alcuni Paesi comprendeva importanti settori agricoli) e aveva quasi ovunque consistenti rappresentanze politiche. Ma alla compressione che il movimento del lavoro subì durante il conflitto seguirono nell’immediato dopoguerra una forte ripresa organizzativa e una nuova grande ondata di lotte sospinte psicologicamente anche dall’esito della Rivoluzione russa del 1917, che aveva portato per la prima volta attraverso un processo rivoluzionario un partito socialista alla conquista del potere e alla fondazione di uno Stato comunista. Il che accentuò la divisione tra massimalisti e riformisti, tra fautori della società comunista e fautori di una società in cui le condizioni della classe lavoratrice fossero tutelate e migliorate attraverso riforme realizzate nel quadro della democrazia parlamentare. Nel 1919-20 (definito perciò biennio rosso) in gran parte dei Paesi d’Europa ingenti masse proletarie tesero, in modo concomitante, anche se non coordinato (la guerra aveva distrutto anche la seconda Internazionale), a riequilibrare i rapporti di forza con il padronato, ponendo il problema della gestione della produzione attraverso la generalizzazione degli organismi consiliari di fabbrica e giungendo talora a costituire governi socialisti (Ungheria, Baviera). Tranne che nella Russia sovietica, nessuno di questi esperimenti sopravvisse e la strategia di ricomposizione dell’ordine borghese si divise, a seconda dei Paesi e delle situazioni, tra il riconoscimento di un assetto contrattuale permanente con i sindacati e i partiti operai e la decapitazione del movimento, con l’eventuale e parziale assorbimento nelle strutture statali delle pulsioni rivendicative e partecipative popolari. È, quest’ultimo, il caso del fascismo in Italia e, dopo la crisi della Repubblica di Weimar, del regime nazionalsocialista in Germania. In Italia il richiamo della Rivoluzione russa contribuì fortemente alla radicalizzazione delle lotte operaie ­postbelliche. Ben più che le rivendicazioni salariali, furono l’occupazione delle terre, l’esperienza dei consigli di fabbrica promossi nel 1919 dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo, la successiva occupazione nel 1820 delle fabbriche nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, la nascita nel 1921 del Partito comunista d’Italia, fondato da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga e inseritosi prontamente nella terza Internazionale fondata a Mosca nel 1919, a creare nel Paese un clima di panico per una rivoluzione di tipo bolscevico che sembrava imminente. La ricomposizione non avvenne con il semplice esaurimento dell’ondata delle occupazioni e col rientro del movimento socialista negli argini del regime liberale, ma con la crisi di quest’ultimo e l’avvento della dittatura fascista, che sottopose il movimento operaio non solo comunista, ma anche socialista e cattolico, alla pressione di leggi fortemente restrittive, e poi del sindacato unico fascista. In Germania, dopo la repressione del tentativo rivoluzionario comunista del 1919, la drammatica e non breve crisi della Repubblica di Weimar, l’organizzazione nazionalsocialista Deutsche Arbeitsfront (1933) si impadronì della complessa struttura sindacale, cooperativa, assistenziale, culturale, creditizia preesistente; creò un sistema di integrazione subordinata del sindacato al partito con iscrizione obbligatoria e ritenuta alla fonte delle quote da parte del datore di lavoro; vanificò in pratica tutte le peculiari funzioni rivendicative, rappresentative e conflittuali dell’attività sindacale; trasformò infine sé stessa (1939) in una gigantesca macchina di educazione al nazionalsocialismo e di integrazione del lavoro nell’apparato produttivo. Le cose andarono diversamente nei regimi liberali e democratici dove il movimento operaio e sindacale, soprattutto a partire dagli anni Trenta, tese a stabilire con lo Stato un rapporto basato su intese strategiche, in una complessa rete relazionale (➔ ), che non escluse però fasi di aperta conflittualità. Il ruolo, anche politico, del movimento britannico crebbe durante gli anni Venti, pur caratterizzato dai contrasti tra l’anima tradeunionista e quella unionista, e si scontrò con gli orientamenti dei governi conservatori, culminando nello sciopero generale dei minatori (1926), che diede però al governo l’occasione di operare un drastico ridimensionamento delle libertà e dei poteri del sindacato (nel 1927 fu dichiarato illegale ogni sciopero non corporativo). Tali restrizioni si protrassero fino al periodo bellico, durante il quale il movimento operaio e il sindacato appoggiarono totalmente il governo conservatore. Churchill si rese pertanto disponibile a varare nel 1942 un piano di ampie riforme sociali e nel 1945, conclusasi vittoriosamente la guerra, il movimento operaio e sindacale inglese divenne forza di governo sulla base di un vasto programma che assegnava al lavoro e al sindacato, saldamente controllato dalle trade unions, quei poteri, quei diritti civili e quelle conquiste economiche tipici di una lunga fase della storia inglese ed europea (previdenza, sistema sanitario pubblico, istruzione, rigido rispetto delle clausole sindacali in tema di rapporti di lavoro e di contrattazione, assoluta indipendenza del sindacato, nazionalizzazione della Bank of England e di alcuni decisivi settori produttivi) che si sarebbero protratti praticamente fino alla grande crisi degli anni Settanta e alla rivoluzione conservatrice del primo ministro M. Thatcher. In Francia il movimento rimase sotto la guida della CGT, fedele ai principi dell’azione diretta, fino alla scissione del 1921 e alla nascita della CGTU (Confédération générale du travail unitaire), di composizione operaia e fortemente influenzata dai comunisti. Riunificatasi tra il 1925 e il 1928, la CGT apparve tuttavia trasformata nella sua composizione socio-professionale con il prevalere dei lavoratori pubblici e dei servizi, cosa che orientò il movimento sindacale verso la ricerca di un rapporto con lo Stato e di una funzione di stabilizzazione dei salari, dell’occupazione, delle conquiste legislative. Queste modifiche culminarono nell’inserimento della CGT nel movimento che tra il 1935 e il 1936 portò al governo del Fronte popolare. Da questo la CGT pretese l’accordo (1936) con i rappresentanti del padronato, accordo che segnava il tornante principale della storia del movimento operaio francese e fissava il passaggio a una politica di sanzione legislativa del contratto e delle procedure del conflitto. Su queste nuove basi il movimento francese si ricostituì dopo la guerra, ma dopo il 1947 la necessità di frenare l’avanzata comunista portò a una divisione del movimento con la CGT, più legata al Partito comunista e al nucleo storico della classe operaia, e la CFDT (Confédération française démocratique du travail), più aperta e sensibile alle nuove esperienze che maturavano nella coscienza e nella vita operaia per effetto della nuova Rivoluzione industriale e che poi sarebbero esplose nei movimenti sociali della fine degli anni Sessanta. Nella stessa Germania federale del dopoguerra il sindacato (Deutscher Gewerkschaftsbund, 1949) costituì uno dei fattori decisivi della ricostruzione economica e politica del Paese. A ciò contribuirono il carattere unitario (assunto anche per l’indicazione delle Chiese, per cui confluì in esso tutto il movimento dei lavoratori, cristiano, socialista, liberale e comunista), la rigida e capillare contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, una politica sociale e assistenziale pubblica a elevata copertura, un sistema di salari elevati ma compensato da stabilità produttiva e partecipazione dei lavoratori e del sindacato alla vita dell’azienda, una ponderata oculatezza nell’uso del conflitto, un articolato sistema di relazioni industriali con l’associazione imprenditoriale e una precisa strategia di scelte economico-sociali, l’esplicito e definitivo rifiuto nel Congresso di Bad Godesberg del 1959 da parte della socialdemocrazia tedesca del marxismo e dell’ideologia rivoluzionaria. In Italia la ripresa di un movimento operaio libero si ebbe con la ricostituzione del sindacato unitario (1944) promosso dai tre grandi partiti di massa DC, PCI, PSI, ma messo in crisi, come in Francia, dall’inizio della Guerra fredda e dall’estromissione dalla coalizione di governo dei partiti filosovietici. Nel 1950 dalla CGIL, a maggioranza comunista, si distaccarono i riformisti della UIL e i cattolici della CISL. Il decennio 1950-60 fu un periodo di scarsa conflittualità, dovuta da un lato alla grande quantità di manodopera disoccupata, dall’altro all’intensità dello sviluppo produttivo negli anni del miracolo economico e all’incidenza positiva delle politiche sociali e territoriali adottate dal governo. Gli anni Sessanta si aprirono con la partecipazione del Partito socialista al governo. Questo non evitò che a partire dalla metà del decennio si avesse una ripresa della conflittualità sindacale favorita dalla quasi scomparsa della riserva di manodopera disoccupata. Nel biennio 1968-70 si ebbe un’intensissima stagione di lotte operaie con una profonda trasformazione dei contenuti rivendicativi conclusasi con l’adozione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 e con la  riunificazione del movimento sindacale che diede vita nel 1972 alla Confederazione CGIL-CISL-UIL. Nel corso degli anni Settanta la forza elettorale del PCI giunse ai suoi massimi storici, ma la crisi petrolifera, la crisi industriale e la conseguente ristrutturazione e delocalizzazione degli impianti, l’avvio della globalizzazione, il progresso tecnologico portarono a una progressiva riduzione della presenza relativa del proletariato industriale e alla crescita dei ceti medi, rendendo sempre più evidente l’impossibilità del mantenimento di molte delle conquiste dei primi anni Settanta. Anche in Italia, sia pure in misura meno drastica e decisa che in altri Paesi dell’Occidente, come l’Inghilterra, negli anni Ottanta si ebbe una controffensiva contro lo Stato sociale e altre forme di garanzia dei livelli di vita acquisiti. Alla fine del decennio a creare ulteriore disorientamento e incertezza nei movimenti social-comunisti occidentali sopraggiunse il fallimento storico del comunismo statalistico e autoritario dei Paesi dell’Est europeo culminato nella dissoluzione dell’URSS (1991). In essi era stata per lo più adottata un’organizzazione ricalcata sul modello dell’URSS: rappresentanza sindacale unitaria inclusiva di ogni categoria e ogni qualifica, estesa alla quasi totalità dei lavoratori, con autonomia e potere contrattuale scarsissimi e, in genere, con il riconoscimento statutario della leadership del partito. Ma non poteva certo non indurre a riflettere il fatto che la fine di quei regimi era stata, se non proprio avviata, certo accelerata da nuove formazioni sindacali come Solidarność in Polonia, che aveva frontalmente avversato il regime comunista. In questo contesto si inserì nel 1991 la rinuncia del PCI all’ideologia comunista e la sua trasformazione nel PDS. Dagli anni Novanta si è avuta una forte ripresa del sindacalismo autonomo, compresso dalle forze confederali negli anni Sessanta-Ottanta, e si sono venute moltiplicando nuove forme di organizzazione sindacale autonoma, portatrici di un rivendicazionismo di categoria o addirittura di gruppo, che spesso si dimostra più virulento e conflittuale di quello dei sindacati tradizionali. Ma, al di là delle situazioni specifiche e contingenti, il dato di fondo della situazione attuale del m.o. e s. su scala planetaria è che in esso il peso della classe operaia in senso stretto diminuisce in rapporto diretto al passaggio all’economia postindustriale, e che l’espressione m.o. e s. si è venuta estendendo ad altri comparti del lavoro dipendente (dagli impiegati e tecnici ai pubblici dipendenti, dagli impiegati privati nel commercio ai lavoratori dei servizi e della pubblica istruzione), fino a delineare, pur con persistenti dislivelli quantitativi, una rappresentanza generale sub specie sindacale dell’intero universo del lavoro salariato e stipendiato.

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